La musica
Sulla musica a Venezia (o sulla musica di Venezia), sulla produzione-consumo e sulla assunzione di ruolo e di senso da parte della musica e della vita musicale a Venezia nella lunga durata del periodo tematizzato in questo volume, incombe, a mio vedere, una formula interpretativa suggerita nella Venetia città nobilissima di Francesco Sansovino, per la quale (non senza un certo profumo di illogicità) lo Stato, ossia la comunanza di nobiltà e di popolo, si fonderebbe, per conservarsi, sul come e sul quanto abitualmente le "[loro] cose temporali" sono dotate di "accompagnamenti". Accompagnamenti realizzati "con" eventi secondari, a loro volta rappresentativi, forse sostitutivi, talora, delle cose stesse. Eventi per l'appunto "secondariamente rappresentativi".
Fu sempre costume dei nostri d'accompagnare le cose temporali con [...] [la religione, la musica, l'apparato].
È fenomeno che sta all'origine di una paradossale conversione di situazioni semi-storiche quello che esita dalla vocazione ad imporre, e del pari ad accettare, convinti, appariscenti e talora persuasivi modi d'accompagnamento ai mancamenti o alle rovine residue delle apparenze visibili di un potentato politico in crisi lenta e controllata (crisi anche di identità di un potentato ben poco o comunque sempre meno auto-rappresentativo). Credo che essenzialmente i modi da prendere in considerazione siano più che altro due: da una parte (1) i modi dell'" accompagnamento" programmati ed imposti, ovvero i modi "regolari", parsimoniosamente condotti e realizzati con estrema prudenza, quasi in economia, dall'altra parte tutti gli altri modi (2), i "diversi", sempre più numerosi, ossia i modi d'accompagnamento "accattati", ovvero i prestati, o i "trovati fatti", o i cooptati alla funzione di supporto della publicness.
Dicendo poco fa "conversione" (paradossale conversione) intendevo riferirmi ai casi di una mutazione limitata ma progressiva - che avviene scandendosi fra lenti accessi e
lente remittenze, come in una malattia cronica - di una situazione di crisi che va a trasformarsi in un trend di floridezze (sempre in ambito di rappresentatività, ripeto). E che, del pari, avviene seguendo l'evolvere di una situazione di de-regolazione - effettivamente non programmata - delle istanze discorsive-immaginative della reale rappresentazione della "Natio" repubblicana. Rovistando fra i fenomeni della sua paradossalità si può scoprire che in essa si tratta di una serie di s-regolazioni che, per quanto spinte siano ad un notevole grado di radicalità, non hanno avuto per niente conseguenze d'ordine entropico, o dispersivo. Tendono infatti, quali che siano le loro condizioni di esistenza (spazio, tempo, ricorrenza), ad un totale, un totale effettivamente totale (una specie di "uovo") di efficienze rappresentative, molto ben connotate. (Sino a poter sostenere quasi da sole una definizione, a volte illustrata da un certo carattere di "renovatio", di tipicità "veneziana" (2)).
E questo accade, e sempre più facilmente accadrà dopo che è cominciato ad accadere, un po' a dispetto del fatto che le forme di questa apparente "efficienza rappresentativa" sono tutte basate sulla cadenza aleatoria di eventi, i quali, oltre che al sistema popolo-governo-sudditi dei nativi-indigeni (i "Nostri" del Sansovino, per così dire), coinvolge nel "presente vissuto" della cronaca del secolo XVII e nel successivo, sempre di più, personaggi e figure passeggere e aliene. Forestieri. Ospiti (in pompa o in incognito, privati o pubblici a loro volta). Visitatori; viaggiatori; curiosi. Altezze in Grand Tour. Personaggi che giungono tutti d'ogni dove a dar man forte nella costituzione di una rappresentanza a patchwork o ad abito d'Arlecchino caratterizzata (anche al più alto livello di qualità) dal predominio inequivocabile dell'assommarsi dei "segni ambientali".
Ho fatto allusione appena sopra a una certa "semi-storicità" del fenomeno per il fatto che non credo che la musica di Venezia si configuri, come fenomeno tutto-storico, progredendo secondo un progetto evolutivo (del tutto introvabile) o secondo la corresponsione ad un progetto interpretativo (storiograficamente fondato), quanto piuttosto progredisca quasi, per così dire, "lasciandosi accadere". "Lasciandosi accadere" in un quadro in cui il carattere pubblico-e-rappresentativo di un potere politico-sociale-morale esercitato da uno Stato, peraltro "libero", essenzialmente "libero", non è anch'esso espressione di un suo sovrano volere. Non è realizzazione di un suo disegno politico, o delle sue "opere-imprese", ma è una specie di carta bianca (o carta assorbente) che si inzeppa (e inzuppa) di eventi chiamati, convocati ad accadere nel suo ambito sociale.
Questo aspetto caratterizzante non è, in sé e per sé, affatto moderno, quale e quanto moderno sembra. Potrebbe essere solo, tout court, il sintomo di una crisi, di una lunga crisi. A furia di "apparirlo", però, "moderno" lo diviene, per automatismo, proprio nell'esercizio dello stesso processo in cui, piuttosto, per quanto sembri moderno, non poco rétro è, rétro cerca di continuare ad essere, e rétro si conferma, infine, come più rétro non potrebbe essere.
Conviene che l'assunto di questo mio intervento sia subito dichiarato. Credo - non ho elementi per affermarlo in altro modo che con un atto di credenza -, credo che tanto la labilità divenuta tale nel tempo storico, tanto la labilizzazione continua, di fatto progressiva, del rapporto con la propria storia, coi propri eventi, quanto la progressiva genericità del suo ruolo di struttura di mantenimento di una tradizione artistica specifica e inossidabile, facciano della musica di Venezia uno strano prototipo (inatteso ed anche un po' incognito) della condizione evoluta - la cosiddetta "classica" o "romantica" - della musica moderna ancora a venire (3). Là dove con "musica moderna" si intenda una musica "non più funzionale", una musica liberata alla "poeticità" per grazia della dissoluzione di vincoli di pertinenza (storica effettiva o storico-locale effettiva o "politica") dei suoi fisiologici ricambi col mondo. Tutto questo avverrebbe, a Venezia, nel corso dei secoli XVII e XVIII in una misura, paradossale, di massima pertinenza della connotazione/identificazione ambientale. Massima, e inversamente proporzionale sia alla coscienza d'uso della stessa musica aggettivatasi come "veneziana", sia alla coscienza di intenti e obiettivi da parte della sua committenza, sia alla "coscienza artistica" degli Autori: l'una, l'altra e l'altra spossessate d'ogni autentica vigilanza d'auto-valutazione. Ossia l'una, l'altra e l'altra, reciprocamente passive.
Che tale sia, o diventi - moderna, nel suddetto senso -, lo si verifica osservando quanto e come essa si giustifichi (4) in una doppia condizione di invisibilità (sia nel senso della introvabilità di una vera dimensione di "Signoria", sia in quello della introvabilità di una vera dimensione di sudditanza non meno introvabile) e nella formulazione, praticata, o "lasciata praticare", di una rappresentanza (esemplata nella musica e nella vita musicale) essenzialmente retorica. Una rappresentanza la cui essenza sta tutta contenuta in un atto primario di potenziamento di altri analoghi valori invisibili ovvero rovinati (tutti rovinati, comunque li si nomini: altezza, maestà, gloria, dignità, onore) (5).
A tutto pro della mia proposta, vorrei stralciare, ora, dal suo contesto, per citarlo qui solo strumentalmente e forzando, magari, la mano, un interessante rapido affondo di Cari Schmitt sul tema della pertinenza della formulazione essenzialmente "retorica" propria del "carattere pubblico rappresentativo antico, così com'è in tale retoricità opposta - opposta con incompatibilità - a quella, moderna, borghese, della ῾rappresentanza' che esita [vincente] da un confronto dialettico risolto [finito o prossimo alla fine per grazia d'indistinzione] " (6):
Proprio l'eloquenza che non discute, ma che rappresenta (7), è l'elemento decisivo; [...] senza cadere in degenerazioni dialettiche essa si muove nella sua propria architettura [leggi: "si muove occupandone lo spazio per un certo tempo"]. La sua scansione efficace e solenne è come e più di una musica: è una dignità divenuta visibile nella ratio di una lingua che si dà forme nel tempo, ricorrentemente. E tutto ciò conferma la presupposizione, in-dimostrata, della presenza di una gerarchia invisibile, marcata dai suoi segni e accompagnata dalle risonanze spirituali che procedono dalla credenza che si fa fede nella rappresentanza rivendicata dall'atto d'eloquenza [sia pur gratuito, incidente, rifratto aggiungo io, per mio comodo] (8).
Orbene, una realtà rappresentativa, qual è (rappresentativa) di Venezia (o in Venezia) la Musica/Vita musicale nell'arco cronologico tema di questo volume un arco che contiene una storia politica di mantenimenti, contenimenti, e tante, tante esposizioni evitate - non si presta affatto ad essere illustrata bene, o credibilmente bene nella narrativa, sulla scorta di una ipotesi di dipanamento di un intrigo costituito, eziologicamente, come un incatenamento di cause ed effetti; ovvero sulla scorta di una o due o più sintesi di isolati elementi funzionalmente estratti da un continuum rappresentativo.
Non esiste infatti - per fare un solo esempio pittoresco - una qualsiasi ipotizzabile trama in grado di connettere ragionevolmente, da una parte, una forte immagine di azzeramento e silenzio delle pratiche/abitudini/consuetudini quale per esempio quella attestata nei registri della chiesa domenicana dei SS. Giovanni e Paolo (9) in clima di day after da peste quando i frati si determinarono a "licenziare il signor Maestro di Gramatica e l'Organista (10) essendo morti tutti li Novizzi e morto anco il maestro loro e non possendo l'organista venire a sonare per noi, sequestrati per il presente contagio", con un'immagine, dall'altra parte, non meno forte (di segno contrario: una icona di buona, ottima cera collettiva, per lo meno, apparentemente quasi troppo buona): quella che si inscena, fuori scena, nei palchi del Teatro dei SS. Giovanni e Paolo - questa volta il Teatro, dei SS. Giovanni e Paolo, e non la chiesa -, facendo mostra di una esuberante potenza di "finzionalità" dell'Opera generosamente espressa, confessata ad alta voce, da un "gran Bascià", forse turco, non meglio identificato, ospite dello Stato, ma accudito, per delega, attraverso una sub-ospitalità offerta all'ospite da un altro ospite di Stato in regime di svagata e gaudiosa visita privata lagunare (il "Signor prencipe di Bornit [leggi: Bayreuth]") (11):
Non voglio lasciar di dirle(12) le meraviglie che fece il Bascià di Napoli e di Romania[!] [..] all'opera [...] . Stavasi accompagnato da diversi nobili in palchetto e vedendo scender dall'alto la lumiera che doveva render chiaro il teatro, come la vide ferma disse: 'bene! bene!' [applaudendo a quel ch'egli credeva fosse la fine, il fine o lo scopo della rappresentazione]. All'alzarsi della tela restò ammirato rappresentandoseli all'occhio la scena pomposa et un intreccio di nobilissimo ballo [...] al sentire le voci de' cantanti pareva incantato e pregò quei signori di condurre ogni sera i musici a casa sua, o lui al teatro (13). Sul fin dell'opera vidde un abbattimento terribilmente rappresentato (14), e disse 'bravi soldati'. Li fu risposto che quelli erano bravi da burla, ma che ne aveva la Repubblica dei bravi da dovero. In fine, essendosi meravigliato del numeroso concorso, li fu detto che non era [a Venezia] solo quel teatro ma che ve n'erano cinque d'opere musicali(15), e dui di comedie, e sempre pieni, oltre alla gente che si porta a festini particolari ed al Ridutto del gioco; parve a questo dire che restasse sorpreso e dopo diede in questa esclamazione di meraviglia: 'Oh! in Costantinopoli, noi, guerra, peste, fame, fare sempre noi digiuno, mai fare allegrezza!'. [Aggiunge a quello della solita meraviglia - il turco - un secondo sentimento in più, un sentimento-postilla d'invidia religiosa che quasi sopravanza quello della meraviglia-spaesata: evidentemente Domineddio è strabico], Iddio non vede i turchi e 'vuol tutto tutto il suo bene ai cristiani!'. [E il "giornalista" della "Pallade Veneta" assentisce con compunta sentenziosità: "Et in vero non poteva un infedele parlar più saviamente: essendo Iddio così favorevole che proprio siamo le sue delitie, pur che una volta le nostre colpe non ce lo rendino sdegnato"].
Fra i due suddetti storici loci, distanti nel tempo del loro secolo, abbastanza(16) ma non troppo distanti, non si dipana una vera "storia" suscettibile di farsi spiegare in quel suo andare in gran fretta da un enfatico grado zero, penitenziale, delle chiusure per peste delle scuole di musica ("tutti morti"), all'alto grado della consolazione non meno enfatica, evocabile nello sfoggio di trionfi ("consumistici" diremmo noi oggi) dell'arte musicale rappresentativa "a gran concorso di nobili e di popolo" ("tutti vivi ed ebbri di meraviglia").
Volendo comunque evitare, ora, per lo meno da subito, il lancio di altre ipotesi radicali, ritenendo che sia per me conveniente attenermi dapprincipio a un'ottica non "panoramica", ma piuttosto un po' bassa (di sotto in su), il primo dato che mi propongo di prendere in considerazione è la base, per così dire, "garantita", il fundamentum di musica, su cui/con cui la città si aiuta a fondare o a conservare fondata la sua identità prima(17).
