La musica*
Credo che sul far dell'avvio di un resoconto sulla musica e sulla vita musicale vissuta a Venezia in quell'ultimo lungo scorcio di storia secolare, che si fa partire dal definitivo transito della fu Serenissima Repubblica dominata da 'stranieri' al sistema delle province del nuovo Stato monarchico italiano, convenga, per non dire addirittura occorra, tenere conto, ricordare, innanzitutto, un dato di fatto. Ovvero che convenga ricordare come e quanto a quello scorcio abbondante di secolo corrisponda uno stereotipo marcato e ri-marcato da e su diverse impronte stilistiche, consolidatesi sempre di più sino a farsi perpetuare, connesse alla diversità delle domande, diversamente declinate, sulla 'fine', parziale o definitiva, di questo o quel carattere ambientale della 'venezianità' originale. E quando non su di una vera e propria fine, sui modi della sopravvivenza degli stessi caratteri in un particolare stato di 'dopo-la-fine' cui sembra dedicarsi a tempo pieno una cultura divenuta docilmente 'postuma' di se stessa: scivolata dalla dimensione canonica della universalità a quella, labile, della 'località' (distratta dalle originali strutture della unicità e riportata ad un certo numero di minime tipicità 'interessanti', preservata grazie alla moda della couleur locale). Credo, peraltro, che sull'avvio di un tal resoconto sia opportuno dotarsi del preludio, per non dir del viatico di una rapida e preliminare occhiata retrospettiva. Uno sguardo retrospettivo, poc'altro che simbolico, che vorrei confidare, utilmente, alla eloquenza, per sua natura icastica o, comunque, corta delle vignette satiriche. Per non strafare: tre vignette soltanto. Tre vignette dedicate al commento di tre successive situazioni politiche molto segnate, guarda caso, dalla rappresentazione di una 'fine' agìta in Venezia. Una 'fine' - dunque - 'veneziana', ma in particolare una fine che, per fare al caso nostro, si lascia allegorizzare comodamente, per tre volte, proprio grazie al supporto di un efficace paragone musicale, sul quale comodamente mostra di adagiarsi (sulla scorta, forse, di un fasto di una collaudatissima tradizione settecentesca - quella metastasiana - che ha amato riservare il momento riflessivo-retrospettivo sugli eventi di un dramma, o di una 'storia', ad una esposizione significativamente 'musicale', estratta in medias res dall'azione, e disposta, eufonicamente, in un efficiente quadro retorico di paragone: intendo la celebre struttura dell''aria').
Nella prima vignetta(1) intitolata La Democrazia in precario equilibrio si rappresenta la fine della prima Repubblica (insorta 'dopo-la-fine' della "vera" Repubblica), la democratica-giacobina, nella forma allegorica della "fine di un ballo". La poesiola che fa da didascalia al fotogramma storico satireggiante recita:
Di fragil corda in su l'angusta via,
Fra 'l buio dell'error più cupo ed atro
Di lutto e di terror nel gran Teatro
Move l'incerto piè Democrazia.
Palco feral divenne ai forsennati
La vaga scena ove brillar' un giorno:
l'Austro-Russo valor fra l'onta, e 'l scorno
E l'Anglo, e l'Ottoman gli ha debellatti.
Suonino pure i Franchi-Muratori,
Che Danimarca, Prussia, il Portogallo
E la Svezia, alla fin, troncato 'l ballo,
Tutti vedran perir i Suonatori.
Nella seconda vignetta, quarantottesca, intitolata Gloriosa partenza del Reggimento Kinski comandata dal Generale Kulos(2) la 'musica che finisce' nella ingloriosa, seppur di fatto provvisoria, prima débâcle della dominanza asburgica, non è di fatto rappresentata: la squadra dei maiali in divisa marcia in effetti su una 'musica fuori campo', fuori campo ma, comunque, sensibilmente implicita. La stanza di un reggimento austriaco in città (che qui si vede nell'atto obbrobrioso di una marcia di suini in ritirata) è stata particolarmente presente, nella capitale dominata, soprattutto nelle forme della udibilità, e della musica civico-ambientale, essendo la banda musicale dello stesso reggimento - un reggimento prestato, come è noto, da un nobile vassallo, ai servizi militar-musicali dei domini periferici dell'Impero (da cui la 'cognominazione') - uno dei riferimenti 'artistici' cittadini più amabilmente routiniers, sia per la mid-class che frequenta il teatro d'opera, che per il popolino che s'aggira in Piazza. La banda militare di stanza suona infatti in Piazza, nei concerti en plein air, ad ogni festa "in platea Sancti Marci"; così come più o meno ad ogni recita, la stessa banda, suona sul palco nel teatro, all'opera, 'dietro le quinte' della Fenice, sia caricandosi, qui, d'ogni ruolo di 'sonorità del fuori-scena' (momenti, quelli dell'off stage, molto frequenti nell'opera romantica italiana: la recondita fanfara, la festa lontana, il rito remoto, le prospettive da sopra-in-giù paurose o magiche o numinose, prive di figure ma risonanti), sia anche prestando normali servizi d'orchestra (legni e ottoni) in buca - sopperendo in tal modo alle molte deficienze d'organico(3).
La terza vignetta(4) - ispirata a una specifica e reiterata inclinazione veneziana alla ripulsa delle ingerenze 'vaticane' in laguna, nella fattispecie rappresentate dai Gesuiti, sospetti agenti del sospettato di filodespotismo papa Mastai -, la terza vignetta, dicevo, descrive l''addio a Venezia', questa volta in tono ecclesiastico, di un'altra stremata banda: quella appunto dei Gesuiti (interpretati come figure emblematiche di educatori di "biscottonisti", ovvero di quei precettori casalinghi codini di quei nobili e di quelle dame, che, educati ed educate, in palazzo, da maestrucoli in tonaca, perlopiù gesuiti, erano stati arruolati in un vero e proprio esercito di volontari 'pelosamente' filantropi e caritatevoli, i quali, col santo pretesto della distribuzione di biscotti, e di altre elemosine, agli ammalati e ai derelitti d'ogni sorta, facevano a tutto vapore, in specie nei luoghi pii e nelle varie aleatorie situazioni di carità, una strisciante e vischiosa propaganda antiliberale). Ed ecco dunque un'altra fine: un addio solenne, questa volta alla musica sacra, ben recitato dalla didascalia:
Gloriosa partenza dei PP. Gesuiti da Venezia. Col suo respetivo accompagnamento di Musica. Alla presenza di una grande folla accalcatasi alle Fondamenta Nuove i Gesuiti in lugubre corteo acqueo compiono il loro ultimo tragitto - avente come mèta finale il cimitero di San Michele.
Di una "musica sacra veneziana"(5) in Venezia sul far della italianizzazione plebiscitaria della fu Repubblica, di una musica sacra allo stremo, finita, o mal in arnese, non poco sembra volerne dire un testimone oculare molto coinvolto, non molto rappresentativo, forse, ma di certo, come ho detto, 'coinvolto' in una depressiva peripezia d'impotenza. Chiamo, quindi, a testimoniare don Ignazio Zorzetto sacerdote, "basso aggiunto" della Cappella di S. Marco, e delegato, ad interim, al ruolo amministrativo dell'appuntatore (ossia del coordinatore della squadra dei cantori e dei "sonadori" in coro, e, contro le pecche della stessa squadra, comminatore di multe).
Sopraffatto dall'ansia dell'attesa di una ennesima débâcle musicale che già prevede inevitabile per la imminente celebrazione in basilica della festa di s. Pietro, sul far della sera di una malandata festa di s. Giovanni del 1870, appena trascorsa, l'appuntatore della Cappella Marciana, don Ignazio, prese, dicevo, all'imbrunire del 24 giugno, la carta, la penna e il calamaio per mettersi a stilare un lungo esposto rivolto ai suoi superiori della "Spettabile Fabbriceria" della basilica patriarcale metropolitana di S. Marco in Venezia.
Una lettera nella quale più sentimenti frammisti: irritazione, desolazione, rimpianto e altre atrobiliari passioni vanno lievitando riga dopo riga sino ad assumere i tratti di un vero e proprio 'improperio' solenne, costellato, con evidenza, di chiacchiere da comare.
La scintilla che alla fin fine infiamma il documento sino a portarlo all'odore del bruciaticcio sembra essere il comportamento esageratamente, disgustosamente assenteista di un tenore in paga della basilica, tale Giuseppe Tona (un professionista che altre valide documentazioni dell'epoca ci attestano essere, invece, nello stesso periodo, a fronte di un'altra retribuzione, cumulata, un fedele maestro rammentatore nella buchetta del suggeritore del Teatro la Fenice).
Credo che metta conto di dar spazio a un discreto numero di righe della "informativa" di don Zorzetto, tagliandola laddove forse troppo si ripete, per onorare la spontanea vivezza del quadro che in essa va corrispondendo, in buona proporzione d'effetto-verità, all'iraconda perdita del controllo diplomatico cui s'abbandona l'ufficiale personalità referente:
[…] Il servigio dei signori Cantanti di questa Cappella musicale è ormai venuto ad un punto di desolazione che il tacerne più oltre presso quell'autorità che sola può applicarvi opportuno rimedio sarebbe per me, che per la mia qualità di appuntatore della Cappella medesima debbo vigilare all'esatta osservanza delle discipline urgenti, sarebbe, dico, per me una colpa assai grave. Purtroppo per effetto del mio buon cuore ò chiuso per molto tempo non solo un occhio ma forse due, [...] ora dunque mi è forza dinunziare a codesta Spettabile Fabbriceria che il signor Tona Giuseppe dal primo gennaio di quest'anno a tutto oggi mancò all'esorbitante numero di 99 funzioni, non calcolando quelle poche in cui si fece sostituire, e ciò sotto il falso pretesto di essere incomodato a una gamba, pretesto che il dico falso perché il signor Tona che abita al ponte dei Ferali, cioè il più prossimo di tutti alla Basilica di San Marco, non à poi male alla gamba per portarsi quotidianamente al Caffè di San Fantino e al teatro della Fenice, ne per andare a cantare ai Carmini e più lontano, ne per passare quasi tutte le notti fino a due o tre ore antimeridiane in una Malvasia a San Cassano in calle della Regina. Dopo il Tona quello ch'ebbe più mancanze durante l'anzidetta epoca fu il signor Colonna Giacomo che non intervenne a 24 funzioni e le infinite volte che si fece sostituire da gente spesso a me ignota, e fino da un Basso, egli, Tenor di concerto!!! E poi viene il Busetto di Biolatto Nicodemo che mancò 10 volte, e poi il Guadagnin Gabriele che ne mancò 7, omettendo le mancanze accidentali degli altri. Vi posso tacere di quei molti che mancano accusando di averne avuta licenza dal Signor Maestro primario, senza mai esibirmela in iscritto, come dovrebbero, o protestando qualche indisposizione di salute che però permette loro di portarsi un'ora dopo in un'altra chiesa. E che dico delle mancanze in massa che riescono non troppo rare? Alla processione del Corpus Domini dell'anno passato due soli cantori della Cappella intervennero personalmente, tre altri si fecero sostituire da inetti, gli altri tutti mancarono, e se io non avessi chiesto l'aiuto di alcuni preti del coro non si sarebbero potute cantare neanche le Litanie. E poco di men successe anche in quest'anno perché si prescelse da alcuni di andare piuttosto a Burano o a Malamocco che non servire la Chiesa che dà loro il pane quotidiano. So di taluno che si fece sostituire da certo che non conosco, protestando di non poter starsene in istrada a capo scoperto una mezz'ora, e poi invece si recò a Burano e vi stette [a testa nuda] senza disturbo più di due ore [in istrada]. E non avviene di rado che per mancanza assoluta delle parti di Concerto o di tutti i Tenori primi, ecc., non si può eseguire nelle feste la musica concertata, che si avea preparata, ed è giocoforza cambiarla al momento con una delle più correnti che si usano nelle feste comuni. [...] Notisi che sebbene nel decreto dell'undici settembre 1865 sia detto nessuno essere da altri sostituito senza averne ottenuta licenza per iscritto dal signor Maestro primario nulladimeno si giunge a disconoscere una tal disciplina portando l'inobbedienza sino al ridicolo, come avvenne quando un Tenor primo di concerto si fece sostituire da un vecchio Basso che non sapeva aprir bocca in musica, o [quando] un Basso di concerto si fece sostituire da un cattivo Tenore di ripieno. Ed in ciò pena più di tutti il primo Basso, signor Poli Pietro il quale, sebbene non abbia nessuna mancanza assoluta, pure sembra aver preso per sistema o di farsi sostituire o di dire di averne ottenuta una dispensa dal Maestro (sia pur vero o no), e in quasi tutte le funzioni solenni, come fece anche oggi, quantunque sappia che il secondo Basso è ammalato da molti mesi, per cui convenne mutare sull'istante una Messa del Mercadante ch'era già stata messa fuori [fuori-uso di Cappella]. È necessario, pertanto, che codesta Spettabile Fabbriceria, almeno pel momento, 1. Ritenga le multe […] [e non le cancelli bonariamente tutte quante le volte che sono state comminate dall'Appuntatore], 2. Chiami il signor Tona a dichiararsi se voglia continuare nel servizio […] [per il quale è pagato], 3. Richiami all'ordine i più negligenti […], 4. Ordini severamente al sottoscritto Appuntatore di tener mano fermissima […]. Non c'è altro rimedio, quando l'insubordinazione e l'indisciplinatezza son giunte al colmo non v'è altro che una mano di ferro che sia capace a reprimere […].
In una delle sue oramai non più infrequenti 'rinascite', parziali rinascite, in stato di cattività - quella 'nazionale' del '66, l'ultima, è forse anche la più sgonfia, la più routinière, la più rassegnata -, Venezia, già più volte divenuta, più o meno accomodantemente, "ex capitale" (ex capitale di uno Stato già autonomo e glorioso) sotto il giogo non mai troppo oppressivo di due, tre stati di dominazione, eteroculturalmente connotati, ma anche ben disposti più a conservarli, quasi attivamente, che non, passivamente, a lasciarle conservare, ad essa Venezia, culti indigeni e pratiche "serenissime", in specie nelle effigi effimere della più effimera delle arti, qual è appunto la musica (stati di dominazione succedutisi, peraltro freneticamente, nel tempo, di fatto eccezionalmente corto di non più di due generazioni, al massimo), Venezia, dicevo, viene a rivelarsi, nello specchio occasionale di una carticella trasudante livori casalinghi - l'or ora citata denuncia di don Ignazio - come un'entità patetica e sofferente.
Circa il caso, sofferto e irritante, appena evocato, conviene ricordare che si tratta di un caso evocato da un ambito consacrato a memorie 'ambientali' emblematicamente espressive, che la "città-Stato" aveva bene o male padroneggiato nei secoli, con stile eminente, qual è appunto, nella dimensione la più civica e rappresentativa, l'ambito per l'appunto della musica della Cappella del doge.
Il quadro delle desidiae, dei controllori e dei garanti ciurlati nel manico, delle neghittosità, il quadro dello stolido disamore e dell'ottuso sprezzo dell''appartenenza' al "Corpo Morale" marciano, che vanno esibendo, nella lettera-verbale del suo guardiano, i poveri resti di quella grande sede di "Musica di Stato" che era stata sia una capitale musicale nelle rinomanze di tutta Europa, sia una cattedra di stile e di stilistica o di poetiche innovazioni della stessa lingua musicale, sia una sentina inesauribile di indescrivibili "aure", di già estetiche-estetizzanti in età pre-paleo-estetiche, sembra a tutta prima l'ultimo tableau di una "brutta fine".
La Cappella Marciana, che pur ancor nel tempo della dominazione austriaca, Francesco Caffi (1778-1874) - nicodemiticamente tanto attivo nel ruolo togato di magistrato giudicante del tribunale imperiale quanto cripto-nostalgista "serenissimo" nella performance musicologica - aveva esaltato pochissimi anni prima, quasi rivendicativamente, nella plasticazione di un disinvolto ma solennissimo monumento di storiografia (una storia della Cappella ducale in due grossi tomi, tanto persuasiva quanto non poco approssimativa, non senza alcune punte di pura invenzione dei dati documentari mancanti)(6), era divenuta, nel giro di pochissimi lustri, la sede depressa, svogliatamente delegata alla gestione infingardissima di un lutto tutt'altro che 'magnanimo' per una civiltà locale più che decaduta: autoumiliata.
Le osservazioni del canonico appuntatore potrebbero essere anche intese, però, cum grano salis, come una folata di ubbie di un prete innervosito, di un vecchio "rustego" in sottana depresso e brontolone, "che esagera", che calca i toni e alza la guardia, non foss'altro che per difendere la sua piccola personalità autoritaria, trasferendo tale istanza privata in un sogno infranto d'integrità dell'illustre "Corpo Morale" (secondo la terminologia legale dell'epoca) di cui si ritiene più responsabile di quanto non sia.
Per essere, o divenire, pertanto, un credibile "presepio", questo set di eventi musicali veneziani, che qui sto cercando d'illuminare per rendere immaginabili gli scenari disturbati, pencolanti, né innovativi né effettivamente conservatori, della musica postunitaria a Venezia, necessita di ben altre inquadrature d'altre figure.
Dunque.
Dopo che nella prima settimana di ottobre del 1866 Vittorio Emanuele II di Savoia è entrato con indosso il costume di una "italica Maestà" in una Venezia di già divenuta nel frattempo rattrappita capitale, abbastanza periferica, di una delle tante province del suo Regno unificato, entrato ed accolto, in stile antico, con ben due serate di gala organizzate da un illustre civico Corpo Morale (musicale) cittadino - appunto la Società del Teatro la Fenice (di cui riprenderò a dire più avanti) -, il sindaco Giovanni Battista Giustinian, che è anche presidente del consiglio di amministrazione della stessa Società del Teatro, porta frettolosamente in delibera al suo consiglio comunale, il 28 marzo 1867, la costituzione definitiva di un altro Corpo Morale (sempre musicale) municipale: il Corpo di musica della guardia nazionale.
In specie, più che l'istituzione di un tal Corpo, che per pura apparenza e solo nominalmente risuona nell'etichetta neoquarantottesco o, addirittura, robespierrista, quella che si delibera in consiglio è la costituzione di una commissione permanente di controllo di un ente che tanto è, esistente, sì, ma anche altrettanto fantomatico. In effetti, il Corpo di musica della guardia, peraltro non militare - armata solo di tromboni, cornette e bombardini a fiato -, già c'era, a quella data, e già un suo ruolino di stato provvisorio, in libro paga, ma fuori d'ogni specifica delibera, l'aveva ottenuto, dal Comune. Il consolidamento, solo apparente, della soluzione provvisoria s'era dato per necessario in corrispondenza immediata con la partenza, già avvistata poco sopra in una vignetta, della banda austriaca (una banda di reggimento, come s'è già detto, gentilmente prestata all'imperatore, per un periodo, a rotazione, da questo o quel nobile vassallo della Sacra Corona ancora in grado di mantenere un reggimento con tanto di banda musicale sufficientemente atta, se dislocata in un dominio, a sostenere servizi musicali di Stato). Tale nuovo corpo civico subentrante alla banda militare era un drappello raccogliticcio di 52 anime di privati musicisti dilettanti di diversissima formazione, perlopiù ignota o affabulata, di personalità di disparatissimo rango, e di inomogenea capacità, cooptate senza uno straccio di concorso o audizione, al qual corpo l'indaffarato sindaco neounitario aveva sperato di poter trasferire, senza troppi problemi, le incombenze già sostenute graziosamente dalla banda militare austroungarica, di stanza, rotativamente, per più di un cinquantennio. Le più urgenti e insostituibili di queste incombenze erano (già un po' se n'era detto sopra):
1. il concerto in piazza, a cadenza, minimo, settimanale; 2. il servizio di "banda [o colonna d'armonia] di palcoscenico", con il di più di un qualche imprestito di alcuni "fiati" in buca nell'orchestra dell'opera e dei balli fenicèi (con l'ulteriore di più del servizio, a bassissimo costo, quando non gratuito, della copisteria musicale delle "parti" strumentali da mettere sui leggii); 3. l'esecuzione delle musiche occasionali (fortuitae) delle e nelle "parate" (per le visite, per natalizi savoiardi ecc., non meno di tre-quattro all'anno); 4. alcune serenate in Canale per le feste d'obbligo (non meno di due); 5. alcune sessioni di didattica e formazione pratica musicale già affidate di straforo (o subpagate in nero) a capibanda e capisezione nelle scuolette private di musica, aleatoriamente attivate/disattivate, in città da più o meno benintenzionati piccoli imprenditori dell'insegnamento selvaggio (in città e/o in terraferma).
Une delle prime elaborazioni giustinianee del lutto per la perdita dei gratuiti servizi musicali "viennesi" era stato dunque un ripristino, presunto fin troppo facile, della banda, con la istituzione - a costo stracciato - di un corpo musicale indigeno. Ma le cose erano andate ovviamente meno bene di quanto in Municipio s'era candidamente sperato; non abbiamo nel merito la testimonianza di un avvisatore (comunale) esasperatamente sensibilizzato come il canonico Zorzetto circa le magagne della Cappella - i panni sporchi di questi pochi mesi di malservizio, infatti, non vengono, signorilmente, né accertati, né esposti, né lavati. Alla commissione di controllo, nominata in men di un battibaleno, all'unanimità, nelle persone
1. del conte Giuseppe Contin di Castelseprio (violinista, apprezzato dilettante, strumentista di formazione ignota, forse tedesca, apostolo di un rapido riallineamento della nuova Venezia musicale con la vita musicale altrettanto "nuova" delle altre città italiane); 2. del banchiere Gustavo Koppel (facoltoso finanziere, dilettante di violoncello); 3. dell'avvocato Ugo Errera (talentoso pianista dilettante, ferratissimo in diritto, anche societario e amministrativo).
A una simile commissione - che di fatto tanto è un organico e, cameristicamente parlando, autosufficiente Trio, quanto una giunta 'tecnica' di veri 'notabili' - viene dato un incarico eufemisticamente detto "di controllo", ma in realtà dovrebbe essere preposta a verifiche negative della conduzione di una istituzione già sfasciata alla nascita. In effetti quel che si chiede ai "tre" è, forse, di chiudere al più presto e ancor prima riaprire una bottega aperta con frettolosa leggerezza; licenziando i tanti inetti; riassumendo i pochi elementi capaci; rintracciando in città qualche talento sia inoperoso che appena appena maturo; possibilmente trovando, anche, finanziamenti esterni, adeguati al caso, da quelli che oggidì son detti - tuttora leggendariamente - sponsors.
In effetti in pectore a quello che potremmo chiamare il Trio Castelseprio s'annidano però altre ambizioni e altre idee. Il Trio Castelseprio-Koppel-Errera, infatti, altro non è che lo stesso Trio che in più tempi ha avanzato, presso il Comune, e presso l'opinione pubblica, l'istanza urgente della costituzione di una Società di concerti d'altro profilo artistico, e, poco dopo, anche quella di una Società concertistica messa in condizione di essere gemellata ad una ancora non concepita "Scuola Pubblica di Musica" (un autentico liceo musicale, concepito, ahi quanto tardivamente!, sul modello degli altri già attivi nella neonazione italiana - a Bologna, a Napoli, a Milano): enti confusamente compenetrati (alla latina: imbuti) l'uno nell'altro e interconnessi nel cuore dei promotori ove sono già stati irrevocabilmente, anche, di già battezzati entrambi, coincidentemente, in nomine del più 'dilettante' dei Maestri della storia musicale lagunare: Benedetto Marcello(7).
Più volte gli aspiranti soci fondatori del "patriottico e scentifico [!] progetto" del liceo, hanno detto la loro sui giornali; anche dopo la nomina nella loro stessa commissione di controllo. Per esempio sulla "Gazzetta di Venezia" del 3 giugno un articolista anonimo, agguerrito e imboccatissimo, auspica che gli stessi "egregi cittadini" chiamati a rimettere sulla buona via il corpo bandistico riescano a vincere "la fiacchezza dei tempi" e a dar corpo vivente ai loro "desideri avanzati". Desideri che non sono affatto fisime personali (i sostenitori della "temeraria impresa" della fondazione di un liceo, infatti, la loro bella musica privata nelle sale e salotti dei loro palazzi se la fanno bene e senza necessità di ausili), ma che concernono piuttosto il bene comune municipale per il quale occorre al più presto "fare qualcosa". Ad esempio, tanto per cominciare:
a) Porgere aiuto alla "classe degli esercenti l'arte musicale cittadina" che in nulla oggidì si perfezionano, quanto piuttosto via via decadono in quantità e qualità di prestazioni. b) Procurare occasione a giovani compositori per l'esecuzione di nuove opere del loro ingegno. c) Contenere, per sconfiggerlo nel medio termine da un decennio di formazione musicale seria di almeno una generazione [10 anni], il ritardo, fortissimo, della vita musicale veneziana nel confronto con altri centri italiani (ossia dar concerti pubblici, con artisti ospiti e artisti di casa, possibilmente giovani, in numero non esageratamente esiguo, come al momento avviene). d) Diffondere l'educazione e l'interesse per la musica classica vocale e strumentale, sia italiana che straniera (da quella da camera o "da solo" a quella per grandi masse), e coltivare un rispettoso e "intelligente" culto antiquario per le opere delle auree età della musica veneziana (insistendo sul plurale). e) Conservare l'avvertenza "che mancherebbe una base" alla vita musicale veneziana "se non sorgesse al più presto un Istituto di educazione musicale": un altro Corpo Morale in grado di fornire, peraltro, anche l'istruzione musicale ai maestri delle scuole elementari (comunali) per educare ai rudimenti del canto e alla music appreciation i bambini veneti.
Ragionevoli intenti, quelli elencati, che potrebbero, se soddisfatti, sollevare Venezia da quello che, nel verbale della pubblica assemblea degli aspiranti fondatori (che tali resteranno, "aspiranti", per quasi un decennio), assemblea che sarebbe presieduta - se non fosse al momento gravemente ammalato - da Antonio Buzzolla, primo Maestro della Cappella Marciana ma anche sodale dei musici laici, l'avvocato Errera, subentrato appunto a Buzzolla alla guida della riunione, definisce, fra gli applausi, l'"ingiusto vergognoso sonno" della vita musicale veneziana (ingiusto perché in Venezia "quello della musica è un sentimento generale e spontaneo", ben più di quanto non lo sia a Milano, Firenze, Napoli, Bologna dove invece non si dorme, ma si "lavora"). Ragionevoli intenti, soprattutto se considerati nei loro termini economici. La fondazione di un liceo-società, se mai avvenisse, potrebbe infatti riassorbire l'avventata istituzione del Corpo della guardia, annullando il relativo capitolo già a bilancio municipale; potrebbe aprire, inoltre, una valida sottoscrizione di sostenitori privati (consimilmente a quel che si va facendo a Milano, a Firenze, a Bologna, con le società dei vari e cari Amici della Musica o "del Quartetto"); così come potrebbe ottenere il concorso dei cointeressati già gloriosi Corpi Morali musicali (quali sono il Teatro la Fenice e la Cappella Marciana). Del pari potrebbe immediatamente fornire servizi al presente mal condotti o inesistenti:
1. un "cartellone" di una o più stagioni di concerti pubblici, sinfonici, cameristici; 2. borse di studio per giovanissimi inclini alla musica poveri e meritevoli; 3. corsi di educazione al canto dei maestri comunali; 4. un'orchestra a disposizione per le parate municipali che potrebbero adeguatamente divenire degli eventi vocali-strumentali, rinomati e stagionalmente attesi, e per almeno due grandi serenate annuali all'aperto.
