Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Cinquecento la danza va consolidando alcuni dei suoi aspetti più significativi: al favore crescente incontrato presso la nobiltà, si affianca anche una nuova connotazione artistica, che la pone in contatto con altre forme di spettacolo. Il consenso tributato a questa disciplina determina la diffusione dei primi volumi di musiche e coreografie, promuove inoltre la creazione di un genere, quello della musica per danza che, inizialmente legato a questa pratica, arriverà in seguito a proporsi come forma musicale autonoma.
La prima raccolta italiana di balli è tramandata in alcune pagine di un manoscritto di musica del Trecento conservato alla British Library di Londra: in esso troviamo una serie di brani talora appaiati tra loro, così che a una prima parte lenta ne segue una più vivace (detta “rotta”, “saltarello” o “trotto”). Sarà poi nel secolo successivo Domenico da Piacenza a stilare il primo trattato di danza (1416) e a sancire la nascita di una figura di rilievo della corte rinascimentale: quella del maestro di ballo e del ballerino professionista. Nei manuali quattrocenteschi – in quello di Domenico così come nelle trattazioni successive di Giovanni Ambrogio e Antonio Cornazano – la musica che accompagna le coreografie è inizialmente una mera traccia per gli strumentisti: brani monodici molto semplici, melodie popolari o bassi sui quali il musicista è libero di svolgere le sue improvvisazioni.
L’uso già consolidato di abbinare a un ballo passeggiato (detto bassadanza, proprio perché i piedi non devono staccarsi troppo da terra) uno più mosso, di abilità, fa sì che nel Cinquecento le danze si formalizzino in suites di tre, quattro o più brani.
Come brano lento di apertura si afferma la pavana seguita da saltarello e piva, due danze di matrice popolare; come pezzo virtuosistico emerge successivamente la gagliarda, una danza in 6/8 nella quale gli ultimi due movimenti della battuta sono costituiti da un’elevazione, che può impegnare i ballerini in variazioni molto spettacolari.
Della suite di danze recano testimonianza le raccolte di musica strumentale dell’epoca: questa forma, nata per accompagnare il ballo, con il tempo diventerà un genere musicale a se stante, grazie anche al fiorire dell’interesse per i vari strumenti e la loro prassi. Il compositore italiano Joanambrosio Dalza, nella sua raccolta di musica per liuto del 1508, fissa la suite in una successione di movimenti, legati tra loro da toccate e ricercari, secondo una coerenza interna tematica e tonale.
Fra gli antecedenti del filone pantomimico che si svilupperà a fine secolo, è da ricordare la moresca, una danza che compare in molte raccolte musicali in versione vocale o strumentale: diffusa in tutta Europa già in epoca medievale, era originariamente una rappresentazione della lotta fra cristiani e musulmani (si possono tuttavia ipotizzare origini ancor più lontane). Il fatto che questa danza prevedesse un travestimento fa sì che, in seguito, il significato della parola moresca venga esteso a qualsiasi ballo in cui agiscano esecutori mascherati.
La tradizione dei grandi coreografi italiani del Cinquecento si esprime attraverso alcune figure di rilievo. Prima fra queste Marco Fabrizio Caroso, ballerino, maestro di danza e compositore attivo a Roma nella seconda metà del secolo, a cui si deve la stesura del Ballarino (1581) – ristampato nel 1605 con il titolo Della nobiltà di dame – un libro, come recita il titolo completo, “diviso in due trattati; nel primo de’ quali si dimostra la diversità de i nomi che si danno à gli atti, e movimenti, che intervengono ne i balli, e con molte regole si dichiara in che modo debbono farsi. Nel secondo s’insegnano diverse sorti di Balli et Balletti sì all’uso d’Italia, come à quello di Francia e Spagna. Ornato di molte figure, et con l’intavolatura di Liuto et il Soprano della Musica nella sonata di ciascun Ballo”.
