Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I 74 anni di musica sovietica – dal 1917 della rivoluzione bolscevica al 1991 della fine dell’Unione Sovietica – conoscono due fasi: quella che culmina nel febbraio 1948, quando Andrej Zdanov porta al primo congresso dell’Unione dei compositori dell’URSS la risoluzione del Partito Comunista Bolscevico sulla musica, che contro il “formalismo” occidentalizzante impone l’ordine linguistico tonale (ritenuto l’unico capace di essere, nella società in cui anche i rapporti musicali sono socializzati, accessibile a tutti), e quella che, dopo la morte di Stalin nel marzo 1953, vede crescere in tutta l’URSS una diversificata musica sovietica non più formalmente preordinata.
Dal 1917 al 1953
In un primo tempo, la vita musicale sovietica è rimasta prevalentemente concentrata a Pietroburgo (dal 1917 chiamata Leningrado) e Mosca. Risaltano le figure di Nicolaj Mjaskovskij (1881-1950), nelle cui composizioni (soprattutto sinfoniche) l’impronta scrjabiniana gli procurerà nel 1948 la stessa accusa di “formalismo” mossa ad altri compositori fra i quali l’armeno Aram Khačiaturian (1903-1978), e Sergej Prokof’ev (1891-1953), già attivo nell’avanguardia artistica prerivoluzionaria (in particolare, nel balletto Alla e Lolli, quella cubo-futurista), che aderisce alla rivoluzione bolscevica per chiedere però, e ottenere, nel 1918, di trasferirsi in Occidente. Qui peraltro egli si scontra con una crescente ostilità, per cui, dopo la rappresentazione a Chicago dell’opera L’amore delle tre melarance, gli è negato l’allestimento dell’Angelo di fuoco (una delle più avanzate riformulazioni, negli anni Venti, del teatro musicale), mentre il balletto Passi d’acciaio a Parigi nel 1927 viene accusato di bolscevismo per come in esso il lavoro operaio è rappresentato da una musica “macchinistica” parallela a quella nel frattempo proposta in URSS da Mossolov. Prokof’ev ritorna così, nel 1933, in Unione Sovietica dove alterna la libera manipolazione anamorfosicamente neoromantica della tonalità, in balletti come Romeo e Giulietta, ad arditi giochi linguistici con le relazioni tonali nei lavori pianistici, sinfonici e soprattutto in quelli teatrali, quali le dirompenti opere Semion Kotko e Guerra e pace (entrambe degli anni Quaranta); particolarmente significativa è poi la sua partecipazione con il regista Ejzenstein all’ideazione di un metodo di composizione della musica per film che la sottrae al didascalismo. Anche a lui viene comunque riservata, sempre nel 1948, l’accusa zdanoviana di “formalismo”, nella quale viene a sua volta coinvolto uno dei principali costruttori già negli anni Venti di una identità musicale sovietica, Dmitrij Sostakovic (1906-1975).