Tanta ragionevolezza, forse, appare più troppa che tanta sia al consiglio comunale che alla commissione municipale di finanza, i quali nutrono abbondantemente entrambi la loro inclinazione a resistere, a sopire, a rimandare, contrattando infatti - al limite dell'inverosimile - l'entità di un contributo di sostegno che pretendono d'ischeletrire ancor prima del parto del rinnovato Corpo della musica civica. Nel contempo i responsabili degli "organi comunali", si fa per dire, "competenti", deliberano di ridurre a nove sole mensilità lo stipendio dei musicisti arruolati nell'attuale Corpo di musica della guardia (incoraggiando verosimilmente in tal modo un ulteriore infiacchimento della volontà, del morale e della morale artistica degli orchestrali, già potentemente, tutte, facoltà d'abbassatissimo profilo); propongono, così, per l'istituendo nuovo istituto una sede assurdamente impropria all'uso di una scuola (che dovrebbe dar luogo a lezioni, esercitazioni orchestrali e concerti): ossia i piani terreni del palazzo Pisani, già sede del comando della guardia (locali angusti e ipertramezzati in un labirinto di sgabuzzini).
Sopraggiunge a questo punto morto la crisi e il decesso del primo consiglio comunale del dopo-dominazione, nell'agosto del 1868, con le dimissioni di Giustinian e della sua giunta, cui segue un interregno di inerte commissariamento romano, discretamente lungo, che mestamente si risolve solo dopo Natale (30 dicembre), con la elezione a sindaco del principe Giovanelli. Il nuovo sindaco esprime un consiglio molto rinnovato nel quale siedono dei soci, oramai di già molto "onorari", del non ancor nato liceo: come il succitato pianista-banchiere Koppel, per non dire di diversi amici o parenti di altri sedicenti "temerari" propugnatori della istituzione filarmonica (come il fratello di Contin, l'ingegnere Giuseppe, i conti Giuseppe e Ludovico Valmarana, entrambi notori promotori entusiasti del "Marcello", in specie Giuseppe, che ne diverrà secondo presidente).
Nelle trattative con l'assessore Balbi di Valier, subito aperte nel gennaio 1869, viene in luce che la suggestiva partecipazione dei Corpi Morali di già costituiti all'impresa (ossia Fenice e S. Marco) è più che altro morale. Anzi è solo morale.
Ecco infatti, in breve, come stanno i conti dei preventivi immaginari di un "anno I" che sembra non voler cominciare mai: delle 53.000 lire annue preventivate come minimo budget necessario per costituire un corpo insegnante (16.000 lire), il servizio di bidellaggio e accordatura (3.500 lire), l'affitto di una sala per scuola e concerto (6.000 lire), la dotazione di una biblioteca e di un minimo parco di strumenti (3.000 lire), lo stipendio dei suonatori della banda a contratto fisso per i concerti in Piazza da maggio a settembre (13.000 lire), il costo delle serenate civiche (3.000 lire) e dei concerti sociali (4.000 lire) e un fondo di riserva (2.000 lire), il Comune sembra non voler accollarsi altro che la quota a suo tempo già vagamente promessa da qualche responsabile dell'amministrazione Giustinian (30.000 lire).
La Società, per così dire, 'sogna' di poter contare su 10.000 lire prese in carico ordinario del Teatro (ma, nei fatti, le stesse sono precipitosamente negate dal delegato dello stesso Lazzari, presidente feniceo, che neppure si spinge a giurar più su un vecchio pourparler di 6.000 lire); la Società conta anche, sopravvalutando l'anelito di cultura musicale altodilettantesca supposto vivo o ancor vivo in città, su 10.000 lire di quote societarie di fantasmatici amateurs, i quali sono di fatto e perlappunto, praticamente introvabili (non s'andava oltre a una quotabilità prevista di 5.600 lire d'abbonamenti); nonché su 3.000 lire di dote marciana (dote che la Fabbriceria si affrettò a negare con molta decisione, approfittandosi, nell'esercizio della fretta, anche dell'aggravarsi infausto delle condizioni di salute del Maestro Buzzolla, il quale solo e da solo aveva sostenuto, nelle segrete della Procuratoria, la causa dell'istituendo liceo come urgente e necessario vivaio artistico per la rianimazione della Cappella)(8).
Pur restando tutto il progetto istituzionale quanto mai insabbiato il consiglio comunale delibera, con un vero e proprio abbandono ad una sorta di incomprensibile furor decostruttivo, la cessazione della banda a partire dal capodanno 1871; ed incarica, nel contempo, la giunta di trovare un modo "più idoneo" di restituire un "decoro musicale" alla città, "ma - si badi bene - con minor aggravio [economico]". La giunta, in tal modo sollecitata, proporrà una banda di 43 elementi al posto dei cessati 52.
Nel giugno dello stesso 1871, nel corso di una delibera che vara la nuova provvisoria orchestra per gli usi civici (diretta dal Maestro Cagnoni), il conte Valmarana fa mettere a verbale un lunghissimo articolo di promemoria a pro del rilancio del progetto del liceo più orchestra e banda più Società concertistica, cui il "facente-funzione" del sindaco (come di frequente assente) reagisce con fine allure diplomatica:
Il ff [facente funzioni] del Sindaco rilevando come le osservazioni fatte dai signori Consiglieri e in ispecialità del Conte Valmarana mirassero a scongiurare che con l'adozione della presente proposta [banda piccola e provvisoria] venisse ad essere dimenticato affatto il progetto della Istituzione del Liceo musicale, si lusinga che dopo le spiegazioni date ogni Dubbio sarà dissipato ed il Consiglio sarà persuaso che la Giunta non trascurerà punto di promuovere anche per la sua parte l'attuazione sollecita del detto Istituto.
Quelli che seguono sono anni difficili. Nel 1871 gli indigenti veneziani notificati, i poverissimi, i morti di fame, sono, in città, ben 36.000; i disoccupati son tanti; gli occupati sono occupati con orari schiavistici (16 ore al giorno). Torna ad infuriare il colera (a prova degli enormi problemi di polizia igienica, irrisolti). Per quel che significa, sia in immagine che in re, la banda è consegnata al fatale meccanismo della reiterazione coatta delle proroghe. Lo stesso istituto, sempre in stato larvale di "Corpo morale non riconosciuto", attende per cinque-sei lunghi anni di riunioni dei soci in questa o quella casa privata, prima di darsi uno statuto (stilato più volte, e più volte perfezionato nei dettagli codicillari dall'avvocato Errera) che lo metta finalmente in grado di costituirsi legalmente.
È solo nel gennaio del 1877 che dopo estenuanti trattative sull'entità delle dotazioni e degli oneri corrispettivi si arriva a decretare, in Municipio, un "sussidio compensativo" per la Società Benedetto Marcello di 37.000 lire annue, a partire dal capodanno del 1878. E questo sulla scorta di un importante, forse già da subito insostenibile, capitolato d'oneri (istruzione dei maestri all'insegnamento del canto ai bambini, banda cittadina, serenate ordinarie e straordinarie). Ed anche si decreta la locazione in un contratto con la contessa Giustinan, per 1.550 lire annue, della prima sede della società-liceo, sita al piano nobile del palazzo Da Ponte a S. Maurizio.
I fratelli Valmarana (in specie l'ingegnere) si impegnarono allora a provvedere all'adattamento concertistico della sala grande, in un euforico clima di fretta, tanto che il 18 aprile del 1877 si poté dar luogo ad una inaugurazione simbolica della istituzione con un grande concerto diretto dal Maestro Franco Faccio (una celebrità; di nascita veneto, ora naturalizzato milanese), in cui, prima di concludersi con un sonoro Alleluja händeliano, furono eseguite in concerto la Sinfonia in Do maggiore di Beethoven, una non ben identificata gavotta di Bach e un ancor meno identificato rigaudon di Rameau nella trascrizione per orchestra di Gevaert, e, con la partecipazione di una "diva del canto" à la page, qual era la vecchia delle due sorelle Marchisio, Barbara, il Diciottesimo Salmo di Marcello: Coeli enarrant gloria (della manifestazione inaugurale si scrisse con commenti forse fin troppo entusiastici in tutti i giornali locali, ed anche nei servizi degli "inviati" dei giornali nazionali e delle gazzette musicali). Dal novembre pertanto ebbero inizio le attività didattiche (benedette nel primo impianto da una commissione di tre personalità di rango nazionale: i Maestri Mazzuccato, Pedrotti e Bazzini), dirette da un validissimo Maestro non veneziano, importato, tra i migliori disponibili in Italia (il lucchese Fortunato Magi), il quale oltre al ruolo della direzione del liceo e della società s'attribuì anche le cattedre di fuga, contrappunto e composizione; furono così regolarmente attivati i corsi di teoria-solfeggio, canto (abbinato al flauto, grazie al caso della doppia formazione e della doppia fama, di cantante e di flautista, del Maestro Saverio Pucci), pianoforte e organo, violino-viola, violoncello, contrabbasso, oboe, clarino (idest clarinetto), fagotto e istrumenti d'ottone.
Furono quelli seguenti degli anni sofferentemente difficili, anni magri: i soci erano veramente pochi, e quei pochi che c'erano andavano di anno in anno calando (si passò in soli due anni da 260 iscrizioni a 93); la banda, di fatto condotta con assoluta autonomia e sfuggente ad ogni controllo artistico e amministrativo, giunse ben presto a mangiarsi 29.000 lire delle 35.000 del sussidio; per dar pubblicità alla precarietà insostenibile della struttura, dovuta alla penuria di risorse, Contin si dimise per ben due volte dalla presidenza, ritirando rassegnatamente, poi, le dimissioni, nel dipanarsi di una trama di docce fredde, fra le quali un soprassalto di incremento di dotazione a 57.000 lire che era andato subito in fumo con il carico, contestuale all'assegnazione, dell'onere dell'ingrossamento della banda da 53 a 60 elementi.
Però, come a volte (a volte sì a volte no) accade, nelle situazioni d'indigenza, la qualità dell'istituzione non scemò, quanto piuttosto, trasformatasi la penuria in un motivo di affermazione vitalistica e di rivalsa morale, ebbe, per così dire, ad accrescersi. Ne è prova il carattere di qualificazione dei programmi del Teatro che si fece notare nei momenti in cui l'attività 'artistica' incrociò con le attività civiche al Teatro la Fenice: in tali occasioni, con andamento crescente, le proposte artistiche che provengono dalla Società rappresentano dei veri momenti di crescita della cultura musicale in città, la quale, grazie ai maestri e agli allievi del liceo, scopre peraltro in sé una insperata vocazione d'interesse per la musica strumentale (in specie per la musica per orchestra d'archi): una vocazione che, in verità, la città non aveva mai posseduto, né mai nutrito, né forse neppure mai ambito raggiungere.
Per rintracciare i fili dei destini aperti, diversamente connotati, degli altri due Corpi Morali, il Teatro e la Cappella, converrà interrompere questa prima panoramica sul "Marcello" e restare in attesa di ritrovare il liceo nel 1895 all'avvio di una seconda fase storica: una fase di consolidamento e qualificazione che inizia con l'avocazione al Comune della intera sua struttura (questo, grazie alla lungimiranza intellettuale e amministrativa del nuovissimo sindaco, Selvatico): un'avocazione che di fatto fu, in sé, una rifondazione. Denominatasi liceo civico musicale la struttura, rinnovata, consentì al nuovo direttore, Marco Enrico Bossi - una personalità di prestigio indiscusso, tanto prestigiosa da essere ben presto catturata dai bolognesi, nel 1902, per la direzione del loro solidissimo liceo -, di perfezionare il progetto di normalizzazione e intensificazione della preparazione musicale dei molti iscritti emancipando, liberando dal limbo del libro dei sogni i soddisfacimenti, già insperati, di urgentissime istanze: alcuni ragionati acquisti di strumenti adeguati; un visibile incremento dei corsi (organo, arpa, corno, arte scenica, armonia complementare, terza cattedra di pianoforte complementare, una cattedra di pianoforte principale aggiunto); due buoni pianoforti moderni (Bösendorfer) al posto dei vecchi aggeggi procurati dal racket dei "noleggi"; delle vere esercitazioni orchestrali ad organico pieno; il trasloco del tutto in una sede non più d'accatto: al palazzo Pisani di S. Stefano; il consolidamento di alcuni legami istituzionali importanti (come quello con l'Esposizione internazionale d'arte - la futura Biennale); il progetto e la rapida costruzione di un nuovo organo da gran concerto e di concezione moderna (ditta Vegezzi-Bossi); la istituzione di una impegnativa biblioteca didattica dotata di opera omnia e Denkmäler; l'assunzione della responsabilità di concerti con grandi direttori ospiti, ecc. In una delle sue ultime relazioni annuali sullo stato del liceo, prima di prendere la via di Bologna il 1° novembre 1902, il direttore Bossi, vanta, accanto alle dichiarazioni di alcune insostenibili mancanze, molti successi:
il numero dei "saggi" è salito a otto, cifra mai raggiunta da nessun conservatorio musicale del Regno; la stampa estera, in specie le riviste musicali tedesche, esaltano i risultati del liceo (vengono inviati da governi stranieri osservatori a studiarne l'ordinamento); fra i diplomati ci sono grosse affermazioni: la signorina Giacomini che già batte le migliori scene italiane, la Gianesi che sta affermandosi, il Baradel che è stato scritturato al Costanzi, il Pasetto che suona nell'orchestra di Roma, la signorina Scattola annoverata fra le migliori pianiste italiane, il Bas incaricato di una nuova scuola d'organo nel meridione d'Italia, i violoncellisti Guaita, Corradini e Antonio Guarnieri (futuro celebre direttore d'orchestra) si fanno onore ovunque, il clarinettista Gallina è stato applaudito a Padova […]; i migliori allievi sono tutti troppo poco abbienti, senza aiuto di munifiche persone o di borse di studio pubbliche non potranno più frequentare (troppo alte sono le tasse); manca una classe di storia o di estetica della musica, gli allievi non hanno dimestichezza con le idee dell'arte, diverranno bravi musicisti ma ignoranti; la scuola popolare corale va assottigliandosi, potrebbe essere soppressa, date le modestissime prospettive di assunzioni da parte della Cappella che licenzia più che assumere cantori; gli allievi non hanno strumenti, si presentano alle prove d'esame con strumenti prestati dai professori; gli stessi professori posseggono strumenti di nullo valore, occorrerebbe fondare una associazione di soccorso dei professori d'orchestra [...].
Venendo dunque via, per ora, dal liceo che lasciamo orfano del suo primo importante direttore-manager, e portandoci al Teatro la Fenice troviamo essere quel Corpo Morale un ente societario a struttura settecentesca: un edificio in proprietà con connesse responsabilità di manutenzione e con l'obbligo di un programma di gestione pubblica e artistica appartenente e attribuita dai e nei fatti a un drappello storico di "palchettisti" abbienti ma non troppo, che aveva chiuso drasticamente i suoi battenti nel 1859 (tra l'altro ad esito di una programmazione particolarmente grigia: due infelici nuove creazioni - una commissionata e una in ripresa fulminea da Roma: Una notte di festa di Solera-Villanis e il Saltimbanco di Checcherelli-Pacini). La chiusura, politicamente condizionata dallo spirito di rappresaglia degli austriaci, era stata gestita (se mai può essere concettualmente apprezzabile l'idea della gestione di un nulla di fatto) dal presidente della Società del teatro, il podestà Alessandro Marcello, dal consigliere delegato asburgico conte Karl Breinl di Wallenstern, dal poeta di teatro e régisseur Francesco Maria Piave, dal segretario tuttofare Giovanni B. Tornielli.
Riapre, il Teatro, nel '66, a Italia bella-e-fatta, con ben poche novità nella sua configurazione amministrativa (ancora la stessa società proprietaria, ma nuovo il sindaco, Giustinian, alla presidenza, al posto di Marcello, e, nella stessa dirigenza, un certo qual convinto rispetto di un buon tasso di conservazione di figure e figuri del vecchio regime: vedi il ragioniere tesoriere Brenna, tiranno amministrativo di verdiana memoria, di ritorno; e, immarcescibile a ogni mutamento, forse ignaro dei mutamenti stessi, il tenace segretario, ora vicepresidente, G.B. Tornielli).
Per la Fenice 'risorgimentata' non ha di certo valore alcuno o corso alcuno il celebre adagio del principe Fabrizio di Salina: il complesso del trend di 'riavviamento' postrisorgimentale è molto meno sofisticato di quello espresso dal motto gattopardesco, in quanto si limita a suonare, al basso, piuttosto lapalissianamente così: lasciare tutto come prima affinché resti tutto come prima.
In effetti, nella lunga storia del principale Teatro lagunare successiva all'unificazione, la prima cosa notabile sembra essere l'esiguità del mutamento, progressivamente sempre più impalpabile, dell'impianto gestionale, talora indecifrabile, per eccesso, forse, di fatui dettagli (come si dà nei ricorrenti o sporadici casi di coinvolgimenti societari, o nelle apparizioni/sparizioni di spettri di nondum in lucem dati enti coproduttori o corresponsabili, nel basso scintillare di effimere associazioni cooptate al teatro o cooptanti il teatro, vuoi locali, vuoi localissime, vuoi nazionali, vuoi transnazionali [in specie quando la fu Serenissima, ora capace di tutto, comincia a interessare come una delle tre patrie dell'Asse ai "nazi" o ai giapponesi], vuoi di partito). Tali micromutazioni corrispondono a una serie imponente di revisioni della disposizione, capricciosissima, della cosiddetta "stagione" (si arriva al punto, nella serie di permutazioni possibili, di dar luogo a una risibile "stagione quaresimale di operette" [!]), con conseguenti rimescolamenti vertiginosi delle etichette dei cartelloni, quasi folli o folleggianti nella loro stagionalità-transtagionale (autunni prolungati oltre l'inverno; primavere anticipatissime sino ai capodanni; Carnevali improbabilmente fagocitanti Quaresime; torridissime estati, in ogni senso, però, "straordinarie"; intrusioni di cicli autonomi molto prolungati - ovvero di assurdi brevissimi cicli di tre-due manifestazioni, quando non addirittura di una soltanto - con imprevedibili infittimenti delle programmazioni, tali da rendere inimmaginabile un men che normale piano-prove).
Il secondo aspetto enigmatico della resistente esistenza del teatro è la realtà, sempre solo supponibile, della stessa esistenza o meno di una vera "orchestra del teatro" (non di certo stabile, ma perlomeno abbastanza identificata, artisticamente; la inidentificazione si rispecchia, un po' in negativo, in alcune manifestazioni nelle quali si renderà visibile, specie nelle occasioni che fanno richiamo per la presenza di direttori in odore di celebrità, la necessità di un ricorso all'ospitalità di orchestre esterne - da Bologna, da Roma [Augusteo], dalla Germania, al seguito dei "nazi" occupanti o pre-occupanti, oppure dei più osservanti "wagneristi" in pellegrinaggio). Progressivamente, sulla scia dell'esempio dell'orchestra societaria del liceo degli esordi, per gradi, con poussées distanziate di incremento e remissione del fenomeno, compaiono, nel corso di frazioni di tabellone più organizzate, ombre di istituti orchestrali che vanno auspicando una sorta di stabilità, intitolandosi genericamente, aggettivalmente, alla città, ovvero a questa o quella neonata o rinata istituzione filarmonica cittadina, o anche al proponimento di una supponibile, ma improbabile specializzazione (vedi le varie accademie di musica "antica").
Quel che potrebbe risultare ancor più enigmatico è il fenomeno, ben visibile nelle cronologie, della costanza, ostinatissima, del repertorio, che si verifica nella fatale ricorrenza di pochi pacchetti di titoli di opere abitualmente messe e rimesse in scena (senza che ancor sia nato o attivo il recente istituto, oggi massimamente in fiore, del legittimo e continuo-infinito "rinnovo" poetico dei contenuti e delle forme delle opere più note per grazia del contributo di interpretazione "registica", aperto alle sorprese delle più o meno radicali, profonde e sconcertanti riletture degli archi-testi del repertorio stesso), con l'eccezione, forse, della rilevanza di una certa appariscente inclinazione, nel periodo che va dalla riapertura alla chiusura del Teatro nel periodo di Caporetto e degli sfollamenti, a investire in programmazioni di grand-opéras, con la programmazione di 'mastodontiche' opere francesi o "alla francese" di soggetto storico (non di raro aurato da nostalgie patriottiche, a Risorgimento finito) e con forte connotazione di colore locale, nonché ben dotate di cori e balli (dai prototipi di Meyerbeer e Gounod, in traduzione, alle imitazioni italiane di Donizetti [Favorita], Verdi [Vespri], Ponchielli [Gioconda], Boito [Mefistofele], Franchetti [Ruy Blas]).
Ho detto poco sopra "potrebbe risultare enigmatica" (la rigidità della offerta) perché in effetti l'inossidabile rispetto della costanza del repertorio non deve essere spiegata in termini di proprietà culturale, in quanto quel che si produce in scena, lasciandola dov'è, nella dimensione del sogno, la pretesa connotazione della conservazione di un patrio ambito di creazione culturale, altro non è invece che un 'passaggio per Venezia' di eventi della circolazione impresariale di opere che girano "per piazze", in specie in provincia, in assetti spettacolari di routine e noleggio. Ciò risulta bene anche quando si leggono i manifesti delle programmazioni portando attenzione ai nomi degli impresari che appaltano per diversi anni, con un qualche sprazzo di relativa alternanza - già che per motivi d'ordine fallimentare gli impresari limitano le responsabilità delle loro società scaricando su nomi imprendibili le titolarità bancarottate -, grandissima parte delle stagioni liriche: tutte imprese (quelle appaltanti con la formula di contratto "di libera gestione", ovvero imprese libere di inscenare quel che volevano o potevano) notoriamente impegnate in ri-circolazioni provinciali di spettacoli di consumo, non di raro anche di spettacoli fin troppo "economici", e ciononostante sempre sull'orlo del fallimento: compagnia Cesàri, impresa Frisotti, impresa Ghin, impresa Corti, Romei, Prestini, Bolcioni, Barbacini, Mazzanti, Lucchesi, Longone, Comolli-Trevisan, Petroni-Finetti, Nardello, Loschi…
Un'osservazione si impone comunque al riguardo di un aspetto molto problematico per la interpretazione di questo scorcio di storia veneziana. L'ex capitale Venezia non vuole, non può mancare al rispetto di una istanza vitale che si può identificare forse in un'idea fissa: l'idea di dover mantenere il passo con altre capitali alle quali, nello specchio ben riflettente del proprio Teatro lirico, quando aperto, ancora ogni tanto, piuttosto non di rado, capita di essere sede di una creazione artistica originale che poi 'fa epoca' illustrando di conseguenza anche il luogo di nascita della nuova creatura immortale (nel tempo della nostra indagine penso alle "prime" - nessuna mai veneziana - di vere opere degne dei fasti del repertorio quali Aida, Gioconda, Otello, Bohème, Tosca, Cavalleria rusticana, Madama Butterfly, Adriana Lecouvreur, Andrea Chénier, Amico Fritz, Turandot…). Che quest'assunto sia onorato a Venezia, con un notevole impegno a 'battezzare' opere nuove con una abbastanza fitta e regolare iniziativa di programmazione di "prime" assolute, è indiscutibile. La seguente tabella (che allinea una cronologia di premières che significativamente spingerò fino al 1961) ci mostra che lo sforzo della presentazione di "novità" è sostenuto a Venezia, diligentemente. Diligentemente, ma con sfortunatissimo rigore. Sfortunato rigore, perché, come eloquentissimamente ci dimostra la tabella, non un colpo sparato sembra andare a segno. Questo sino a un certo punto, però, quando, a seguito di un autentico giro di boa che cade attorno agli anni '50-'51 e seguenti, questa stessa situazione si rovescia (indicherò il punto in tabella con un segno d'asterisco *), dandomi in tal modo il destro per una riflessione conclusiva, che ovviamente rimando alle ultime pagine di questo scritto. Faccio dunque seguire, impacchettata, una sintetica tabella cronologica di prime rappresentazioni d'opere liriche avvenute a Venezia e per Venezia:
Una notte di festa Solera-Villanis 1859; Il Saltimbanco Checcherelli-Pacini 1859; Linda D'Ispahan Francesco Malipiero 1871; Contessa di Mons Lauro Rossi 1876; Cleopatra Golisciani-Bonamici 1879; Cola di Rienzo Bottura Ricci-Stolz 1880; Festa a marina Fontana-Coronaro 1893; Don Paez Bartocci/Fontana-Boezi 1893; La Bohème Leoncavallo 1897; Tartini o il trillo del diavolo Fleres-Falchi 1900; [Federigo] Chopin Angelo Orvieto-Giacomo Orefice 1903; Il Santo opera mistica Sugana-Ghin [N.B. il musicista è anche l'impresario per la stagione] 1903; Pane altrui Orvieto-Refice 1907; Jana scene sarde Aliaga-Virgilio; Marcella Lorenzo Stecchetti-Umberto Giordano 1908; Il figlio del mare scene liriche Antonio Beltramelli-Antonio Cicognani 1908; Eidelberga mia! Colantuoni-Pacchierotti 1908; La Leggenda del lago Pusinich-Veneziani 1911; Melisenda Pietro Rossi-Carlo Merli 1913; Bianca Cappello Fleres-Lozzi 1913; Il mistero Verga-Monteleone 1921; Il principe e Nuredha Maria Star-Guido Bianchini 1922; Il carillon magico Pick-Mangiagalli 1924; Radda scene zingaresche Bepi Bianchini-Guido Bianchini 1924; Anna Karenina Igino Robbiani 1926; La mandragora Castelnuovo-Tedesco 1926; Samaritana della Scala da Polenta Gastone Costa-Vincenzo Gusmini 1927; Fata Malerba Salvatori-Gui 1927; Rosmunda Erardo Trentinaglia 1929; Le astuzie di Colombina Bepi Larese-Guido Zuffellato 1932; Romanticismo Rossato-Robbiani 1933; La Baronessa di Carini Francesco Paolo Mulé-Giuseppe Mulé 1934; Baldo Giovanni Ascanio Cicogna 1935; Lo stendardo di San Giorgio Forzano-Peragallo 1942; Dafni Ettore Romagnoli-Giuseppe Mulé 1943; La collina Peragallo 1947; Il ponte delle meravegie Adami-Bianchini 1950; Le preziose ridicole Rossato-Lattuada 1951; Delitto e castigo Forzano-Pedrollo 1953; La luna dei Caraibi A. Lualdi 1954; *…*; The Rake's Progress Auden/Kallmann-Stravinskij 1951; La Clementina zarzuela di Luigi Boccherini 1951; La favola del figlio cambiato Pirandello-Malipiero-(Strehler) 1952; L'apostrophe Balzac-J. Françaix 1953; The Jumping Frog of Calatravas Mark Twain-Lucas Foss 1953; Partita a pugni Conosciani-Tosatti 1953; Amahl e gli ospiti notturni Menotti 1954; The Turn of the Screw Piper-Britten 1954; L'angelo di fuoco Prokof'ev-(Strehler) prima mondiale in trad. it. di Mario Nordio 1955; Il cappello di paglia di Firenze Ernesta Rota/Nino Rota-Nino Rota 1955; Il console Menotti 1957; Der Revisor Werner Egk 1957; Vergilii Aeneis Malipiero 1958; Diagramma circolare Bona-Bruni Tedeschi 1959; Il circo Max Gino Negri 1959; Mondi celesti e infernali Malipiero-(Bolchi) 1961; Ercole amante [Paris 1662] Francesco Cavalli-rev. R. Nielsen 1961; Intolleranza 60 (Ripellino)-Luigi Nono-(Maderna, Svoboda, Vedova) 1961.
