Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le fonti musicali esclusivamente strumentali, esistenti a partire dal XIII secolo, unitamente ai trattati musicali dell’epoca sono il primo e più importante elemento da cui partire per formulare un’ipotesi di riesecuzione della musica da danza medievale. La realizzazione di una prassi esecutiva “filologica” deve però avvalersi di altri importanti indizi, le cui tracce frammentarie permangono ancora oggi nella liuteria popolare e nelle musiche di tradizione orale.
Antonio Cornazano
Sulla Piva
Il libro dell’arte del danzare
La piva…è da villa, origine di tutti gli altri (balli) è l’suon suo fu controvato ne l’avene per i pastori. Dall’avene a le canne pallustri. Da quella, assottigliati gli ingiegni, si trasferì ne gli fiautti et in altri instrumenti facti et usiti hoggi…
A. Cornazano, Il libro dell’arte del danzare, cod. Capponiano 203, Biblioteca Apostolica Vaticana
Dal XIII secolo, la musica eseguita esclusivamente dagli strumenti musicali inizia a conquistare l’interesse dei teorici. Il parigino Giovanni de Grocheo nel suo trattato De Musica si occupa, primo fra i teorici medievali della musica, delle forme musicali profane, dando grande valore alla musica instrumentalis ed evidenziandone persino differenze nelle pratiche locali. Pochi ma preziosi esempi di danze, poste in notazione musicale fra il XIII e il XIV secolo, ci svelano l’esistenza di un repertorio profano esclusivamente strumentale, fino ad allora relegato alla practica, screditata da religiosi e intellettuali, all’epoca unici detentori dell’uso della scrittura. Dei 46 brani sopravvissuti, alcuni non hanno una forma musicale dichiarata dall’anonimo compositore (o più probabilmente trascrittore): sulla base dell’andamento ritmico si può comunque ipotizzare quale fosse il loro utilizzo coreutico, mentre il loro genere è individuabile comparandoli con la struttura di altre danze, alcune delle quali sono state descritte solo a partire dal 1400. Giovanni de Grocheo, pur nell’ambiguità interpretativa di alcuni particolari, descrive tre tipi di danza, chiamati rispettivamente estampie , ductia e nota.
L’ estampie , detta anche estampida o, in Italia, istampitta, è probabilmente la danza più diffusa nel Medioevo: abbiamo la fortuna di possederne ben 20 esempi (otto francesi, dieci italiani e due inglesi). Questa danza si sviluppa in quattro o cinque parti dette puncta: ognuna di queste si ripete due volte, la prima termina con una cadenza sospesa (aperto), la seconda con una cadenza conclusiva (chiuso). Le istampitte italiane, trasmesse dal codice di Londra, British Library, Additional 29987, hanno caratteristiche musicali diverse dalle francesi e dalle inglesi, sono estremamente più ricche di materiale melodico e ritmico, e sembrano imparentate con repertori strumentali tuttora presenti in Turchia, detti peshref.
La ductia ha una struttura identica all’estampie ma con frasi più brevi e con una metrica regolare. Non sono rimasti brani denominati ductia, ma tre composizioni francesi sembrano corrispondere alla descrizione di Grocheo: una è priva di titolo, le altre due sono chiamate rispettivamente danse e dansse real. L’ultima danza che Grocheo differenzia dalle altre è la nota: sono rimaste quattro danze inglesi attribuibili a questa forma, si tratta di danze a due voci in 6/8 adatte, per estensione e fraseggio, ad essere eseguite da due cornamuse.