Questi ottiene un primo notevole successo nel 1926 con la Prima Sinfonia, alla quale seguono la seconda e la terza (la seconda per coro e orchestra), significativamente intitolate Ottobre e Primo maggio, con un linguaggio assai avanguardistico, che culmina nel 1930 nella realizzazione a Leningrado, col regista Meyerchol’d, dell’opera di rottura drammaturgica e musicale Il naso. Tali proposte per una nuova musica della rivoluzione sovietica vengono condivise da Nikolai Roslavec (1881-1944), che, proseguendo dall’uscita scrjabiniana dalla tonalità, elabora un suo sistema linguistico-comunicativo il cui atonalismo è fondato sull’idea di cambiamento, non solo musicale, e da Alexander Mossolov (1900-1973), sperimentatore del suono come fattore qualificante della composizione fino a praticare e proporre in Fonderie d’acciaio (1926) la “musica delle macchine”, evocazione del paesaggio sonoro della nuova società prefigurata. A sua volta, Sostakovic, proseguendo su tale strada e su quella di un suo neocubismo musicale attraversato dalla lezione del decostruttivismo formale mahleriano, giunge nel 1934 all’opera che, musicalmente e drammaturgicamente, maggiormente rispecchia la coscienza critica del tempo sovietico, Lady Macbeth del distretto di Mtensk: questo capolavoro, dopo oltre cento repliche a Leningrado, nel 1936 viene ritirato per l’aspra critica di antipopolarità e di mera compiacenza formalistica che la “Pravda” (il giornale del Partito Comunista) le muove, anticipando le rimostranze sulla questione del linguaggio che culmineranno nel 1948. Il compositore, dopo la Quinta Sinfonia del 1937 dichiaratamente autocritica nella sua fisionomia armonica, nella Sesta del 1939 evolve da una decostruzione mahleriana dell’ordine armonico, formale e tonale, verso quel politonalismo che nove anni dopo rientrerà anch’esso nella condanna emanata da Zdanov, al primo Congresso dei compositori sovietici, per espellere dalla musica sovietica ogni libero arbitrio linguistico.
Tali eventi vanno inquadrati considerando come le organizzazioni dei musicisti sovietici abbiano scandito le fasi del dibattito sullo scopo e la funzione della musica nella società socialista: a cominciare dagli anni Venti, quando operano l’ASM (Associazione della musica contemporanea) aperta alle avanguardie internazionali, compresa la scuola schoenberghiana di Vienna, la RAMP (Associazione russa dei musicisti proletari) contrapposta alla precedente, e l’ORKIMD (Unione dei compositori ed esecutori della rivoluzione) che si propone come mediatrice. Le tre organizzazioni vengono sciolte da una risoluzione del Partito Comunista Bolscevico (PCB) del 1932, emessa, non certo casualmente, nell’anno in cui decolla in URSS la strategia socio-economica della pianificazione quinquennale, che riconduce ogni attività, comprese quelle musicali, a un progetto comune: è in questa dinamica che nel 1934 Maksim Gorkij elabora e propone la teoria, non solo letteraria, del realismo socialista, in base alla quale il linguaggio, anche musicale, non deve presentare barriere di comprensibilità, per nessuno. È in questa logica di unificazione progettuale del fare e pensare, anche musicale, che sempre nel 1932 viene creata un’unica Unione dei compositori sovietici, che però, proprio perché il dibattito comunque continua attraverso gli anni Trenta, vede il suo primo congresso solo nel febbraio 1948: in tale occasione Andrej Zdanov pone alla base del congresso la risoluzione sulla musica del PCB del gennaio precedente, che a partire dall’accusa (a Prokofev, Miaskovskij, Sostakovic, Khačiaturian, più Vano Muradeli e Sergej Popov) di avere assunto dall’Occidente musicale atonale una pratica formalistica del comporre, a sua volta del tutto formalisticamente obbliga i compositori sovietici all’osservanza linguistica delle relazioni tonali. Richiesta alla quale Prokofev si adegua, laddove Khačiaturian, per precisa scelta critica, si astiene dal comporre, mentre Sostakovic, con suprema invenzione stilistica, parafrasa la sintassi tonale (ad esempio, nel Quartetto n. 8) pervenendo a un linguaggio che la evoca rimanendo però sospeso.
Dal 1953 al 1991
Il decennio che segue la morte di Stalin (1878-1953) porta alla nuova generazione di compositori e teorici che negli anni Sessanta costruisce un’autentica musica sovietica differenziata da repubblica e repubblica, ma comune nell’interrelarsi delle esperienze nella ricerca di una identità condivisa, e senza alcuna subalternità nei confronti della nuova musica occidentale. In questo senso, di nuovo fondamentale è il ruolo di Sostakovic, non solo per il modo in cui le sue composizioni pongono le questioni di fondo di una vera musica sovietica, ma anche per la sua partecipazione al dibattito su di essa.