Un altro quadro cronologico, basato sulla estrazione di altri dati omogenei, nella pura e semplice ostensione degli eventi che si evidenziano nella estrazione stessa rivela il carattere, forse poco evolutivo, ma comunque sempre significativo, di un cursus di servizi di rappresentanza della città, per la città, sostenuti dal Teatro secondo forme o formule abbastanza rattrappite sia attorno a qualche nucleo di socializzazione (gli oboli degli spettacoli benefici), sia attorno all'obbligo della pubblica onoranza del potere o dei poteri in visita, o di preclare occasioni (gala reali, gala militari; onoranze ai vivi presenti in sala e commemoriali dei morti indigeni - o dei morti in stato di visita, come nel caso del tentativo di farsi, Venezia, onorando cerimonialmente Wagner morto a Venezia, città "wagneriana"; gala di saluto di congressisti arrivati in laguna da ogni dove, ovvero di climax d'orpello per le inaugurazioni di esposizioni - a volte gala che prendono due piccioni con una fava salutando sia la presenza di una, o più, possibilmente più, autorità, sia, nel contempo, un evento in corso di svolgimento sulla scena reale della città). Prima di far discendere la tabella dei gala fenicei mi preme anteporre un consiglio all'uso della stessa. Nella sua lunga e noiosa dispositio la tabella si tripartizza da sola, nella evidenza dei suoi dati; gli eventi artistici posti in stato di "gala" finiscono infatti per categorizzarsi da soli
in una serie (a) di incontri altamente fortuiti fra l'evento celebrato e la manifestazione artistica che vorrebbe o dovrebbe celebrarlo [l'evento] e quasi mai, per motivi statistici, serve allo scopo, in quanto quel che l'impresario ha in programma per la messa in scena del giorno "x" è quel che è, così come l'evento è quel che è, e pertanto la possibilità statistica della attuazione di un nesso allegorico o simbolico fra evento e manifestazione è alquanto improbabile, nel mentre che molto più probabile è invece l'effetto contrario: la coincidenza assurda, la comica combinazione di manifeste illogicità di rapporto di senso, l'umorismo involontario di qualche scoppiettio dissacratorio; in una serie (b) di "dediche" si nota un volonteroso arrancare verso una meta di creazione di senso, sensibilmente marcata da una certa acerbità di pensiero, impreparazione culturale, provincialismo, debolezza di "gusto" o scivolamenti nel démodé (altra cifra del provincialismo), fraintendimenti vari di ipotesi di qualificazione intellettuale o sociale del tempo libero; in una terza, minuscola, mingherlina serie (c) di connessioni evento/manifestazione si nota l'aleggiare di un'aura di effettiva esperienza in atto di rinnovamento e di ricerca (ad esempio, per la città con gli artisti, o per gli artisti con la città) di una ragione innovativa o utopica dell'esserci, attivamente o passivamente, da produttore o da pubblico, in quella specifica situazione, in stato di effettiva presenza, non decaduta, non morente, ma sopravvivente (magari con l'orgoglio della stessa coscienza della decadenza lucidamente intesa, o della sublime vita dopo la morte), quanto, piuttosto, presenza progressiva, ovvero provocatoriamente critica, ovvero progettuale-desiderante (ed è a questo aspetto, un po' consolante, che dedico, nella tabella, il taglio cronologico della stessa tabella là dove lo faccio cadere).
Ciò premesso, chiedo spazio per una sorta di 'intavolatura'/regesto/registro dei gala fenicei sorvolanti le chiusure del Teatro, indicati sinteticamente per date (annata; quindi giorno e mese in numeri successivi arabo-romani; intitolazione del gala o dell'evento salutato in musica e spettacolo; titolo o minima descrizione della manifestazione artistica dedicata).
1859 12.II Il profeta. Recita a benifizio della Scuola di ballo del teatro stesso; 26.II Fausta di Donizetti e Rodolfo di Gerolstein, ballo. Recita a benifizio dei poveri amministrati dalla Commissione Generale di Pubblica Beneficenza; 7.III Recita a benifizio della Pia Istituzione dell'Orchestra.
[Totale chiusura delle attività del Teatro nell'ultimo scorcio della dominazione austriaca]
1866 8.XI Cantata di A. Buzzolla: Venezia liberata, al suo re (testo di Jacopo Cabianca) e ballo e cavalchina, alla presenza di Vittorio Emanuele II, Teatro illuminato a giorno a spese del Comune; 10.XI Ballo in maschera con altro ballo e cavalchina dopo l'opera alla presenza di Vittorio Emanuele II, Teatro illuminato a giorno; 26.XI Rappresentazione straordinaria "a parziale vantaggio dei Poveri": concerto del flautista del De Vroye: I Atto del Ballo in maschera, concerto, ballo del coreografo: Giorza Un'avventura di Carnevale, quindi concerto.
1867 21.II Lucia di Lammermoor con "canto al mezzo" dell'inno al re d'Italia: recita a vantaggio dei poveri; 28.II Matilde di Shabran, alla presenza di Giuseppe Garibaldi; 14.III Teatro illuminato a cura del Comune per il compleanno del re e del principe ereditario; 6.IV Concerto sinfonico corale, con lo Stabat Mater di Rossini, per la raccolta di fondi per un monumento a Manin.
1868 14.III Natalizio del re, Teatro illuminato a giorno, Contessa di Egmont, ballo; 22.III Recita in memoria della giornata gloriosa del XXII marzo, Africana di Meyerbeer.
1869 2.III Beneficiata per i poveri, Ebrea; 14.III Teatro illuminato a giorno per il natalizio del re (con luce elettrica), Don Carlos; 28.III Beneficiata per la Pia Istituzione Orchestra.
1870 14.III Gala per il natalizio del re, Lucrezia Borgia; 31.III "Galla" della Associazione Orchestra, beneficiata: Roberto il diavolo di Giacomo Meyerbeer.
1871 14.III Illuminazione grande del Teatro per il natalizio del re d'Italia, Gli Ugonotti; 29.III Gala per l'Associazione Orchestra, beneficiata, Gli Ugonotti; 5.IV Serata (con Teresa Stolz, prima Aida) con la Messa di Requiem per Rossini di autori diversi capitanati da Giuseppe Verdi, promotore e autore del Libera me finale; Beneficiata per gli orfani del Maestro Buzzolla, scomparso (autore del Kyrie della Messa stessa, succitata, commissionata da Giuseppe Verdi a grandi, piccoli e medi "maestri" locali nazionali).
1874 14.III Illuminazione grande per il natalizio del re d'Italia, Guglielmo Tell. 1877 16.IV Inaugurazione Società Benedetto Marcello a palazzo Da Ponte; 26.XII Inaugurazione nuovo sipario di Paoletti.
1878 14.III Illuminazione grande per il natalizio del re d'Italia, Mefistofele; 22.III Gala in memoria del XXII Marzo, Re di Lahore; 19.IV Concerto diretto da Fortunato Magi per festeggiare la nascita del principe ereditario, decentramento al liceo.
1881 11.IX Aida, recita di gala per il Congresso Internazionale Geografico e della Trasmissione Telefonica del Suono, con l'intervento delle loro maestà, illuminazione elettrica grande, a cura del Municipio.
1882 14.III Illuminazione grande per il natalizio del re d'Italia, Margherita di Zanardini e Pinsuti; 24.XII Al liceo "Benedetto Marcello", concerto privato: Sinfonia di Wagner diretta da Wagner per il compleanno della moglie Cosima. 1883 19.IV Compagnia del Teatro Wagner Neumann: Tannhäuser, Ouverture e Marcia funebre dal Götterdämmerung eseguita in barca, in Canale, davanti a Ca' Vendramin Calergi, e replicata, poi, il 20.IV nelle Sale apollinee.
1885 31.VII Gala con intervento delle maestà reali, Linda di Chamonix.
1886 28.VII Gala con intervento della regina Margherita, La Favorita.
1887 24-28.IV Recite straordinarie per l'occasione della Esposizione Nazionale Artistica, La Gioconda.
1889 10.III Beneficiata per i Naufraghi chioggiotti, gli Asili Notturni, le Cucine Economiche, e l'Educatorio Rachitici, Carmen; 14.III Illuminazione grande per il natalizio del re d'Italia, Amleto.
1890 13.III Marcia funebre del Götterdämmerung in memoria di Wagner nel settimo anno dalla morte.
1891 8.VII Cenerentola, Gala con l'intervento delle loro maestà.
1892 6.I Asrael di A. Franchetti: Gala in onore dei componenti della Conferenza Sanitaria Internazionale; 29.II Centenario della nascita di Rossini: Accademia con selezioni da Semiramide e dal Guglielmo Tell e l'intero Atto III di Asrael di Franchetti.
1893 14.III Illuminazione grande per il natalizio del re d'Italia, I Rantzau di Mascagni; 22.III Illuminazione grande per la festa del XXII Marzo, Sansone e Dalila.
1894 4.II Gran veglione mascherato prima della stagione; 6.IV Il barbiere di Siviglia, Gala alla presenza delle reali maestà, dell'imperatore di Germania, e del re d'Austria; 23.IV Serata di gala Torneo Nazionale di Scherma.
1895 24.II Cavalchina promossa dalla Società Verdi, con banda militare gentilmente concessa; 2.V Gala per l'Esposizione Internazionale d'Arte, Cristoforo Colombo di Franchetti; 4.V Gala per il Torneo d'Armi, Cristoforo Colombo di Franchetti.
1896 11.V Concerto inaugurale della Mostra Tiepolesca, direttore M.E. Bossi: musiche di Mozart, Lotti, Boccherini, Marcello, Haydn, Beethoven, Wagner, Saint-Saëns.
1897 18.IV Gala per la Esposizione Internazionale d'Arte, Werther; 29.IV Gala alla presenza della principessa Elena, Werther; 15.V Gala per la visita del principe del Siam, Werther.
1898 1.IV e 3.IV Beneficiata per il Mutuo soccorso Bambini e Poveri, promossa dalla Associazione G. Verdi e dalla Associazione Isabella di Savoia: concerti sinfonici diretti da Mancinelli; 23.VII Beneficiata Comitato Fanciulli Poveri: oratorio di Perosi Risurrezione di Lazzaro.
1899 24.IV e 2.V Gala inaugurale della Esposizione delle Arti di Venezia, Mefistofele e Inno all'arte di Pellegrino Orefice.
1900 6.II Ballo Excelsior per il Gala della Marina Argentina; 13.II Commemorazione di R. Wagner, Maestri Cantori; 20.II Gala in onore di Mascagni, Iris-Excelsior.
1901 18.II Commemoriale per la morte di Verdi: Concerto sinfonico-corale; 28.IV Traviata, per il gala d'inaugurazione della Esposizione Internazionale d'Arte e per la commemorazione di Giuseppe Verdi; 6.V Conferenza di Gabriele d'Annunzio, org. Lega Navale Italiana: lettura della Canzone di Garibaldi e altro.
1902 10.II Grande cavalchina, a favore della Pia Istituzione Orchestra.
1903 8.I Gala per il genetliaco della regina Elena, Chopin di Orefice.
1904 19.XII Concerto del Comitato Feste d'Autunno: direttore Giuseppe Martucci.
1905 24.IV Gala per l'inaugurazione dell'Esposizione Internazionale d'Arte: La vita nuova, oratorio di Wolf-Ferrari.
1906 19.I Beneficiata Asilo figli derelitti pescatori dell'Adriatico, Tosca; 12.II Beneficiata per l'Asilo dei Senzatetto, Lohengrin; 19.II Associazione della Stampa Veneta, Gala: Lohengrin seguito dalla cavalchina.
1907 4.II Dopo l'opera: cavalchina e ballo mascherato su temi goldoniani, dirige T. Serafin, Carmen; 19.III Beneficenza: Concerto della Orchestra Sinfonica veneziana diretta da P.A. Tirindelli; 27.IV Inaugurazione della VII Mostra Internazionale d'Arte, Amica di Mascagni; 11.V Gala alla presenza del re, illuminazione a giorno, Amica; 16.V Serata in onore di Mascagni, Amica.
1909 13.II Serata in memoria di R. Wagner, Tristano; 23.II Cavalchina dopo il Tristano.
1910 8.I Marcia reale prima dello spettacolo per la regina Elena nel giorno del suo genetliaco, Valchiria dir. Guarnieri; 18.III Serata di beneficenza per gli alluvionati di Francia, patronato del Consolato di Francia: concerto del violoncellista von Zweygsberg, dopo il concerto Aldo Oberdorfer legge alcune poesie di Carducci e D'Annunzio; 23.IV Nona Esposizione Internazionale d'Arte e Celebrazione del centenario della prima veneziana della Cambiale di matrimonio; 3.V Missione Ottomana in Venezia: Gala con esecuzione dell'inno turco, quindi Cambiale di matrimonio e Guglielmo Tell; 11.XI Gala per il genetliaco del re, Dannazione di Faust; 15.XI Gala d'onore per l'equipaggio della nave tedesca "Victoria Louise", con canto dell'inno tedesco prima dell'opera, Dannazione di Faust.
1911 8.I Gala per la regina Elena presente all'opera, Rigoletto; 26.III Mattinata in onore delle navi imperiali germaniche, Lohengrin; 25.IV Per la festa di s. Marco alla presenza del duca degli Abruzzi, Marcia reale prima e poi Gioconda. 1912 14.I Gala in onore di Pietro Mascagni, Isabeau; 20.IV Gala per la vittoria delle armi italiane, Marcia reale, e poi Norma; 26. IV Gala per l'inaugurazione del nuovo campanile di S. Marco, "com'era dov'era", Barbiere di Siviglia.
1914 27.I Cavalchina d'oro a beneficio delle opere pie cittadine e cassa mutua previdenza della Associazione Stampa; 23.IV Gala per l'inaugurazione della Esposizione Internazionale d'Arte: aboliti i posti in piedi in platea, Falstaff; 5.V Gala municipale in onore della squadra inglese, Parsifal.
1915 12.III Concerto di beneficenza per le vittime del terremoto di Avezzano, promosso dalla Associazione Stampa Veneta: musiche di Cherubini, Bizet, Glazunov; 10.X Concerto benefico del Comitato cittadino per la difesa civile, con conferenza dell'on. Raimondo.
[Il Teatro rimane chiuso sino al 1920]
1920 24.IV Gala, presente in sala Giacomo Puccini, con esecuzione del Trittico; 12.V Gala inaugurale della Esposizione Internazionale d'Arte, ancora il Trittico pucciniano.
1921 19.XI Comitato Pro Venezia, concerto diretto da A. Toscanini come anteprima della tournée americana: musiche di Respighi, Beethoven, Lualdi, Tommasini, Wagner, Rossini; 7.XII Inaugurazione del servizio del vaporetto notturno da riva Schiavoni per Fusina e per S. Giuliano: onde favorire il ritorno a casa a mezzo tram del pubblico di terraferma; 9.XII Gala municipale per l'emiro Sayed Idris el Senusso, Teatro illuminato a giorno, Loreley.
1922 6.II Grande serata goliardica, Addio Giovinezza di Oxilia-Petri; 4.V Gala d'onore per il principe ereditario, Matrimonio segreto; 16.V Gala per il re d'Italia presente in sala, Manon; 26.VI Serata settecentesca a beneficio del Tempio votivo del Lido: Orchestra della Accademia Veneziana di Musica Antica, musiche di Galuppi, Pergolesi, più III Atto, recitato in prosa, della Casa nova (dal comm. Emilio Zago); 11.XI Gala per il genetliaco del re, Yuschi tanzt; 26.XII Inaugurazione del servizio di vaporetti del dopo-teatro per la Ferrovia (da Rialto).
1923 15.V Festa del IV anno accademico del Teatro Educativo "Giacinto Gallina", a beneficio degli orfani e delle madri vedove dei caduti: Accademia Veneziana di Musica Antica, concerto pergolesiano; 2.VI. Gala in onore del capo del governo (Benito Mussolini) presente in sala, I quattro rusteghi; 28.VI Festa del XXX della Società di Mutuo soccorso Giuseppe Verdi: concerto sinfonico-corale diretto da A. Guarnieri; 4.XI Gala per l'anniversario della Vittoria: Carmen; 11.XI Gala per il genetliaco del re, Carmen; 8.XII Serata in onore di Pietro Mascagni: Il piccolo Marat.
1924 13.II-23.III Stagione quaresimale [!] di operette della Compagnia Lombardo; 16.III Grande serata per solennizzare l'annessione di Fiume all'Italia con l'intervento del direttorio del Partito Nazionale Fascista: dopo il secondo atto fu data la grande apoteosi di Fiume nelle braccia della madrepatria, Il paese dei campanelli; 30.III Concerto per l'inaugurazione della Esposizione Internazionale d'Arte, violino, danza e canto, Nelson (La morte del cigno, danza), Koncz (Corelli, La Follia), Pelasko (Niemann, Serata sul Nilo, danza), De Witt (Ho visto il mio pianto, canto); 25.IV Grande serata gala con intervento delle loro maestà, re e regina, accompagnati dall'eccellenza Giovanni Gentile, Le Donne curiose, Wolf-Ferrari; 20.IX Gala anniversario della vittoria, Bohème.
1925 21.I Commemorazione di Giacomo Puccini (conferenza di A. Lualdi) con esecuzione del quintetto di Puccini: Crisantemi, poi Mefistofele; 21.IV Gala del Natale di Roma, con Marcia reale e inni patriottici inframmezzati all'opera Boris Godunov; 25.IV Gala esposizione opere d'arte dei combattenti delle Tre Venezie, alla presenza di S.A.R. il duca di Bergamo, Francesca da Rimini; 27.IV Gala per gli orfani di guerra, concerto di I. Paderewsky (Chopin); 28.IV Gala della Confederazione Nazionale Industria, Boris Godunov; 4.V Gala Corporazione nazionale e del Comitato Pro Fenice, oratorio Mosè di L. Perosi; 23.XI Gala in occasione delle nozze auguste della principessa Mafalda di Savoia con Filippo d'Assia, La cena delle beffe; 28.XI Gala in onore di Umberto Giordano, La cena delle beffe.
1926 11.III A beneficio della Pro Infanzia Venezia e del Villaggio Duca degli Abruzzi in Somalia, La bella addormentata nel bosco di Gino Tagliapietra; 22.VIII Grande concerto vocale a beneficio delle Opere Pie veneziane, con la partecipazione gentilmente concessa di Beniamino Gigli; 26.IV Inaugurazione della Esposizione Internazionale d'Arte, Il barbiere di Siviglia; 12.IX Gala in onore del generale Umberto Nobile, Teatro sfarzosamente illuminato a giorno, Turandot.
1927 18.I Gala in onore di S.A.R. il duca di Bergamo, Trovatore; 26.I Gran ballo, dopo la recita, del Circolo della Spada, Trovatore; 25.II "Gran Cavalchina orientale con mercato arabo": sul palco, due orchestre jazz band; 20.IX Gala per la festa del XX Settembre, La sonnambula; 25.IX Gala per il principe ereditario con l'intervento degli aviatori partecipanti alla coppa Schneider: L'italiana in Algeri; 28.IX Gran gala in onore del vincitore della coppa Schneider, con l'intervento degli aviatori concorrenti, La fata Malerba di Salvatori-Gui.
1928 17.II Serata di beneficenza in costume sul tema Giardini con due jazz band; 3.V Gala per l'inaugurazione della Esposizione Internazionale d'Arte della città di Venezia alla presenza del duca di Bergamo, Aida.
1929 8.IX Gala alla presenza del principe di Udine, I misteri dolorosi di Nino Cattozzo; 10.IX Gala in onore delle squadre britannica e italiana, I misteri dolorosi di Nino Cattozzo; 13.IX Gala in onore del principe di Piemonte, I quattro rusteghi; 15.IX Gala in onore dei partecipanti alle gare motonautiche, I quattro rusteghi; 16.XI Serata inaugurale della Esposizione del Settecento, concerto del coro del Teatro alla Scala: musiche polifoniche di tradizione antica e folklorica italiana.
1930 3.III "Cavalchina andalusa" con l'orchestra d'archi in platea e una jazz band sul palcoscenico; 4.V Serata inaugurale della XVII Biennale d'Arte, concerto diretto da O. Respighi; 9.V Serata in onore della Squadra Navale germanica: concerto dell'Orchestra di Monaco diretto da O. Fried; 2.VI Concerto a beneficio della Società Veneziana contro la Tubercolosi: concerto del violinista Ferenc de Vecsey; 14.VI Gala con la partecipazione del principe di Udine in visita alla Esposizione Internazionale d'Arte, Trovatore; 7.IX Gala inaugurale del Primo Festival internazionale di musica diretto da A. Lualdi, alla presenza del principe di Udine: concerto diretto da A. Votto con musiche di Walton, Sinigaglia, Veretti, De Falla; 20.IX Serata in onore del principe di Udine e della Federazione Italiana Motonautica in occasione del Secondo Concorso Motonautico: Lucia di Lammermoor; 21.IX Serata in onore di Toti Dal Monte al termine delle recite della Lucia.
1931 16.I Concerto di beneficenza per la Cucina dei poveri di S. Marcuola, musiche da camera: Tartini, Popper, Chopin, Strauss, Stravinskij, Zanella, Valentini, Cilea; 11.V Serata di gala in onore di S.E. Renato Ricci, sottosegretario all'Educazione fisica, di S.E. Giovanni Giuriati e dei congressisti internazionali: Traviata; 15.IX Gala in onore del Congresso Internazionale di Navigazione: intervengono autorità estere, civili e militari, Il barbiere di Siviglia; 17.X Concerto a parziale beneficio del Consorzio antitubercolare: musiche di Wagner, Colarocco, Puccini, Mozart, Massenet.
1932 6.II Cavalchina intitolata "Una notte a Hollywood" con due orchestre jazz band; 28.IV Serata di gala in onore delle loro maestà il re e la regina per l'inaugurazione della Esposizione Internazionale d'Arte, Fedora; 18.VIII Concerto straordinario, a beneficio di diversi, di Tito Schipa; 3.IX Concerto di "musica moderna" per il II Festival Internazionale di Musica: serata di gala in onore dei patrocinanti principi di Piemonte, presenti in teatro: musiche di Rossini, Zandonai, Stravinskij, Rogalsky, Bloch; 5-7-8-9-10-11-12-14-16-17.IX Prosecuzione del Festival; 4.X. Concerto a beneficio delle opere assistenziali del Partito Nazionale Fascista, diretto dal concittadino bambino veneziano di nove anni Brunetto Grossato, musiche di Verdi, Catalani, Rossini, Mendelssohn, Mascagni; 20.X Manifestazione goethiana promossa dalla Federazione Provinciale Fascista, con prolusione di S.E. F.T. Marinetti, che glorificò Goethe prima dell'opera: Werther.
1933 13.II Concerto commemorativo per il cinquantesimo anniversario della scomparsa di Richard Wagner, direttore Werner Wolff; 25.IV Gran gala alla presenza delle altezze reali i principi di Piemonte, in occasione della inaugurazione di un nuovo ponte sulla laguna, Lohengrin; 7.V Gala d'addio a Beniamino Gigli; 11.V Gala d'addio a Toti Dal Monte; 16.IX Concerto di sodalizio con il Sindacato Fascista Orchestrale Veneziano (S.F.O.V.), direttore Werner Wolff, musiche di Nicolai, Bach, Berlioz, Beethoven (V Sinfonia) e Wagner (Preludio e morte di Isotta); 28.X Gala per l'anniversario della Marcia su Roma, concerto diretto dal bimbo Bruno Grossato Maderna, musiche di Verdi, Wolf-Ferrari, Mascagni, Beethoven (V Sinfonia) e Wagner (Preludio e morte di Isotta); 26.XII Gran gala con l'orchestra jazz Victory dopo l'opera, Crepuscolo degli dei; 31.XII Gran cenone di fine d'anno con gran ballo dopo il Crepuscolo (iniziato alle ore 15).
1934 12.VI Gala in occasione della inaugurazione della XIX Biennale d'Arte, Aida; 12.IX Concerto in piazza con la Messa da Requiem di Verdi, a parziale beneficio dell'E.O.A. (Ente Ospedaliero Assistenza) fascista, direttore Serafin: con Caniglia, Gigli, Pasero e 500 altri esecutori; 8-29.III Festival Internazionale di Musica: concerti quotidiani con presentazioni di giovani compositori e direttori; conferenze commemorative di Gabriel Fauré tenute da Marinetti e Perinello.
1935 16.II Concerto Opera Nazionale Dopolavoro Fascista: concerto del Schubertbund di Vienna (230 soci cantori, più 60 professori); 23.IV Annuale gala dei Fasci di combattimento in collab. con i Gruppi Universitari Fascisti (G.U.F.), direttore Sanzogno, musiche di Gorini, Sanzogno, Benvenuti, Cumar; 23.IV Gabriele Bianchi commemora Bellini in occasione dello scoprimento di una lapide; 25.IV Gala alla presenza del re per l'inaugurazione della mostra di Tiziano, Norma.
1936 18.I-26.II Littoriali della cultura e dell'arte (Comune di Venezia-G.U.F., organizz. Errino Fontana), L'Orfeide di G.F. Malipiero, dir. Sanzogno, regia di F. Pasinetti: serata in onore dell'Autore presente in sala, messo 'alla berlina' da gruppi organizzati di sindacalisti dei Fasci disseminati fra il pubblico a piccoli gruppi rumoreggianti per protesta contro il modernismo; 25.IV Grande Serata Patriottica in onore delle Armi italiane vittoriose in Africa orientale: concerto dedicato a E.A. Mario, programma misto di canzoni e arie liriche popolari di Verdi, Leoncavallo, Bellini, Rossini e E.A. Mario: Rapsodia grigioverde, Come nacque la leggenda del Piave, La leggenda del Piave, Canzone della Tradotta, Viole del Carso, L'Italia di Mussolini, Rose rosse, Casetta sul Piave, Fede d'acciaio, Serenata a Selassié, Stornellata societaria, Inno all'Africa; 20.VI Gala della XX Biennale d'Arte, inaugurazione: Traviata.