La dotazione musicale di base di Venezia città-stato, la dotazione di un quantum di musica immancabile concessa a se stessa dalla città-stato, esiste; c'è ma non è particolarmente solida. E comunque si rende, forse, col tempo, sempre meno prevalente. Potremmo anche dire però che per quanto diventi debole, col tempo, o per quanto debole sia ab initio, è comunque rigidamente rispettata: si tratta sempre di quella sempre identica dotazione annuale che il diacono annuncia da sempre alla Serenità ogni 6 gennaio (con "elegante discorso", senza sospendere giammai il rituale) dando i numeri del calendario delle feste mobili. Messe e vespri in cappella ducale, ovvero fuori cappella (con processione e transiti), diversamente scandite su diversi ordini di livelli distinti: 1) su quello a) temporale ordinario; 2) su quello b) del santorale elettivo (le devozioni di Stato: specie la mariana); 3) su quello c) del santorale speciale-dogale (vedi s. Lorenzo Giustinian come primo patriarca, vedi s. Pietro Orseolo, come doge santo); 4) su quello delle non molte festività "specialmente cerimoniali" d) come quella della Sensa (la liturgia del radicamento religioso della identità statuale della Repubblica)(18), come le ufficiali "impetrazioni" e "li [ufficiali] rendimenti di grazie" (azioni apotropaiche) per i cessati flagelli morbosi (Redentore e Salute), come la celebrazione "militare" di s. Giustina (la festa che Destino e Storia vollero dedicata alla titolare - per casuale turno santorale - del protettorato della vittoria di Lepanto).
A queste dotazioni di base la Città-Principe corrisponde - correttamente - una certa qual mitica qualificazione sia (1) in ordine alla attenta e corretta restituzione regolare dei rituali, sia (2) alla resa di buon tono della loro apparenza e sostanza musicale. In quest'ultimo senso, la conservazione del patrimonio di identità attraverso la musica si costituisce nella esplicitazione-vanteria, nella "diceria" corrente sul valore individuale del maestro della cappella. Il quale deve essere una personalità di chiara fama. Deve essere buon organizzatore del lavoro della compagnia dei musici e dei cantori. Deve essere un buon selezionatore di talenti, e nel suo particolare, anche, un artista in grado di assoggettarsi ad una domanda irrinunciabile di molte prove di talento, molto auto-controllate nelle creazioni, rare, ma sempre del tutto ex novo che il calendario e il santorale richiedono. Deve essere molto abile, inoltre, nella rinnovazione (moderata renovatio) di attese di ascolto, quali sono le più comuni in e di ogni ceto; tanto sensibili, tutte, allo "spettacolo" del rispetto delle convenzioni. In questo deve essere anche capace, infine, il maestro, di "venezianizzarsi" di molto, specie, ovviamente, quando proviene da civiltà musicali lontane (e per lo più, il maestro, da fuori Venezia, chiamato, arriva), ovvero, più sottilmente, deve essere capace di piegare garbatamente alcune abitudini veneziane ai modi di un eventuale suo stile personale (20), o ai portati di sua scuola (19), rendendo agli stessi piegamenti, peraltro, la proprietà di figurare come caratteri evolutivi della pratica musicale e della sensibilità d'ascolto locale.
Per affrontare questo aspetto della cosa con qualche chance di vederlo un po', ci troviamo ad avere fortunatamente e fortunosamente disponibile una interessante testimonianza, un po' diretta, un po' no, che in un momento significativo - quale la vacanza appunto del posto di maestro della cappella (a grandissimo maestro, Monteverdi, morto) - ci fornisce un'attendibile descrizione sommaria della vita professionale/artistica di un musicista di vaglia, arrivato a Venezia, e poi ivi vivente, riverito e "ricercato". Una vita misurata in concreto sia sul suo "da farsi" secondo il "mansionario", sia sul campo aperto, ma, significativamente, quasi meccanicamente pre-ordinato dei suoi tanti "possibili" impieghi (21). Mi riferisco a una lunga ma non prolissa lettera, puntuale, spedita da Venezia a Roma, in data 5 dicembre 1643, firmata da tal Giacomo Razzi.
Giacomo Razzi, era, a quella data, uno stimato cantore romano, impiegato in S. Marco, che scriveva al maestro titolare della chiesa romana di S. Apollinare (e dell'annesso Collegio Germanico), Giacomo Carissimi, musicista già di chiara fama gesuitica e romana, annoverato, nelle "Storie della musica" interessate ai "padri dei generi e delle forme", fra i "padri" del genere "oratorio". Gli scriveva per convincerlo a farsi avanti (22) per succedere a Claudio Monteverdi, morto dopo un trentennio di autorevole direzione della cappella dogale (23). Diceva, nella lettera, di essere lui stesso in persona, Razzi, il proponente del nome del Carissimi agli Eccellentissimi ("ho messo meritatamente in tal consideratione la sua persona che sicuramente stimo") e suo potenziale grande elettore segreto. Passava quindi - supponendo di allettare il maestro romano - a descrivere le condizioni di vita e di lavoro del capo della musica a Venezia.
Apprendiamo così quanto ci basta per delineare una silhouette dello status di un quotato maestro marciano: a) carica perpetua, non revocabile ("l'offitio è perpetuo"); b) 400 ducati di stipendio (" provisione") annuo; c) casa ("buona habitatione") in comodato, in canonica; d) 100 ducati di regalìe straordinarie; e) dotazione di due organi, strumenti eccellenti, sempre ben accordati, e affidati, in titolarità, a due "valentissimi" maestri(24); f) riducibilità degli obblighi (garantito sempre un vice-maestro sempre presente o compresente, comunque sempre pronto a tutte le sostituzioni desiderate dal maestro, nelle esecuzioni della cappella "a libro grosso" e nei "contrappunti alla mente" ai canti fermi); g) una cappella dotata di quaranta cantori attivi + dodici strumentisti, con l'accondiscendenza garantita dai/dei procuratori alle eventuali richieste di "aggiunti" ("[...] si chiamano anco altri fuori di chiesa"), "a gusto del Mastro"(25); h) occasioni plurime per le manifestazioni della ingegnosità del maestro in diverse feste grandi, con dispiego di spettacolari "scapricciamenti" formali di floride polifonie concertanti ("[...]
e quà c'è campo da scapricciarsi da far sentir gl'intrecci, e le bizzarrie spiritose et allegre con sinfonie che a gara imitando e redicendo gl'inviti capricciosi fatti dalla[e] voce [i]") (26)
A tutto ciò il Razzi aggiunge un richiamo convincente e molto seduttivo alle "committenze" accessorie - legittime e consentite - extravaganti: esterne, fuori-orario-di-mansione, genericamente libero-professionali. Le prove/creazioni di ingegno "scapricciato", ad esempio, "incantano", a suo dire, una "numerosa nobiltà" nella cui compagine ogni "minimo nobile" si trova, in Venezia, a dir del Razzi, a "potere" molto; di gran lunga molto di più di quel che possono potere, da committenti, i principi della Chiesa di Roma. Fra questa "numerosa nobiltà" molti sono i soggetti i cui cuori possono essere "rapiti"
e [che] sono talmente innamorati della Musica, massime delle novità, ch'è impossibile crederlo e non si guarda [da loro] a spesa a far le musiche fuori chiesa, che veramente vi sono molti che premono a farle per il grand'utile che c'è, si guadagna all'ingrosso ché sono quasi continue, e non c'è Musica, per piccola che sia che non arrivi a cinquanta ducati, ve ne sono di cento, duecento e trecento zecchini che caminano.
Inoltre, non appena il maestro della cappella lo vuole, lo vorrà, o lo volesse, è possibile guadagnare per lui "qualche centinaro di scudi" facendo "la musica di qualche Teatro". E se mai vorrà anche fare delle "accademie": si accorgerà dell'utile e del "concorso" che ne trarrà, già che "infatti è incredibil'a dire il guadagno che si fà a quelli ch'incontrano il gusto". Per concludere, il Razzi, sottolinea il vantaggio di avere sottocasa, a Venezia, una folta schiera di buoni stampatori, sempre chini sui torchi, attivi, circa i quali Razzi non accenna a questioni di utile remunerativo, ma piuttosto all'ordine puramente onorifico di una "pubblicità" del valore artistico dei musicisti incrementata dalla stampa come valore aggiunto d'"immortalazione" e di "titolo glorioso". Ultimo codicillo di garanzia, di blandizie e di avviso, nella lettera del romano al romano: la comune "riverenza" è garantita, l'amore di tutti, pure (sia per la sua [del Carissimi] delicatezza di compositore d'opere d'"omni genere", stupende, che per le buone maniere
e il virtuosismo nel "sonare"). Da ciò l'esortazione (del Razzi) a far presto-presto a "prender la Fortuna" quand'essa "gli mostra [al Carissimi] il crine", già che molti altri "soggetti di molto merito" ci sono, in giro, "che pretendono", ambiscono al posto.
Lo stesso Monteverdi ci ha trasmesso alcune tracce utili per dar colore al ritratto del suo stato di servizio personale, già delineato, post mortem, a mano libera, dal Razzi. In molte delle sue poche, pochissime lettere conservateci, il cremonese ci narra, nel suo stile letterario "arronzato", ansimante e ingolfato di solecismi, più o meno direttamente, di queste sue "convenienze di servizio".
In una lettera allo Striggio del settembre 1627 (27), al termine di una oscura argomentazione proiettiva sul tema dell'ipotesi (28) di un suo eventuale re-impiego mantovano di ritorno (29), il maestro si mette a parlar di colpo più in chiaro e in pulito quando descrive se stesso in funzione attiva a Venezia:
[...] Non vivo ricco, no, ma non vivo né anche povero, ma che di più vivo con certa sicurezza di questo denaro sino alla morte mia e, che più, sicurissimo ad averlo sempre alli tempi determinati delle paghe che sono de duoi mesi in duoi mesi senza alcun fallo; anzi, se si tarda niente lo mandano a casa. Faccio poi in capella quello che voglio io, poiché vi è il sotto maestro adimandato vicemaestro di capella, né vi è obligo alcuno di insegnare. E la città è bellissima e se mi voglio un poco affaticare, me ne vengo in duecento ducati altri buoni.
Dopodiché riafferma che "nulla di meno il Signor Ducca sarà sempre il suo Signore" e che egli stesso gli sarà sempre "servitore umilissimo e certissimo in ogni loco e stato"(30); circa le proposte di un proprio ritorno mantovano, esplicitamente va dubitando, il maestro, della loro buona convenienza economica:
[...] creddami certo Vostra Signoria Illustrissima che la mia mala fortuna, per pigliarsi gioco di me, farebbe che le provigioni [le paghe] che si degnasse segnarmi Sua Altezza Serenissima, dele dieci le nove volte per me non si troveriano denari in Tesoreria; siché per questo principal acidente sarei bono di amalarmici dentro [...] oltre alli acidenti della morte che mi potrebbero far restar anco affatto senza alcuna provigione [del tutto senza paga] (30).
In effetti Monteverdi sembra trovar molto di suo gusto il servizio principesco-istituzionale, inteso more veneto, come avviene in S. Marco: senza la effettiva presenza di un principe apparente, ma in libero stato di rappresentanza delegata a lui, maestro, di una sovranità astratta e diffusa, concretamente repubblicana, fondata anche sulla Musica (32).
In particolare sembra apprezzarlo, il servizio a Venezia, per quelle sue "moderne" garanzie, tipiche delle buone amministrazioni, ben cronometrate nei tempi della tesoreria, al riguardo della puntualità delle retribuzioni (e che tanto ben figurano al confronto con la aleatorietà delle positive composizioni delle buonegrazie, troppo di raro congiunte, del signore e dei suoi tesorieri). Del pari l'ama, il servizio moderno, per quella libertà che si legittima nella assunzione personale, e volontaria, dei carichi di lavoro salariato-statale (i cui "impegni" sono comunque anch'essi "garantiti" alla pubblica cosa dalle funzioni coordinate sostitutive del vice-maestro e dei suoi assistenti-organisti). Una libertà, dunque, tutta rimessa al giudizio e alla coscienza morale, laica, dei servitori dello Stato. E così l'apprezza per la non meno libera responsabilizzazione didattica di una schola (un altro ad libitum) (33), e per il diritto acquisito dai maestri della cappella, in questo regime di libertà, di esercitare - anche fuori-servizio - il loro ingegno, e di venderne liberamente i frutti. Ovviamente fuori sede, e del tutto a piacere.
E va a segno, forse, qui, una certa sintomatica combinazione fra tanto buon sentimento della libertà nell'esercizio dell'ufficio (34) e una certa quale coscienza del "valore di rappresentanza [statale]" dell'ufficio stesso, che si avverte quando Monteverdi (dieci anni dopo la succitata autocertificazione del pieno gradimento nel ruolo marciano) (35) in un nervoso esposto che inoltra ai procuratori di S. Marco (36) al riguardo di una bruttissima rissa scatenatasi davanti alla porta grande della Basilica, a seguito di alcune equivocate storie di equivoci compensi professionali-musicali extra ed un po' malavitosamente, forse, racimolati da un manipolo di cantori. Rissa prolungatasi, poi, in una colorita aggressione personale subìta dal Monteverdi stesso, il quale però, nel lungo esposto ai procuratori, non sembra rivendicare altro che, molto nettamente, la sua posizione di "pubblico ufficiale offeso nella sede dell'esercizio delle sue funzioni", e di rappresentante - nelle vesti di maestro titolare della musica della cappella - di una dignità governativa, delegata (37).
Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori e Padroni Collendissimi,
Io, Claudio Monteverdi, maestro di capella di Santo Marco, umillissimo servo dele Vostre Eccellenze
e dela Serenissima Republica, vengo umilmente alla Loro presenza ad esporLe come che Domenico Aldegati, cantore in Santo Marco, basista, eri matina che fu alli 8 del presente mese di giugno 1637, avanti alla porta grande di essa chiesa, nel'ora del maggior concorso del popolo e nel quando eravi maggior numero de' cantori e sonatori - vi era anco un tal Bonivento Boniventi, musico, che andaseva destribuendo a' cantori e sonatori certi denari dattili da le signore illustrissime monache di Santo Daniele per la fonzione del vespero a che fecero avanti il levar procesionalmente il corpo di santo Giovanni, duca di Alessandria - o fosse la causa questa, perché forsi non glie ne toccò de detti denari, o fosse perché meno fosse la sua distribuzione rispetto alle altre distribuzioni (che non lo so, perché mai m'intrico negli interessi de denari de' cantori), fuori d'ogni causa e di ogni giustizia, non portando rispetto né alla carica ch'io tengo da la Serenissima Republica, né alla mia età, né al mio sacerdozio, né al'onor de la mia casa e de la mia virtù, ma spinto da una voluntà, tutto in furia e ad alta e strepitosa voce, dopo alcuni minuti primi strapazzamenti di mia persona, fatto perciò radunare a semi cerchio più di cinquanta persone, parte de' quali erano forastieri, fra' quali che erano presenti forno [leggi: furono]:
- il signor Giovanni Battista, detto il Bolognese, cantor di capella;
- signor Gasparo Zerina, bresciano, che sona di contrabasso;
- signor Alovigi Lipamani;
- signor don Anibale Romano, cantor di capella;
- signor Giovanni Battista Padoano, che sona di tronbone;
e il detto messer Bonivento Boniventi, che distribu[iva] gli detti danari, disse le formate parole (come ben mi hanno riferto alcuni de' detti testimoni): ῾Il maestro di capella è di una razza bozerona; ladro becco fotuto' con molte altre ingiurie scelerate; poi soggionse: ῾E ho in culo lui e chi lo protegge. ῾E aciò che ogni uno m'intenda, dicco essere quel ladro becco fotuto' - di Claudio Monteverde. E a te dicco, o Bonivento, aciò glie lo vadi a riferire da mia parte'.