Anche in questo periodo non sono poche le contraddizioni interne: il terzo Congresso del 1962, che, come quello precedente del 1957, avalla il nuovo corso musicale post Zdanov, conferma però alla carica di segretario Tikon Krennikov, che nel 1948 Zdanov ha voluto in quel ruolo a sua rappresentanza; la risoluzione del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) sulla musica del 1958 viene promulgata per archiviare quella del gennaio 1948, ma non manca di mettere in guardia contro “le tendenze formaliste nella musica”, in particolare quella di giovani compositori come il lettone Arvo Pärt (1935-) o il leningradese Andrej Volkonsij (1933-).
Nel 1953 Khăciaturian sostiene su Musica Sovietica che “è ora di porre fine al falso sistema della tutela amministrativa di cui soffrono i compositori”. Altri compositori, come Sostakovic, insieme a teorici e critici come Juri Keoldiscm, si impegnano a tutti i livelli contro il permanere del conformismo, correlandosi con gli stessi musicisti, come Kara Karajev in Azerbaigian o il leningradese Mistislav Zeinberg, che fin dagli anni zdanoviani e tanto maggiormente in quelli Cinquanta hanno operato per sottrarre i rapporti musicali di ogni genere alla “tutela amministrativa”. In questa apertura culturale-musicale rientra la creazione alla fine degli anni Cinquanta, a Mosca, del Laboratorio di musica elettronica diretto dall’ingegnere Eugenij Murzin.
In questo clima, la commissione nel 1963 al ventiquattrenne Boris Tischenko del balletto I dodici (da Aleksandr Blok), da parte della Casa culturale delle Officine Kirov di Leningrado, che nel suo teatro lo riprenderà per otto anni, risulta particolarmente significativa, non solo per il fatto che questa composizione visionaria e felicemente neocostruttivista rappresenta la musica sovietica in questa sua fase di ricrescita, ma anche perché questo è uno dei numerosi casi di commissioni da parte di una Casa di cultura o di una istituzione pubblica non statale: istituzioni che, come le analoghe migliaia sparse in tutta l’URSS, hanno svolto in questa fase di crescita, non solo musicale, un preciso ruolo di sostegno delle proposte più avanzate e aperte. Altrettanto significativo è che tali fenomeni siano avvenuti in questo periodo in molte repubbliche diverse da quella russa, in parallelo con il loro assurgere, durante e dopo la guerra, a una sempre più precisa autonomia e identità nazionale: è in questo arco di tempo che nascono in tali ambiti teatri musicali e conservatori che non di rado si uniscono proprio con le locali Case di cultura per realizzare attività musicalmente innovative, come il Centro di musica elettronica di Alma Ata.
Nel frattempo, sempre in linea con la ricerca di identità musicali locali, in Armenia Tigran Mansurian, erede di Khačiaturian, che ha rinunciato a comporre per dedicarsi allo studio rigorosamente etnomusicologico del folklore armeno in funzione della musica colta presente, applica tale studio alla ricerca di una prospettiva seriale per una nuova musica armena, mentre gli azeri Farags Karajev, Chaijam Mirza-zade e Aksin Ali-zade, coniugano la serialità con il maqam arabo.
In questo contesto emerge a Mosca Edison Denisov (1929-1996), forse il principale attore del rinnovamento musicale sovietico dagli anni Sessanta in avanti, che, rifacendosi culturalmente all’avanguardia musicale sovietica degli anni Venti (soprattutto a Roslavec), assume in maniera critica la serialità bouleziana per una personale elaborazione linguistica che, in Le soleil des Incas per soprano e strumenti su testi di Gabriela Mistral (1964) o in Epitaffio per orchestra da camera (1983), prima dell’involuzione nel postimpressionismo di Quatre jeunes filles del 1996, perviene, fuori da ogni previsione linguistica, a un polimorfismo musicale che riporta a Sostakovic, da Denisov stesso definito all’origine della coscienza critica dei nuovi compositori sovietici.