[Teatro chiuso, restauri radicali dopo la cessione della proprietà da parte della Società al Comune]
1938 [Nuovo corso di gestione pubblica, comunale: inizio della sovrintendenza di G. Petrassi] 28.VII-2.VIII Recite de La Nave di D'Annunzio presentate in occasione della inaugurazione della XXI Biennale d'Arte; 3.IX Grande concerto di beneficenza promosso dal Comitato Assistenza Ospedaliera e Post-Ospedaliera Poveri alla presenza della patrona S.A.R. la principessa di Piemonte, con Margherita Carosio e Giovanni Martinelli; 8.IX VI Festival Internazionale di Musica Contemporanea; 27.IX Gala, concerto dedicato al Convegno per lo sviluppo sperimentazioni ai fini della autarchia industriale (S.S.A.A., Sviluppo e Sperimentazione Autarchia Industriale), direttore Vittorio Gui, musiche di Wagner e Rossini; 21.X Gala della delegazione diplomatica tedesca: concerto del coro maschile della Berliner Liedertafel, musiche di Blanc (Giovinezza), Puccini (Inno a Roma), Weber, Schumann e canti del folklore germanico; 4.XII Gala della Missione d'arte giapponese, concerto della Scuola del Conservatorio di Takarazuka.
1939 8.II Gala in onore dell'Autore, in sala: Il Campiello di Ermanno Wolf-Ferrari; 4.IV Gala per l'orchestra della Reichsstudentenführung, diretta da Volfrango [!] Roehring, in coll. coi G.U.F., musiche di Malipiero, Wagner, Beethoven; 22.VIII Gala Musikfilmkammer per il concerto di musiche di film [!] tedeschi in campo S. Polo, direttori A. Melichar e Sante Zanon (coro); 4-14.IX Annunciati e annullati i concerti di gala per la inaugurazione della Biennale d'Arte.
1940 19.II Gala mascagnano, per la celebrazione del 50° di Cavalleria Rusticana, opera diretta dall'Autore: dopo l'opera concerto sinfonico con esecuzione dell'Inno al sole [termina la sovrintendenza Petrassi, ed inizia la sovrintendenza di Mario Corti].
1941 2.II Celebrazione verdiana (XL della morte) con lectio magistralis di Massimo Bontempelli: concerto sinfonico-vocale verdiano; 18.II Beneficiata del Comitato per l'assistenza alle famiglie dei Richiamati: concerto sinfonico-vocale diretto da N. Sanzogno, con Toti Dal Monte e Augusto Beuf; 6-13-25.III Serate Dopolavoristiche del Partito Nazionale Fascista "a prezzi popolarissimi": Giulietta e Romeo di Zandonai, Bohème, I quattro rusteghi; 30.III Mattinata dopolavoristica: I quattro rusteghi; 8.IV Serata dopolavoristica: Sigfrido; 23.IV Concerto dopolavoristico, recital del pianista Walter Gieseking; 8-27.IX Manifestazioni della VII Festa della musica, sotto il patronato e alla presenza della principessa di Piemonte, in collaborazione con la Biennale, Wagner, Mozart, Ghedini, Petrassi, Pizzetti, Respighi, Strauss, Previtali, Malipiero, Gavazzeni, Dallapiccola, Casella, Tommasini; 16-20.IX Recite straordinarie di giovani artisti del Centro Avviamento Lirico (C.A.L.), Cenerentola, Il matrimonio segreto.
1942 24.III Concerto del Dopolavoro Fascista, pianista Eduardo Del Pueyo; 8.IV Recita in onore delle Forze Armate, Traviata; 23.IV Concerto a beneficio del Preventorio Enego C.R.I. e delle famiglie bisognose dei Richiamati, direttore Erede, La Passione di Malipiero, Coro di morti di Petrassi; 6-12.IX Rassegna internazionale di musica contemporanea sotto l'alto patronato e alla presenza della principessa di Piemonte, musiche di Zecchi, Halffter, Bossi, Ferro, Markevitch, Burkhard, Gorini, Cortese, Veress, Badings, Huzii-Hiota-Nakayama-Yamada-Tado, Lavagnino, Berger, Braeutigam, Genzmer, Bortes, Heller, Papandopulo, Rocca, Poort, Lipatti, Nielsen, Martin (Le vin herbé, première), Honegger, Stravinskij, Malipiero, Strauss, Falla.
1943 14-28.II Concerti decentrati nelle sedi venete a cura del Dopolavoro Nazionale Fascista, sezione veneziana. 1944 8.VII Concerto per la Settimana Veneziana del Profugo: musiche di Respighi e Dvorak; 3.IX Concerto sinfonico-vocale a parziale beneficio dell'Ente Assistenza Profughi e Sinistrati, con la partecipazione di Tito Schipa, direttore Ettore Gracis; 28.IX Recita offerta dal Ministero della Cultura popolare per l'assistenza ai feriti di guerra: musiche da camera di Respighi, Mozart e Beethoven; 14-29.XI Recite con sovraprezzo sui biglietti a beneficio delle Forze Armate; 29.XI Recita straordinaria in memoria di Giacomo Puccini con prolusione di Luigi Bonelli, Tosca.
1945 27.I Concerto offerto dall'ambasciatore di Germania, dott. Rahn, a totale beneficio dei profughi residenti a Venezia: direttore Moralt, violinista Boskowsky: musiche di Beethoven e Brahms; [26.IV Recita della Madama Butterfly, interrotta e sospesa dal Comitato di Liberazione Nazionale che chiamò tutti i lavoratori allo sciopero insurrezionale]; 17.V Recita riservata ai bambini, La Cambiale di matrimonio di Rossini e Il teatrino di Maestro Pedro di De Falla; 13.VI Duo pianistico Gorini-Lorenzi, musiche di Bach, Clementi, Schumann, Ravel, Debussy e Brahms, concerto offerto dall'Unione Donne Italiane (U.D.I.) sotto gli auspici del Partito d'Azione (P.d.A.) ai reduci dalla prigionia in Germania. 1946 21.VI Gala dell'Arts Club, musiche americane, concerto del duo Gorini-Lorenzi con il soprano Luciana Piovesan: serata dedicata all'Army Educational Corps; 22-24.IX Manifestazioni promosse dalla Associazione per gli Scambi Culturali con l'URSS: direttore Igor Markevitch; 3-6.XI Balletti offerti dalla Army Welfare: compagnia Alanova; 9-11.XI Concerti della Cooperativa dell'orchestra del Teatro la Fenice: musiche da camera di varie epoche eseguite dalle prime parti dell'Orchestra.
1947 4.III Recita a beneficio del Comitato Cittadino d'Emergenza, Madama Butterfly; 29.V Concerto offerto a totale beneficio della Nave scuola marinaretti "Scilla", basso Eraldo Coda, tenore Giacinto Prandelli, direttore F. Ghione; 3.X Concerto promosso dall'Associazione per gli Scambi Culturali con l'URSS: Quartetto Ferro, con musiche di Šostakovič; 5.X Concerto offerto dall'Istituto Italiano Antonio Vivaldi, con presentazione di musiche - tutte inedite - di recente scoperte negli archivi musicali, direttore Nino Sanzogno; 18.X Concerto offerto dalla Venerabile Congregazione dei Padri Armeni in occasione del centenario della rivista "Pazmaveb", musiche di Der-Ghevondian, Khaciaturian, Dikranian, Prokof'ev.
1948 22.II Concerto commemorativo per E. Wolf-Ferrari con allocuzione in memoria di Mario Ghisalberti, ed esecuzione dell'oratorio La vita nuova; *...*; 16.VIII-30.IX Corso internazionale di Direzione d'Orchestra tenuto da Hermann Scherchen; 9.IX Prima esecuzione del Marsia di Dallapiccola, coreografia di Aurel Milloss, serata di gala "con l'obbligo dell'abito scuro"; 23.IX Concerto offerto dagli Amici della Musica, pianista Arturo Benedetti Michelangeli, musiche di Bach-Busoni, Grazioli, Galuppi, Beethoven (Op. 111), Debussy (Images), Ravel (Valses nobles et sentimentales), Brahms (Variazioni Paganini); 24.IX-1.X Concerti saggio del corso di Direzione d'Orchestra e del coro degli allievi del corso di Direzione d'Orchestra di Hermann Scherchen: musiche di Bach (Arte della Fuga, trascrizione orchestrale), Leo, Pergolesi, Sammartini, Cimarosa, Tartini, Verdi (Ave Maria per soprano e archi e Ave Maria sopra una scala enigmatica a 6 voci), Mozart, Milhaud, Stravinskij, Danze dell'età elisabettiana (trascrizioni per orchestra).
I due asterischi intervengono ad annunciare, con l'intento di un richiamo riflessivo, che rimando alle ultime righe di questo breve saggio - così come era accaduto nella precedente tabella (quella delle "prime" infelici) -, l'interruzione di una cospicua serie continua di segnalazioni di momenti in cui - con maggiore, minore, non di rado nulla pertinenza della manifestazione artistica con il concomitante evento cittadino, ovvero con la data memorabile, che onorano - soirées e matinées musicales nel Teatro di campo S. Fantin dan sufficiente risalto al fatto che nelle situazioni pubbliche il teatro è divenuta la sede ufficiale della rappresentanza civica ed anche dell'autoespressione delle virtù, fra le prime, forse, quelle caritatevoli, della città (con la connotazione di una certa indifferenza di pertinenza a quale che sia l'occasione specifica e a quale che sia il messaggio artistico veicolato dal "gala", o esposto nella "offerta in dedica" di una manifestazione organizzata da questo o quell'ente morale o da questa o quella istanza politica o comunità veneziana, che, per così dire, "prende in affitto" l'aura notabile e lo spazio fisico consacrato di una generica ufficialità genericamente lagunare). In ciò il teatro, dimostra di possedere, o di essere costretto a dotarsi, fra le tante possibili connotazioni della sua tradizionale vocazione a "rappresentare finzioni" (si pensi al nobile motto metastasiano: "sogni e favole fingo"), di una strana esuberante elasticità che gli consente di poter mettere a disposizione delle occasioni più correnti o ricorrenti un certo numero di finzioni di interscambio fra società e cultura, di causali riadattamenti di allegorie, di vaghe applicazioni e modalità d'appiglio semantico ad un rapporto brevemente consumato con il "presente storico". Ciò avviene in una dimensione leggendaria, quasi vorrei direi 'virtuale', genericamente bella-in-sé, favorita, nel suo facile dispiegamento di condivisioni, dai secolari riflessi condizionati della stessa estetica e della stessa poetica della creazione e della ricezione teatrale, che si insedia nello spazio poco simbolico ma ancor meno forse reale del Teatro la Fenice (rafforzato dalla indefinitezza della efficacia degli eventi artistici esplicati in un hortus conclusus elitario che è anche, però, in prospettiva una casa del popolo, non essendo di fatto né l'uno né l'altra).
Altre funzioni la storia antica e passata della Repubblica Serenissima, aveva attribuito al "teatro" (per il quale, peraltro, aveva inventato la più moderna delle incarnazioni: quella più propriamente commerciale, al tempo detta "mercenaria", ossia imprenditoriale, dello spettacolo: con ingresso per tutti i cittadini e/o i forestieri democraticamente paganti): in particolare, aveva riservato al teatro una certa funzione egregiamente sostitutiva di un certo numero di feste spontanee, libere, private o collettive, fornendo all'uso la "economica" produzione di circensi feste immaginarie, ideal-tipiche, alla moda, appaltate all'ingegno di professionisti della razional-fantastica occupazione del tempo libero. Per quelle che dovevano essere, invece, le onoranze festive, non immaginarie ma "ufficiali", Venezia e i suoi oligarchi repubblicani avevano mantenuto in vita, per secoli, una Cappella "di Stato" - distinta da quella cattolico-romana relegata nella cattedrale oltremodo fuori mano -, e ad esse onoranze aveva dato il carattere di una triplice declinazione sacra, ma nel contempo tanto politico-statale, quanto artisticamente quotata e apprezzabile (investendo non poco, seppur non troppo, in ciò), ed anche in massima parte, a tali manifestazioni di "gala" sacro-musicali aveva affidato la conservazione della propria capacità 'rappresentativa', assecondando le diverse icone simboliche della propria autonomia culturale.
Nel dissolversi della funzione di rappresentanza della Cappella come istituto di propaganda conservativa d'immagine pubblica-primaria - un'immagine che d'altra parte più non ha da esprimersi od esporsi, perché non c'è - la Cappella sembra sopravvivere per conservare, in astratto, le proprie strutture, le proprie determinazioni di dignità. In effetti per come appare la Cappella di S. Marco si mantiene, di fatto incontaminatamente, resistendo all'evolvere dei tempi, aspirando a valorizzare il proprio "archivio-repertorio", difendendolo dagli assalti delle fenomenologie sciolte della modernità, moderatamente rinnovandosi con creazioni/opere sacre dei Maestri in carica compostamente inserite nelle programmazioni dell'esercizio liturgico, facendo un gran numero di esercizi normativi, pubblicando regolamenti, via via sempre più estesi e articolati, degli obblighi dei cantori, dei Maestri, degli addetti, dei soprannumerari:
1818 Discipline riguardanti il buon ordine della Cappella di San Marco approvate dall'Eccelso I.R. Governo generale; Bugno canonico Fabbr. Pres., Giannagostino Perotti Maestro, 11 artt.;
1821 Discipline riguardanti il buon Ordine della Cappella di San Marco rescritto 1017, decreto 4184/386; Bugno Fabbriciere, 17 artt.;
1840 Nuovo regolamento della Cappella dell'I.R. Basilica, Presidente S.E. Ranier, 14 artt.;
1873 Regolamento per la Cappella Musicale della Patriarcale Metropolitana e Primaziale Basilica di S. Marco in Venezia, pubblicata dalla ditta tipografica Rizzi; Fabbricieri Rosa, Saccardo, Contin di Castelseprio, Bolognesi, XV capp., 142 artt. e due ampie tabelle mansionarie;
1892 Regolamento per la Cappella Musicale della Patriarcale Metropolitana e Primaziale Basilica di S. Marco in Venezia, Tipografia Emiliana, non firmata, XIII capp., 82 paragrafi e una Tabella;
1893 Disposizioni transitorie d'applicazione del Nuovo Regolamento, registrazione, 15 artt.;
1904 Estratto del regolamento marciano approvato dalla regia prefettura di Venezia, nr. 31543, dal registro artt.147-231;
1931 Regolamento della Cappella Marciana, firmato Primo procuratore, 9 artt.
Circa gli assetti del vero e proprio 'funzionamento' della Cappella molti disturbi dell'organizzazione s'erano resi evidenti ben da prima dei mala tempora lamentati dall'Avvisatore nella lettera che ci aveva introdotto nei luoghi della sopravvissuta vita musicale veneziana, "dopo la fine". Nel complesso sistema dei documenti ufficiali possiamo trovare un gran numero di interessanti richiami all'ordine. È ancora del 1827 una lettera del patriarca Pyrker al Maestro Perotti, lettera in cui il prelato mostra d'essere molto preoccupato:
Mi accorgo che la Scuola di canto [il 'vivaio' delle voci bianche accudito dalla curia presso l'orfanotrofio dei Gesuati] pei ragazzi della Imperial R. Cappella abbisogna di sorveglianza, specialmente nel preparare a tempo quelli che devono succedere nel servigio agli altri che vanno a perdere o cangiar voce.
È ormai divenuta una delle prime incombenze del Maestro la creazione ad hoc di composizioni da lui stesso ritenute bizzarre (anche se la pratica della musica sacra "a tre", senza soprani, data la sparizione delle voci maschili acute, è di fatto invalsa nel frattempo in tante altre sedi venete e italiane, anche illustri), elaborate al caso per sopperire appunto alla mancanza assoluta di educati soprani (la qual impropria penuria rende di fatto impossibili le esecuzioni, ideologicamente programmate come indispensabili al mantenimento dell'effetto della continuità, di musiche "marciane storiche" conservate in archivio). Ecco cosa scrive il Maestro Perotti ai fabbricieri dando spiegazioni razionali al rifiuto di adattare musiche esistenti all'uso:
Un tale inconveniente [la mancanza di soprani] porta la conseguenza che manchi la parte principale per eseguire Musiche non solo riguardo alle Funzioni Solenni ma puranco alle ordinarie; se per avventura taluno asserire volesse che li Soprani possono essere sostituiti dai Tenori, ciò è falso, perché li Soprani cantano al di sopra dei Contralti e li Tenori, invece al di sotto, per la qual cosa tutti gli intervalli rovesciati cambiano il carattere ed alcuni diventano errori di Contrappunto […]. Ora, domanda lo scrivente come possa d'ora innanzi disimpegnare con decoro le musiche? Egli è vero che si potrebbe comporre Musiche a tre voci, ma per questa fatica manca il tempo materiale, parlando della Messa della Natività di N.S. Qualora poi si volesse adottare questa massima, e come si potrebbero allora eseguire tutte le Musiche che esistono nell'Archivio composte a quattro da trapassati famosi Maestri della Cappella?
Messo da parte il complesso dei problemi di lunghissima durata, che mai più abbandona i responsabili della Cappella, della impreparazione nel sistema del turn over dei cantori, e magari anche quelli della carenza di sufficienti rapporti di scadentissima comunicazione fra le direzioni della Cappella e della Scuoletta (dei pueri), nelle poche righe sopracitate si scorge, in re, un'impasse che genera un male oscuro, un coagulo di contraddizioni le quali via via andranno a caratterizzare sempre di più la struttura vivente della Cappella, ex Ducale, ora Imperiale, e quindi prossima alla consegna, quale simbolo della Chiesa veneziana al governo vaticano-romano (quando la ex Repubblica diverrà la capitale di una provincia periferica della nuova nazione). Tali contraddizioni, variamente riversate in serie variazioni di un unico tema conflittuale, fra espressioni sopite di sordi ed ossequiosi dissidi che si perpetuano fra Maestri, vice Maestri, cantori bravi e cantori cattivi, fabbricieri, e quant'altri, per un secolo e più, si esasperano in special modo nella negativa esposizione di una delle ambizioni fondanti dell'orgoglio, per così dire, 'autonomista' della Chiesa marciana a una realtà di effettivo decadimento strutturale, sia d'ordine economico, sia di specifica autorità o potenza di controllo. L'ambizione della conservazione della 'peculiarità marciana' vuole, come ben si evince dai lai di Perotti che in S. Marco si eseguano, in proporzione equilibrata, musiche:
a) composte per San Marco dai Maestri effettivi in servizio e b) musiche già composte per San Marco dai Maestri effettivi che han retto la Cappella, gloriosamente, nei secoli
così come prescrive che l'organico della Cappella sia conservato nelle sue dimensioni "storiche" ovvero normali (almeno 6 soprani, 6 contralti, almeno 6-8 tenori, almeno 6-8 bassi). Il cadere di un garantito controllo della regola seconda fa sì che per rispettare la prima il Maestro debba trasformarsi, per lunghi tratti stagionali, in prima istanza, in un volgare "riduttore meccanico" alle tre sole parti per le quali si ha disponibilità vocale di musiche di già scritte a quattro o cinque parti, e quindi in un ricreatore, secondo cervellotici adattamenti a organici maschili di questa o quella fonte originale di una musica di tradizione "dogale" scritta da uno dei suoi "famigerati predecessori". Ossia che il Maestro debba divenire uno schiavo delle circostanze che essenzialmente spera, peraltro, che in virtù di una valida riforma gestionale, quell'opera sua momentanea, per quanto impegnativa e sapientemente artifiziosa, si renda molto presto inutile ("onde le opere dell'Archivio, sapientemente non-distrutte, possano tornare alla loro perfetta identità" del cosiddetto "prima della cura"): la qual condizione è, a dire il vero, comunque la si rivolti, cosa ben deprimente per un Maestro che si stima.
Questo quadro che è fermamente bloccato, via via sarà ulteriormente danneggiato sia dal disamore dei cantori in paga - assenteisti e responsabili di altri guai nell'abuso delle pratiche delle sostituzioni "a capocchia" -, sia, e anche questo può diventare significativo, dal crescere della richiesta di prestazioni "non tradizionali", che aumentano l'impegno produttivo senza fondarsi su una qualsivoglia vera tradizione, esaltando il preoccupante stato "professionale" della Cappella in specie laddove alcuni aspetti, inevitabili, di nuova scrittura musicale e di attingimenti alla stilistica più moderna, e non solo consuetudinariamente "orecchiata", imbarazzano sino a metterli in crisi, incoraggiando assenteismi e furberie, la maggior parte dei cantori, in particolare quelli vecchi che "vanno a memoria" (e non solo i cantori - vedi il caso, riportato in più rapporti, del Maestro al primo organo, Girardi: "che sa suonare, sì, ma solo senza orchestra").
Nel contempo, queste irruzioni o incursioni di nuovi gusti e nuovi generi-stili sacri, sono necessari in quanto corrispondono a "nuovi servizi" coperti da fonti di finanziamento "moderne", come accade per l'importantissimo lascito universale del magnate veronese G.B. Soldini, il quale trasmette il suo ingentissimo patrimonio alla Fabbriceria (alla lettera, nel testamento: "alla Veneta casa di Ricovero e Aggregatevi [leggi Fabbriceria] Fondazioni") con l'obbligo in perpetuo di un triduo, di esequie solenni, dette "Esequie Soldini", le quali, oltre al dover ricevere composizioni originali e nuove, cadono nell'ingolfo calendariale di luglio (19-20-21) in cui si danno anche i necessari adempimenti della solennissima festa del Redentore. Un obbligo, quello delle solennità perpetue Soldini, che sta sotto il tiro del controllo e della minaccia di revoca del bene finanziario ("nel caso [è scritto nel testamento del magnate] che il suddetto Pio luogo avesse a mancare in qualsiasi epoca al rigoroso e solenne adempimento delle mie determinazioni decadrà Esso pel fatto della più piccola mancanza al benefizio della mia eredità […]").
Le situazioni evolvono, lentissimamente, corrispondendo a questo complesso di impulsi; poche altre configurate sollecitazioni intervengono infatti sopra il progetto continuativamente covato di conservare la tradizione delle prassi marciane e di tenere accanitamente in vita ed aperto l'archivio musicale storico della Cappella così da non interrompere mai un privilegiato contatto d'uso coi testi della tradizione (grande e piccola) della sede (onorando nel contempo, con consimile, pari privilegio, la presenza dei Maestri in titolo, ed anche quella dei più recenti giubilati). Il Maestro Buzzolla, che subentra, more antiquo senza concorso, a Perotti, il quale, personalmente, autogiubilandosi lo insedia, nel giugno del 1850, è un giovane musicista dalla sensibilità e dalla competenza "attuale" che ha fatto esperienze artistiche a tutto campo, anche in teatro, e questo non soltanto in patria, prima e durante gli incarichi marciani. Un musicista di professione che fa fronte con una certa qual serenità alla somma degli inviluppi problematici della Cappella:
il gran numero di prestazioni obbligate, normali e straordinarie; l'aleatorietà del potenziale di fattibilità delle stesse esecuzioni compromessa dagli organici zoppi e dalla mediocre disciplinazione; l'istanza etico-ideale di non cedere sul fronte del progetto della offerta musicale calibrata (progressivamente concepita come una esperienza culturale tenuta abbastanza al passo coi tempi ma con il greve carico della promessa di una rigorosa conservazione della memoria musicale della basilica, per la quale occorre ripresentare in esecuzioni di opere sacre autenticamente marciane, opportunamente 'ritoccate' all'uso decimato e alle dimensioni traballanti).
È un tratto significativo dell'operare di un Maestro tanto 'transizionale' come viene ad essere, a cavallo di una strana "era di metà secolo" turbata ed immobile, Buzzolla, la grande applicazione d'ufficio alla composizione di tantissimi Sanctus e Agnus Dei integrativi di Messe brevi di autori marciani (storici o comunque defunti), al fine, forse, sia di accrescere il volume dei materiali effettivamente praticabili coi mezzi presenti nelle "accoglienze" dei pontificali, sia, forse, nel contempo, rendere più orecchiabile la continuità della tradizione nel dispiegamento di più stili storici susseguenti, nello stesso evento liturgico. È interessante il fatto che nel '54 il Maestro appoggi e protegga l'iniziativa di un basso di Cappella di trentennale carriera interna, Luigi Plet (che fra le altre subprofessioni fuori orario fa anche il Don Basilio, ossia l'aio musicale in famiglie patrizie - per cui in tal posizione gli accade di essere per tre anni il Chirone musicale di Arrigo e Camillo Boito bambinetti), a mettere in funzione, fuori dell'istituzione ecclesiastica, una scuola elementare di "solfeggio e canto", con tanto di sperimentazione di un nuovo metodo "facile" e brevettato, che peraltro si apre ad assetti "complementari" di multiple istruzioni musicali configurando un presupposto "storico" del movimento cittadino per la fondazione del liceo.
Come ho già avuto modo di dire più sopra, è a Buzzolla, Maestro di S. Marco, che fan capo i sostenitori della necessità di importare un qualsivoglia modello efficiente di istruzione musicale istituzionalizzata (sono costoro, tutti, dei dilettanti intelligenti, solleticati da una certa qual astratta idea di salvare la dignità musicale sollevandola a modelli moderni e prescindendo anche in un certo qual modo dalla viscosità di una tradizione locale tanto illustre quanto incerta, e mai scolarizzata); e questo è un fatto che un po' quadra, essendo Buzzolla un Maestro di Cappella non attardato in una autoidentificazione con la struttura fatiscente che dirige, ma anche un musicista che ha studiato e lavorato all'estero, che scrive opere per i teatri, che intona poesie romantiche alla moda delle mélodies françaises e dei Lieder austriaci, volentieri anche in dialetto veneziano, un po' non quadra perché lo stesso Buzzolla è un leale Maestro della Cappella, che rovista da capo a fondo il grande archivio musicale della basilica per metter ordine nel magazzino della tradizione onde trascegliere opere da restaurare e compatibili per una ragionevole rimessa in uso, che investe energie in un progetto di restituzione e revival della 'differenza' marciana, la cui personalità - se mai ammodernatrice volesse essere - è comunque costrettissima ad operare inventivamente sulla negatività dei mezzi a disposizione a fronte delle richieste immutate, sempre più privo di risorse umane ed economiche (quanti cantori danno forfait dopo quattro cinque sei anni di differimento della stabilizzazione del posto!) in un quadro di prestazioni obbligate immutatamente numerose e immutatamente necessitate a una suntuosità che occorre sempre onorare ricorrendo ai più ingegnosi ripieghi ed azzardi (inesorabilmente: una Messa di Natale solennissima, le estive "Esequie Soldini" con grande orchestra, le decine di pontificali, i vespri di S. Marco e i molti vespri mariani di gran formato, la trentina di impieghi canonici annuali della orchestra più le Messe domenicali, il gran Te Deum con Messa e vespro per la celebrazione dell'anniversario della liberazione del blocco navale, ogni 20 aprile, et idem, a date mutanti, nei decenni successivi nei giorni del nome e della nascita dell'imperatore e poi del sovrano Savoia, ecc. ecc.).