La pratica della canzone a ballo, che ha la sua origine in Europa sin dal Medioevo, si afferma nel Cinquecento con il balletto, forma polifonica vocale e strumentale insieme. Il maggiore esponente di questo genere è Giovanni Gastoldi: la sua raccolta di balletti (1594) è una fra le opere a stampa più diffuse del secolo, il cui successo giunge anche in Germania e in Inghilterra. Il parmense Giorgio Mainerio è un altro compositore di balli “accomodati per cantar e sonar d’ogni sorte de istromenti” (1578); una sua raccolta di danze delle varie nazioni (1576) è purtroppo andata perduta.
A fine secolo si colloca l’attività di Cesare Negri, coreografo e ballerino a Milano. Negri è allievo del concittadino Pompeo Diobono, fondatore della scuola di ballo nobile nella sua città, poi stabilitosi alla corte di Parigi.
Alla partenza del maestro, il Negri apre la sua scuola di ballo, esercitando l’opera di coreografo presso l’aristocrazia cittadina, in occasioni pubbliche e private, lasciandoci anche un trattato, Le gratie d’amore (1602, ristampato due anni dopo con il titolo Nuove inventioni di balli).
L’influenza dell’umanesimo italiano si fa sentire in Francia a partire dalla metà del secolo, esercitando il suo peso soprattutto nei rituali della vita cortese.
La danza italiana incontra grande successo oltralpe: al tipico branle, erede del ballo tondo medievale, nel XVI si affiancano, come forme autoctone, il tourdion, la corrente e l’allemanda. Fra le danze di diversa estrazione, oltre a quelle italiane, entrano a fine secolo nel repertorio anche quelle iberiche, costruite su bassi ostinati (ciaccona, passacaglia, sarabanda).
Un primo trattato di bassedanze è scritto nel 1536 da Antoin des Arens, un avignonese che ha viaggiato molto attraverso l’Italia; la musica per danza trova tuttavia la sua prima fissazione nell’Orchésographie (1588) del sacerdote Thoinot Arbeau, un “trattato in forma di dialogo attraverso il quale tutti possono apprendere e praticare l’onesto esercizio delle danze”; l’opera contiene, accanto alle musiche, l’illustrazione e la spiegazione di 50 passi di danza. Anche in Francia vi furono rapporti fra le forme di danza e la chanson, come attesta la raccolta delle Danceries di Claude Gervaise (1555), che contiene elaborazioni strumentali di danze di tradizione orale e brani vocali.
In Inghilterra sarà Thomas Morley a seguire la moda del balletto vocale e strumentale; in questo Paese il repertorio strumentistico più genuino, compresa la musica per danza, è in gran parte affidato alla produzione contenuta nei cosiddetti Virginal books, raccolte musicali manoscritte destinate allo strumento a tastiera denominato, appunto, virginale.
Nei Paesi Bassi il gusto locale è documentato a metà secolo dalle danze di Thylman Susato, mentre le raccolte liutistiche edite dallo stampatore Pierre Phalèse testimoniano la diffusione in quelle terre anche dello stile di danza internazionale.
In Spagna la fioritura della musica per vihuela produce molti libri dedicati a questo strumento, il più importante dei quali, Il libro de música de vihuela de mano del valenciano Milán Luís (1535), contiene svariate danze, soprattutto iberiche e italiane.
Nel Cinquecento il percorso della danza prende due strade differenti: da un lato essa continua a essere coltivata come forma astratta, in contesti d’intrattenimento privato, da un altro lato essa sviluppa le sue componenti pantomimiche, caratterizzandosi sempre di più come forma di spettacolo che trova spazio all’interno di azioni teatrali. Alla corte francese, sotto l’incoraggiamento di Caterina de’ Medici, vengono allestiti spettacoli danzati, cantati e recitati, detti ballets de cour: il più importante di questi è il Ballet comique de la Royne (1581), su musica di Lambert de Beaulieu e Baltazarini, coreografo italiano naturalizzato francese.
In Italia, sfortunatamente, benché le partiture di molte opere vocali facciano esplicito riferimento all’inclusione di intermezzi danzati, è molto raro trovarne le musiche, poiché le modalità del loro inserimento sono evidentemente influenzate da fattori contingenti.