Vengo per tanto a' piedi dele Vostre Eccellenze a supplicarLe, non come Claudio Monteverdi sacerdote (ché, come tale, il tutto gli perdono e ne prego Dio che faccia il simile), ma come maestro di capella, la quale autorità derivando dala regia mano dela Serenissima Republica, non vogli consentire che resti in tal modo strapazzata e ingiuriata né la mia virtù, né l'onor di mia casa, che si protegge sotto alla serenissima mano di questa Serenissima Republica, ma con aricordo a questo tale che gli altri cantori piglino esempio a star ne' termini onorevoli verso ad ogni uno, specialmente verso di chi tiene il nome di maestro di capella. In altra maniera, e per onor mio, sarei sforzato, per schivar la seconda occasione per bocca di lui o per altri suoi simili pari, dimandar una bona licenza per andarmene sotto alla protezione de' miei beni lassiatimi da' miei antecessori, pochi sì, ma però bastevoli in mantenermi lontano da simili male e licenziose occasioni; il che sperando come cosa giusta, qui me Gli inchino a terra.
Io, Claudio Monteverdi, ho scritto e supplico [che ne] la vita di questo non sii fatto danno.
Oltre alla figura di Monteverdi, esemplare, di certo, ma anche in un certo qual modo resa eccezionale dalla nostra competenza di storiografi posteri, credo che l'abbreviata precedente citazione della lettera, inviata a Roma dal Razzi, cantore, anziano, saggio e uomo del mestiere, possa aver già reso avvertito quanto basta il lettore di come il personaggio centrale della musica, a Venezia, il maestro della cappella marciana, risulti essere un servitore che se ancora pur è, o si sente, quanto si vuole, un "servitore umilissimo", del pari è molto ben emancipato, come persona e come figura (38), attraverso le validazioni delle potenzialità di disponibilità libera della sua arte. Un'emancipazione, questa, che viene ad essere favorita e facilitata anche dal fatto che se servitore è, non è servitore di un padrone, non è nemmeno servitore di due proverbiali padroni, ma di almeno quattro padroni (39), tutti un po' fusi o confusi l'uno nell'altro, o per prerogative e diritti, o per effettiva responsabilità economica del prodotto, o per una sorta di gioco al rimpiattino le cui ragioni prime non sono facilmente evidenziabili, già che può anche sembrare che come cause e ragioni, quelle ragioni siano non poco volatili.
Il primo padrone, per venir subito al caso nostro, è "l'istituzione" more antiquo "principesca" dello Stato repubblicano, la quale oltre alle creazioni musicali ordinarie "commissiona" altre - ma non troppe -, creazioni musicali, diciamole: "ordinariamente speciali", funzionali al mantenimento, in effigie, di un regime alto/politico (40) i cui apparati sono connessi sia alla qualità della devozione pubblicamente esercitata che alla pubblicizzazione di eventi storici. (Per lo più in memoriam: marcati da atti di pubblica devozione-rendimento-di-grazie che riconfermano, in rappresentazione, in effigie appunto, una certa fatale buona inclinazione della Provvidenza divina a concedere alla Repubblica storici favori solennissimamente memorabili; o perlomeno, comunque, grandiosi perdoni e relative cessazioni di pestilenze e afflizioni).
Quasi verrebbe da dire, però, in aggiunta a tutto ciò, che sembra - nel quadro così configurato - che tali grazie e remissioni di penitenze siano promesse o concesse a Venezia da Domineddio Redentore o dalla sua Santa Madre, a patto - un patto scritto su un cartiglio di gloria - a patto che la memoria di quelle fortune o remissioni di sfortuna sia adeguatamente, ingegnosamente musicata sempre ex novo, in gloria e in pompa, ad uso dei "doi organi grossi perfettamente aggiustati a capello" e dei connessi "doi valentissimi organisti", dei "40 cantori ordinarii" e dei "12 istromenti fra violini, violoni, tromboni e cornetti" (più gli "aggiunti", "a garbo del Mastro") (41).
Se questo è il primo, il secondo padrone chi è? È un committente "libero", potremmo dire "momentaneamente privato" che contatta il maestro per chiedergli opere su misura. Può essere costui un gran signore straniero; può essere un principe titolare di una corte italiana, sopravvissuta all'occaso, o sopravvivente nel crepuscolo dell'età dei Signori, che ordina - da fuori - in persona o tramite quotati agenti. Può essere un patrizio "capitalista"; può essere un primo responsabile, o fondatore, o guardiano di una accademia; può essere un signore incognito o in incognito, un privato cittadino, eguale ai suoi pari, che ambisce a trasformare i suoi spassi di casa, in altrettanti "beni culturali", invidiabilmente gravati dalla impronta dell'eletto ingegno musicale di un maestro "prestato" alla "sua" festa. Un festa offerta però, perlopiù, e/o sotto-sotto, a visitatori forestieri (ossia ospiti della città); ma anche dedicata, in primis, al suo proprio genetliaco, o, epitalamicamente, al matrimonio della figlia o del figlio, o ad altre consimili situazioni reali, private. Quel signore, che a dire del Razzi "è inamorato della musica" e "massime delle novità", non è più assolutamente un principe : potremmo azzardarci a dire che è un archi-borghese. Un gran bel borghese delle origini. Un signore che cerca di qualificare anche culturalmente il suo rango fra i suoi pari esibendo i propri speciali gusti - che, alla moderna, sono interessanti, nuovi, originali -; un signore che cerca magari di qualificarsi ulteriormente anche grazie a un qualche suo personale exploit partecipativo (da dilettante) nell'arte in gioco. Un signore, comunque, che alla fin fine sempre intende rappresentare, nelle azzeccate manifestazioni artistiche, qualitativamente elette, da lui create, o affittate, o compartecipate in casa sua, una indiretta simbolizzazione di se stesso come eguale (sì, eguale) agli altri suoi simili, ma anche elevato rispetto ad essi. E se elevato, elevato in proporzione del quanto e del come, per dirla correttamente, più che "espresso" da sé, "s'è fatto esprimere" dai musici ospitati e adeguatamente remunerati. (Non sfuggirà al lettore che questo ordine di committenza è molto moderno; perché diventi modernissimo, ossia "borghese", basterà soltanto che quei "suoi simili" sopracitati non siano più "gli altri patrizi" [veneti], o gli altri cittadini "dogabili", ma "l'intero genero umano" liberato e fraternizzato e egualizzato da rivoluzioni e antropologie e convenzioni massoniche del "dopo-i-Lumi").
Fra i residui dell'epistolario monteverdiano - carteggio smagliatissimo quant'altri mai - emergono, fra le tante lacune, alcune testimonianze di profferte e di risposte del maestro alle sirene "private" dei committenti interessati ad illustrare "umanisticamente" la loro vita privata - privata ma aperta al pubblico degli altri privati - col pregio del prodotto della loro stessa committenza.
Committenti di questo genere, che aspirano a declinare esteticamente ("umanisticamente") l'abilitazione (42) "aulica", anche in senso musicale, della loro casa-palazzo o delle loro sedi di rappresentanza corporativa o nazionale in Venezia, sono significativamente numerosi (43). I personaggi e le situazioni sono decisamente diversi e diverse:
‒ I) guardiani di Scuole che pagano più di 200 ducati all'anno per la loro festa in sede (lettera 49, 1620) (44); Milanesi residenti a Venezia che vogliono festeggiare molto bene s. Carlo il 4 novembre 1620 (lettera 62, per cui fanno anche chiedere a Mantova da Monteverdi, per la gloria del Borromeo, il prestito di un virtuoso di canto: don Francesco Dognazzi); la messa da morto speciale per i Fiorentini da cantarsi il 25 maggio 1621 (lettera 66); le musiche da camera per il ῾Prencipe di Noimburg [Wolfgang Wilhelm di Neuburg]' nel 1627 (17-20 ore di lavoro al giorno), visitatore in incognito alloggiato nella casa dell'ambasciatore inglese; più i vesperi solenni della Madonna Santissima dell'Abito, ai Carmini (lettera i o') nonché ῾certe musiche' ordinate dalle monache di S. Lorenzo nel 1630 (lettera 12 1).
‒ II) Il procuratore Landi, ricordato post mortem (avvenuta nel 1618), nella già citata lettera 49, per aver commentato la prestazione di Monteverdi presso il suo oratorio domestico, pagata con cento ducati sonanti, pronunciando questo proverbio: ῾Chi vole il servitore onorato bisogna anche trattarlo onoratamente'.
‒ III) La creazione del Lamento di Apollo per la casa Bembo (lettera 41, 1620); la festa con signori stranieri in casa Mocenigo messa su adattando la Finta pazza Licori (lettera 96, 1627); la grossa ῾fonzione musicale', a sfondo politico, allestita a Chioggia per Giovanni Battista Foscarini (lettera 111, 1627).
‒ IV) Gli ordini da fuori-sede, più o meno onorati, di musiche (private), per le lontane camere di corte dei Farnese e dei Gonzaga (lettere: 16, 1615/17, 1615 = Tirsi e Clori, un ballo per Vincenzo II Gonzaga; 21-35, 1616-1619 = Le nozze di Tetide ῾favola rappresentata in musica come l'Arianna'; 38-39, 1620/41-45, 1620 = un'Andromeda su versi di ῾Enrico Marigliani [Marliani]' ancora per Mantova; 50-53/55-56, 1620 = un remake dell'Arianna per Mantova; 59, 1620 = le musiche per l'egloga nuova di Vincenzo; 64-66, 1620/68, 1621 = le mascherate per Le tre costanti, sempre del Marigliani, sempre per Mantova; 90, 1627: musiche su versi di Striggi, per Mantova; 92-106, 1627: la Licori finta pazza innamorata d'Aminta; 108 -115, 1627: gli intermedi dell'Armida; 117, 1628: le musiche del torneo parmense dell'Achillini Mercurio e Marte; 118, 1628: le musiche dell'Armida rimaste a Venezia quando Monteverdi è a Parma e richieste dalla corte mantovana) (45).
Restano peraltro fuori da questo quadro, visto che il già rarefatto epistolario monteverdiano troppo si dirada ulteriormente dopo il 1628, e già che verosimilmente crescono, dopo la peste e dopo il tramonto politico dei Gonzaga, le commissioni private lagunari (non testimoniabili, come già s'è detto, in carteggi, scomparsi o mai avvenuti, già che le cose sono verisimilmente trattate in loco) di opere create di concerto (46) con personalità consimili al cavalier Mocenigo (47) (consimili a lui per il "bonissimo e delicato gusto"; ossia: personaggi sensibili ai "canti di genere non più visto e udito", ossia: nobili-nobili ri-nobilitati nel e dal gusto e la passione per le arti esercitate e fruite in spirito di innovazione e "progresso").
Una considerazione viene facile alla mente. Questa committenza privata, privata e coltivata in un qualche ordine di assemblaggi di concordanze spirituali, com-poeticamente vissuta con gli artisti, contrattata come relazione scambievolmente "umanistica" fra i padroni e i servitori produttori di opere ed eventi artistici (in specie gli eventi effimeri quali sono per statuto fisico e psico-fisico i musicali), non ha una sola faccia; è un double-face; ha, a dir poco, un diritto e un rovescio. Sull'una faccia, infatti l'azione di questi committenti sembra essere luciferinamente competitiva, in termini di rappresentatività, con lo Stato indebolito-impoverito (che stringe vieppiù la cinghia delle spese di rappresentanza), o con le altre istituzioni (specie le ecclesiastiche) che continuano ad essere costrette dalla loro storia passata a farsi, ex officio, portatori per amore o per forza di una tradizione culturale fissa, illustre e civile e "patria", cui il/i nuovo/i signore/i oppone/oppongono invece l'auto-costrizione, necessitata dalle ragioni della propria storia futura, ad affermare se stessi e la propria gens patrizia fregiandosi di meriti culturali (in mancanza di occasioni di dar lustro al nome per grazia di imprese militari) (48).