Si alternano in Cappella, dopo la morte di Buzzolla, una serie di variazioni dei diversi temi che ne informano la tenace sopravvivenza: concorsi fatti e per lo più non fatti, direzioni in prorogatio, impulsi a tentare reiterate regolamentazioni razionali del lavoro (regole di concorsi ed esami, poi disattese, calendari millimetricamente definiti delle presenze, addirittura nette predisposizioni di turni di prove necessitati dalla angustia degli spazi-prove), razionali, necessarie regolamentazioni dipoi tradite e disattese. Continua ad essere sempre problematica la situazione del "parco-voci". In una lettera alla Fabbriceria, che include la solita geremiade del Maestro, il Maestro Coccon, ormai vecchissimo, fuori ruolo ma prorogato, scrive nel 1885:
Ho cercato sempre nelle mie composizioni di sacrificare ogni mio lavoro alle esigenze di questa esigua e impotente massa di canto, soccorrendo alla deficienza delle voci con l'opera strumentale, ritraendone, per giunta a mia volta dagli ignari di tutte queste circostanze, riprovazioni ed appunti non meritati. […] Ora, però, più che mai m'aggrava il pensare a ciò che quando dall'infelice complesso della nostra cantorìa verranno a mancare i vecchi taluno dei quali già impossente, specialmente nelle parti da Concerto, non si saprà come rimpiazzarli.
In ordine a ciò il vecchio Maestro, tanto compromesso, e come si è visto da quel che lui stesso narra e scrive, chiacchierato, reagisce attribuendo gran parte della causa del collasso della formazione dei cantori alla decadenza delle scuole, dei licei musicali o conservatori, che hanno abolito lo studio del "setticlavio" ("perché molto più comodo quello del crear senza fatica e in breve tempo degli egregi orecchianti affatto impotenti a leggere a prima vista"), rilancia l'ipotesi, utopica, della creazione di una autonoma scuola di musica sacra, annessa alla Cappella, in grado di generare dei "praticanti" di cantoria, buoni lettori di latino (scuola da affidare, sempre a dire di Coccon, ai "puntelli - ahimè già anzianissimi - che attualmente sostengono l'edificio vetusto della Cappella, maestri Guadagnin Colonna e Mazzorin").
Nel 1889 il patriarca Agostini scrivendo una lettera pastorale tutta dedicata sia alla musica sacra in sé sia al "decadimento grave" della Cappella lanciava il memento-invocazione di un'altra riforma, "salutare":
[…] Tra i mezzi che suggerisce la Sacra Congregazione [Apostolica "dei riti": regolamento del 1884] vi è quello importantissimo dell'istituzione delle scuole speciali per l'educazione di cantori di chiesa, giacché formandosi in questo modo una Cappella musicale artisticamente disciplinata si rende possibile e facile l'esecuzione in chiesa di opere sacre dei grandi compositori moderni e quella dei capilavori che i nostri classici maestri dei secoli andati ci lasciarono in gran copia e che ora per difetto di scuole rimangono purtroppo! neglette […].
Una riforma che calamita il solito programma sia di conservazione che di rinnovamento del repertorio sacro, simultanei, l'uno all'altro, entrambi inibiti dallo scadente stato dell'arte:
riflettendo al nome ch'ebbe nella storia la Cappella musicale della nostra patriarcale basilica di San Marco, e allo stato di deplorevole decadenza a cui si ridusse in questo secolo, non già per mancanza di espertissimi professori, de' quali va pur ora egregiamente fornita, ma per mancanza delle sopradette scuole che in altri tempi fra noi pure fiorivano.
Da queste osservazioni derivò il programma istitutivo di una sorta di scuola mediamente aperta (fra l'assetto della metà del corso degli studi elementari e l'inizio di quelli ginnasiali) a giovani dagli otto ai dodici anni ("di civil condizione e buona sanità"), i quali, ben presto, nella loro carriera avrebbero dovuto essere cooptati a servizi di rincalzo e incremento della massa sonora in Cappella, durante le funzioni maggiori, per poi passare, o al servizio professionale di cantore (al mutar della voce) o (sempre alla muta della voce senza buon esito di formazione musicale) al Seminario patriarcale. Per avviare questa scuola, vivaio o di buoni cantori o, in caso di insuccesso musicale della formazione, di aspiranti canonici poco inclini al canto, monsignor Agostini nominò, assoldandolo con il ragguardevole stipendio di 2.500 lire annue (integrabili con diversi straordinari) una sorta di secondo Maestro di Cappella, nella figura di un personaggio importante della vita musicale europea: Giovanni Tebaldini, dottore laureato in Musicologia sacra a Regensburg, allievo del fondatore dei Cäcilien Kalender, presidente dell'Allgemeine Cäcilienverein e direttore dei "Fliegende Blätter für Katholische Kirchenmusik", Franz Xaver Haberl. A Tebaldini, giovane direttore del periodico nazionale milanese "Musica Sacra", viene attribuito un mansionario complesso:
dovrà sistemare lo stato di preparazione dei cantori salariati [al momento accorpati in una esile formazione di 3 tenori e 2 bassi di concerto, 4 + 4 tenori e bassi di ripieno] prospettando un piano di riforma a tempo debito concordato; dovrà dirigere la nuova schola dei putti 'giusta la lettera pastorale'; dovrà dirigere musiche ordinarie in basilica e assistere il Maestro primario, specie in caso di impedimento dello stesso; dovrà dirigere il canto dei feriali a richiesta del capitolo; dovrà far parte della Commissione di Santa Cecilia per la Musica Ecclesiastica e 'recuperarsi di altre missioni sempre relative alla musica sacra' affidategli dalla curia nell'area dell'archidiocesi.
In effetti, per quanto Tebaldini avesse fatto stampare nel giro di due mesi un Programma della nuova Schola tutta da allestire presso il seminario alla Salute, impostata su una struttura convittuale con retta annuale di 300 lire, e con paghette agli allievi per le prove d'assieme e per le prestazioni in basilica, con il di più di premi speciali ai "migliori", alla fine d'anno, dopo tanto rumore si riaprì di fatto soltanto il già abolito servizio degli Orfanelli, con le lezioni ai pueri di due ore di musica nei giorni feriali, nelle quali due ore erano comprese anche le sedute di prova corale a S. Giacomo di Rialto. L'acquisizione ai ranghi della Cappella del Maestro insigne e studioso finiva, in termini di didattica, per risolversi nel limitato impegno (fra altri contorti richiami a vecchi regolamenti aggiustati al ruolo del vice Maestro Tebaldini in veste di controllore delle sostituzioni mai più da autogestirsi da parte dei cantori di concerto assenti o assenteisti) di gestire le sostituzioni degli assenti con l'introduzione nel servizio di prescelti pueri migliori; e ancor peggio, forse, nel fare i conti delle trattenute agli assenti, e nel restituire le trattenute, comminate ai vecchi assenti, ai giovani sostituti in prova. Inoltre la nomina del vice (come titolare della Schola e responsabile dell'archivio) ispirò al prefetto di Venezia dei quesiti giustificativi della creazione di un simile ruolo, da parte dei preti, da trasmettere ai Ministeri romani (sia di Grazia e giustizia, sia della Istruzione pubblica), ai quali quesiti la Fabbriceria rispondeva accusando il Maestro primario, Coccon, di non essere assolutamente in grado di "far risorgere il Canto Gregoriano e la polifonia classica palestriniana", essendo ignorante di ciò, e di aver nei lunghi anni della sua conduzione del tutto trascurato la custodia dell'archivio della musica marciana che era giunto a non possedere più "quello di prezioso che generalmente si crede, essendo stato saccheggiato". Alle quali accuse il Maestro Coccon ribatteva denunciando come e quanto "da molti anni" la Fabbriceria "avesse studiato dannose economie da una parte, e spese capricciose dall'altra", avendo in mente progetti stravaganti, come la "riduzione a sistema moderno, dei due Organi Callido", onde, per sostenere la spesa discutibile suddetta, aveva abolito il corpo orchestrale della basilica (determinando "la definitiva sepoltura di opere fra le migliori degli ultimi secoli, scritte originariamente per orchestra"). La Fabbriceria nel gennaio del 1892 rimproverava, dal suo canto, a Coccon cose ancor più terribili: di essere intervenuto concedendo supplenze ai cantori principali, aver prodotto esecuzioni "trascuratissime e indegne" come quella del 3 gennaio, aver dato sempre di più il cattivo esempio alla Cappella, mancando a quattro processioni su cinque, trascurando del tutto l'istruzione degli orfani, non intendendosi col vice. Coccon ribatteva che le personalità musicali prodotte dalla Schola non erano cantori ma "comparse vocianti", soggiungeva che "non fa mestiere tornare al 500 per scrivere musica da chiesa, si può scrivere musica chiesastica anche oggi" e che lui stesso, Coccon, se ne intende di musica polifonica tanto che quando vinse il concorso i suoi esaminatori illustri, Tomadini, Candotti e Melchiorre Balbi, avevano scritto di aver esaminato uno che poteva esaminare loro, chiamandolo, contestualmente, "Maestro delle Fughe per eccellenza".
Nel frattempo del maturare delle velenose polemiche, il vice, Tebaldini, rinnovato nell'ottobre del 1891 con l'obbligo di attuare la "solita riforma" entro la vigilia dell'imminente Natale, si trova ad essere mansionato a tenere prove d'assieme della intera Cappella per ben tre volte al mese, ed anche a ordinare cronologicamente, alfabeticamente e per materie, i poveri resti dell'archivio, e quindi a sostituire il Maestro in un numero sempre crescente di esecuzioni. Regge, Tebaldini, sino alla primavera del '94 quando viene nominato primo Maestro della Cappella padovana del Santo; in questa occasione scrive nella lettera di dimissioni:
Non posso continuare a essere Vice-Maestro mentre tutto grava sulla mia responsabilità, secondariamente da solo è impossibile che possa resistere a tutte le fatiche che impongono i numerosi impegni, finalmente nell'indirizzo artistico dato all'istituzione per volere di superiori io non posso convenire essendo in buona parte contrario alle mie idee.
La Fabbriceria accetta le dimissioni ma rivendica i diritti "che le derivano dal contratto di locazione d'opera" in atto; si profila infatti un periodo di grandi feste (Quaresima e Pasqua) e il contratto prevede che il vice 'inizi' il suo eventuale successore. L'impegno, a dire di Tebaldini, è aggravato dal fatto che i cantori, nel periodo, sono tutti assenti, impegnati nelle prove della Damnation de Faust alla Fenice (ove di fatto tutti i cantori sono impiegati come coristi, quali in organico, quali straordinari). Il Maestro dimissionario investe inoltre la Fabbriceria di rimbrotti sulla mancanza di direttive artistiche da parte dei superiori, sottolineando con acredine, alcuni aspetti plateali di degrado patente, fra i quali:
È necessario smettere di ricorrere alle pagliacciate di Perotti o alle riduzioni sacre fatte dal Maestro Coccon dalla sua operetta I due urangutang; altro non trovo però che le indicazioni di eseguire all'infuori delle composizioni del Rova, le quali - mi affretto a dirlo, per sdebitare la mia coscienza - sono la cosa più insipida che si possa immaginare, forse con lo strumentale riuscirebbero meno grottesche.
Un balzo di stima e di ripristinato apparente accordo fra Maestro e Fabbriceria si avrà verso il dicembre dello stesso 1894 quando viene chiamato alla direzione della Cappella Dogale un giovane musicista di rango, Lorenzo Perosi, al tempo Maestro di Cappella nel duomo di Imola.
Lo stato della Cappella vedeva in una cotanta dominanza inquieta di disposizioni differenti, vaghe applicazioni un po' casuali di più regolamenti stratificati; inoltre si confermava essere il problema dei problemi quello dei costi, nonostante le economie, abbastanza alti, incrementati da disposizioni transitorie, da presenze e assenze alternate degli orchestrali licenziati e ri-locati, giubilazioni attivate e sospese di diverse personalità destinate a mansioni limitate (per esempio, l'organista Girardi "obbligato a suonare nelle funzioni nelle quali non interviene la Cappella"); nel contempo si può notare la persistenza, quasi divenuta una ubbia, della conservazione del programma di produzioni musicali miste di testimoniate continuità della tradizione marciana, preservata accanto a sensibili indulgenze a nuovi stili sacri romanticheggianti, provata, ad esempio, dalla nomina di Perosi, ed anche ad opposte istanze frontali di adeguamento ai portati di alcuni impulsi, musicologici, del tutto non nativi, non "marciani", di restaurazione solenne della purezza del gregoriano o di restaurazioni romane del "palestrinismo". Posizioni queste ultime, peraltro, ben dichiarate ufficialmente, per esempio, nella confutazione delle censure prefettizie opposte alla soppressione della stabilità della orchestra:
Tale soppressione non è misura di gretta economia ma inevitabile conseguenza del genere di musica che costituisce come scopo essenziale della riforma. Per quella felice tendenza con cui l'età nostra è portata a far rifiorire le arti, riconducendole alle pure sorgenti del bello, la riforma della musica di chiesa si studia di rimettere in onore per una parte le armonie [!] gregoriane interpretate dottamente mercé gli studi di Germania e di Francia, per altra parte le opere classiche dei sommi maestri nel canto polifono, ch'ebbero per antesignano il celeberrimo Palestrina […] ora questo genere di musica, che fu creato espressamente per la chiesa ed è ritenuto meritatamente il più sublime dell'arte, ha il suo supremo valore scientifico ed estetico dell'armonia delle voci e non tollera perciò la commistione di qualsiasi altro suono.
L'arrivo di Lorenzo Perosi si ammanta di esecuzioni celebrative dei festeggiamenti marciani del 1895 che nel giro di pochi giorni vicini alla festa del santo presentano alternate alle musiche nuove scritte ad hoc dal nuovo Maestro opere sacre di Croce, Lasso, Victoria, Palestrina, Gabrieli, Viadana. Ben presto però il rapporto idillico si incrina: due anni dopo la nomina Perosi, seppur lusingato dagli elogi e dalle premure (i canonici lo invitano spesso a riguardarsi dal troppo lavoro onde non ammalarsi), deve sollecitare fortemente la nomina stabile che non arriva mai. Così come deve vantare, in più di una istanza, il gran lavoro fatto: l'aumento dell'organico dei cantori da 37 a 73 persone, le molte ore di insegnamento, le composizioni originali prodotte per la Cappella: 8 Messe in due anni, 9 Salmi, 8 Cantici, 30 Inni, 2 Sequenze, 12 Mottetti, 6 Offertori, 10 Antifone…
Nel mentre che la Fabbriceria affronta una crisi economica solennissima che la costringe (per coprire il gravissimo aggravio fiscale della neonata tasca sulla "ricchezza mobile") a ridurre il numero dei cantori titolari a soli 7 e a immettere tagli strutturali per ottenere un risparmio di 1.460 lire sul vecchio budget regolamentato nel 1892, a Perosi accade di essere incaricato da Leone XIII nientemeno che della direzione della Sistina, e anche di cominciare a dirigere i suoi melodrammatici oratori in ogni parte d'Europa. Lunghe, lunghissime assenze, sopravvengono, del Maestro dalla sua sede marciana, anche di due tre mesi filati; assenze via via sempre meno preparate, giustificate e accordate ufficialmente, avviano uno scadimento dei rapporti fra Perosi e la Fabbriceria, che giungono anche alle deplorazioni scritte (quasi sempre inframmezzate di untuose e complimentose dichiarazioni di stima per il Maestro che nel contempo, siamo nel 1898, si è del tutto vaticanizzato ed ha ottenuto una smagliante fortuna artistica ed editoriale europea). Di fatto i responsabili della Cappella colgono più volte "l'occasione delle sincere congratulazioni" per dichiararsi, anche per iscritto, al Maestro, oltre che
ammirati del suo genio e di frutti che ricavò […] lietissimi dell'onore che [grazie al suo operare fuori sede] ridondò e ridonda a questa Cappella […] gratissima per l'opera intelligente e per l'altissimo grado di onore che a suo merito toccò alla detta Cappella
anche
dolentissimi per conseguenza che l'incarico assunto presso il Vaticano e le esecuzioni delle sue meravigliose concezioni artistiche che si succedono così rapidamente [!], non possano permetterle di attendere alla direzione della Cappella con la necessaria ed esclusiva assiduità […].
Il Maestro Perosi non accetta di render conto; rifiuta proposte transitorie correttive; lamenta il calo dei cantori inquadrati (ora ridotti a 5); rifiuta incontri conciliatori; lamenta che siano lasciati cantare in teatro anche i putti; lamenta l'eterno rinvio della istituzione della scuola-convitto. Insomma si dimette: siamo al 29 marzo 1899. Lascia tempo ai superiori per sistemare la successione alla fine d'agosto, e nella lettera di addio si esprime con patetici accenni di rimostranza, dilungatamente, in uno stile un poco lacrimevole ben compendiato nella clausola:
Dopo la lettera che la Fabbriceria mi scrive sulla mia condotta, che non credeva, dopo tutto quel che ho fatto essa avesse a deplorare, essendo in attesa dell'occasione di un prossimo abboccamento in cui ci sarebbe spiegati, io declino dolorosamente qualsiasi direzione della cappella di San Marco, lasciando per non dar senso di vendetta a questa mia determinazione, il tempo sufficiente a loro per trovare chi mi dovrà sostituire. Prima di finire questa lettera di rinunzia mi permettano che auguri alla dilettissima basilica un successore che l'ami, che l'ami quant'io l'ho amata, e quanto l'avrebbe ancora amata colui che scrive [quasi una citazione della Traviata: "amami quanto t'amo"]. LP.
Il nuovo secolo, dopo questo impegnativo, si apre con una direzione che dura pochi mesi (quella provvisoria del Maestro Bas, che si dimette nel marzo 1900 quando ben si rende conto della ferma intenzione della Cappella di non riformare nulla, di licenziare musicisti di vaglia, di accettare prestazioni a mezzadria con il Teatro, di non sforare mai dalle sempre fisse 13.000 lire del solito budget 1884) e continua con una serie di direzioni e prestazioni di lunghissimo periodo. Divenne Maestro, senza concorso, e si assestò alla direzione per una ventina d'anni, Delfino Thermignon. Una direzione oculata, la sua, abbastanza permissiva ma organizzata: nel 1901 confermò senza esame tutta la cantoria, mentre invece operò sostituzioni nel settore degli "aspiranti" (eliminando i meno promettenti); nello stesso anno trasferì la scuola dei putti dal Patronato Leone XIII in Castello al battistero marciano, portando così in sede i pueri, onde averli ben sottocchio ed anche facendo risparmiare la Fabbriceria sullo stipendio del bidello, licenziato, e sul costo del noleggio dell'armonium. Thermignon si incaricò subito di 'de-perosianizzare' il repertorio, scrivendo musiche a misura delle risorse artistiche disponibili: un gran numero di composizioni sufficientemente facili ("composizioni adatte alla Cappella"), predisponendo inoltre, con una complessiva serie di sole 39 prove pagate, una copertura liturgica ben preparata di un intero anno. Poté disporre della collaborazione di un organista molto valido, Giovanni Pittau, anch'esso assunto senza concorso nel 1900, confermato per decreto d'ufficio nel 1904, e quindi restato in carica, sino alla morte che lo colse nell'avanzato secondo dopoguerra, nel 1956.
Sino al 1921 il Maestro Thermignon riuscì a mantenere un rapporto di grande collaborazione sia con la Fabbriceria che con i musicisti in ruolo dei quali patrocinò, moderatamente, ma efficacemente, gli adeguamenti degli stipendi, che autorevolmente valutò in ordine alla quantità e alla qualificazione dei servizi. Riuscì a risolvere il problema dell'archivio, di cui ricorrentemente i suoi predecessori avevano lamentato lagrimosamente le perdite e la pessima conservazione, affidandolo in toto alle cure di un solerte e valido agente ausiliario, Matteo Lacchin, che riordinò con pignoleria le carte, allocandole in eccellenti, robusti contenitori di cartone. Ebbe inoltre un idillico rapporto (sinché la tisi non lo strappò al servizio della Cappella nel 1913) con Domenico Torres, Maestro assistente, col quale senza conflitti di sorta divise le responsabilità, organizzò le sostituzioni reciproche, fra Maestro e vice, in basilica e nella tenuta della scuola.
Nel 1921 Thermignon, sessantenne, si dimise dall'incarico per poter ritornare, da pensionato, nella natia Torino, sistemando con una soluzione piana una successione affidata per un quinquennio a una sua creatura: don Umberto Rasetta, che, assunto senza concorso, dispose diversi piccoli adattamenti e puntuali ritocchi dei regolamenti finalizzati al decoro dei servizi artistici e alla corretta gestione dei rapporti sindacali con i musicisti. Il subentrante Maestro, Matteo Tosi, nominato "per esperimento", senza concorso, nel 1926, accettò l'incarico con la apparentemente strana motivazione che l'esiguità dell'ingaggio non gli poneva problemi in quanto era un sacerdote. Subito mise in atto una riforma, pressoché non scritta, di fatto basata su alcune decisioni pratiche, quali lo scioglimento, dietro buonuscita di legge, della intera Cappella con reimmissione in ruolo immediata dei migliori elementi e poche assunzioni di nuovi validi, entrambe valorizzate con una miglioria dello stipendio a fronte di una rigida regolamentazione delle prove e di una fissazione severa delle multe. Non dispiacque ai superiori la proposta di una ulteriore riduzione dell'organico dei cantori e della limitazione alle occasioni speciali (decise dalla Procuratoria) dell'utilizzo di aggiunti, nonché la razionale distinzione in tre classi dei musicisti occupati: (I) con l'obbligo di tutte le funzioni, (II) obbligo limitato alle festive, (III) obbligo alle funzioni solenni e feste ordinarie. Introdusse anche, don Tosi, prima di trasferirsi nel 1938 a Rimini, sua città natale, dove era stato chiamato alla direzione della musica del duomo, un procedimento di riconferma dei musicisti impiegati connessa alla frequenza di corsi di aggiornamento nello studio del gregoriano e del figurato.
Senza concorso, con un contratto di incarico temporale, divenne Maestro, per poco più di un anno, Gastone de Zuccoli, affiancato in posizione paritaria da un "pro Direttore", don Luigi Vio (da diciotto anni già attivo come vice soprannumerario, in specie addetto al funzionamento della scuola), e qui attorno, negli anni dell'ufficio di primo procuratore, conte Giuseppe Volpi, avvenne, in Cappella, un fitto intreccio di direzioni e vicedirezioni, spostamenti di ruolo, promozioni, interinati. Il Maestro Carmelo Pavan ottiene il posto di vice con l'obbligo della conduzione della scuola e anche delle sostituzioni sia del prodirettore Vio, abbastanza rinunciatario, che del primo organista ormai molto anziano, Pittau. Pavan rimane al posto sino al richiamo alle armi nel '40, e vi ritorna a guerra finita, per restarvi a lungo nella posizione di vice Maestro, sino al 1975 (anno in cui, molto innovativamente, l'organico vocale della Cappella si apre alle voci femminili, consentendo in tal modo un brusco ritorno al repertorio, da più di un secolo castrato della componente sopranile, delle grandi musiche a cappella marciane a quattro e più voci, nonché la rinascenza del caratteristico doppio coro; nei primi anni Ottanta la Cappella poté contare su una quarantina di cantori, maschi e femmine, nonché sul ripristino dell'orchestra, con una ventina di strumenti, ridotta poi, per rispetto delle prassi esecutive, sul finire degli Ottanta, ad un ensemble di 5 ottoni, in linea con il fatidico "suono di San Marco").
Al pensionamento di Luigi Vio aveva fatto seguito nel 1954 la nomina per chiara fama di Alfredo Bravi, che in omaggio al sodalizio personale con il Maestro Joseph Kronsteiner di Linz aveva introdotto nel repertorio della Cappella, negli anni della sua lunga direzione (che cessò nel 1982), molta musica sacra di autori austriaci. Successe nella direzione a Bravi, nel 1982, Roberto Micconi, che già era organista en titre dal 1975, e che operò per dar ordine al disciplinamento del repertorio marciano distribuendo nel corso dell'anno liturgico un'ampia rappresentazione "storica" della intera vita della Cappella: una sorta di rappresentazione vivente di una tradizione preservata dalla cattiva influenza del lungo disagio strutturale, operata senza disequilibri nella "restituzione" fra classici marciani, musiche sacre illustri d'ogni secolo, con ampia testimonianza delle composizioni dedicate alla Cappella dai suoi Maestri anche meno noti e anche recenti, non senza portare attenzione alla conservazione del gregoriano e del "patriarchino", della tradizione della distribuzione "spaziale" nelle cantorie e a terra. Una presentazione saggia, piana, condotta con una prudente alternanza, di domenica in domenica, delle esecuzioni di musiche polifoniche con organo e strumenti e musiche a cappella.
A partire dagli anni Cinquanta alla produzione di musica in Cappella esclusivamente connessa all'uso specifico del servizio sacro di S. Marco, si sovrappone un altro uso della musica in basilica, non precisamente autoespressivo della Cappella in sé. Per le sue caratteristiche ambientali, altamente suggestive, incantevoli e mitiche, la chiesa di S. Marco diviene infatti sede di manifestazioni musicali che travalicano la sua storia o lo specifico sviluppo della sua storia, per costituirsi come sede di più dimensioni arcane della musica: l'evocazione di primitivi stati della spiritualità ovvero di immaginarie sue configurazioni a venire. Più volte infatti la basilica è stata eletta, vieppiù negli ultimi nostri anni, a luogo eletto, ambitissimo, di manifestazioni di arte musicale che necessitano di un intervento recettivo precipuamente spiritualizzato; significativamente, divenuta temporanea sede di mostra internazionale di nuove musiche, la basilica presta infatti le sue aure risonanti, i suoi echi, i suoi riverberi, ad illustri creazioni contemporanee, fra le quali svettano alcune "prime" assolute stravinskiane (emblematicamente il Canticum sacrum ad honorem Sancti Marci nominis composto dal Maestro russo sulla falsariga della costruzione architetturale della chiesa e dei suoi cicli decorativo-narrativi; ma anche, dello stesso Stravinskij i Requiem Canticles, il Monumentum pro Gesualdo, l'orchestrazione/ri-creazione delle bachiane Variazioni canoniche su Vom Himmel hoch da komm ich her). Tale connotazione, sviluppata sulla scorta dell'exemplum stravinskiano, incide non poco, sin da subito, sulla storia della Cappella, la quale diviene, per altra via, altra via dalla antica "statale", dogale, o "continuista tradizionale", altro luogo essenzialmente rappresentativo di più di una forma di "venezianità": in specie la venezianità che interpreta i propri luoghi come spazi simbolici della modernità. Intendo quella modernità di cui son testimoni le Biennali, eccellentemente le Biennali musicali, le quali portano in basilica gli svolgimenti di momenti della riflessione intensissima della musica colta in alcuni suoi momenti-cardine, passati, presenti e a venire: momenti storici, filologici, innovativi, espressivi, costruttivi - si pensi al Diario polacco di Luigi Nono, portato in S. Marco dalla Biennale, per tentare d'interpretarne nel dispiegamento spaziale delle sue volte, i nuclei di tragica sonorità, a mo' di ideal-tipico rito sacrificale; si pensi agli opera omnia di Andrea Gabrieli, portati sempre in S. Marco dalla Biennale nel 1985 del centenario dell'illustre Maestro marciano, restituiti alle fisicità spaziali delle prassi esecutive originali del "suono di San Marco", filologicamente, studiosamente ricostruito dal profondo dei secoli; ovvero all'intero ciclo sempre biennalesco dedicato nel 1998 alla nuova musica sacra nel festival intitolato L'ora di là dal tempo a dimostrazione di ogni forma attuale di spiritualismo poetico in musica ritrovato in un aldilà terreno ambientato, semiritualmente, in basilica.