Sempre nel codice di Londra 29987 sono presenti 4 saltarelli: questa forma è sparita dalla musica colta alla fine del Rinascimento, ma tuttora è diffusa nel centro-Italia come danza tradizionale. Il saltarello eseguito con la zampogna ad Amatrice, nel Lazio, possiede evidenti analogie con questi brani del XIV secolo. Tre danze italiane possiedono una prima parte lenta e una seconda veloce (lamento di Tristano / la otta, manfredina / la rotta della manfredina , dança amorosa /troto) analogamente a quanto avviene nelle danze dell’Appennino bolognese, nella suddivisione ad esempio di manfrina/tresca. Di danze italiane conserviamo inoltre un trotto, forse mancante della sua parte lenta, un esempio di bassadanza detta bel fiore dança e quattro danze costruite su un tenor , chiamate chançoneta tedescha e chançona tedescha, testimonianze dell’influsso degli strumentisti tedeschi nel panorama italiano. Altri quattro tenor francesi utilizzati per costruire altrettanti mottetti a tre voci sono stati in origine melodie da danza, come indicato dal loro nome: chose tassin e chose loyset. Tassinus è infatti citato da Grocheo come eccezionale strumentista in grado di eseguire estampies con 7 puncta, quindi dotato di straordinaria memoria. Infine due composizioni chiamate czaldy waldy provenienti dalla Cecoslovacchia testimoniano un interessante prolungamento dell’uso della scrittura musicale nei repertori strumentali dell’est Europa.
È lecito pensare che questi esempi di musica strumentale anteriori al 1400 siano solo una minima parte di quanto scritto in notazione musicale all’epoca e che a sua volta essa non sia altro che una parte infinitesimale di quanto realmente venisse eseguito dagli strumentisti europei. I trascrittori di queste danze sembrano spinti da un istinto di conservazione simile a quello del moderno etnomusicologo: l’esecuzione, tradizionalmente affidata alla complessa competenza orale, viene fissata col potente mezzo della scrittura, probabilmente non con l’intento della riesecuzione tramite lettura, ma per possederne simbolicamente la natura effimera, ponendola come un oggetto prezioso a un livello più alto della stessa esecuzione.
La scarsa documentazione di musica scritta relativa al repertorio strumentale è compensata dalla ricchezza delle informazioni indirette. Conosciamo gli strumenti musicali dell’epoca e in alcuni casi ne possediamo alcuni resti materiali, attraverso i quali possiamo avere notevoli indizi sulla musica da loro prodotta.
La cultura musicale greca e romana, già mescolata con culture più antiche, è da considerarsi la base sulla quale l’Europa accoglie le influenze musicali e gli strumenti provenienti dalle popolazioni limitrofe: dall’Asia, dal sud-est europeo attraverso la cultura bizantina, dal nord Africa islamico e dal nord-est, seguendo la costa baltica. Di questi strumenti musicali, quelli che si radicano subiscono in buona parte progressive modifiche, dovute alle esigenze della pratica musicale locale. Per questa ragione, rimangono forti differenze tipologiche fra gli strumenti all’interno dell’Europa. Dall’iconografia e dalle descrizioni letterarie è chiara una distinzione fra due gruppi di strumenti, quelli dal suono forte e quelli dal suono debole: gli organici venivano allora scelti a seconda delle finalità d’impiego, rispettando peculiarità sonore, timbriche e anche di diverso linguaggio stilistico. Questa distinzione nella prassi esecutiva in ensemble verrà poi sancita nel 1400 utilizzando le espressioni “alta cappella” e “bassa cappella”. Gli strumenti dal volume alto sono le trombe, gli strumenti ad ancia e le percussioni; gli strumenti dal volume basso sono i liuti ad arco e a pizzico, i salteri, le arpe e i flauti. Questa separazione fra strumenti da suonare al chiuso o all’aperto in rapporto all’intensità dei suoni emessi non è comunque così rigida: tutti i documenti ci attestano anche l’uso promiscuo delle due categorie.