I quali "meriti al valore culturale", anche in ordine al carattere proprio di originalità, o di buon gusto, o di "sorpresa"/"meraviglia", vengono certificati, per così dire, dalla buona fama strisciante delle dicerie che andran correndo, dopo gli eventi, sulla qualità delle cose musicali donate - per spasso dei famigli - in occasioni di domestica rilevanza, o date in casa in occasioni di pubbliche festività di circostanza (49). Ma anche - e qui sta la novità - vengono certificati, quei meriti, dagli stessi artisti che dimostreranno di fatto di riconoscere, scegliendoli (eleggendoli) a loro "patroni", la loro qualità intellettuale (già che concedono, si sa, più volentieri le proprie grazie ai signori "sensibili" - soprattutto sensibili al "nuovo": ossia al "bello come/in quanto nuovo" [si pensi ancora ai "canti di genere non più visto e udito" protetti dal "sensibile" N.H. Mocenigo]). Sull'altra faccia, sul rovescio, però, queste stesse attitudini non sono più riferibili affatto a una competizione, a un certame con lo Stato e/o con le Istituzioni pubbliche civili comuni, quanto piuttosto a un benevolo patriottico soccorso portato allo Stato, le cui ridotte magnificenze rappresentative vengono infatti compensate da "rappresentazioni delle rappresentazioni" delle stesse magnificenze (quondam prerogative/insegne statali) che si re-instaurano in città, rinnovate, per l'appunto, in questo o quel palazzo (50). Rinnovate ancor più "venezianamente" nella concreta, nella profonda verità della vita culturale privata, così come e quanto e quale appunto viene ad essere concretizzata nella esposizione in pubblico e al cospetto di ospiti (stranieri in visita; diplomatici di stanza temporanea; altri "eguali" cittadini-gentiluomini compatrioti, vuoi invidi, vuoi soddisfatti). Della performance double-face di questo genere di eventi si legge a proposito di un qualcosa di importante (51) trascorso in casa Mocenigo, esemplarmente scandito, nelle poche righe del resoconto diaristico (52), su tutti i livelli ora citati: 1) una occasione mondana privata: una festa famigliare aperta alle élites della città; 2) un evento artistico decisamente "nuovo"; 3) il prodotto dell'ingegno artistico più quotato del momento (Monteverdi) (degli ingegni artistici, al plurale, se si conta anche il poeta Giulio Strozzi); 4) la presenza all'evento di ospiti stranieri; 5) lo sfoggio di munificenze materiali e spirituali e d'erudizione e gusto pomposo; 6) il punto d'osservazione invido o soddisfatto che mette a prova la potenza della "diceria", rimarcabile dalla provenienza della testificazione scritta del ricordo dell'evento (il diario, privato, di un altro patrizio, un Priuli).
Narra, del Rapto, il Priuli:
Con l'occasione del maridar di D [...] sua figliola in ser Lorenzo Giustinian fu di ser Girolamo fece ser Girolamo Mocenigo fu di ser Andrea un solennissimo & estraordinario banchetto a parenti & amici con apparato veramente regio (53), dando nel disnare che fece carne & pesce & freddi & caldi tutto ciò che si potea dare, con 4 & 5 mano di confettione, così nel regalar con quelli li piati, come per intermedii dell'un & l'altra banditione, doppo il qual desinare, essendosi ballato sino le 24 hore, fece poi la sera con le torcie (54) recitar & rappresentar in musica (cosa non più veduta simile) (55) il rapto di Proserpina con voci & instrumenti perfettissimi, con apparitioni aeree, mutationi di scene & altro (56), con stupore & meraviglia (57) di tutti gli astanti. Si fece il banchetto nella casa della sua habitazione & ragione in calle delle Rasse solaro di sotto & in quello di sopra di ragione di ca' Gritto (58) fu rappresentata la favola che fu inventione del s[igno]r Giulio Strozzi fiorentino, persona virtuosa habitante di questa città & la musica fu opera del Monteverde Maestro ducale famoso (59) & v'intervennero li duchi di Roan & Candoles (60) francesi con singolar soddisfattione & egual amministratione ancora.
Orbene. Questi patenti aspetti di double-face dovrebbero invitarci a relativizzare un po' più dell'abituale le categorizzazioni del "servizio" e della "padronanza" nella committenza. Nel caso appena esaminato dovremmo essere costretti, infatti, a notare che per quanto privata sia, per quanto indiscutibilmente famigliare, la situazione della creazione della Proserpina rapita in una casa privata di calle delle Rasse deriva da una committenza privata sì, umanistica sì, nei cui atti si evidenzia sì uno scambio di elette affinità di gusto fra servitori-artisti e padroni-patrizi, ma anche deriva da una committenza non priva di valenze di rappresentanza politica (vedi la presenza dei duchi francesi o la pubblica qualificazione del rango di patrizio di prima classe conseguita dal Mocenigo) ed anche deriva ancora da una committenza non priva di un forte carattere di antecedente troppo significativo di un'altra categoria di committenza (altra dalla umanistica-intellettuale) di prossima imminente istituzione (e della quale parla anche il Razzi che "sireneggia" chiamando a Venezia il romano Carissimi): l'impresa teatrale. Impresa venezianissima; impresa "capitalistica" (privata ma pubblica), che vende pubblici melodrammi. Un'impresa che nella prossimità del Rapto, di lì a poco, a peste finita, si "commercializzerà" tipicamente a Venezia, non senza immediate relativizzazioni strutturali, però, della commercializzazione stessa di cui qualche segno del rituale di mercatura conviene sia ricordato.
‒ In genere i palchi son più di 100, più soffitte (loggioncini) ῾compartite anch'esse in più ordini. Ogni palco ha il suo numero e la chiave ha due segni: quello dell'ordine e quello del palco nell'ordine' ('il che [scrive l'Ivanovich] serve a divertire ogni confusione').
‒ L'affitto dei palchi scomodi (vicini al parterre o ai loggioni) viene incassato di sera in sera dall'impresario che ῾procura di ricavar il più possibile a suo maggior beneficio' con pratiche malandrine di bagarinaggio.
‒ La sera della rappresentazione si vendono i biglietti di ingresso (ai palchi di proprietà, alla sala terrena, alle soffitte). Il costo del biglietto resta fisso a 4 lire dalla sera della `fondazione' al S. Cassiano (1637) al 1687 quando per lanciare il suo S. Moisè, l'impresario-scenografo Santurini abbassa il prezzo del biglietto di un terzo a 1/4 di ducato (non seguito, però, dalla gestione del Teatro Grimani detto S. Giovanni Grisostomo, adducendo il motivo della alta qualità, costosissima, dei suoi prodotti scenici) (61).
‒ Il calo del prezzo dei ῾bollettini di passaporta' ebbe come conseguenza l'abbassamento della qualità ῾umana' del pubblico assistente, molto meno selezionato, e anche meno rappresentativo della istituzione Repubblica; l'Ivanovich è molto radicale nel suo giudizio: ῾Il poco prezzo leva il modo alla spesa considerabile delle pompe, introduce più facilmente il Volgo tumultuante, e fà perdere decoro a quella Virtù che comparisce non meno per diletto che per profitto' (62).
Con questo ultimo accenno è entrato in gioco dunque anche il comportamento determinante, per gli usi e costumi musicali della città, del terzo padrone: il committente "teatrale", al quale, se ci teniamo ancora al Monteverdi riepilogato dal Razzi, il maestro marciano offre lucrose prestazioni (verosimilmente privilegiando il "miglior offerente"
perlomeno lo si può credere per il Monteverdi, già che sulle quattro opere teatrali ch'egli compose nel breve tempo che intercorre fra la nascita del teatro pubblico impresariale e la sua morte, poco meno, poco più di cinque anni, le sue tre creazioni teatrali originali, diverse e successive, vengono cantate, allestite e offerte al pubblico di ben tre diversi teatri) (63).
Per quanto esistano, ed operino, in contemporanea, sia la figura 1) dell'impresario (un borghese comune, spesso non-nativo, non di raro un po' "avventuriero", che investe stagionalmente un capitale suo o carpito a qualche risparmiatore incognito sedotto dal miraggio di un "interesse" s-regolato, esponendolo al rischio reale di un mercato di fatto vivace, concorrenziale, ma che, però, soffre essenzialmente per l'esiguità o l'insussistenza del margine di profitto possibile), sia 2) quella di un patrizio, un nobile, che ha aperto il teatro su di un suo fondo proprietario (da cui il nome di famiglia che intitola o in prima o in seconda battuta il teatro che per lo più s'individua con un toponimo parrocchiale), non è facile individuare un'unica delineazione della responsabilità effettiva della struttura produttiva teatrale. Così anche il profilo del terzo padrone, da poco evocato, della musica in Venezia, si appanna subito, non appena s'è illuminata l'icona del "teatro".
Quel che si vende, a Venezia, a teatro, è soprattutto un "palco". Ossia è l'icona - abitabile, comoda, quasi-privata - di una stanza di palazzo, o comunque di una stanza di una bella casa, aperta su di uno dei suoi lati verso uno spazio indiscutibilmente pubblico, dedicato all'esercizio, virtualmente pubblico a mo' di "piazza" delle arti teatrali musicali. Così sull'un lato dell'orientamento prospettico d'uso della sala teatrale. Più o meno, come, viceversa sull'altro lato, il "palco-scenico", messo a sua volta di fronte ai tanti palchi, è anch'esso una stanza privata, una casa della drammaturgia, o della invenzione poetica, o della fantasia allegorica, o epica o tragica, aperta anch'essa sulla città (compartimentata in celle, cellule di palazzo). Un luogo della città che aiuta i cittadini e i suoi ospiti, a spiare legittimamente, in collettivo, i prodotti delle fervide menti "mercenarie" dei poeti e dei musicisti già a suo tempo destinate/riservate ai colti e sensibili patrizi protettori dell'arte etichettata col titolo della casata.
Ma non è finita qui. Se guardiamo alla cosa come a una questione di soldi dobbiamo subito osservare che i palchi non hanno tutti, però, lo stesso prezzo (su questo si rifonda, anche nella effigie architettonica, a teatro pieno od esaurito, la differenza sociale: come un'allegoria vissuta, non rappresentata, nel tempo e nello spazio). Quelli del primo ordine valgono poco, perché da essi ben poco si vede, o intravede, fra i lunghi manici svettanti delle tiorbe e dei chitarroni dei suonatori che fan le armonie alla scena ai piedi del palco (scenico) e le teste della gente di rango basso che ha pagato un biglietto d'ingresso e che per starsene in piedi o seduti alla meglio al pianoterra del parterre a guardare di sotto in su quel che lassù, sul palco, si muove. Di fatto, inoltre, già dal momento della sua fabbrica, un teatro nasce in multiproprietà. Ci sono dei patrizi associati che versano per ogni palco un "regallo" al proprietario del fondo che ha fatto sfondare alcuni solari per aprire al teatro uno spazio deputato. "Questa è stata la causa principale che si siano fabricati più teatri con tanta facilità e prestezza", scrive in proposito il primoastorico dei teatri veneziani, il canonico Cristoforo Ivanovich (64). Un secondo, ulteriore "regallo" del semi-proprietario del palco si definisce attraverso l'esborso di un affitto annuale (che si versa solo e soltanto quando il teatro è attivo) (65). Il "possessore" di un palchetto mantiene uno "jus" sul suo possesso d'uso e non può disporre l'alienazione del suo uso (ovvero subaffittare il palco) se non in virtù di un liberale imprestito occasionale.
I soci proprietari morosi, quelli che dimenticano di pagare il fitto annuale, o quelli che "volontariamente abbandonano" il palco, rimettono - senza ombra di risarcimento, neppur parziale, della prima caparra - la proprietà del palco al "Patron titolare del Teatro". Che può rivenderlo o locarlo a chi vuole (avendo il padrone piena libertà di locare i suoi possessi) (66). La proprietà di un palco, se permane, per quanto limitata sia, è però, ereditabile; entra nella linea familiare.
Merita attenzione un altro fatto: i patrizi che partecipano a questa transazione stabiliscono per legge che si garantisce l'accesso in teatro a tutti quegli ambasciatori di principi stranieri che fanno avanzare dai loro segretari la loro richiesta di "locazion di palco", non a loro, non ai proprietari reali del teatro, ma al padrone dall'autorità politica massima: il doge stesso. È infatti stabilito in questi casi che
Sua Serenità ordini al Padron del Teatro, che debba presentar qualche numero di Palchetti, de' quali imbossolati, col primo che si cava à sorte viene proveduto l'Ambasciatore, e a chi tocca lasciarlo conviene rinonciare alla chiave, e dura per lui la privazione del medesimo per tutto quel tempo che esso Ambasciatore si fermi nella carica, qual terminata ritorna il Palchetto al primo Possessore; né viene imbossolato in altre simili occasioni per lungo tempo [...] (67).
Ciò significa, in soldoni, che lo Stato offre ai diplomatici stranieri, attraverso il coatto sacrificio di alcuni suoi cittadini proprietari di palchi (ma perché non dire, al rovescio, che i cittadini "offrono, coatti, allo Stato, la possibilità di offrire ecc. ecc. senza dispendio alcuno"[?]), il "comodo" di quella sua Meraviglia. Che è Meraviglia di Stato, ma anche quella Meraviglia Privata (requisita), che è il Teatro musicale. Con i suoi "voli", le sue sonanti armonie, i suoi lamentevoli sprazzi e fiotti ariosi di lirismo patetico, i suoi laboriosi intrighi drammatici, le sue sentenziose filosofie "impillolate" in battute rimate, e con le sue "trombe", quel tanto di meraviglia leggendariamente unica che tanto corrobora la sua immagine di unicità (dello Stato): quell'esempio di miracoloso "trasporto" - avvenuto attraverso i secoli - "dei giochi teatrali di Roma, l'antica", tratti su su "dalle rive del Tevere" sino "a quelle dell'Adria". E questo lo fa, l'apparato statale, non disponendo in alcun modo di capitale pubblico, ma facendo pagare la propria buona fama di potenza grandiosa (quell'"Abbondanza" e "quei Giuochi mediante i quali, usati a misura dell'onesto s'acquista l'amore dei Popoli") per metà agli ospiti stessi (con le locazioni dei palchi e i bollettini d'ingressi) e per metà a singoli privati soggetti cittadini, coatti, per sorteggio, a cedere in comodo gratuito la proprietà fondiaria del palco. Espropriati, sia pur a termine, ma per un lungo periodo, tanto di un loro possesso patrimoniale (il palco), quanto del proprio diritto alla propria rappresentanza sociale (la presenza in teatro), quanto ancora, e non ultimo, del proprio, privato, libero, procurato e pre-pagato godimento.