Tale connotazione di S. Marco si allarga ancora ad altro, negli anni recentissimi della illuminata reggenza della procuratoria di Feliciano Benvenuti (Ottanta-Novanta); la Cappella accanto alla sua conservata vita liturgica vive una seconda vita "concertistica" eletta, votata alla responsabilità, civica, della presentazione di musiche rare, e di omaggi all'arte musicale - non solo veneziana -: manifestazioni frequentate da un pubblico di invitati ufficialmente selezionati, ma anche manifestazioni allargate alla dimensione mediatica, come avviene nell'oramai divenuto tradizionale "Concerto di Natale", ripreso e diffuso dalle reti televisive di Stato, che presta il suo charme occasionale e ambientale alla valorizzazione di musiche tutte da conoscere (come è accaduto nelle recenti esecuzioni natalizie di opere allucinatamente spirituali come Des canyons aux étoiles di Olivier Messiaen, ovvero opere sacre marcate del memento del tragico contemporaneo, come nella Missa pro pace scritta in tempore belli nella Roma occupata dai nazisti da Alfredo Casella, uno dei promotori più valorosi, negli anni Trenta, dei primi festival, della vocazione di Venezia a divenire patria della musica contemporanea).
Occorre comunque ritornare a considerare, dopo la pausa marciana, quella istituzione musicale cittadina che più notoriamente si ritiene deputata ad un contatto di effettiva attualità e di effettiva espressione della "venezianità" superstite - possibilmente evidenziata nel quadro dei confronti con le altre tipicità culturali di altre subcapitali italiane, tutte ex capitali di "statini" e "statoni" sette-ottocenteschi, confronti, peraltro, sempre più sollecitati dalla informazione giornalistica -, ossia a quella che è o avrebbe dovuto essere, in tempi di ormai indiscusso consolidamento della identità unitaria nazionale, la più 'comune' delle istituzioni: il teatro.
Se, dopo la lunga panoramica, più sopra esaurita, delle gracili occasioni festive, tutte, nonostante le promesse, ben poco straordinarie e di fatto debolmente rappresentative, se ritornassimo in teatro, se ritornassimo qui alla Fenice, per dar spazio ad alcuni rilievi sulla tenuta strutturale della prima istituzione musicale, la troveremmo, la Fenice, agli albori del ventesimo secolo, in uno stato di desolante decadenza. Nonostante le due, peraltro modeste, "prime" mascagnane del 1907 e del 1912 (Amica e Isabeau), nonostante alcune sparute occasioni di allineamento all'up-to-date con poche proposte artistiche "alla moda nella Milano", già divenuta "capitale morale" e intellettuale della nuova Italia, grazie ad alcune imitazioni scaligere o a furtive mosse di aggiornamento (emblematicamente il celeberrimo gran ballo allegorico "progressista" Excelsior, nel gennaio 1900 - non meno emblematicamente "ridotto" per opportunità economiche: "Il ballo venne concluso per brevità con la scena dell'Istmo di Suez [cioè prima della metà]" -; ben tre riprese nel giro di un decennio della Damnation de Faust berlioziana, tradotta in bella lingua italiana e adattata alle scene, con un direttore nazionale ma nativo di Rottanova di Cavarzere come Tullio Serafin sul podio); nonostante alcuni lanci, con un certo qual orgoglio tentati in stato di ricerca di una prerogativa d'immagine, di autorevoli testimoni del romanticismo tedesco tradotto, o di opere italiane di gusto germanizzante (Ring wagneriano, Euryanthe di Weber, Germania di Franchetti, Wally, Parsifal), nonostante la messa a punto di parziali restauri dell'edificio - peraltro tanto casuali quanto radicali e ben poco rispettosi del testo architettonico la cui identità formale andava velocemente dissolvendosi -, fra anteguerra, chiusura in tempore belli e riapertura postbellica, l'istituzione teatrale fenicea andò sempre più soffrendo le condizioni critiche di una sopravvivenza ben poco convinta (il Teatro dovette cedere, per non tracollare, se non proprio al cinematografo che bussava alle porte della città, sia a grigie ed aleatorie stagioni di teatro di prosa che a fumiganti rassegne operettistiche impresariali, di basso, bassissimo, infimo profilo).
Con il tirare delle prime aure del "rinascimento fascista", a partire dal '22, da una modesta sinergia (portatrice di qualche sollievo finanziario) intrapresa fra un neoistituito Comitato cittadino Pro Fenice e la Corporazione nazionale del teatro, si profilò un piccolo tentativo di ripresa(9). Il Comitato cittadino era ancora una volta costituito più da classici "bei nomi" dell'aristocrazia lagunare (Papadopoli, De Chantal, ecc.), che non da nuove personalità rappresentative della nuova nazionalità; per pochi anni ancora, senza rinnovare alcunché, il nuovo organo di gestione si adattò a riapplicare, più o meno pari pari, il solito modello della presentazione di opere prese supinamente a prestito dal giro di una o più compagnie impresariali (appena appena guarnendo le stagioni di piccola routine con l'aggiunta, di fatto talora non poco impopolare in platea e in galleria, di qualche "novità", più precisamente, quasi sempre di qualche opera di un compositore vivente e possibilmente genio in loco - Wolf-Ferrari, Cattozzo, Bianchini). Così che quando si trattò di solennizzare in Fenice, nel 1923, la prima visita veneziana di Mussolini primo ministro, senza attingere ad alcuno dei peraltro molti bazar tematici della rivoluzione mussoliniana, senza tentare espressioni persuasive degli appeals della razza nazionale, senza dimostrare la capacità di Venezia di saper fascistizzare la propria locale, altra chance non risulta praticabilmente offrirsi agli ospiti lagunari se non quella del cedimento alla tentazione di esibire e offrire al duce una consuetudinaria passione nazional-vernacola passatella, condensatasi nel giro di non molti anni, sino a un certo grado di sublimità ampiamente recepita (in specie fuori d'Italia, nei teatri austriaci e bavaresi) nella più "riuscita" delle commedie goldoniane di Wolf-Ferrari (I quattro rusteghi).
Dopo tre soli anni il Comitato Pro Fenice, siamo già nel '26, si rinnova nell'occasione della messa a punto di un protocollo di intenti fra l'antica società proprietaria (del Teatro, la società dei bis-tris-nipoti dei fondatori) e il nuovo Comitato, un po' "tecnico", che assegna la direzione, molto "condizionata", della programmazione, per un triennio, a un esperto professionista: Ferrante Mecenati. Il qual Mecenati, a corto di suoi omonimi sponsors, è subito messo a governo - come si può vedere qui sotto subito -, subito messo a regime controllato, sia nell'economia che nel merito dei contenuti della gestione delle sue tre-quattro stagioni:
[…] sarà ufficio del Maestro Mecenati [si scrive nel contratto] di cercare e trovare [!] le imprese che meglio affidino per la esecuzione delle singole stagioni liriche, curando che le imprese stesse siano le più adatte e soddisfacenti, così nei riguardi dei tecnici come per la base economica. Inoltre, in relazione alla scelta degli spettacoli, che è di ragione della giunta esecutiva, il Maestro Mecenati, in tempo utile sottoporrà alla stessa giunta il suo progetto di cartellone per ogni stagione.
Che può fare un direttore artistico imprigionato in un quadrato di condizionamenti del genere? Ovviamente poco può fare, quasi nulla; potrà affidarsi a un impresario un po' più dabbene di altri (e sarà in quegli anni, buon per lui, la premiata Ditta Nardello); potrà cercare di anticipare i desiderata della giunta programmando, con faticose contrattazioni con l'impresa, una contemperazione di repertorio popolare, ovvero garantito, e di pallide "novità" (destinate pressoché comunque tutte a cadere o a perire distrattamente quando non malamente), fra le quali ultime cercando di andare a un pareggio di bilancio fra gli esiti delle pressioni nazionali (di sottobosco politico, o editoriali) e di quelle locali: qua allora un titolo Iginio Robbiani a fronte di un titolo Wolf-Ferrari, là un Montemezzi contro un Gabriele Bianchi, qua un Castelnuovo-Tedesco o un Gusmini o un Gui contro un casalingo Trentinaglia, un Montico contro un Cattozzo (è peraltro, quest'ultimo, un campo di eccitazioni di malesseri, irretito dai sospetti di barattamenti oscuri: sentimenti ambientali connessi a insoddisfazioni clientelaristiche - emblematico caso di aggrovigliamento di reazioni di questo genere è il comportamento del compositore Antonio Sanzogno, che interviene sul podestà, sia per esecrare la negligenza nei suoi confronti del Comitato e della Ditta Nardello, sia per proporre agli stessi un esborso personale di 10.000 lire [una bella somma] per "veder compreso", ossia "eseguito", alla Fenice, un suo Stabat Mater, che afferma essere stato apprezzato, con tanto di testimonianza autografa, da Jules Massenet).
Nel mentre che a livello nazionale il nuovo regime introduceva nei plurimi campi della vita musicale italiana una oscillantissima combinazione di direttive e intenti essenzialmente poco coerenti, in bilico fra un gaio e giovanile modernismo, talvolta solo strapaesano, becero o goliardico-guffino, e un anziano bigio tradizionalismo, accademico, i quali intenti mescidatamente aggrumati, proprio grazie alla, o, comunque, nella mancanza di coerenza, erano forse in grado di accendere alcune situazioni ambientali dialettiche, magari interessanti: vuoi le reazioni dall'interno ad alcune rudi fascistizzazioni corporative di diverso segno - paritariamente, talune attardate, talune moderniste -, vuoi gli scontenti per le protezioni proterve, ma di fatto poco perseguite, che ogni tanto accendevano scintillanti polemiche al riguardo di alcune beatificazioni accademiche, ben remunerate, di Maestri molto "assortiti" nel carattere e nelle tendenze - Perosi, Mascagni, Cilea, Pizzetti, Giordano, Respighi (tutti eletti dal duce accademici d'Italia) -, vuoi gli appelli generosi alla formazione di una cultura per le masse nazionali, frastornati da altri appelli non meno generosi alla conservazione delle tradizioni locali, ecc. ecc., nel mentre che tutto ciò accadeva in Italia, a Venezia l'"ente teatro", dedicato ad ogni atto di rappresentanza civica e culturale, languiva in stato di cogitabonda penuria di risorse. Un incremento oltremodo visibile di questa patita decadenza portò a un primo importante sussulto di riassetto strutturale. Il 24 ottobre del 1935, infatti, l'assemblea dei soci, come s'è detto ultimi eredi degli storici settecenteschi fondatori, deliberò unilateralmente, senza avere udito parere alcuno del Comitato e dei gestori in carica, il dono del Teatro al Comune (trasfondendo allo stesso la proprietà degli immobili "e di ogni altro annesso descritto nel Catasto del Comune", ed esprimendo, nell'atto stesso della donazione, nettamente, il voto che questa decisione dei soci potesse incoraggiare la Municipalità a "perseguire scopi di educazione e propaganda attraverso la musica e l'opera").
Una simile ritirata avviene di fatto quando alcuni ingressi di attività musicali nel quadro complessivo delle attività del Teatro sembrano, invece, promettere interessanti coperture istituzionali, anche "governative", ed anche a carattere non solo nazionale, ma internazionale, in grado forse, pensando il tutto in positivo, di lasciare intravedere un futuro interessante per l'"entità" ovvero per l'ente teatrale feniceo. Già nel gennaio del 1930 il ministro della Educazione, Balbino Giuliano, aveva infatti firmato un regio decreto istitutivo della "autonomizzazione" dell'ente Biennale, e nel settembre dello stesso anno si era organizzato (fra Teatro la Fenice e Hotel Excelsior) il primo Festival internazionale della musica contemporanea, ufficialmente presieduto dal compositore fascista Lualdi, ma di fatto diretto-pensato-coordinato da un musicista di fama e formazione internazionale come Alfredo Casella (a sua volta coadiuvato da un sensibile organizzatore di cultura come Mario Labroca). Quel Festival, che poteva vantare la presentazione di molte "prime" assolute mondiali, ed in specie di presentazioni di opere di quel genere di musica che di lì a poco sarebbe stata efficacemente bollata come "degenerata", aveva alternato nei suoi programmi atti abbastanza solenni di grandi firme di musicisti innovatori, con qualche capolino di figure medio-grandi dell'avanguardia, alcuni gradevoli exploits di grandi, piccoli, piccolissimi eclettici, con un certo numero di opere di musicisti ebrei, e, senza opporre, comunque, censure o ostracismi, con un discreto campionario di espressioni del pensiero compositivo reazionario, non di raro condito di torve espressioni d'insofferenza per ogni modernità, ebraicità, avanguardismo, intellettualismo. Un po' di tutto, insomma, con gran afflato conciliatorio, confidando nella bonaria accoglienza un po' a tutti i livelli della politica culturale contemporanea di una offerta, come oggi si potrebbe dire, pluralistica:
musiche di Sir William Walton, Gabriele Bianchi, Prokof'ev, Sinigaglia, Bloch, Santoliquido, Veretti, Bartók, Castelnuovo-Tedesco, Falla, Tommasini, Skrjabin, Rosi, Alderighi, Kodály, Pick-Mangiagalli, Hindemith, Marzollo, Szymanowski, Krenek, Roussel, Massarani, Turina, Ferro, Harsanij, Milhaud, Tansman, Alfano, Malipiero, Alaleona, Stravinskij, Müller, Zandonai, Busoni, Honegger, Casella, Lualdi.
E così si era proseguito regolarmente nei Festival successivi, con programmazioni ufficiali internazionali che nel Festival del '34 avevano anche imboccato la strada della produzione teatrale sperimentale (con le messinscene, povere ma nobili, di alcune pregevoli novità di teatro musicale più o meno da camera: di Malipiero, Casella, Casavola, Lualdi, Falla, Respighi). Si tratta di un'area di produzione culturale, questa dei Festival della Biennale musicale, tipicamente divenuta una celebre insegna veneziana, anche se pur non progettata a Venezia, e anche se mai troppo riconosciuta come propria ed autoespressiva dal pubblico intellettuale indigeno - che visibilmente la disertò sempre, sin in quei primi trent'anni del secondo dopoguerra che furono gli anni degli sbarchi in laguna delle avanguardie le più dure, europee e americane -, mantenutasi abbastanza regolare, ed anche regolarmente mantenutasi promiscua, con abbacinanti "prime" mondiali di capolavori mischiate a rigurgiti di accademismi provincialistici, a cicli pietosi in requiem di maestri minori morti, a pimentose apparizioni di esotici flashes di "altre civiltà planetarie lontane" - come fu per la imprevista visita dell'Opera di Pechino nel corso del diciottesimo Festival.
Riprendo e ripeto: quando 'qualcosa' sembrava fiorire, sull'onda di un promettente impianto di nuove risorse, la Società fenicea si ritirò dal campo. Il Comune di Venezia, sollecitato a responsabilizzarsi sul suo Teatro e a gran voce chiamato a cambiar faccia alla istituzione vetusta, partì proprio dalle strutture murarie del corpo fisico dello storico edificio e ne avviò un cospicua ristrutturazione, nel 1936, facendo irrobustire gli assetti non senza uso e abuso di cementi. Molte strutture dell'edificio furono ridisegnate; per quanto esplicitate come soluzioni ex nihilo, nuove, architettonicamente parlando, intruse, furono subito interpretate come se fossero "storiche" al pari delle storiche sopravvissute alla ristrutturazione (vigeva un'idea per la quale tutto ciò che ineriva alla Fenice diveniva istantaneamente ipso facto assorbito ed equalizzato alla sua vaga storicità e alla sua continuità mitica di luogo che, pure, autenticamente antico non era mai stato, ch'era già stato bruciato, già rifatto, già decorato e ridecorato più volte, onusto di iperfetazioni, chiuso e richiuso e riaperto più volte ed anche per periodi non brevi, per quei periodi lunghi che nella chiusura, in specie in tempore belli, fan dismettere ogni possibile fisiologica continuità di un ambiente). Gli ingegneri del Comune introdussero alcuni impianti necessari alla attualizzazione tecnologica delle messinscene.
Questo debordante rinnovo, che venne a stendersi su di un altro ancora sensibile tempo di chiusura del Teatro, questa volta motivato non da una catastrofe o da belliche disavventure, ma sollecitato da un impulso palingenetico e risanatorio, portò all'immediato riconoscimento, per la Fenice, dello statuto giuridico dell'ente autonomo (che già s'era modellato a Milano nell'ente scaligero). Tale riconoscimento significava anche immediatamente il rispetto delle discipline degli enti previste dai decreti istitutivi, fra le quali potrebbero essere qui ricordate, come in special modo significative, alcune norme relative agli avalli delle programmazioni che dovevano essere approvate da una commissione romana in cui si comprendevano, fra i giudicanti:
il Ministro per la Stampa e la propaganda, o chi per lui; l'ispettore del Teatro, presidente della commissione; il vicepresidente della Corporazione dello spettacolo; il segretario generale dell'Opera Nazionale Dopolavoro; tre rappresentanti del Sindacato Nazionale Musicisti; un rappresentante del Partito (Nazionale Fascista): delegato all'ufficio nazionale Collocamento Spettacolo; il presidente dell'ente (sindaco di Venezia); il sovrintendente dell'ente autonomo lirico; un rappresentante del Ministero dell'Interno; due rappresentanti della Società Editori Musicali designati dalla Federazione Nazionale Industriali Editori; un rappresentante della Federazione Industriali dello Spettacolo (Impresari); il segretario del sindacato del teatro lirico; un rappresentante della Federazione Nazionale dello Spettacolo Lavoratori (F.N.S.L.).
Gli stessi decreti indicavano fra gli scopi delle attività degli enti l'applicazione di "criteri d'arte" e impegni per la "educazione musicale del popolo" (del pari erano esplicitamente sconsigliati gli scopi di lucro). Il sovrintendente era designato dal ministro, per pochi anni dal ministro della Stampa e la propaganda, poi da quello della Cultura popolare (Dino Alfieri). La fascistizzazione del teatro lirico, a dire del potente Nicola De Pirro (della Federazione Nazionale Industriali dello Spettacolo), avrebbe dovuto "resuscitare il teatro d'Opera a quella importanza dalla quale si era dimesso sotto il mediatorato". Si trattava di portare, dunque, sotto le ali dello Stato, il teatro a diretto contatto "con tutto il pubblico", si trattava di ridare importanza alla produzione contemporanea italiana, di sostenere i sostenitori dell'arte (tutta italiana) del belcanto, disciplinatamente. Si dovevano aggiungere, però, a questi propositi manageriali, anche le istruzioni ideali confusamente consegnate, fin dal 1927, dal duce Mussolini al musicista che avrebbe dovuto poi dirigere i Festival "contemporanei" veneziani, Adriano Lualdi:
belle le vecchie opere (piacciono anche a me) ma si devono sentire e risentire le nuove; potrebbe essere che se su 50 opere nuove 48 sono brutte, due potrebbero essere belle; se si facessero di più, quelle due, sarebbero denari ben spesi; la musica da concerto non arriva alle grandi masse, quella dell'opera lirica sì; è necessario che gli italiani imparino ad amare anche la musica che non sanno a memoria; il pubblico italiano ama soltanto la "musica verticale", occorre che si risvegli il suo interesse per la musica nuova; basta con la musica che si suona per le strade con i piani a manovella; la musica di teatro deve rinascere innanzitutto.
Istruzioni generiche, un po' grezze, ma fors'anche abbastanza generose, per quanto condite di frammentari richiami razziali abbastanza tipici dello stile comico-involontario di Mussolini: "Verdi lo suoniamo bene noi perché l'abbiamo nel sangue", "Toscanini è il più grande direttore d'orchestra del mondo […]. Nel mezzo d'espressione la musica è internazionale, ma nella sua essenza è nazionale […]. In un locale oscuro dove si suona io so sempre distinguere la musica francese, dalla tedesca, dalla russa e dall'italiana […]. La musica è la più profonda espressione della razza".
In effetti due "rinascenze" fasciste dell'opera lirica partirono per due destinazioni diverse su due distanti binari: sul primo si mosse il Carro di Tespi cui fu attribuito il ruolo di un superteatro mobile nazionale incaricato della massificazione dell'amore per l'opera quale espressione della razza da ritrovarsi nelle benservite abitudini d'ascolto degli italiani di razza popolare; sul secondo binario, quello degli enti lirici, si avviò un altro carro i cui manovratori erano invece invitati a modificare, nel senso dell'apertura delle orecchie, orecchie italiane, da disabituare al vecchio e da iniziare al "nuovo", oltre le pur tanto coltivate esperienze abitudinarie, e massificate, delle Estati Musicali, dei Sabati Teatrali, del Carro di Tespi (il quale via via veniva portato ovunque in spedizione formativa di base nei luoghi aperti più suggestivi del paese). Una certa contraddizione di fondo andava dominando le cose dell'opera.
Prima che il Teatro la Fenice potesse trovare, in questo viluppo di contraddittori precetti attorcigliati d'autonomia e di controllo centrale, la sua vera via, nel tempo dei restauri migliorativi del vetusto teatro dov'era ma non com'era, Venezia aveva subìto, avverso la programmazione dei Festival allestiti da Alfredo Casella nelle sedi decorosamente decentrate dov'ebbe luogo, molte asprissime critiche e censure da parte di esponenti anche illustri dell'establishment ufficiale italiano e fascista (il quale inveì contro quello che si chiamava senza mezzi termini il "comunismo musicale" del Festival e contro i suoi vari "in...casellamenti"). Ennio Porrino, modesto compositore, autolibrettista e critico di partito, allievo non prediletto di Respighi, imputava a Casella di aver fatto eseguire troppe opere di musicisti stranieri ed ebrei (Stravinskij, Bartók, Schönberg, Falla, Prokof'ev). Ispirata negativamente dalla esecuzione veneziana della Suite op. 25 di Schönberg, un'altra penna ufficiale, quella di Luciano Tomellari, colse l'estro, sulla "Vedetta Fascista", di far riecheggiare espressioni schifate in puro stile goebbelsiano:
Mi fa l'effetto, questa Suite, di un cesto di frutta fetida dove la brodaglia cola sugli ultimi resti non tocchi [nel senso vernacolo romagnolo di "marci"]. Una cosa ho capito: ho capito perché il nazionalismo tedesco abbia cacciato gli ebrei; questa sera non gli ho dato torto.
Andò a cadere in una situazione così connotata l'avventura del giovanissimo neosovrintendente del Teatro, designato dal ministro ad essere il primo ad applicare le norme del nuovo assetto di autonomia ipercontrollata: il trentatreenne compositore romano Goffredo Petrassi. Essendo ancora chiuso per i succitati restauri il Teatro, Petrassi fu incaricato, nel 1937, solo e soltanto di programmare. E con quello del Teatro fu invitato a programmare il VI Festival di musica contemporanea del venturo 1938; accortamente, prima di dovere poi render conto alle penne di Partito, fece avere, per conoscenza, al Ministero della Cultura popolare una lista di possibili invitati di non altissimo profilo, in gran parte italiani. Nella lettera accompagnatoria scriveva Petrassi al direttore generale De Pirro mettendo in equilibrio osservazioni d'opportunità a criteri di "rispetto della decenza":
Purtroppo ci saranno molti musicisti che adducendo ragioni di vario genere cercheranno di essere invitati, ma bisogna andare molto calmi per non abbassare il livello artistico […] alcuni nomi non si discutono, altri, ti faccio notare (Rosati, Frazzi, Ghedini, Desderi, Masetti, Tocchi) non hanno mai partecipato, Bianchi è un musicista veneziano e sarà opportuno invitarlo per ragioni diplomatiche [...].
A partire dal difficilissimo anno 1938 Petrassi cercò, non mancando mai al rispetto del dettato istituzionale-burocratico, di disegnare delle stagioni liriche equilibratamente corrispondenti alla necessità sia di fare spettacolo che di far conoscere al pubblico opere che avrebbero potuto qualificare conoscitivamente la partecipazione dei cittadini allo specifico culturale della variegata proposta dei titoli in cartellone: un Don Carlo, Debora e Jaele del potentissimo Pizzetti, L'elisir d'amore e I maestri cantori tutti diretti da Guarnieri, l'Elektra di Strauss e Il signor Bruschino diretti da Sanzogno, la Valchiria diretta nuovamente da Guarnieri, Tosca, Gianni Schicchi, L'heure espagnole di Ravel, Re Hassan di Pinelli-Ghedini in "prima" assoluta, nuovamente diretti da Sanzogno, Carmen e Ballo in maschera diretti da Vittorio Gui, Arlecchino ovvero Le finestre (accettato dalla commissione dopo una peripezia di censura a proposito di un dettaglio antimilitarista del libretto) di Ferruccio Busoni, Friedenstag di Strauss, Turandot, Cavalleria rusticana nell'allestimento del Maggio fiorentino, Pulcinella balletto in "prima" italiana coreografata, ecc. Un simile equilibrio fra proposte effettivamente impegnative ma non provocatorie e oculata scelta di opere note ma suscettibili di essere meglio conosciute se offerte in realizzazioni artisticamente qualificate, era mantenuto, forzando in resistenza, nel retrobottega del Teatro, un urtante, martellante, sistema di pressioni, lettere di raccomandazioni, caldi suggerimenti ministeriali, cui occorreva più di un muro di gomma, fermezze, distrazioni, temporeggiamenti. A scorrere le carte documentarie si può constatare la quantità impressionante (decine e decine) di segnalazioni ufficiali di cantanti benvisti a Roma, direttori d'orchestra, strumentisti, impiegati, funzionari, a fronte delle quali la Sovrintendenza deve necessariamente reagire evitando di raccoglierle per non compromettere la 'faccia' del Teatro. Evitando qui di fare i nomi di tenori, soprani, violinisti, scenografi, dio sa a qual titolo raccomandati, si può vedere, forse ancor più significativamente, di quali creazioni contemporanee i funzionari o il ministro Alfieri in persona sollecitavano su carta intestata e con accenti decisi l'accesso al cartellone.