Fonte di ispirazione è soprattutto lo Sostakovic delle ultime sinfonie, dalla Dodicesima, del 1953 alla Quindicesima, del 1971, ma con particolare riguardo alla Tredicesima (Babij Jar), del 1962, su testo di Evtuscenko, per basso, cori di bassi e orchestra, e alla Quattordicesima, del 1969, su testi di García Lorca, Apollinaire, Kükerbeker e Rilke, dove un frequente uso del canto popolare di ascendenza musorgskiana concorre alla destabilizzazione della sintassi musicale colta e alla reinvenzione della forma sinfonica emancipata da ogni modulo storico.
Nel raccogliere tale eredità, Denisov si inserisce in un rinnovamento generale, critico e teorico, che vede studiosi come Alexandr Ivaskin o Michail Tarakanoiv aprirsi all’intera musica del Ventesimo secolo, laddove Josep Kon si occupa in particolare di Pierre Boulez, e Valentina Cholopova e Juri Cholopov scrivono una monografia su Anton Webern.
Numerosi sono i centri di tale nuovo sviluppo, dalla Novisibersk di compositori come Alexandr Novikov o Jurij Jukecev, alla Riga di Margeris Zarins e Paul Dambis, alla Tallin di Lepo Sumera e Jaan Rääts, alla Alama Ata di Vladimir Priimak e Kuffu Kudzimarov, alla Volgograd del professor Sabaev, e via andando per le repubbliche dell’URSS fino a giungere a un compositore rappresentativo delle ambiguità che pure hanno segnato questa fase musicale, quell’Alfred Schnittke (1934-1994) che, dopo una fuggevole attenzione alla serialità, adotta un proprio polistilismo in cui passato e presente si sovrappongono già postmodernamente (ad esempio nel Trio per violino, viola, violoncello), e che, trasferitosi in Germania, è rifluito, dopo la fine dell’URSS, nel minimalismo ideologicamente integrato dell’opera Vita con un idiota, dove l’idiota è Lenin.
Di ben altra responsabilità compositiva sono il leningradese Romuald Grimblat, che nella Quarta Sinfonia pratica un materismo nel quale le tracce tronali sono gli inquietanti spettri di un ordine finito, il lettone Peter Vask, Karem Khăciaturian, Sofia Gubaidulina, Valentino Silvestrov, Andrei Popov e Juri Falik, che, ciascuno in maniera propria, propongono un comporre trasversale al tonale e all’atonale che comunica puntualmente una storia, non solo musicale, cambiata, ovvero il possibile “altro” non solo musicale.
O, ancora, il maggior compositore leningradese Sergej Slonimskij, nella musica per l’opera-balletto Maria Stuarda, esercita una conflittualità stilistica interna fra materiali musicali passati, presenti, di strada e jazz, che teatralizzano musicalmente l’idea della rottura di ogni canone, mentre il lituano Vytantas Barkauskas muta sintassi di pezzo in pezzo, o Imanys Kalnis, anch’egli lituano, e Rodion Scedrin, moscovita, praticano una poliformità compositiva. Nel sud caucasico, uno dei maggiori compositori sovietici è Gija Kančeli, che collabora a Tbilisi col teatro sperimentale di Robert Sturua, e che nelle sue sei Sinfonie trasfigura la musica popolare georgiana nell’informale montaggio di materiali riferibili alle più lontane e diverse musiche del Novecento, per un comportamento compositivo che di lavoro in lavoro crea una sempre imprevista sintassi, e si può considerare fra i più stimolanti del secondo Novecento. A tali nomi si possono infine aggiungere quelli, emersi fra gli anni Sessanta e Ottanta, di Sulkan Nasidze, Seni Kevarnadze e Aleksei Mačavariani.