Nella pur fumosa complessità del quadro resta comunque chiaro, egualmente, che l'operazione economica di sostegno della pubblicità del teatro veneziano è congegnata secondo un sistema di compensazioni che incatenano non uno ma più, diversi, soggetti reciprocamente delegantisi responsabilità di gestione a diverso titolo padronale: 1) un primo proprietario generale che dà il proprio nome, perlopiù patrizio, alla sala e che è un po' il benemerito dei diletti della città, un po' un affarista; quindi 2) altri proprietari (comproprietari), un po' meno esposti del nobile titolare del nome del teatro, compartecipi però del patrimonio dell'edificio per quel ch'è attrezzato all'uso (ossia palcheggiato), ma anche del pari del tutto non-proprietari dell'uso (comodo) teatrale dello spazio (che infatti ri-pagano con un affitto annuale o stagionale rapportato alla effettiva quantità di produzioni artistiche, salvo fatto l'esproprio sorteggiato dagli organi di Stato preposti alla sistemazione in palco degli ambasciatori residenti); più 3) uno o più gestori appaltanti e via via sub-appaltanti i benefici delle locazioni saltuarie, gli incassi del botteghino, ovvero del cosiddetto, dagli operatori ai conti, "utile alla porta": il ricavo dei biglietti di accesso ai palchi non proprietarii (quelli non confacenti alla dignità dei patrizi comproprietari vuoi perché mal posti, vuoi perché "quasi al piano", nel primordine, o quasi al soffitto, dopo il terzordine) locati dai gestori (68), il ricavo dei bollettini di accesso al parterre (69), più il ricavo dell'affitto delle sediòle (scagni) o dei posti in piedi, in platea (70), più il ricavo del libretto (71) e quello dell'affitto del moccolo per leggere il libretto.
Quale di questi tre signori è da intendersi essere, dunque, il padrone della Musica in teatro, il padrone che il maestro compositore serve quando si avventura in teatro per "far caminar zecchini" al suono del nuovo bisogno comune di nuova musica neo-operistica? Tornando così di brusco al tema del "terzo padrone" del maestro compositore di musica in Venezia (il responsabile della committenza teatrale, secondo la mappa del Razzi), da quel poco che abbiamo raccolto, possiamo già ritenerci suggestionati a dovere per poter riuscire a pensare che nessuno dei tre (né 1, né 2, né 3) sia un vero padrone: le tre potestà, infatti, verosimilmente, divergendo negli interessi, neutralizzano l'uno all'altro all'altro la volontà o la possibilità di condizionare il compositore. Il maestro ingaggiato come "operista" è quindi di già libero/liberato, da subito, da quella committenza che pure serve e di cui pure s'è servito per "far caminare i suoi zecchini". Ma di fatto - attenzione - tanto libero non è, perché c'è da ricordare, che proprio agli albori del Teatro musicale pubblico, a Venezia, fra gli ultimi anni '30 e i primissimi '40 del Seicento, il musicista, consociandosi con altri compagni del collettivo di lavoro e arte operistica - i) alcuni cantanti della compagnia, forestieri; 2) il poeta, dapprincipio un accademico, ma un po' squattrinato o "sregolato", poi un professionista: librettista, adattatore dei versi d'un'opera vecchia in opera nuova ben rifatta, ed un po' corago-regista; 3) il compositore dei balli, ecc. - una libera sua impresa, tutta libera (cooperativa) nel nuovo genere di spettacoli l'aveva tentata. Sfortunatamente tentata, ma comunque tentata, per un po' (72). Di lì a pochi mesi l'impresa era naufragata nei debiti e nelle cause intentate da fornitori di legnami o candele, artigiani, marangoni, ecc. O comunque, nei pochi casi meno sfortunati di compartecipazione, la cosa s'era conclusa in un ricavo zero. Da allora il compositore d'opere, spesso lo stesso maestro della cappella, aveva inscritto nel codice genetico dei compositori veneziani una sorta di "gene dell'accontentamento". Il maestro gongola infatti per la regolare conquista di un contratto di prestazione d'opera abbastanza soddisfacente: la fornitura a breve termine (o per il 26 di dicembre - prima opera - e per il mezzo carnevale -seconda - o per entrambe le produzioni), retribuita in solido alla consegna, di una/due partitura/partiture buttate giù a tambur battente - con o senza il di-più dell'impegno della direzione musicale della piccola orchestra. (Un contratto a volte firmato dal nobile patrizio titolare del nome del teatro-edificio, a volte dall'impresario, quasi sempre economicamente angustiato) (73).
La posizione del musicista si normalizza, quindi, ben presto, appiattendo lo statuto operativo della creazione di opere teatrali-musicali su quello generico delle prestazioni in regime straordinario (ma regolare, quasi garantito) dietro ordine di committenza privata a carattere aulico modernizzato-profano-simil-accademico. Il Teatro musicale, insomma, come "sotto-marca" della musica comandata dalle élites acculturate delle classi dominanti.
È anche vero, però, e non va dimenticato, che una certa fortuna fuori casa, o addirittura fuori patria, o fuori Italia, che cresce a vista d'occhio, con l'andar dei decenni porta l'Opera veneziana, i suoi prodotti, i suoi titoli già confezionati e chiusi ma pronti ad ogni genere di adattamento di seconda e terza mano, a rendere più mobili, soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo XVII, i suoi eroi: sia i musicisti, che gli scenografi, che i poeti (i cantanti hanno sempre girandolato) (74), avviati spesso verso più o meno fortunate avventure di ricerca e ottenimento di nuovo impiego fuori Venezia. (Se Nicolò Minato e Apostolo Zeno diverranno poeti cesarei a Vienna, e i compositori Ziani e Freschi, sempre a Vienna, forniranno alla corte imperiale partiture su partiture di opere, di commedie musicali e di sepolcri quaresimali, per decenni (75), l'avventura parigina di Cavalli sarà un breve tocca-e-fuggi con immediato ritorno a casa, non senza l'inseminazione nella tradizione della più assolutistica delle corti europee (76) del modello operistico veneziano che, adeguatamente ristrutturato, genererà più di un secolo di epigoniche tragédies lyriques ammantate da una fraintesa, ma sincera, gran coscienza di essere manifestazioni di esprits e di forme musicali original-nazionali).
Digressioni a parte, è un dato di fatto che nel breve giro di qualche anno il modello inizialmente qui considerato - sogguardando le poche linee del diario di Girolamo Priuli al riguardo del Rapto monteverdiano in casa Mocenigo - si rafforza di molto, divenendo in breve una vera e propria "istituzione". Una istituzione che diverrà irrinunciabile. Non meno irrinunciabile delle altre istituzioni fondative dell'identità rappresentativa della Repubblica (come le feste della Salute, della S. Croce, di s. Giustina, della Sensa, ecc.), anche se non fondata affatto su una "memoria" patria. Non sulla rivendicazione di una gloria militare patria meritata o provvidenzialmente concessa dalle divinità. Non su di un rituale di radicamento della patria regalità. Essa è, piuttosto, l'emanazione e poi la ri-emanazione di una abitudine "ambientale", ben più obliosa, forse, che non memore di alcunché, "naturalizzatasi in loco" come parodia di un illustre antecedente antico-romano (77) ad uso della coltura di una traballante auto-mitologizzazione.
Sia come sia, comunque, questa nuova istituzione si rafforza e moltiplica i suoi rafforzamenti interconnessi, che si tengono l'un l'altro bordone.
Si rafforza infatti (l'Istituzione Teatro per Musica) i) sul piano della "glorificazione" - abbastanza a buon mercato (78) - di questa o quella isola familiare di patriziato nel legame di questo o quel nome di un nobiluomo, più intraprendente di altri, apertosi ad una "vocazione" teatrale che molto presto ben renderà in fama. (Vocazione per una iniziativa peraltro corrispondente ad una modesta edificazione - realizzata utilizzando i capitali di una sorta di "fondo comune" raccolto da una società di azionisti minori palchettisti - su un fondo immobiliare di famiglia di cui più che altro l'intervento è una modifica di destinazione d'uso).
Si rafforza 2) sul piano civile della classe dominante in genere con l'escogitazione di quella compromissione semi-cooperativa di una società di nobili interessati a compartecipare ad un sistema di eventi di rilevante interesse socio-politico culturale secondo una cadenza che non è più affidata al caso dei matrimonii di casa altrui ma che è comune sia pur al livello basso di un sistema di appuntamenti esattamente appiattiti su un calendario pretestuoso ma regolare.
Si rafforza sul versante dello Stato-Repubblica 3) con un effetto, ripetibile all'infinito, del buon colpo unico che centra provvidenzialmente (per la Repubblica) ben due obiettivi: a) l'acquisizione, del tutto a "costo zero", da parte dello Stato di una attrattiva di gran gradimento per gli ospiti visitatori e in ispecie per i diplomatici (un'attrattiva dai colori e dai toni di una facilmente mitizzabile tipicità: una sinestesia di "meraviglie" artistiche iconiche e auditive prodotte simultaneamente nelle notti veneziane, in più luoghi strategici) (79); b) il buon esito, imprevisto e trovato di già fatto, scaturito in assenza di un qualsiasi programma politico né disegnato né sperimentato ad hoc dagli organi di governo, di una notevole riduzione della diffusione ambientale della musica, ottenuta grazie alla concentrazione rappresentativa, teatrale, illusionistica, virata nei luoghi e nei tempi deputati dei teatri ad una sorta di dimensione della induzione alla passività e al favoleggiamento simulato, di quella "musica reale" già ubiqua, libera, notturna, invadente e incontrollata che nella città tardo-rinascimentale aveva rappresentato un modello di separazione e secretazione, talora sospetta, della vita privata isolata dalla pubblica. (In tal senso il Teatro pubblico per musica, come luogo, occasione organizzazione del tempo libero notturno diventa anche un'altra cosa: una specie di "polizia di Stato" da nessuno impersonata, ma comunque dedita all'applicazione di una convenevole legge non scritta sul controllo di cittadini e forestieri assembrati sempre nello stesso identico luogo alle stesse ore, legge che non potrebbe essere scritta in quanto illiberalmente restrittiva, e la cui applicazione, modicamente ottenuta, forse, allo Stato non costa nulla perché per altro tanto passa quanto altro da un esercizio di poliziesco controllo effettivamente è).
Ultima figura di committente, e quarto padrone (forse) dell'ideal-tipico musicista illustre in Venezia, o illustratosi in/con Venezia nell'atto del rappresentare la città nella sua musica, il quarto padrone (anch'esso suggerito dal Razzi), dovrebbe essere a questo punto, qui, lo stampatore/editore. Peraltro quella dell'editore è una figura che un senso comune diffusissimo vuole intesa quasi assiomaticamente come necessaria, indimenticabile e dominantissima nel quadro della realtà musicale di Venezia: dai primi vagiti della stampa a caratteri mobili che s'ebbero appunto in prima istanza a Venezia, alla stagione trionfalmente produttiva degli stampatori nella età della massima fioritura che nel pieno Cinquecento centrale elesse Venezia capitale del decoro dell'arte e della imprenditoria della stampa musicale, alla depressione della stessa impresa che a partire dagli anni della peste ebbe in Venezia un luogo ancora una volta rappresentativo: un luogo in cui, data la pregressa esposizione quantitativa-qualitativa della stampa musicale locale, il fenomeno della crisi si rese meglio visibile fin da subito.
Al riguardo della consistenza di questa figura e della sua inerenza, in supposta funzione di snodo o d'asse di trasmissione-diffusione al basso di modelli musicali approvati da una istanza culturale alta (la "spinta a pubblicare") o politica (la concessione dei "privilegi di stampa" come prova di un buon accordo con il governo veneto o con i suoi amici), circa la consistenza di questa figura per quel che può anche inerire alla combinazione di determinazioni della vita musicale influente sulla carriera professionale e artistica dei musicisti, o, viceversa, di determinazione della carriera e vita professionali-artistiche sulla vita musicale, mi dovrò limitare a raccogliere soltanto alcuni punti fermi - tutti problematici - da accodare a quella frasetta che sul finire della già tanto citata lettera del Razzi ci evocava la figura dell'editore pronto a stampare ogni bella cosa sortita dalla penna del nuovo maestro (e questo, in un registro molto "sognante", dato che siamo nel 1643, quando in Venezia ormai non si stampava pressoché più nulla).
Nella lista dei "padroni della musica", l'editore, seppur solo fuggevolmente ricordato, seppur ad una certa data, più fantasticato che vero, sta in posizione di eccellenza: quasi una chiave di volta dell'arco dei vantaggi, delle riverenze e dei "comodi" di un maestro che ha fatto fortuna, "qua", in Venezia. Il carattere di "volta" lo desumerei dalla valutazione del fatto che la sua è una posizione di tramite per un transito al massimo ideale degli utili della "rappresentanza retorica": l'immortalità. (Qualcosa di molto simile - dicendolo alla moderna - alla garanzia di un "posto nella Storia della Musica", ottenibile facilmente ove fosse messa in atto la combinazione alta carica artistica marciana + buona stampa: "e qua [qua, non altrove] ha il comodo [scriveva appunto il Razzi] di queste buone stampe da immortalarsi sotto un titolo sì glorioso").
Ho detto di alcuni punti fermi problematici; mi voglio limitare a metterne in discussione soltanto quattro.
1) L'editoria veneziana, per tutto il trascorso Cinquecento, e poi ancora per il breve tratto della resistente fioritura nel primo Seicento, ha operato su commissioni altrui (è essa stessa sovvenzionata, protetta, operativa per conto terzi); ancor meno da un periodo di crisi è possibile che essa sia stata intesa come istituzione sostitutiva, vicaria, alla essa pure spenta o semispenta committenza signorile: aulica, principesca o cortese.
2) Non è abbastanza verosimile, per ottenere credito, l'ipotesi che, in una fase di spegnimento comune, le due committenze - la editoriale e l'istituzionale-aulico-signorile - si siano organizzate come un circuito parallelo, o in parallelo doppio, interessato a partite di scambio.
3) Non è sufficientemente documentabile un altro ruolo eventuale dell'editore: quello del procacciatore, per sé e per il maestro, di sponsors aulico-signorili, ancora in grado di caricarsi, in cambio di una dedica flatteuse, di ben tre responsabilità di remunerazioni improduttive: a) il premio al compositore, b) la copertura delle spese della stampa e c) il profitto dello stampatore o della sua micro-azienda.
4) È ben riscontrabile il fatto che la editoria del secolo d'oro della stampa (musicale) abbia sfruttato sino allo stremo la relazione di "protezione" signorile, introducendo nel protocollo, prima ancora, o diversamente da quella, analoga, praticata dai maestri in vero stato di rapporto reale e confidenziale di affinità culturale con alcuni propri committenti, una prosopopea mistificatoria - sempre più naive - di iperboliche qualificazioni intellettuali/umanistiche/estetiche di migliaia di committenti, ignari di ogni valore letterario-musicale, spacciati - ma a che pro, però? - in ordine a quelle migliaia di stampe con dedica (o di "dediche con stampa annessa"), per intellettuali, o elementi eletti di una classe di intellettuali immersi nella partecipazione a quei valori (estetici, poetici, umanistici).