Si potrebbe, mettendone in fila i titoli, farsi un'idea di qual insensata mostra di orrori fosse componibile l'utopica gestione della "culturalizzazione" delle masse idealizzata dal regime là dove si erano creati gli immaginari luoghi deputati alle presentazioni di quella "musica nuova" (almeno due opere su cinquanta) che avrebbe dovuto aprire le orecchie degli italiani, e nella fattispecie dei veneziani, "superando ogni mentalità ostile alla giovane musica italiana". I titoli raccolti nella seguente lista compaiono tutti in altrettante lettere di caldo suggerimento programmatico, lettere tutte ricevute in un solo anno dal sovrintendente, ahilui!, nominato da Roma:
La giornata di Marcellina di Parelli, Il Revisore di A. Zanella, La beffa a don Chisciotte di S. Messina, Campane di guerra di Ranzato, Alzair di Ennio Porrino, Donata di Scuderi, Karma di Ragni, Il drago rosso di Savagnone, Giocondo e il suo Re di Jachino, Imelda di Gandino, Tzigani di Cremesini, Il gigante di Guarino, Caracciolo di Vittadini, Il candeliere di Carabella, La grazia di Michetti, La figlia di Navarca di Agostini, Il Falco di Ugo Rápalo, ecc.
Quasi come a una ciambella di salvataggio in un tal mare di oscene pressioni, che era culminato in un'ondata di diktat spaventosi coi quali s'adombrava un obbligo sancito dalla commissione centrale di valutazione delle programmazioni, e il cui testo iniziava circa così:
Il 50% dei lavori compresi nel cartellone dovrà essere costituito di opere rappresentate per la prima volta dal 1900 in poi e fra esse il 50%, un quarto dell'intero cartellone, dovrà essere di opere rappresentate per la prima volta nell'ultimo ventennio [ossia dal '18 in qua],
quasi come a una ciambella di salvataggio, dicevo, s'aggrappa Petrassi, e poi, dopo di lui, anche il suo successore, Mario Corti (braccio operativo dell'appartato ma vigile Gian Francesco Malipiero e ottimo navigatore della programmazione "diplomatica sì, ma di qualità", tanto da restare in carica prima, durante e dopo la Liberazione) quando accettano entrambi di corrispondere, per un "x" di quella percentuale obbligata di opere nate nel trascorso Ventennio, ai lai della vedova Respighi, la quale aveva lamentato in alto loco l'improvviso calo di messe in scena di opere del Maestro, dopo la sua morte. Il ministro Alfieri aveva trasferito l'istanza di Elsa Olivieri Respighi a tutti gli enti aggiungendo che
a conseguenza di ciò [delle lagnanze della moglie vedova di Respighi] si prega codesto Ente di voler studiare la possibilità di includere nella stagione popolare del prossimo autunno un'opera di Respighi,
e subito, prima Petrassi, e poi Corti, non una, non due, ma ben tre opere di Respighi, "raccomandate", ma anche, grazie a Dio, sufficientemente pregevoli, mettono a cartello: nel 1939 la coreo-drammatizzazione del poema sinfonico Gli uccelli, nel 1940 la cospicua per niente disprezzabile opera "bisantina" La Fiamma, nel 1942, addirittura, l'incompiuta Lucrezia (terminata per l'occasione veneziana, lavorando sulle carte superstiti, dalla vedova, compositrice e già allieva del Maestro).
Il disegno di conduzione artistica di Petrassi, che il successore Corti aveva pari pari adottato, fu un vero e proprio imprint della futura configurazione programmatoria del Teatro, un imprint che ben potrebbe risultare analizzato, quantificato, illustrato, nel dispiegamento della storia della programmazione del Teatro nel secondo dopoguerra, compulsando, anche per breve tratto, l'esatta, esaurientissima Cronologia di cui, grazie agli studiosi che per anni si sono dedicati al vaglio dei materiali e alla Associazione Amici della Fenice che ne ha favorito la pubblicazione, gode la storia del Teatro veneziano che dispone della, in senso assoluto, migliore cronologia scientifica di storia teatrale sinora edita(10). Nel suo sviluppo in cronologia la storia contemporanea del Teatro non tralascia di sviluppare infatti molti, se non tutti i temi di quell'avvio dell'autonomia (che nei giorni presenti, soltanto oggi, si va realmente attuando, strutturalmente, con la costituzione degli enti lirici in fondazioni a compartecipazione di capitale pubblico e privato) che in tempi calamitosi aveva sperimentato la direzione Petrassi.
La caratterizzazione "veneziana" dell'ente lirico continua a restar sostenuta infatti per decenni e decenni da una impostazione mai dismessa, fondata sull'incrocio-intreccio, a volte inestricabile, di idee appropriate al servizio della tradizione lirica, e idee appropriate al teatro adibito a selezioni e mostre delle novità e degli specimina delle evoluzioni linguistiche della musica (pertinente espressione, anche statutariamente parlando, della istituzione insediata ad hoc in laguna: per l'appunto la Biennale musica). In effetti è accaduto che la Fenice ha sempre prestato se stessa alle manifestazioni del massimo impegno di ricerca culturale e creativa della musica del Novecento internazionale organizzate dalla contigua istituzione (priva di casa e di masse). Se stessa come luogo deputato, ovviamente sino a quando come tale mitico eletto luogo non è andata distrutta dalle sciagurate e rovinosissime fiamme di un ennesimo incendio del cui furore i resti inceneriti ancora oggi non sono risorti.
A questo prestito di sé alla Biennale e alla conseguente autoiniziazione del Teatro al moderno, per contiguità, mi riferivo più sopra, nella lista che molte pagine fa avevo apprestato raccogliendo i titoli delle "prime" alla Fenice, i quali dapprima per decenni e decenni e decenni si erano mantenuti grigi e patentemente tutt'altro che esaltanti, per poi ad un certo punto, un punto segnato con un asterisco, scattare dietro all'apparizione, in impennata, di alcune date connesse ad eventi artisticamente dirompenti in crescendo e dipoi quasi fatalmente rinnovatamente presenti (le "prime" assolute di Stravinskij, Prokof'ev, Britten, Lucas Foss, Malipiero, Nono, John Cage, Nino Rota, Berio, Maderna, Sciarrino). Eventi che trascinano lo standard di programmazione del Teatro ad includere, per magnetica attrazione, nella sua progettualità, un fortissimo impegno riservato al primato della proposta "culturale" vincente su ogni altra inclinazione, più o meno disimpegnata o corriva, al sostegno di pure funzioni di intrattenimento, o di generica rappresentanza, di mondanità, di consolatorio abbandono a puri e semplici e contemplativi consumi di una tradizione, peraltro supposta tale, "tradizione", per convenzionale consenso più che per effettiva coscienza. Non solo, comunque, il comune luogo, la comunanza ambientale, ha agganciato il destino culturale delle due istituzioni; altri elementi, altre componenti strutturali, infatti, hanno contribuito allo stringimento di sinergie, patti, intendimenti comuni: di certo, non da dimenticare, il ruolo dell'orchestra e del coro del Teatro che è stato costantemente e sempre coinvolto nelle più significative performances dei Festival; di certo non da dimenticare la fortunosa circostanza di plurimi passaggi di responsabili delle programmazioni, personalità dotate di potenziali organizzativi e creativi di grandissima portata come Mario Labroca e Mario Messinis, transitanti dall'una all'altra istituzione, in andata e in ritorno ed anche in congiunzione di ruoli direttivi.
Solo un rimando (non v'è spazio qui per altro), solo un rimando alla verifica della preziosa documentazione compattata nella cronologia fenicea di Rossi e Girardi può aiutarci a rintracciare i molti elementi di crescita del ruolo attivo del Teatro ascrivibili all'opera di sovrintendenti e direttori artistici negli anni seguenti. Sulla base dell'imprint Petrassi devono essere qui nominati - di più non si potrà fare - oltre al citato Mario Corti, il compositore Cattozzo, il Maestro Mecenati in un breve ritorno dalle prime esperienze direttive della Società della Fenice, il compositore Virgilio Mortari, l'abile Floris Ammannati con a lato l'infaticabile Mario Labroca, il saggio Gianmario Vianello in coppia con il vulcanico Sylvano Bussotti, il tenace Lamberto Trezzini in coppia con l'animoso Italo Gomez, le personalità 'professionali' di Eugenio Bagnoli, Gianni Tangucci e John Fisher, il mitico Francesco Siciliani al termine di una mitica carriera di organizzatore globale, e gli ultimi titolari attualmente in ruolo, inventivi, colti e puntualmente operativi Mario Messinis e Paolo Pinamonti.
Negli anni del dopoguerra, nella maniera, che si è poi irrevocabilmente consolidata, di quella che potrebbe definirsi una ricercata "nuova tradizione", le direzioni del Teatro hanno sperimentato i più diversi modi di condividere secondo diversi gradi e ordini di partecipazione diverse funzioni della vita musicale cittadina, regionale, nazionale, aprendo ad ampio raggio collaborazioni di studio e di verifica dei fiorenti studi nella prassi esecutiva e nell'approfondimento critico dei repertori, sia con le università che con i centri di ricerca filologica o di edizione critica. Ad esito, tuttora aperto, di questi esperimenti, che sono stati anche coraggiosamente introdotti o interpolati nella programmazione che ai suoi tempi il Fascio chiamava "popolare", il modello dell'intreccio intrattenimento-ricerca-conoscenza-diffusione di idee è scivolato dalle "speciali" applicazioni alla cultura contemporanea conseguenti agli imparentamenti con le Biennali, alla ricerca di effettivi recuperi revivalistici della musica antica, di recuperi della teatralità barocca (con rivendicazioni attendibili, di tenore quasi patriottico, del primato veneziano nelle vicende delle origini dell'Opera), di teatro musicale tradizionale disponibile alla reinvenzione creativa del cosiddetto "teatro di regia".
È persino accaduto che l'abbrivo di questa lunga rivitalizzazione culturale abbia portato alla sovrinterpretazione positiva delle potenzialità innovative connesse all'uso del "tendone" allestito all'isola del Tronchetto, detto anche Palafenice, all'indomani del furioso incendio che ha distrutto nel gennaio 1996 la casa madre in S. Fantin, rapidamente, nel tempo breve e notturno di uno spettacolo. Scostando gli effetti depressivi del lutto, scostando le ricadute psicologiche disaffettive del ritardo della ricostruzione "com'era e dov'era" del sette-otto-primonovecentesco Teatro di campo S. Fantin (ritardo tutto da ascrivere all'errore della scelta di un cosiddetto supposto rapido "concorso-appalto" del quale non erano stati valutati i molteplici potenziali di contenzioso amministrativo, subito scattato, a cascata rovinosa, dopo l'attribuzione dei lavori), l'insediamento nello spazio circense, dismessa ogni connotazione d'uso del teatro "alla veneziana", ha lanciato iniziative di avvicinamento a pubblici, non esclusivamente veneziani (data la raggiungibilità metropolitana del teatro provvisorio da parte degli abitanti dell'hinterland), e la riduzione del condizionamento del pubblico abitudinario e di anno in anno invecchiatosi, come invecchiata era la città, dei più classici abbonati, così come ha consentito esperimenti di regia impraticabili nelle angustie del ben poco moderno spazio teatrale "com'era e dov'era" (un teatro all'italiana nel quale stavano strette le stesse opere verdiane, sacrificato, in buca e in palco, da limiti ineludibili). Nel contempo, l'assoluta necessità d'insediamenti occasionali delle produzioni, diversificate fra loro anche dalla necessità stessa, ha generato la virtuosa scoperta - all'uso di un decentramento assoluto delle creazioni e delle offerte - di ambienti e luoghi cittadini la cui potenzialità di spazio teatrale non era mai stata nel passato pensata e men che mai sperimentata.
Significativamente, emblematicamente, uno dei cicli-iniziative del Teatro la Fenice che ha ottenuto nel 2000 da parte della critica italiana un illustre premio, il nazionale premio Abbiati per il più originale impianto produttivo, si intitolava e continua a intitolarsi "L'altra scena".
Verrà certamente a determinarsi in un prossimo futuro una situazione evoluta per la quale, a Teatro ricostruito sulla scorta dell'ultimo progetto di ripristino autorizzato a rendersi esecutivo dalle magistrature amministrative e dal Consiglio di Stato, lo "spazio rappresentativo" della musica e del teatro musicale cittadino resterà arricchito, quasi a titolo di risarcimento e dono del e per il tempo del Teatro perduto, di onorevoli risorse aggiuntive di spazi differentemente idoneizzatisi ad interpretare idee della musica, del teatro e della città.
Vorrei ritornare ora al Conservatorio "Benedetto Marcello", che da pagine e pagine abbiamo trascurato sin qui, lasciandolo ancora liceo e in uno dei tanti stati problematici del suo farsi e crescere. Si trattava dell'abbandono, conseguente alla partenza nell'inverno del 1902 del direttore Bossi, volontariamente trasferitosi alla direzione del più "promettente" liceo bolognese; vediamo che lo stato problematico si conserva intatto abbastanza a lungo. Alberto Valier, primo consigliere del comitato di vigilanza istituito ad hoc (per la risoluzione della vacanza di dirigenza), ritiene opportuno di "far cessare le critiche condizioni" in cui versa la scuola con il ricorso ad una soluzione molto gracile, nominando direttore provvisorio il Maestro Delfino Thermignon, il titolare della Cappella Marciana, il quale, come s'è visto di già sopra, aveva una certa fama di uomo d'ordine e di compromesso.
Si raccolgono nel frattempo pareri pesanti sulle candidature di possibili successori autentici (si sollecitano le opinioni di Bossi, di Gallignani direttore molto noto al tempo suo a Milano, di Arrigo Boito). Quest'ultimo ufficialmente caldeggia la candidatura di Ermanno Wolf-Ferrari con una vera e propria raffica di rutilanti elogi:
il Wolf-Ferrari è (a suo dire) un musicista-nato; un talento naturale accresciuto dal lavoro indefesso; ha corretto la sua educazione prettamente germanica con la direzione di una scuola corale italiana nel cui corso ha avuto campo di analizzare praticamente la sapientissima tecnica della scuola italiana del XVI e XVII secolo; "molto sa bene insegna" ed egli sa molto; ha studiato come una Bibbia la partitura del Falstaff; le sue tendenze artistiche sono, come devono essere, marcatamente moderne, ma senza folli eccessi di modernità; ecc. ecc.
Ovviamente, dopo un tal profluvio di ottime e bene esposte referenze, Wolf-Ferrari è nominato direttore sui due piedi, il 10 agosto del 1903; lo stesso giorno il neodirettore espone al consiglio di vigilanza, un lungo prospetto di intenti organizzativi e culturali, evidentemente covati da tempo:
stabilire per la scuola orari fissi per tutto l'anno; abolire il solfeggio cantato trasformando l'insegnamento inutile in una bella scuola propedeutica del canto corale; dare massimo impulso alla scuola della musica d'assieme; per sostenere tale scuola e non disturbare gli organisti acquistare subito un piccolo organo da sistemare al terzo piano di palazzo Pisani, evitando anche così che gli allievi inesperti mettano le mani sul Vegezzi-Bossi ("con sensibile danno"); adattare gli studi delle materie complementari agli effettivi bisogni dei singoli allievi, uno per uno; abolire gli esami semestrali e intermedi (perdite di tempo e basta); stabilire una seduta fissa settimanale di esercitazioni orchestrali o di musica da camera; autorizzarsi, autorizzare se stesso, a fare verifiche sui profitti didattici a sorpresa in corso d'anno; modificare le norme delle promozioni, rendendo possibile accelerazioni anche vertiginose del cursus degli studenti più dotati; rendere stabile la cattedra d'organo, la più importante, e per evitare ogni pericolo, chiamare alla stessa il Maestro Oreste Ravanello; ammettere alla frequentazione del liceo dilettanti esterni, in specie alle esercitazioni orchestrali o corali, creando in tal modo occasioni di solidarietà professionale fra tecnici-tecnici e tecnici-appassionati; attivare una scuola di ritmo; attivare una scuola di declamazione (per l'esatta interpretazione dei testi cantati); scindere le scuole di Fuga e di Contrappunto, affidando l'incarico della Fuga al direttore, di già docente di Composizione (aumentandogli lo stipendio a £. 5.000); migliorare gli stipendi dei docenti ("tra le varie categorie del Comune siamo nelle peggiori condizioni di tutti"), e con più urgenza aumentare le pensioni, onde incoraggiare la scelta del pensionamento da parte dei docenti anziani ("giova al Liceo che deve rinnovare il proprio corpo insegnante con forze alacri e giovani senz'essere costretto a sopportare l'ineluttabile declinare delle forze di quelli che col peso dei loro anni vanno cristallizzando la scuola"); incrementare le esercitazioni di lettura a prima vista degli iscritti alle scuole d'archi e di fiati; offrire allo Stato italiano il "Marcello" come sede ufficiale regionale per le abilitazioni all'insegnamento del canto nelle scuole normali; introdurre una prova di ammissione equivalente a un proscioglimento della scuola elementare, facendo in pratica anche a meno del compimento della scuola elementare (e lasciando iscrivere al liceo anche i piccolissimi ma dietro dimostrazione di una formazione elementare sufficiente).
Decisamente originali e innovativi i propositi del nuovissimo direttore che a differenza del suo predecessore, ch'era tutto teso alla ricerca dei riconoscimenti togati e preferibilmente transalpini, innanzitutto aspira, oltre che a creare le premesse di una ancora intentata "venezianizzazione" del "Corpo Morale Conservatorio", anche e soprattutto ad un potenziamento funzionale, quasi, per così dire, aziendale, del liceo musicale, cercando di provocare in primis relazioni sinergiche fuori dell'istituto, in città. Come emblematico episodio di realizzazione di un tal disegno potrebbe essere ricordata la trionfale esecuzione, avvenuta fra gli sventolamenti di migliaia di cappelli e bissata sette volte, di fronte alla Salute, alla vigilia della festa di S. Marco del 1906 (una manifestazione ripresa poi per tre anni di seguito), di una "marinaresca siciliana" fatta in casa e cantata da 3.500 alunni delle scuole comunali diretti dal professore di Canto corale (il valoroso Maestro Vittore Veneziani, che ben presto il Teatro alla Scala rapisce a Venezia per tenerlo a capo del coro del Teatro sino al '53, con l'intervallo di una sospensione dal '38 al '45 in applicazione delle leggi razziali). La melodia cantata, pare in un perfetto miracoloso unisono, da quella moltitudine di studenti e pargoli era d'invenzione del direttore Wolf-Ferrari, il testo poetico, uno strano acqueo Ave Pater, forse rivolto a s. Marco, era stato scritto in stile un po' popolaresco, un po' vezzosamente puerile dalla professoressa Maria Pezzè Pascolato:
Ave o padre delle genti / Dio del cielo e dio del mar. / Tu che l'urlo sai dei venti / e dei nembi lo scrosciar. / Tu ogni gocciola del fonte, / ogni petalo dei fior. / Tu ogni piega sai del monte / e ogni palpito del cor. / E il cor nostro s'apre al canto / come s'apre il giglio al sol. / A te l'inno viene, o Santo / sulle candid'ali a vol. / Cielo azzurro, viva fiamma / acque, erbe e spiche d'or / e carezze della mamma… / tutto è dono Tuo, Signor!
Accanto a una performance popolar-populistica monstre, ma clamorosamente, propagandisticamente 'veneziana' (sin nel nome del direttore del megacoro), e quasi troppo visibile, il liceo, messo a regime, da Wolf-Ferrari, avvia altre ad altro titolo appariscenti iniziative di ripristino di una tipicità culturale veneziana divenuta negletta a raggio locale-cittadino molto largo:
esecuzioni con ampia partecipazione di allievi e con coinvolgimento di pittori, attori, decoratori veneziani, delle riscoperte di opere settecentesche (si inizia con un battesimo nazionale del 'ritorno' novecentesco della Serva padrona); solenne esumazione dell'arte di Galuppi - ovviamente detto "il Buranello" - e del suo goldoniano Filosofo di campagna, assurta a celebrazione ufficiale del centenario della massima gloria letteraria veneziana, nel 1907 (realizzata con la copertura scientifico-filologica degli accompagnamenti dei recitativi fatti ad un cembalo ottenuto in grazioso prestito da una amica parigina del direttore, dal nome vagamente leggendario di comtesse de la Baume, e da Parigi arrivato in tempo nella sala dei concerti del liceo trasformata in neosettecentesco teatro occasionale); costituzione in Venezia, presso il liceo, di un "Comitato Nazionale [nazionale ma tutto veneziano e tutto composto di professori del liceo] Giovanni Sebastiano Bach" che progetta e promette una esecuzione integrale delle opere del Kantor, con tutti i testi vocali tradotti in italiano, così come tradotto ne era stato il nome nella targa del Comitato, iniziando nel 1907 l'operazione con la esecuzione veneziana della cantata Ah Gott! wie manches Herzleid!; intitolazioni "liceali" delle manifestazioni musicali che cominciano ad inaugurare abitualmente le Biennali Internazionali d'Arte (ben tre esecuzioni "liceali" dell'oratorio "dantesco" La vita nuova alla Fenice, scritto ad hoc nel 1905 dal direttore, diretto dal direttore ed eseguito dal corpo dei professori al completo assieme ai loro 76 alunni: 26 in orchestra, 50 nel coro); celebrazioni cimarosiane a tutto carico del liceo; istituzione di una cospicua stagione di concerti domenicali diurni (Mattinate musicali dirette dal direttore coadiuvato dal grande pianista Gino Tagliapietra, entrato in organico al posto del professore di piano Francesco Giarda - suicidatosi nel luglio del 1907, a causa di una grave depressione collegata a una insorta, beethoveniana, sordità -, senza concorso con l'avallo testimoniale della madre, Anna, del suo maestro Ferruccio Busoni - "una forza giovane, seria, profonda e studiosissima").
Una consimile attività diretta a mettere il Conservatorio al centro della vita culturale della città, ergendosi a modello di capacità di intervento fattivo ambientale per tutti i licei musicali italiani, poteva durare e non durare. Non durò.
Cinque anni soli dopo una tanto animosa assunzione di responsabilità disciplinare, civile, sociale, culturale e collettiva, Wolf-Ferrari, ad anno scolastico iniziato, nell'inverno del 1908, chiese improvvisamente una aspettativa per un anno al suo sindaco, senza fornire spiegazioni; dopo essere stato sostituito per qualche mese dal solito Thermignon - pacioso Maestro della Cappella Marciana - il 19 maggio del 1909, Wolf-Ferrari reitera, da Monaco ove è andato a risiedere, la espressa, irrevocabile intenzione del suo abbandono (la ragione del ritiro è la necessità, opposta rispetto a quella espressa nei "disegni a volte fantasiosi" sviluppati nei cinque anni della sua smagliante direzione, di non voler dedicarsi "mai più" a interessi culturali comuni, e di sentire la pressione dell'intimo dovere a dedicare tutto se stesso a se stesso e alla cura delle sue forze artistiche personali interiori, assopitesi con l'espletamento appassionato della direzione del "Marcello", rivendicando la libertà di ritornare al suo compito principale: comporre).
Il vincitore del concorso per la sua successione, era un Maestro di Armonia non particolarmente famoso, nativo di Fano e proveniente dal liceo di Pesaro: Mezio Agostini (il quale batté ai punti concorrenti di lusso come Ildebrando Pizzetti e Ottorino Respighi). Come primo compito, il neodirettore si diede l'azzeramento del disegno del suo predecessore. Richiuse infatti i portoni del palazzo del liceo, richiamò tutti, con verbose lettere circolari, colleghi e allievi, a una ferrea rideterminazione delle discipline squisitamente scolastiche, censurò ogni iniziativa d'apertura dell'istituzione alla città e non auspicò alcuna particolare corrispondenza alla domanda culturale della stessa. Tutto ciò non senza creare disagi, ai quali peraltro seppe resistere bene (fermo nella onesta convinzione della necessità di isolare dal suo contesto ambientale ogni eccellenza emersa del lavoro conservatoriale; ed a questi propositi si dedicò anima e corpo, cessando anche di comporre, come si può vedere se si tien conto che tutte le sue opere [liriche, in più atti, composte per intero e mai eseguite] - Il cavaliere del sogno, Iovo e Maria, La penna d'Airone, Alcibiade, ecc. - sono scritte prima di assumere responsabilmente l'incarico veneziano).
Quando nel 1910, sul volgere del primo anno della direzione di Mezio Agostini, alcuni dei migliori allievi, inventando un atto impensabile al tempo loro, lo contestano con un rude sciopero e col rifiuto della frequenza delle lezioni - un vero 'caso' al cui riguardo si verbalizzarono ben quindici sedute del consiglio di vigilanza e s'ebbero degli imbarazzanti rumori sulla stampa (con interviste del direttore che sosteneva: "chineranno la testa!") -, si giunse ad una vera e propria serrata dell'istituto (onde non rendere effettivo lo sciopero). Alla riapertura del liceo si comminarono, non gravissime data la gravità del caso, le pene sospensive di una sola sessione di esame, agli scioperanti, ma non si approfondì per nulla, nelle sue cause, l'episodio, che a qualcosa di grave doveva far capo e che finì per dissolversi senza approfondire le ragioni della rivolta. Nel 1911, pur avendo il consiglio di istituto votato 4 a 1 contro la conferma di Agostini, il direttore di ferro venne confermato pressoché d'imperio dal sindaco Grimani e poté presto vantare di aver ottenuto nel 1915 dal Ministero della Pubblica istruzione - valutati i risultati di qualificazione di allievi formatisi nell'ultimo decennio, ossia ben da prima dell'inizio della sua direzione, e ora lanciati nel mondo della musica italiana - il "pareggiamento", ovvero la parificazione statale del liceo.