Nell’odierna cultura materiale troviamo dei veri e propri “fossili viventi” di strumenti medievali, tramandati a noi, almeno parzialmente, nelle loro originarie forme costruttive, nel repertorio e nello stile esecutivo. Gli strumenti ad arco, oggi simbolo della musica classica occidentale, sono giunti in Europa grazie all’arrivo degli Arabi attraverso la Spagna e la Sicilia. Fino al 1400, seguendo l’originaria tradizione costruttiva, corpo e manico degli strumenti ad arco sono ricavati da un unico pezzo di legno, al quale viene aggiunto solo il piano armonico di conifera. Questa scelta, rispetto all’assemblaggio di fondo, fasce, piano e manico, è prediletta per il risultato timbrico dagli strumentisti dell’epoca, in stretto contatto con i liutai. Non è un caso se questo procedimento costruttivo è tuttora conservato nella liuteria popolare.
L’idea che i gruppi etnici possano avere una certa persistenza e continuità nelle abitudini musicali non è nuova. Durante il Rinascimento, Pierre Belon du Mans scrive nei suoi ricordi di viaggio nel Medio Oriente: ““Chi volesse comprendere qualche cosa della musica degli strumenti antichi, avrebbe migliore argomento dall’esperienza di quelli che si trovano in Grecia e in Turchia, che da quello che ne troviamo di scritto”” (P. Belon, Les observations de plusieurs singularitez, 1555). La Turchia visitata da Belon nel XVI secolo non è molto lontana: si tratta dell’Impero ottomano esteso in Europa fino a Budapest.
L’esecuzione odierna delle 15 danze provenienti dal codice di Londra 29987 presenta gli stessi problemi che sorgerebbero qualora in un ipotetico futuro scomparissero tutte le registrazioni di jazz e si volesse praticare questo repertorio utilizzando il noto compendio chiamato Real Book. Sappiamo bene quanto il canovaccio scritto di una melodia jazz possieda scarsissima densità di informazioni rispetto a una sua corretta realizzazione. In entrambi i casi la notazione è da considerarsi una traccia: solo il musicista che per tradizione orale conosce lo stile e le peculiarità del proprio strumento è in grado di interpretare uno di questi repertori.
Oggi siamo giustamente ossessionati dalla ricerca di una prassi esecutiva filologica e chi si occupa della riesecuzione di musiche così remote si trova a dover scegliere una strada avendo ben pochi punti fermi. Da una parte varie scuole di musica medievale propongono un modello mutuato dal conservatorio, dove, scelto lo strumento, ci si attiene alle poche indicazioni interpretative date per lo più da Grocheo per la musica anteriore al 1400 e si approfondisce lo studio delle fonti e delle notazioni. Dall’altra, sfruttando il lavoro di trascrizione dei musicologi o più semplicemente ascoltando dei cd, musicisti di varia estrazione liberano il proprio immaginario neomedievale, spesso arabeggiante, spesso popolaresco. Entrambe le prospettive possono giungere a esiti poco soddisfacenti: alla sterile precisione della nuova “scuola medievale”, dove per celata paura di sbagliare non si “compromette” la notazione, si contrappone un fastidioso scimmiottamento di culture musicali superficialmente affrontate, dove “compromettere” è una regola, spesso sorretta da insufficienti cognizioni.
Un interessante documento di un anonimo siciliano su una rivista del 1887 commenta così l’esecuzione di alcune trascrizioni di canti popolari: ““Vi ingannereste se credeste di poterle cantare così come in Sicilia. Un giorno io le ho date da leggere a una valentissima musicista, me le cantò con la voce sua dolcissima. Le note erano quelle ma il tipo della melodia non la riconoscevo più. Bisogna sapere come si deve accentare questa o quella tal nota, quanto la si deve tenere, come si deve passare da una frase all’altra, e tutte queste finezze bisogna apprenderle dal popolo che ne ha la tradizione””.
Se il corretto studio delle fonti fosse integrato da un’altrettanta profonda conoscenza di tecniche, stili e prassi improvvisative di alcune tradizioni musicali che, uscite dal Medioevo ne hanno trattenuto dei frammenti, si giungerebbe non certo a una verità, ma quantomeno a qualcosa di meno falso.