In effetti l'editoria musicale, fin che c'è, fin che esiste e fin che resiste, traballa fra due livelli statutari d'esistenza, e, forse, anche, di bilancio.
1) Lo statuto della committenza-in-proprio, che viene riservata a produzioni non primarie di cui si può immaginare, non troppo fantasiosamente, una diffusa richiesta al banco: quali a) le antologie di pezzi diversi di più autori affermati (80); b) le ristampe di edizioni d'opere collaudatamente selezionate da una sufficiente fortuna; c) molte (ma quante, quali?) opere di musica sacra, verosimilmente utilizzate - forsanche in regime di gran smercio (81) - nelle "pratiche devozionali con musica" di enti religiosi che non si possono consentire, come le cappelle di Stato, creazioni musicali e commesse di musiche nuove a questo o quel maestro vivente; d) opere dalle proprietà secondariamente didattiche, imitabili, standard, smerciabili come modelli per composizioni di livello non eccelso, piuttosto medio-basso, presso le scholae periferiche o cappelle minori provinciali o conventuali (82).
2) Lo statuto della committenza passiva, a questo o a quel titolo protetta, di stampe destinate alla "immortalazione" di nuovi valori formali, o estetici conquistati dalla ricerca creativa di autori di elevato rango (di per sé opere a futura memoria di ricezione, per le quali il passaggio alla stampa è negazione del ben più redditizio - per i musicisti - ordine di produzioni effimere, ambientali, spettacolari, ma è, nel contempo, una sfida all'oblio fatale della loro arte, così com'è quando, come sempre, si consegna alla memoria d'orecchio di orecchi disattenti o ineducati, ovvero è l'elisir di una lunga vita inimmaginata, fino a quel momento, per le manifestazioni artistiche le più erose ed erodibili dal "Tempo") (83).
Lo stato della questione, da come si presenta, introduce una ulteriore sfocatura nel quadro della identificazione del musicista a Venezia operante in un sistema di multiservizi ad una multiproprietà: servitore di quattro padroni, circa i quali mi sono trovato a fornire soltanto quattro abbozzi di ritratto che è troppo incerto per poter essere vero. Nell'ultima stazione, quella editoriale, se avessimo interpellato una qualsiasi figura di maestro (tutti, ahimè, pressoché muti) e se costui avesse parlato ci avrebbe di certo detto che, a differenza dei suoi predecessori rinascimentali, esso, soprattutto a Venezia, per quel moltiplicarsi di dissolvenze del profilo dei committenti, non avrebbe mostrato troppa fiducia nella eventualità di una sopravvivenza immortale della sua opera intesa come "ricaduta" della fama eterna del suo signore dedicatario come personaggio eccellentemente carismatico impegnato in un corpo a corpo con le oblivioni del Tempo e della Storia. Del pari lo stesso maestro, dimostrandoci che qualcosa in quel giro di anni sta cambiando, ci avrebbe potuto comunicare una serie di strani interessi divenuti sempre più implicitamente presenti nel suo agire artistico. Dico "strani" (interessi) perché - riprendo un proposito iniziale espresso di questo mio scritto - a vario titolo "moderni", ossia prefigurativi di una sorta di partecipazione (non mi si opponga qui, esclamativamente, un legittimo: "impossibile [!]", lo so che è tale, impossibile) a una vita musicale che al momento è inesistente, è introvabile (ecc.). Lo "strano" interesse dei musicisti è forse soltanto la ricaduta di una valutazione molto "relativizzata", nel giudizio, autocritico, delle funzioni di committenza e di risposta "corretta" alle istanze della committenza: 1) risposta ben poco legata a veri eventi storici degni di "grandi plettri" quella "aulica", con tutte le sue reiterazioni di dichiarazioni di fede nella "renovatio" troiana-romana, reboanti ma sempre più bagnate nelle polveri; 2) risposta ben poco convinta quella "umanistica" che, o ha vivacchiato sui vecchi modelli rinascimentali, o s'è tutta virata allo spirito dello scetticismo radicale dell'accademismo degli aristotelici revisionisti ed eterodossi della scuola padovana del Cremonini (vittima della mancata inseminazione nella matrice del pensiero teoretico-teologico-etico-sistematico dei germi della scienza nuova e sperimentale); 3) risposta ben poco convinta di essere il medium della diffusione, in partenza da Venezia, di una palingenesi culturale che passi attraverso la Drammatica, quella committenza "musico-teatrale" che fiorisce per grazia di pressappochismo poetico (si pensi alla innovatività della nuova "paraletteratura" dei libretti), di illusionismi ottico-prospettici mantenutisi efficaci per grazia della lunga deriva delle prime forti impressioni date al pubblico di vedere "funzionare la finzione" anche al chiuso(84), con accentuazioni del sentimento dello "straniamento", per grazia delle opinabili estroversioni della bravura tutta apparenza, "impudica", dei virtuosismi dei cantanti che spettacolarmente "ingannano mostrando di ingannare" (ultimo propugnatolo, forsanche un po' nostalgico - con quelle loro sempre previamente ostentate protezioni di signori dell'Ancien Régime - del carisma dell'autorità indiscutibile, carisma proprio delle civiltà feudali in estinzione), per grazia delle potenzialità - anno dopo anno ri-verificate come immarcescibili - della routine e dello charme di quella paradossale buona salute che sprizza dalle situazioni di crisi strutturale-essenziale e/ma in-evolvente (sine obitu) che, se mai fosse una messa-in-favola di vita, di esistenze o di politiche, nell'opera alla veneziana si allegorizza molto efficacemente e serenamente ("serenissimamente", vorrei azzardare); 4) risposta ben poco convinta (l'ho già detto) di eternarsi, attraverso il "comodo editoriale" nelle stampe con dedica, affidandosi alla eternità della fama degli adulatissimi dedicatari.
Voglio credere però, a questo punto, che a tale, o tanta che sia, relativizzazione, a tale e tanta svalutazione delle pertinenze del servizio commesso, necessariamente connesse, entrambe, ad una specifica serie di confusioni liminari fra gli "spiriti" delle committenze, nonché all'indebolimento delle stesse, o alla riduzione allo stato virtuale di alcune (85), si debba, nella loro tipicità veneziana, l'avvio di un hardware della creazione musicale che basa il suo sistema sulla libertà e sulla liberazione del musicista. Libertà e liberazione che a Venezia cominciano a sperimentarsi in una situazione ideale: quella situazione che incorpora nell'indebolimento e nella sfocatura della identità dei diretti rapporti di produzione, quali, per esempio, più vecchi, decrepiti, nuovi, nuovissimi, la prestazione con mercede richiesta ex officio/prodotto "ufficiale", la prestazione regolata dal sistema protezione "paternalistica" e nobile/prodotto marcato dalle connotazioni della osservanza dello stato "clientelare" del produttore, quella prestazione che scambia la committenza con dedica di cooptazione alla società umanistica (riconosciuta dall'artista a nome della sua classe) contro prodotto elitario, o elitariamente atteggiato.
L'indebolimento del sistema, l'indebolimento dei legami clientelari, può spaventare e può, ovviamente, far temere all'artista un proporzionale inverso incremento e decremento di "fame" contro "fama"; però la libertà non cercata in un atto o in un sistema di atti emancipatorii, idiosincrasici o ribelli, ma trovata-fatta e facile, lì, come condizione residua dello Stato, può diventare, e di fatto lo diventerà, un altro sistema, o, meglio, un sistema di altri sistemi.
Nella realtà veneziana del secolo "barocco" tutto ciò avviene in condizioni di estrema visibilità; in anticipo sui tempi medi europei) (86) e impiantato su un "terreno" socio-culturale tanto dialettico quanto incerto/debole, il quale, a causa di alcuni suoi paradossi strutturali di fondo, ovvero di alcuni suoi polisensi attivati nello schema delle reazioni fra teoria, prassi, rappresentazione, simulazione, mito, sopravvivenza, progetto, dialettica di governo, cultura intrisa di "tendenze", si nutre di più concimi, di molti concimi, forse troppi, determinando qua fallimenti di coltura, là efflorescenze, qua fruttificazioni, là ibridazioni e autoinnesti, là appassimenti, e/o quant'altro può seguire nell'applicazione della metafora agraria; tutti eventi particolarmente rappresentativi: vuoi come primizie della "novità", vuoi come "deciduità" dei vecchiumi.
Dotatomi di tanto conforto mi accingo a rovesciare il cannocchiale. Smessa pertanto l'ottica dell'ingrandimento (che non poteva non privilegiare i grossi dettagli delle figure dei maestri produttori di merci o di grazie musicali, e i loro committenti) vorrei passare ad una veduta/visione "panoramica", tutta rimpicciolimenti e compressioni in un'unica inquadratura di figure rimpicciolite della stessa vita musicale veneziana nel nostro periodo, immaginando di vedere rappresentate in esse cosa d'essa musica si costituisce come modello di un ethos (ethos puro), ed in particolare di un ethos ambientale o di "ambientalità" che va dalla musica alla musica.
Le nozioni di ambientalità e di ascolto riguardano non poche sfere della creazione e del consumo di musica, non fosse altro per quel che "ambientalità" significa per quegli elementi di indicibilità di una tradizione che non possono in alcun modo "precipitare" in uno scritto. Neppure quando quella tradizione ha nettamente codificato la scrittura dei propri testi.
Credo per quel che concerne la storia della musica e della vita musicale veneziana, specie nella Venezia post-lepantina, siano rimaste molte tracce indiziarie che consentono di pensarla, quella vita musicale, come se fosse un laboratorio di interazioni fra "ascolti ambientali" e "atti creativi attenti alle attese di tali ascolti", ovvero di ricerche di corrispondenze positive, più o meno spontanee fra le attività di chi fa la musica e gli orientamenti passivi-ricettivi di una entità sino a quel tempo (intendo l'età cosiddetta barocca) non particolarmente qualificata, né categorialmente, né di fatto: appunto quel pubblico che è comunque entrato un po' di straforo, già sopra, in più di una interpretazione dei fatti presi in considerazione. E che laddove è entrato, quel pubblico, è entrato in posizione di personaggio molto particolare della storia in via d'esser narrata: come un agente provocatore di molte indeterminazioni indotte sui supposti solidi concetti di committenza e di opera/e conseguente/i alla committenza, a mettere in gioco quelle sfocature/slabbrature/indecisioni a loro volta responsabili di alcuni effetti di "liberazione"/"emancipazione" dell'autore, suggeriti come tipici "veneziani".
So che un uso indiscriminato del cannocchiale rovesciato potrebbe generare troppa pittura, e quindi condurre ad un abuso di spazio espositivo che, a ragione, non mi è concesso. Pertanto mi limiterò a tre soli puntamenti, coerenti con la tipicità veneziana di cui dicevo e produttivi di qualche appalesamento di effetti di modernità. Intenderei trattare di tre verifiche della attuazione di quegli ordini di giudizio nei quali opererà il "pubblico". Il pubblico come istanza cui la modernità affiderà da allora a oggi il ruolo della nuova committenza. Dapprima nella società intellettuale del "popolo dei sensibili" o del "popolo dei gentiluomini accomunati dal gusto, ossia buon gusto" nella lunghissima stagione abbondantemente secolare "dei Lumi". Poi nella società aperta delle democrazie e/o delle nazioni scaturite dagli eidola ideologici della "sovranità popolare". Tre verifiche che vorrei identificare allo stato nascente, in Venezia, in tre dimensioni disgiunte che in Venezia, nell'età qui presa in esame, ritengo siano particolarmente state sollecitate a fondare la "domanda di musica": un po' per caso; un po' per inclinazione corale all'autocoscienza del "pubblico", accentuata nei regolari cambi e ricambi della recezione dovuti alla incidenza dell'interesse turistico per la musica (come bene culturale di richiamo); un po' per le circostanze lentamente ma indiscutibilmente evolutive delle istituzioni.
I tre quadri di riferimento su cui punterò tre volte il cannocchiale rovesciato sono tre stati "etici" di recezione (della musica, a Venezia), così compendiabili in un breve sommario: 1) l'autocoscienza dell'ascolto in sé e per sé, nell'ascolto, con avvio di esperienze analitiche, di confronto, misura, analisi (esperienze di "critica"; non importa se di livello elementare, basso, o addirittura alto e/o tecnico); 2) l'autocoscienza nell'ascolto che l'esperienza di esposizione interessata alla musica non è di controllo della perpetuazione (liturgica, per traslato) di una tradizione fissa quanto piuttosto di partecipazione allo spettacolo di una realtà evolutiva in movimento (o per contraccolpi di moti evolutivi sociali e di classe, o motu proprio per necessità d'ordine "filogenetico" del linguaggio); 3) l'autocoscienza nell'ascolto di simbolizzazioni degli universi privati ovvero "psicologici" dell'affetto, della dialettica degli stati d'animo, attingibili fuori o oltre il "discorso" parlato o scritto (bene, benissimo, nella musica in quanto discorso che non dice).
Non osando intitolarli, o dar loro un nome, li richiamerò qui di seguito col loro numero. ([Stato di autocoscienza di pubblico o parte del pubblico] Numero 1; [id.] Numero 2; [id.] Numero 3).
La coscienza d'ascolto minima, quella più frequentemente riscontrata ed attestata nel "prima" del periodo che qui stiamo affrontando, si limitava a produrre un ricordo minimalmente, brutalmente binario: l'evento cui si assisteva era (1) con o (2) senza musica. Si tratta del grado più basso della rappresentazione attraverso l'"accompagnamento" (nei diari del Sanudo, per far un solo autorevole esempio, non si va mai oltre il rilievo della presenza della musica ["bela musica"] - per lo più integrata da un altro riferimento generico ambientale: ["bela musica e bele done"]). Un rilievo minimo, è vero, ma di raro eluso. D'altra parte, in regime di committenza e uso della musica in funzione di accompagnamento rappresentativo o genericamente sostitutivo di altre apparenze di dignità, regalità o signorilità, è anche opportuno ed adeguato che alle situazioni con musica siano riservati, per non dire siano d'obbligo, solo effetti di ascolto generico.