Questo ambito riconoscimento ufficiale cade però in un bruttissimo momento della storia d'Italia, e di Venezia in particolare: siamo nella Venezia che, molto prossima al fronte, "sgombera" e "sfolla", si munisce di barriere di cemento a copertura dei monumenti; siamo nella Venezia che D'Annunzio definisce "intenebrata":
la Venezia delle altane munite, non più tenuta desta dalle vaganti canzoni, ma dal grido delle vedette al guato sui colmigni…
Nonostante le aule svuotate (con l'eccezione di quella della Coltura letteraria dove il professor Achille Pais legge e commenta dannunzianamente ogni testo "italiano"), nonostante i coprifuoco e l'oscuramento della città, il direttore Agostini non chiude la scuola (dirigerà in Sala grande nel 1916 un breve concerto pomeridiano in memoria degli allievi Pivato, Ganz e Sartori - tre degli scioperanti del 1910 - caduti eroicamente, ragazzi, per la patria), sin che il disastro di Caporetto impone indiscutibilmente la temporanea chiusura dell'istituto e una gran fuga generale da Venezia di gran parte del corpo insegnante (Agostini se ne torna a Pesaro, Tagliapietra va ad insegnare a Roma-Santa Cecilia, con Bossi, altri vanno a Monza ecc.). Il centro direttivo musicale della città diviene così, nelle aure della guerra, la Casetta Rossa in Canale di D'Annunzio, da dove partono regolari spedizioni d'iniziativa concertistica sincronizzate alla guerra, fuori ordinanza, che raggiungono l'ufficialmente chiuso liceo dove il Maestro Alfredo Giarda fa risuonare l'organo nella gran sala che s'è tramutata in un simulacro di fronte bellico, abitata da uomini del presidio in grigioverde appostati al di sotto delle alte altane del palazzo Pisani ove sono installate le mitragliatrici antiaeree.
In questa sede inusualizzata l'ammiraglio Marzollo, ispirato da D'Annunzio, che mai ne salterà uno, organizza un stagione di "concerti di retrovia" per uno sparuto pubblico di feriti e mutilati convalescenti: molti concerti d'organo di Giarda e Ravanello - ma verrà anche Bossi da Roma a suonare il suo ormai già vecchio Vegezzi -, concerti di quartetto eseguiti dall'ensemble Crepas-Saracini-Bondi-Albertini, concerti di piano e canto - Ugo Levi e Toti Dal Monte. Si dà anche il pittoresco episodio di un concerto pianistico pomeridiano cui D'Annunzio assiste nella sala militarizzata, quasi sincronizzato a un fortunato scontro militare serale, a Caposile: una vera e propria battaglia giocata vittoriosamente a pochi chilometri dal luogo della musica, che il poeta annuncia all'amico pianista, nobile dilettante e banchiere Ugo Levi, con questo eccitato parallelismo:
Rallegrati, Ugo! l'azione di stanotte è stata fortunatissima, abbiamo fatto trecento prigionieri, abbiamo preso dieci mitragliatrici e siamo avanzati di cinquecento metri, prevedendo un disegnato attacco austriaco; cosicché: due concerti, il diurno e il notturno hanno avuto successo.
Finita, comunque, questa rara parentesi epocale, ambientata al "Marcello", a palazzo Pisani ritorna la normalità, sia pur insidiata da prese di posizioni da più parti avverse all'isolamento del liceo, alla gora morta musicale veneziana (quale disdoro che solo la banda in piazza - si dice da più parti - stia esprimendo ancora il culto della musica di Venezia!). La pubblicistica nazionale scrive apertamente di una "Venezia antimusicale", denuncia il deplorevole oblio dei nomi di Gabrieli, Cavalli, Monteverdi, Croce, Marcello, Galuppi, ricorda come le proposte di Ricordi e Toscanini per far di Venezia la "Bayreuth d'Italia" siano rimaste lettera morta, evidenzia lo stato di decadenza del teatro ("indegne esecuzioni di opere ripetute ogni anno sino alla sazietà"), la penosa sopravvivenza della esangue Cappella Marciana, uno spettro della sua gloria, e avanza spesso imbarazzanti confronti fra il "Marcello" e gli omologhi licei di Bologna, Milano, Parma ove i regolamenti stanno programmando intense forme di partecipazione delle scuole alla vita musicale pubblica. A queste sollecitazioni, fors'anche calunniose, la risposta è la discussione di alcuni progetti di acquisizione di spazi da dedicare a pubblici e popolati concerti promossi dal liceo (l'obiettivo preferito è l'abbazia di S. Gregorio alla Salute, da trasformare in auditorium) così come la discussione di come attuare un inserimento del liceo nel quadro delle mostre internazionali (per esempio, con concorsi internazionali di nuova musica): progetti che non si concretizzano in nulla; di fatto un certo numero di pallidi concerti vien tenuto a partire soltanto dal '26, nella solita sala dell'Aula Magna, diretti tutti dal direttore Agostini con presentazioni di musiche miste (ouvertures d'opera italiana, sicuri affondi nel sinfonismo classico e romantico più battuto, qualche titolo più recente: Debussy, Ravel, Zandonai, Respighi, Busoni, Agostini stesso). La sala del Conservatorio ospita o viene anche affittata ad attività sporadiche di società dalla vita fungina, che nascono e si spengono pacatamente, discretamente, talora pressoché involontariamente clandestine: una Società dei concerti Marcello, una Società Vivaldi, un Gruppo universitario, un Circolo orchestrale Domenico Cimarosa, l'Opera Dopolavoro, i corsi estivi di cultura per stranieri.
Per quanto dura il primo dopoguerra l'atmosfera al liceo si rende progressivamente pesante; è evidente il dissidio insanabile che s'è innescato fra il direttore e il presidente (Casellati, che pur essendo un avvocato è anche legittimato a ritenersi competente di musica, ragion per cui intende intervenire in aree di competenza della direzione); non viene valorizzata la presenza di moltissime valide personalità, diplomate, diplomande, rinserrate nella dimensione inesorabilmente chiusa e autoreferenziale dei "saggi"; nessuna risonanza riesce ad avere la fortuna esorbitante (500 studenti) del corso libero di storia della musica antica del professor Giangiuseppe Bernardi e della sua appendice secolare, l'Accademia di Musica Antica, visibilmente tollerata; si riduce e poi si annulla (in concomitanza con la persistente tensione fra presidente e direttore) il ruolo del consiglio direttivo che viene abolito per dar luogo a una figura unica di controllo plenipotenziario delegato del sindaco; si caricano di circolazioni di malessere alcune situazioni legate all'ingerenza del Ministero della Pubblica istruzione, che a seguito della parificazione-statalizzazione è legittimato a deliberare, nominare, sopprimere, comunicare decisioni a valenza strutturale, per niente concertate. Viene così decretata la soppressione della scuola di musica da camera, viene sollecitata e ratificata di persona, dal podestà, una scuola di perfezionamento in composizione affidata per chiara fama al musicista veneziano, in via di rimpatrio, da Parma, Gian Francesco Malipiero. Un cosiddetto corso libero di composizione, quello "libero" di Malipiero, con tanto di cattedra in organico, istituita nel 1932, cui hanno diritto d'accesso diplomati in composizione, ma anche altri discenti ritenuti insindacabilmente idonei dal Maestro Malipiero, e diversi uditori, liberi. La nomina si porta dietro anche l'assoluta messa a disposizione, all'uso delle esercitazioni d'esperimento degli elaborati dei compositori iscritti al corso libero, dell'orchestra del liceo a ranghi completi (anche con la possibilità di integrare la stessa orchestra con aggiunti esterni). Nelle sue relazioni annuali, via via Malipiero alza il tiro delle esigenze del suo corso speciale: chiederà infatti ampia facoltà di utilizzare studenti iscritti per perfezionarsi in composizione come Sanzogno e Zanon, adibiti però alla particolare funzione di direttori della/delle orchestre, e di maestri preparatori di esecuzioni sia degli altri compagni di corso - che devono ben acquisire capacità di concertazione dai colleghi direttorialmente più maturi -, sia di opere proprie, ossia opere del Maestro; chiederà un disciplinamento dell'orchestra, ovvero chiederà che l'orchestra sia preparata, anche nella sua attività didattica ordinaria, in funzione delle performances straordinarie; chiederà una biblioteca riservata al suo corso per incentivare alla cultura gli allievi, aggiungendo, chissà alludendo a che o a chi, che "non ammette musicisti refrattari alla cultura"; chiederà anche un ambiente riservato, "un ambiente [mio], più raccolto, più armonico anche nell'arredamento, in modo che quell'estetica generale che io vado predicando non si trovi già in contraddizione coi quadri, le sedie, il mobiglio".
Non sono sereni neppure i rapporti fra il delegato del podestà, l'ingegner Luigi Pagan, che pur essendo direttore nientemeno che del porto industriale di Marghera, è presente giornalmente nel suo ufficio al liceo, e interviene, con una prassi quasi persecutoria, amministrativamente, su ogni posizione presa dalla direzione, avviando pertanto un notevole numero di diversi procedimenti disciplinari contro Agostini. Nel 1937 il delegato Pagan muore e gli succede il conte Mario Nani Mocenigo, un gentiluomo appassionato, ma anche tecnico delle cose musicali, storico apprezzabile, autore nel '26 di una cronologia del Teatro la Fenice che ancora non molti anni fa si trovava in posizione notabile negli scaffali delle sale di consultazione delle biblioteche. A Mocenigo, che aveva idee di sviluppo anche nel senso della venezianizzazione, toccò in sorte di assumere molte, forse troppe delle posizioni-limite. Delegato del podestà Giovanni Marcello, dovette infatti rendere operative le ordinanze delle circolari del Ministero della Pubblica istruzione dell'agosto e dell'ottobre del 1938, applicative delle leggi razziali, e licenziare in tronco, con una lettera che lo stile garbato rendeva forse più stridentemente crudele ("a questi sentimenti e alla riconoscenza che il nostro Istituto avrà perennemente verso di voi si accompagnano a nome di tutto il Liceo i più cordiali saluti affinché abbiate a trascorrere lunghissimi anni nel più completo benessere e nella benefica attività continuativamente praticata"), un valido musicista ebreo, qual era Giuseppe Sacerdoti, da diciassette anni in ruolo nel liceo, come professore della prima classe di violino e viola. Sacerdoti, ben lungi dall'abbandonarsi ai lunghissimi anni di benessere auguratigli, cinque mesi soltanto dopo quell'atto di legale ingiustizia, sia pur espresso "con vivo rammarico", si uccideva a Milano, lasciando per testamento erede dei suoi beni il Fondo alunni poveri del liceo. Di seguito a questo straziante episodio Mocenigo dovette passare a dispensare dal ruolo di direttore Mezio Agostini, dichiarato dal Ministero, tramite il podestà (a seguito della somma delle numerose censure e dei procedimenti disciplinari, promossi nei suoi confronti dall'ingegner Pavan), "incapace" e decaduto, fatta salva l'idoneità all'insegnamento dell'armonia (che Agostini rifiutò, ritirandosi a vita privata). Nel contempo il conte Mocenigo dovette provvedere (l'assetto regolamentare dell'istituto lo costringeva ad un incalzante ruolo di promulgatore unico di atti sovrani) a coprire interinalmente le cattedre del violinista suicida e il ruolo del dimesso direttore, ad attestare a Gian Francesco Malipiero - al momento direttore del liceo di Padova e titolare del succitato specialissimo corso libero di perfezionamento in composizione a Venezia - il titolo onorifico di "direttore emerito" (in attesa di una nomina meno aulica) nel rispetto della volontà di riconoscimento della città per le altre benemerenze conseguite dallo stesso Malipiero nell'arte musicale.
Da tempo Malipiero mantiene un ottimo contatto romano con il ministro Bottai, ragion per cui sulla scorta della prenomina ad "emerito" si adopera per la "regificazione" del liceo (al fine che possa diventare Conservatorio di Stato a pieno e non limitato titolo), sia per l'autorizzazione ad un maxirestauro del palazzo Pisani i cui lavori scatteranno sulla base di un astronomico preventivo di 600.000 lire all'indomani della sua nomina a direttore effettivo che avverrà in data 10 ottobre 1939.
Quanto Malipiero pensi in grande, e più che innovativamente, utopicamente, vada sognando sorti elette dell'ormai fu liceo, nonché della istruzione e della formazione musicale in genere, immaginate come delle pagine bianche su cui scrivere il grande sogno, appunto, di un avvenire elettissimo della coscienza del sapere e del fare del musicista, può essere intravisto in alcuni passaggi della memoria presentata al ministro Bottai, cooptato nel 1938 a presiedere una giornata di "studi sugli studi musicali" presso la sua cattedra libera di perfezionamento compositivo. Scrive infatti il compositore sulla opportunità di distinguere "scuole d'artigianato musicale" ("che servono a fare suonatori") e "scuole superiori per studiare ciò che è scienza ed estetica musicale", aggiungendo
esser necessario gettar basi di nuovi studi storici ("i quali, attualmente in mano ai musicologi, non convincono la gioventù"); essere necessario introdurre le scuole di composizione nelle università (per non confondere, come accade nei licei, lo studio degli strumenti con quello della estetica e dell'arte musicale); essere necessario pubblicare capolavori e riformare gli studi storici della musica; essere necessario liberare le edizioni dei testi dei capolavori dalle deformazioni operate dai musicologi che li avevano adattati alle loro mentalità ottocentesche; essere necessario pubblicare gli opera omnia di 20-25 [!] autori veneziani; essere necessario convincere i giovani ad "occuparsi della nostra arte curandone l'edizione facendo loro capire che questo lavoro non compromette la loro possibilità di essere un genio" (e che anzi, gli necessita all'uopo ciò perché "un genio ignorante è un genio corto, limitato, cui è riservato uno spazio angusto come quello che nelle carceri è riservato ai galeotti").
C'è molto autoritratto, o se si vuole molto autoritrattismo, in queste note nelle quali Malipiero esprime, al ministro che stima, forse troppo, la necessità di creare figure nuove di musicisti: musicisti colti, cipigliosamente nemici della musicologia, ma inesorabilmente applicati a lavorare "musicologicamente", sufficientemente 'separati in casa' dai pratici-suonatori che fan tanto chiasso a palazzo Pisani, applicati a pubblicare musica antica, rivendicando alla "venezianità" - nelle pubblicazioni - la pubblicità del suo impareggiabile lignaggio artistico e poetico, applicati a conquistare spazi universitari mantenendo però anche il controllo dei luoghi deputati alla formazione dei musicisti, applicati a rifuggere dalla monodimensionalità e a cercar d'essere personalità comunque connotate dallo spirito del "doppio mestiere" (compositori-scrittori, compositori-esecutori apostoli di rinnovamenti del repertorio, compositori-direttori d'orchestra, compositori-filologi, compositori-intellettuali-organici, compositori-critici, compositori-organizzatori musicali, compositori-teorici). Potrebbe essere facile scoprire l'effettiva portata della realizzazione di questo progetto utopico-didattico scorrendo la lista degli "allievi" più o meno curati o 'tirati su' dal Maestro Malipiero, venuti a lui, tradendo magari le loro culle e scuole d'origine, spesso più come accoliti di un programma ideologico-estetico che non come veri e propri studenti: Sanzogno, Cumar, Fagotto, Nono, Zanon, Gorini, Maderna, Alessandro Piovesan, Bagnoli, Dalla Libera, Gracis, Coltro, Pasut, Labroca, Arnaldo Benvenuti, Romeo Olivieri, Liani, Amendola, Dall'Oglio, così come potrebbe essere facile, con qualche osservazione analitica aggiunta, scoprire come lo stesso progetto didattico non era orientato 'per tendenza', essendo le personalità dipoi formate, difformemente riportabili a tutto raggio nel campo dell'impegno più o meno o niente del tutto innovativo-avanguardistico; tanto da rendere comodamente praticabile una tripartizione della scuola malipieriana in grado di essere, con una formula-immagine analogica politica, divisibile - a mo' delle scuole hegeliane - in destra, centro e sinistra, non senza combinazioni spurie di centro-destra/centro-sinistra.
Lo stesso autoritrattismo malipieriano si dispiega fra il 1939 della nomina reale e il 1952 del pensionamento, nella sua direzione effettiva del nuovo Conservatorio "regificato" e pertanto, a seguito di tanta "elezione", autorizzato da una adeguata copertura finanziaria a godere di un eletto restauro "scientifico" dell'intero palazzo: cosa ben rara per quegli anni (per il qual restauro, applicando la formula ideale che tanto gli è cara, Malipiero si sottomette al compito di essere negli anni del progetto e dei lavori, compositore e storico della architettura, compositore e consulente edile, compositore e responsabile dei lavori).
Malipiero "abita" nel Conservatorio, di cui occupa, con un gesto che più veneziano nel senso di patrizio non potrebbe essere, un intero piano: il terzo, il più panoramico. Trasferisce nell'habitat, pertanto, con la sua persona fisica, la sua storia di musicista intellettuale, veneziano per natura e per cultura; vi trasferisce le sue inclinazioni tutte personali ad una tutta sua modernità inquieta - sospettosa degli avanguardismi ma irritata, come a pochi altri suoi contemporanei accade, da ogni minimo odore di tradizionalismo mediamente futile o becero -, tutta rivolta alla contemplazione attiva (le "edizioni" di omnia: Monteverdi, Vivaldi, e qualche altro dei "25" programmati) della tradizione vera, in specie veneziana, autentica e vera, a suo sentire, solo se storicamente, veramente "interrotta": da cui derivano sogni e sogni, pessimisticamente vissuti come vani, di una palingenesi bella, virtuosa, ben "ammobiliata".
Mette conto di segnalare, frettolosamente, che l'impronta applicata da Malipiero al dimensionamento intellettuale del Conservatorio non cessa d'essere tale col suo abbandono fisiologico della direzione e col suo ritirarsi misantropico nel ventennale isolamento di Asolo. Nell'opera delle successive direzioni (Fasano, Bianchi, Antonellini, Amendola, Fagotto) infatti le direttive malipieriane non sono mai più disattese, in specie forse, addirittura in particolar modo da parte dei direttori di formazione non malipieriana, che vengono da fuori, come Fasano, Bianchi, Antonellini, i quali si distinguono l'uno per l'iniziativa delle Vacanze Musicali (ben otto manifestazioni annuali) nelle quali da tutto il mondo musicisti, studiosi e appassionati sono chiamati a Venezia a conoscere in loco musiche veneziane "ritrovate", riscoperte e riedite, alla ricerca di una forte immagine dello specifico ideale della venezianità in musica, gli altri per la creazione di cattedre inedite e/o sperimentali (Chitarra, Strumenti antichi, Analisi musicale, Didattica della composizione, Propedeutica, Musica elettronica), alla ricerca, pertanto di un'altra ri-determinazione della venezianità musicale identificata del ruolo storico, per la musica veneziana, della responsabilità innovativa della cultura.
Occorre, credo, per trovare un'uscita giusta da questo labirinto di informazioni necessariamente intricate, fare un ultimo passo indietro, nella nostra narrazione, e ritornare in flashback al 1938, in un'altra sede, quella, già illustrata, della sovrintendenza Petrassi alla Fenice. Ritornare al '38 e allo scrittoio del Maestro Petrassi per rievocare un episodio che un certo carattere complesso di exemplum possiede. Nel maggio del '38 (anno orribile) Hermann Scherchen, il grande direttore d'orchestra, corresponsabile, col suo impegno esecutivo-interpretativo in sodalizio con gli autori maggiori dell'avanguardia evolutasi dalle esperienze della Scuola di Vienna di Schönberg, della solidificazione storica di pressoché tutte le esperienze creative della Nuova musica, Hermann Scherchen, dicevo, inoltra, dietro suggerimento di Nando Ballo e Luigi Rognoni, a Petrassi, un suo progetto che gli sta molto a cuore. La Fenice dovrebbe, a suo dire, affidargli un corso di Direzione d'orchestra, estivo, basato su un programma che prevede lo studio della concertazione e della relativa analisi preparatoria di opere di Monteverdi, Scarlatti, Dallapiccola e di altri autori contemporanei come Hartmann, Webern. Petrassi risponde al Maestro tedesco a stretto giro di posta accettando il progetto e suggerendo un inizio del corso per la prossima estate, ovviamente quella del 1939, ignaro che di lì a pochi mesi, nell'ottobre, il Ministero della Cultura popolare gli avrebbe recapitato una lettera che azzerava proposta e accettazione, già che seccamente in essa si comunicava quanto segue:
Si porta a Vostra conoscenza che il Maestro di Musica Hermann Scherchen, nato a Berlino il 21 gennaio 1891, cittadino germanico è un noto comunista, si dispone pertanto che egli non sia scritturato da nessuno degli Enti autonomi lirici e da nessuna Società di concerti.
Passa la guerra, passano gli eccidi, passa la Liberazione, ed ecco che nell'estate del 1948, Fenice e Biennale riscoprono il progetto Scherchen, ne recuperano intatti, quasi ibernati, i contenuti (faccio riferimento ora alla seconda lista delle cose fenicee sopra proposta e al secondo asterisco di richiamo e allerta appunto riferito al corso di Scherchen finalmente realizzato) e attivano quanto a Petrassi e a Scherchen era stato impedito di mettere in piedi dieci anni prima.
Il corso di direzione "quarantottana" di Scherchen è divenuto oggi un piccolo mito storico: in poco meno di un mese il Maestro tedesco richiamò a Venezia uno stuolo di gioventù musicale che non aveva vissuto appieno gli anni bui (erano, nel '38, tutti dei bambini, seppure alcuni bambini prodigio), che proveniva da diversi paesi del mondo, spedito appunto a Venezia a studiare con Scherchen, nel torrido agosto, da Maestri di musica, di Composizione e di Direzione d'orchestra, perlopiù tedeschi ed austriaci o ebrei costretti dalla emigrazione a far musica o insegnare musica nei paesi disparatemente inomogenei. Quell'occasione, ci tengo a ripeterlo, era simbolica ma anche reale; sembrava voler essere, e difatto forse lo fu, un atto di fondazione di una internazionale-giovani per l'affermazione dei valori artistici già umiliati dai regimi nazifascisti, sperabilmente risorgenti a Venezia, presso il suo Festival e il suo Teatro, significativamente segnati da un programma di studi 'resistenziali' impostati su un intensivo lavoro di analisi e interpretazione, vuoi antitradizionale, vuoi rivoluzionaria, vuoi soltanto sinceramente approfondita, degli stessi testi (Monteverdi e Dallapiccola) immaginati nel '38-'39 come ideali contrafforti difensivi dell'arte musicale sto- ricamente sofferente per i diktat, le censure, gli ostracismi, le eliminazioni fisiche dell'establishment razzista instaurato dai dittatori.
Ebbene, in quell'estate del 1948, Malipiero chiamò Bruno Maderna e Luigi Nono, espose loro una certa sua rinuncia a poterli seguire personalmente nello sviluppo della loro già espressa vocazione avanguardistica, e, autorevolmente, autoritariamente, li obbligò a iscriversi e a frequentare intensivamente il corso di Scherchen, a cercare lì il loro radicamento formativo, ideologico, tecnico. E in effetti accadde che in quel brevissimo mese di apprendistato a contatto con il Maestro e con i giovani compagni venuti da quelle scuole decentrate nel mondo fondate ovunque dai musicisti emigrati, Luigi Nono e Bruno Maderna, per loro espressa testimonianza, trovarono tutti gli input elementari della loro imminente carriera artistica: idee e tecniche per la creazione delle loro prime opere originali (emblematicamente forse, in prima posizione, Il canto sospeso). Opere originali e rinnovatamente "veneziane".
*In questo capitolo che viene incluso nel volume novecentesco della Storia di Venezia sono introdotte vicende della vita delle istituzioni musicali della città (Cappella Marciana, Teatro la Fenice, Conservatorio di musica quondam liceo musicale), che pescano, con le radici della loro evoluzione verso il nuovo secolo, negli anni più o meno profondi del secolo precedente. Non essendo possibile, o perlomeno non essendo facile definire, comunque, tali fasi evolutive, una scansione che, nel bene o nel male, nella qualificazione o nella determinazione di un basso profilo, offrisse punti di riferimento ovvero date o eventi sufficientemente significativi e tali da consentire di spartire nei due volumi cronologici la materia, si è preferito pertanto raccogliere nella loro totale continuità i fatti considerati ed appoggiarli tutti nel secondo volume cronologico (il Novecento) - con la dovuta eccezione del trattamento in sede cronologica specifica dei fasti teatrali del primo cinquantennio ottocentesco del Teatro la Fenice, in modo che l'età delle "prime" fenicee di Rossini, Bellini, Donizetti e Verdi potesse essere appropriatamente inclusa nel capitolo intitolato, nel volume ottocentesco, alla storia teatrale veneziana, sia nel senso della produzione artistica che in quello della ricezione.
3. Per una approfondita presa di conoscenza del ruolo della banda sulla scena e di alcune vicende connesse alla banda e all'off stage nelle "prime" veneziane di Verdi, v. Marcello Conati, La bottega della musica. Verdi e la Fenice, Milano 1983, passim.
4. Il ruggito del leone, pp. 41-42, fig. 135.
5. Un'ampia ricognizione del lentissimo processo di mantenimento delle proprie antiche tradizioni da parte della Cappella e del patriarcato dal cuore del Settecento ai giorni nostri, anticipa, in un grosso volume, ricco di rilievi documentari, cospicue citazioni, tabelle e altri apparati, il primo dei quattro tomi catalografici: San Marco: vitalità di una tradizione. Il fondo musicale e la Cappella dal Settecento a oggi, a cura di Francesco Passadore-Franco Rossi, Venezia 1994-1996.
6. Per una presa d'atto della particolare metodologia storiografica di Caffi v. l'edizione moderna della sua Storia della cappella, a cura di Elvidio Surian, Firenze 1982, nella collana "Studi di musica veneta".
7. Un'autentica miniera di informazioni precise, testimonianze e documenti integralmente pubblicati tratti dall'archivio dell'istituto, relativi alle origini, allo sviluppo e alle vicende alterne del liceo musicale-Conservatorio veneziano, è il volume miscellaneo Il Conservatorio di Musica Benedetto Marcello di Venezia, Centenario della Fondazione 1876-1976 a Palazzo Pisani, a cura di Pietro Verardo, Venezia 1977, pubblicato in occasione delle celebrazioni del centenario del "Marcello" (cf. in partic. le articolatissime appendici documentarie, pp. 197-299).
8. Alla storia non troppo illuminata della musica veneziana dell'Ottocento, in specie per quel che concerne figure non elevate al rango di primarie, contribuisce, in controtendenza, il volume collectaneo di studi Antonio Buzzolla. Una vita musicale nella Venezia romantica, a cura di Franco Passadore-Licia Sirch, Rovigo 1994, un libro d'ottima sostanza e bell'apparenza tutto dedicato al riesame della importante figura di Buzzolla, operista alla Fenice, musicista di formazione e pensiero europeo, Maestro di Cappella a S. Marco negli anni che più abbisognarono di una riforma strutturale della storica sede.
9. Un accurato resoconto dei retroscena di regime e delle condizioni anche contraddittorie di gestione culturale degli anni precedenti il secondo conflitto mondiale, illuminato a tratti da brillanti citazioni di rare fonti, è lo studio dedicato al Teatro la Fenice durante il ventennio fascista da Maria Girardi, Il Teatro La Fenice durante il periodo fascista, "Rassegna Veneta di Studi Musicali", 4, 1988, pp. 201-230.
10. Michele Girardi-Franco Rossi, Il teatro La Fenice. Cronologia degli spettacoli, I (1792-1936)-II (1937-1991), a cura degli Amici della Fenice-Yoko Nagae Ceschina, Venezia 1992, in memoria di Renzo Ceschina.