Un ascolto "critico", un ascolto attento, un ascolto sensibile in positivo (come segno di apprezzamento riservato alla baldanza di quel che si colloca in una prospettiva ambientale amplificata nella vertigine acustica), o in negativo (come segno della nostalgia di esperienze acustiche più individuate in una dimensione "umanistica" di leggibilità - specie nelle situazioni di festa - di istanze di pensiero, concetto, poesia o "numero"), è uno dei tratti che più mancano all'ethos del consumo di musica-in-più/musica-addizionata-di-senso (87) di un "ambiente". Nelle più diverse situazioni di "concorso [di pubblico/popolo]" esso introdurrebbe - se mai ci fosse - un sentimento non programmato, e forse indesiderato: quello del "singolo" che si "sente sentire"; o meglio (o peggio): il sentimento collettivo del "sentirsi sentire in gruppo" di molti "singoli" sparsi nei molti punti d'ascolto (la cui somma, secondo anche la metafora della democrazia alla veneziana, dovrebbe fare in astratto, più che farla in concreto, la pubblicità del sentire).
È una storia lunga, questa, del "sentire/udire a Venezia" i cui primi resoconti risalgono a momenti in cui ancora vige un (ancien-) régime di confronto fra diverse signorie e potenze in gara sul piano della loro rappresentatività, esibita nella fattispecie di potenze artistiche appercepibili a occhio nudo (o a "orecchio nudo"), anche di primo acchito, e fuor d'ogni pertinenza di giudizio di valore: appunto come "quantità di rappresentanza" (88). Potrà servire da riferimento qui, un breve ricordo del clima, dell'aura sonora che circonda, per esempio, i soggiorni lagunari del duca d'Este: Alfonso II. Un principe-signore che si era portato dietro a Venezia, per il soggiorno del 1562, più di "duemila bocche" di "seguito", tra i quali anche musici di fama, espertissimi nella organizzazione di feste in stile di grande apparato della solennità, più o meno mistificata, a corte. Nell'aprile del 1562 il duca arriva, appunto, con un corteggio di barche, tanto fitto "che non si vede l'acqua del Canal Grande". In ogni barca(!) (89) si cantava e suonavano diversi strumenti. Al banchetto offertogli dal doge l'accompagnamento musicale veneziano è tanto "pifferato" (alias "strombazzato") che "le persone che ragionavano [in conversazione] non si sentivano l'un con l'altro". Fragori. Frastuoni lussuosi, ma immemorabili, per genericità e farragine.
A restituire al doge pan per focaccia, il duca Alfonso offre alla Signoria veneta un "maraviglioso" concerto, eseguito con le solite, irrinunciabili, "varie sorti d'istromenti", a casa del duca, nella galleria del suo palazzo. A detta del cronista dovrebbe essersi trattato di una specie di replica, al chiuso, dell'effimero frastuono già sentitosi nell'en plein air dell'arrivo:
Vene la gran musica del concerto laqual era stata due sire avantj per canal grande da 24.ore a tre hor di notte che li tien dietro tutta Vineggia [...] la qual musica piacque grandemente al Dose e a tuta la Signoria per esser veramente cosa rara.
In effetti, mettendo a fuoco l'evento, alla luce di qualche gracile dato, l'apocalittica "rarità della cosa" assume dimensioni che non ci consentono di immaginare in alcun modo, data anche la notoria debolezza di suono degli strumenti d'epoca, un effettivo dispiegamento di potenziali di risonanze da stordimento. La credibilità di tanta sbandierata "sonorità" vacilla. I "tanti cantori", infatti, sono in tutto trentaquattro (ossia meno della metà di un coro d'opera di un teatro di medie dimensioni d'oggidì) e la caterva degli "strumenti d'ogni sorta" risulta essere composta da un ensemble di sette fra cornettisti e trombonisti, tre organisti ai tre portativi e due sonatori di viola (90).
Facciamo passare un po' di tempo. Cent'anni dopo, poco più di cent'anni dopo, la coscienza del "fragore suntuosissimo" della musica in stato di massima espansione rappresentativa di potenza, viene parimenti rievocata, poco credibilmente, nell'occasione, nel torrido 31 agosto del 1687 di una celebrazione "straordinaria" (91) in S. Marco con musiche del Legrenzi - un duplice Te Deum di resa di grazie per le vittorie di Morea (ai Dardanelli e a Mohacz) - travolta da un'epocale onda di strapotenza acustica:
[gran concorso di pubblico] per assistere con tutta questa eccellentissima nobiltà e popolo al Solenne Te Deum cantato in musica con sommo giubilo di tutta la città che non potendo in altro mostrar la gioia che portava nel seno la palesava con un festoso ww [viva viva!] al suono delle trombe, de' tamburi e de' sacri bronzi (92) che assordavano l'istesso cielo (93).
In effetti, già che la fragorosità "ufficiale" ha un costo facilmente riscontrabile, il rilievo del riscontro sui registri delle terminazioni dei procuratori de supra (94) (l'istanza di spesa della cappella), ci consegna un dato estremamente contenuto. Giusto l'uso del plurale, le trombe sono infatti più d'una, ma non troppo più d'una, in quanto soltanto due: quella imboccata da tal Leonardo della Tromba, più quella di Francesco Bernardin. (Costo della doppia prestazione d'"assordamento del cielo": 2 ducati a testa).
Altra situazione la cui potenza festiva, sonoristicamente corroborata dalla vertigine dei fragori musicali, è ricorrentemente la festa del primo santo patriarca, Lorenzo Giustinian, appoggiata sul santo martire "levita", Lorenzo, anch'essa agostana, anch'essa canicolare, gentilmente "offerta" dalle monache nobilissime del monastero intitolato al santo alla Repubblica, la quale da tempo non paga un soldo per una festa istituzionale di primo grado dislocata in sestieri.
Ma senta hormai che superbo apparato, fastoso e nobile, si mirò il dí sacrato al protomartire Lorenzo nella base e vaga chiesa delle illustrissime e revendissime moniche di San Lorenzo che, fra le fiamme di devoto ardore, si mostrano qua giù in terra vere imitatrici d'un tanto e sì alto loro protettore. Che poneva piede in quel tempio lo stimava a prima vista un teatro di maraviglie. I damaschi carichi di trine d'oro, i festoni, i vasi di fiori, le pitture, l'argenterie che dal pavimento della chiesa s'alzavano i trionfi fino al volto, i repartimenti, le gale, le cere et i lumi facevano un misto così caro all'occhio e presentavano tant'oggetti di stupore alle ciglie che, sospese su l'arco di se stesse, restavano prive della facoltà di posarsi. Una musica a cinque cori, ripiena di tante voci e di tanti instrumenti quanti appunto erano i migliori di questa gran dominante, opera studiata del Signor Legrenzi, maestro di cappella nella ducale [cappella] di San Marco, tratteneva l'orecchio in tanto contento che non sò se l'armonia delle sfere col suo dolce girare possa dispensarne di più (95).
Nel 1673 chi riporta quel che "ha sentito intimamente sentendo" la collettiva rappresentazione della stessa festa, si era meravigliato del grande effetto - cui un po'plaude - ma nel contempo, aveva brontolato, insoddisfatto per i portati fisici dello stesso effetto:
[...] La musica è stata tutta un caos; una Babilonia; tutti li musici di Venezia, cinque organi, tutti li istromenti, Trombe, Tromboni, e tutto quanto v'era in Venezia; ma non vi è goduto altro che il mormorìo, senza esserne potuta intendere una parola [...].
Nello stesso foglio il medesimo commentatore, come se si imponesse un appuntamento a un obbligo di presenza critica e un proprio prossimo "concorso" ben poco auspicato, annunciava a se stesso e al suo lontano corrispondente, che gli pagava gli avvisi da Venezia:
Si aspetta la gara [della festa laurenziana] con la Celestia [il 15 agosto; Assunzione di Maria] con concorso anco maggiore; ma se li musici non fanno meglio perderanno affatto il lor credito (96).
Nel giro di appena cento anni, dunque, si vanno affrontando in Venezia, due atteggiamenti recettivi, che porteranno a ricerche orientate, nella domanda e nella corrispondente produzione della musica, a comporre una doppia qualificazione del suono (del suono in sé e del suono nell'ambiente reale e/o deputato) (97).
È anche significativo che un atteggiamento di attenzione e passione uditiva della musica possa convivere a lungo con la persistenza di un atteggiamento di noncurante e sordastra partecipazione di minima agli accompagnamenti musicali, creando le prolungate premesse per la costituzione, nell'ambiente/ambientazione musicale della città, di un campo di tensioni dialettiche quanto mai utili ad una valorizzazione, del tutto autonoma (ideale), della esperienza musicale (sul versante della percezione estetica e della sua condivisione creativa da parte degli autori). Nella nuova forma di committenza su domanda dell'ignoto Signor Pubblico.
Sarebbe efficacemente dimostrativa qui una escussione lunga, di citazioni corroborative. Troppo lunga, per cui mi accingo ad affidare un minimo di esposizioni contratte, proforma e non commentate, alle osservazioni, immaginative di multiple ripercussioni, di un lettore molto collaborativo.
a) La sensibilità già tanto accesa e analitica del viaggiatore inglese, Thomas Coryat, in anni pre-monteverdiani, dalle memorie del suo viaggio datato 1608. Siamo a S. Rocco, per la grossa festa del santo protettore sanitario della città. L'encomio fatto da Coryat di un falsettista non castrato dimostra che è in atto, nella prassi delle esecuzioni, una ricerca di qualità timbriche esuberanti l'uso di puro accompagnamento musicale di una cerimonia devozionale a gran concorso:
Vi udii la migliore musica che mai avessi udito, sia al mattino sia nel pomeriggio, di tale squisitezza che farei in qualunque momento anche cento miglia a piedi per udirne di simile [...]. La festa era celebrata principalmente con musica vocale e strumentale così delicata, così deliziosa, così rara, così mirabile, così sovranamente eccellente, che estasiava e meravigliava tutti quegli stranieri che non avevano mai udito nulla di simile. Quale effetto avesse sugli altri, non so dire; per parte mia, fui rapito al terzo cielo come san Paolo. A volte c'erano da sedici a venti cantori che cantavano tutti insieme sotto la guida del loro maestro o direttore, e al loro canto si aggiungeva la musica degli strumenti; altre volte sedici suonatori suonavano insieme i loro strumenti, dieci tromboni, quattro cornetti e due viole da gamba di straordinaria grandezza; altre volte ancora suonavano insieme sei tromboni e quattro cornetti, o due tromboni, un cornetto e un violino. Di questi violini ne udii tre diversi in quella festa, tutti e tre buonissimi, ma uno in particolare osservai più degli altri, che mai prima ne avevo udito uno simile. Quelli che suonavano i violini cantavano e suonavano nello stesso tempo, e talvolta due dei musicisti cantavano accompagnandosi con le tiorbe, le quali davano un suono meravigliosamente dolce, ma così flebile, che a stento poteva essere udito persino da quelli che erano molto vicini. Questi due suonatori di tiorba conclusero il concerto della serata, che era durato tre buone ore almeno, perché era cominciato verso le cinque e non era finito che verso le otto. Altrettanto era durato nella stessa mattina; e ogni volta che suonava un'orchestra, si univano ad essa gli organi che erano sette in quella sala, tutti in fila. Tra i cantori ce n'erano tre o quattro così eccellenti, che credo pochi, se non nessuno, in tutto il mondo cristiano potevano superarli. Ce n'era uno in particolare, che aveva una voce così impareggiabile e [...] soprannaturale per dolcezza, che credo non vi fu mai al mondo un cantante migliore, tanto che egli non solo infondeva nei suoi ascoltatori la più deliziosa gioia che si potesse immaginare, ma quasi li sbalordiva. Avevo creduto che fosse un eunuco, perché gli eunuchi cantano estremamente bene, e ciò avrebbe diminuito parte della mia ammirazione; ma eunuco non era, perciò la cosa era tanto più meravigliosa. Era ancora più degno di ammirazione perché era un uomo di media età, attorno ai quarant'anni, mentre la natura dona più frequentemente voci così singolari a ragazzi e a giovanetti che a uomini di tale età. A parte questo, la voce era ancora più eccellente perché non era affatto sforzata o artificiosa ma sgorgava con la più grande facilità che io avessi mai udito. Credo davvero che se nella stessa sala vi fosse stato un usignolo a gareggiare con lui, forse d'un poco avrebbe potuto superarlo, perché Dio ha concesso a quell'uccellino il privilegio di tale dolcezza di voce quale nessun altro possiede; ma credo che non avrebbe potuto superarlo di molto. Per concludere, io attribuisco tanto merito a questo raro uomo per il suo canto, che credo che il paese dove nacque possa andar tanto orgoglioso per aver dato la vita a tale singolare persona quanto Smirne per Omero, Verona per il suo Catullo o Mantova per Virgilio. Ben può essere estremamente felice quella città o persona che possiede tale miracolo di natura (98).
b) Una testimonianza della persistenza di una memoria pressoché attenta a nulla di ciò che era stato l'accompagnamento musicale (vinto dallo sfarzo visuale degli apparati)(99) di una festa castellana (Corpus Domini) nel 1687, nel resoconto del "giornalista" della "Pallade Veneta":
Nel dì medesimo [1° giugno], per essere la domenica fra l'ottava del corpo di Christo, si fece la solita maestosa processione [...]. Le facciate de' palazzi più superbi apparivano pareti del santuario, parate et addobbate di damaschi e d'arazzi che sembravano tessuti dall'istessa Pallade o da Aranne in competenza di quella dea dell'antichità. Miravansi appesi quadri più pastosi e delicati che uscissero dalle mani de' Tintoretti, de' Paoli, e de' Titiani. Risonavano dappertutto trombe e oricalchi, framezzati da concerti di sonatori di violini e bassi di viole così dolci che risvegliavano echi di melodia a Giesù consecrato. I cori de' musici cantori con angeliche note infondevano ne' cuori la riverenza [...]. La maestà del clero, dei signori pievani, curati, cappellani e titolati di questa gran dominante con regolato moto e modesto canto d'inni ecclesiastici partoriva la devotione negl'animi de' circostanti, concorsi in tanto numero che non lasciava spatio per quelle strade al passeggio di quell'esercito devoto. E perché suole ogn'anno rappresentarsi al vivo qualche degno e riguardevole mistero allusivo alle vittorie del Sacramento, vedevansi in repartiti spatii di quella lunga e pomposa processione nove macchine portatili sopra le quali diversi fanciulletti riccamente e vagamente adornati in ordine all'historia e personaggio che rappresentavano, con pittoresche attitudini esprimevano varii e divoti significati (100):
c)Un'altra dimostrazione della distrazione circa la musica, indotta dalla preferenza portata al lusso dell'apparato di ispirazione vetero-signorile di una festa simultaneamente svolta in chiesa, piazza, calle e palazzo (titolare della festa è, infatti, l'ambasciatore in laguna dell'imperatore). Un apparato populisticamente orientato ad ostentare spassi materiali di tutti (patrizi, popolo e popolino) (101):
Domenica mattina questo Signor Ambasciator Cesareo, Conte Giovanni Battista di Colloredo, fece cantare una solenne Messa e Te deum con esquisita musica nella chiesa de' padri carmelitani scalzi, sotto una triplicata salva de mortaretti coll'intervento di Sua Eccellenza, e di molti cavalieri alemani et italiani sudditi dell'Augustissimo Imperatore, in rendimento di gratie a Dio della nascita del Serenissimo Arciduca, a poscia diede al suo palazzo un lauto pranzo a Monsignor Nunzio Aldrobandini, Signor Conte de Bassis, Generale delle Poste dell'Impero in Italia, et alli suddetti cavalieri. Per tutto il suddetto giorno fece Sua Eccellenza correre una fontana di vino e dispensar denaro, pane e vino alli poveri della contrada di S. Stin, e la sera fu illuminato tutto il suddetto palazzo, sia al di dentro, che al di fuori, come anco tutto il giardino, e nella sala vi fu un'armoniosa sinfonia d'ogni sorte di stromenti, et un continuato concorso di maschere, aquali furono dispensati copiosi e generosi rinfreschi, e questo nobile divertimento durò quasi tutta la notte.
d) La rispettosissima valutazione in ducati (16 ducati di cachet = un decimo dello stipendio annuale del primo organista) della prestazione alla moda (unica, ma eccellente) durante l'Elevazione della Messa di Natale in S. Marco, del virtuoso violinista Francesco Maria Veracini (che dovrebbe essere prova di un acceso interesse ambientale alla qualità e alla qualificazione di alcuni eventi a totale contenuto e significato "musicale").
e) I bis - richiesti a furor di popolo - della esecuzione (1687) di un intero oratorio eseguito alla Pietà per la festa di s. Agostino (28 agosto), S. Maria Egizziaca, composto dal secondo organista di S. Marco, Giacomo Spada dichiarato dalla vox populi: "spirito così vivo che non cede ai Cavalli, ai Frescobaldi, né a quanti più bizzarri hanno unito voci alle corde" (102).
f) La testimonianza, tardiva, del Grosley (1764), e l'ancor più tardiva ed estiva (agostana) del Burney (1777), che distinguono puntualmente il bene e il male nelle "cose da sentire in città". 1) Un non identificato monastero dove della "musica variata e difficile" sembra essere eseguita "senza che ne sia battuto il tempo". 2) Un organista domenicano "brillantissimo" ai Gesuati che improvvisa in uno stile clavicembalistico molto "originale". 3) Un "organo scordato" a S. Maria Maggiore, che accompagna "strumenti [che vanno] fuori tempo" e voci che esibiscono entrambi i suddetti difetti ("stonature fuori tempo"). 4) Estrema, mirabile chiarezza, in S. Marco, nella esecuzione di una Messa a 4 del Lotti accompagnata dal solo organo ("nessuna confusione o note superflue"; l'organista "assennatamente" lascia alle voci "tutta la opportunità di farsi udire in tutta la loro purezza"; così si fa!, "questo è il vero stile appropriato alla musica sacra: non richiamare alla memoria nulla di leggero, disporre lo spirito alla carità", ecc. ecc.).
In età post-lepantina, Venezia dispone di alcuni nuovi repertorii di cose musicali in cui pubblico e autori possono fare un'esperienza vissuta comune di mutazioni, di evoluzioni, di trasformazioni, che fanno moda, ovvero che consentono di avvertire che il tempo passa, e non - come nelle classiche pratiche di ritualità rigide - prescrive continui abbandoni a questa o a quella illusione di questa o quella eternità.
Si può fare il caso dell'Opera. Il caso del giovanetto genere del nuovo "dramma musicale", che grazie alla garanzia di una situazione creativa-ricreativa fissa (a mo' di Ludus romano), ripresentandosi ricorrentemente, anche in regime di concorrenza (si pensi ai 6/7/8/9 teatri simultaneamente aperti nella stessa stagione), come se fosse uno dei soliti accompagnamenti (omoformi/omologanti, ecc.) del secolo, nel corso del secolo - in cui addirittura nasce - mirabilmente evolve (nella forma, nei contenuti, nella narratività, nella lingua, nella stessa identificazione, appunto, di "genere"). Passa dalla favola pastorale, alla sceneggiatura di epos ariosteschi e tasseschi, al dramma storico romanzato, alla sceneggiatura di novelle e romanzi ecc. Mettiamo ora il caso di un veneziano, un veneziano discretamente longevo, che avesse assistito ventenne alla nascita dell'Opera al Teatro di S. Cassiano e dei SS. Giovanni e Paolo, ammirandovi le messe-in-scena di fabulae semi-mitologiche o storico-romane contaminate di frizzanti incursioni comico-artistiche recitate cantando da cantanti-attori o attori-cantanti, e che poi si fosse trovato, ottantenne, ad assistere a quella stessa drammaturgia rovesciatasi negli anni a tutto favore di un uso e di un diletto di recezione tutto-musicale, tutto risolto nella ostentazione e nel godimento della fantasia vocale dei virtuosi (nell'età delle prime fioriture delle fioriture variantistiche dell'aria da capo), ebbene, potrebbe testimoniarci, costui, di come - un miracolo nel paesaggio della storia culturale mondiale una stessa generazione abbia partecipato ad una evoluzione progressiva di stile e gusto e carattere che non ha accompagnato la vicenda lunga e sempiterna di un'era statale quanto piuttosto la sua, personale, vicenda umana.
Non tratterò, in questo esempio, di una nuova tipicità veneziana riscontrabile solo da un giudizio d'orecchio o tecnico-compositivo o d'acuità d'ascolto (già che nulla sappiamo delle risorse tecnico-compositive dei musicisti o delle risorse d'ascolto competente o puntuale del pubblico). Vorrei fornire ora, piuttosto, soltanto un esempio secondario e apprezzabile, anche in misura grossolana, di una prova di trasformazione, di una alterazione radicale e progressiva mobile, dell'apparenza dell'Opera, mostrando due quadri costruiti sull'incremento/decremento di due categorie di dettagli che molto hanno connotato (crescendo e calando, e viceversa) la presa-di-senso dello spettacolo musicale nel corso del secolo.
Il primo quadro mostrerà una serie di citazioni di presenze nell'Opera di "pillole di saggezza", di frasi fatte, di proverbi assolutamente inventati, di calembours moralistici, ecc. e una linea di decremento di questa stessa funzionalizzazione comunicativa dell'Opera (che chiamerei della musica al servizio del didattismo poetico-moralistico, sia conformistico che anti-conformistico). Il secondo quadro mostrerà invece l'incremento della presenza degli squilli di tromba e delle strombazzature fanfarose nell'Opera, che a partire dalla metà, con l'andar del secolo, sembra voler sostituire, come icona fonica, la solennità, pure fanfarosa, dello Stato che sempre meno inclina alla lussuosità acustica delle sue poche cerimonie (contratte, al teatro, in effigi fiabesche, nella simulazione illusiva della scena).
Non intendo mettere in alcuna relazione significativa il moto contrario delle due connotazioni tipiche; piuttosto vorrei segnalare la connotazione di tipicità che le accomuna: il patente carattere evolutivo di un genere e repertorio dato per unico e tipico, proprio in ordine a una tipicità che si fonda sulla unicità della sua evolutività.
Primo quadro, dunque: un diagramma della fortuna e decremento dell'effetto gnomico come segnale principe della recezione dell'opera veneziana delle origini.
1. Moralità più inclinate ai buoni pensieri ovvero alle "prediche" al buon senso nell'ordine antropologico, o sociale, con qualche occorrenza lapseale di cinismo pessimista o pessimismo cinico:
1637 - Chi fa quel che il ciel vuole/ perir giamai non suole (Manelli, Andromeda, II, 3). 1637 - Chi seco ha la virtù non può perire (Manelli, Andromeda, III, 1). 1637 - Debile pianta che tropp'alto sale/ alfin cade al soffiar d'aura boreale (Manelli, Andromeda, I, 1). 1637 - Fra le selve non s'annida/ com'in reggia insidia e frode,/ benché questo e quegli rida/ nel suo cor spesso non gode./ Clima rozo e ciel silvestre/ spiran sempre aure più destre (Manelli, Andromeda, I, 2). 1637 - Ma cieco che il piè muove senza guida/ tosto al piano disteso aita grida (Manelli, Andromeda, I, 1). 1637 - O quanti o quanti con lor danno amaro/ ove in carne partiro ombra tornaro (Manelli, Andromeda, I, 4). 1637 - Son glorie assai maggiori/ mostri atterrar che trionfar sui cori (Manelli, Andromeda, II, 2).
1638 - A fronda secca e frale/ ogni vento è mortale (Manelli, La maga fulminata, III, 1). 1638 - Che guida a morte non curata piaga (Manelli, La maga fulminata, III, 4). 1638 - Chi de' frali diletti avvolge il core/ vive tra rose ma fra le spine more (Manelli, La maga fulminata, I, 2). 1638 - De le reggie dorate son le selve più liete/ e provan più quiete i rustici che i regi (Manelli, La maga fulminata, II, 2). 1638 - E di gran spoglia augel poc'alto sale (Manelli, La maga fulminata, III, 4). 1638 L'opprimere chi contro ti congiura/ è legge di natura (Manelli, La maga fulminata, I, 2). 1638 - No, durar non può molto/ la fera ferità, la cruda frode/ che breve tempo in tirannia si gode (Manelli, La maga fulminata, II, 4). 1638 - Non s'invischia l'augel s'al pian non scende (Manelli, La maga fulminata, I, 6). 1638 - Oh quant'è meglio in rustici tuguri/ nascer vile et abietto/ che riguardevol in real ricetto! (Manelli, La maga fulminata, II, 2). 1638 - Quel padre è giusto e pio/ che sa al suo tempo esser pietoso e rio (Manelli, La maga fulminata, II, 4). 1638 - Uno spirito augusto/ se perde libertà non perde ardire./ Sempre di gloria è un regio core onusto (Manelli, La maga fulminata, II, 2). 1639 - Deve morir contento/ chi la gloria accompagna al monumento (Ferrari, L'Armida, II, 3). 1639 - Dolce è piagar le fere/ ma non l'humane schiere./ Esser deve un mortal dall'altro domo?/ Nacque l'Huomo per l'Huom non contra l'Huomo (Ferrari, L'Armida, I, 1). 1639 - Esempio ingiusto e vano:/ altr'è un core ferino altr'un umano (Ferrari, L'Armida, II, 5). 1639 - Ma chi forma disegni senza il cielo/ pianta frutti nel mar, fiori nel gelo (Ferrari, L'Armida, I, 1). 1639 - Ma un picciol verme una gran pianta aduggia/ e una favilla ogni gran mole strugge (Ferrari, L'Armida, II, 1). 1639 - Non giova essere invitto/ ch'a ogni mortale è il lagrimar prescritto (Ferrari, L'Armida, II, 5). 1640 - Non adombra l'etate/ d'un sembiante regal la maiestate (Ferrari, Il pastor regio, II, 1). 1641 - Chi ha il mar placido e seren/ non indugi a navigar./ È in poter d'un sol balen bella calma perturbar (Ferrari, La ninfa avara, II, 3). 1643 - Ahi non errò chi disse/ che il diletto mondan termina in guai (Cavalli, Egisto, I, 2). 1643 - Arnalta: Dove il prato è più ameno/ e dilettoso stassi il serpe ascoso,/ dei casi le vicende son funeste,/ la calma è profezia delle tempeste (Monteverdi, La coronazione di Poppea, I, 4). 1643 - Di viltà bel desio non ha sembiante (Ferrari, Il prencipe giardiniero, II, 5). 1643 - Ottavia: La donna assassinata dal marito/ per adultere brame/ resta ingannata sì, ma non infame (Monteverdi, La coronazione di Poppea, I, 5). 1643 - Seneca: Signor, nel fondo alla maggior dolcezza/ spesso nasce nascosto il pentimento./ Consiglier scellerato è il sentimento/ ch'odia le leggi, e la ragion disprezza./ / (Battibecco) / / Seneca: Chi ragione non ha cerca pretesti./ Nerone: A chi può ciò che vuol ragion non manca./ Seneca: Manca la sicurezza all'opre ingiuste./ Nerone: Sarà sempre il più giusto il più potente./ Seneca: Ma chi non sa regnar sempre può meno./ Nerone: La forza è legge in pace e spada in guerra./ Seneca: La forza accende gli odï e turba il sangue./ Nerone: E bisogno non ha della ragione./ Seneca: La ragion regge gli uomini e gli Dei.//(Battibecco. poi -Nerone: Levamiti dinnanzi/ Maestro impertinente/ Filosofo insolente)// Seneca: Il partito peggior sempre sovrasta/ quando la forza alla ragion contrasta./ Seneca: Dopo il girar delle giornate oscure/ È di giorno infinito alba la morte/ La vanità del pianto/ degli occhi imperïali è ufficio indegno (Monteverdi, La coronazione di Poppea, I, 7). 1654 - Colui che dorme/ meglio d'ognun intende/ che di tante follie cura non prende (Ziani, La guerriera spartana, I, 2). 1654 - Frenar le voglie ai Grandi/ è come opporsi a l'empito dell'onda/ che più s'inalza e chi s'oppone affonda (Ziani, La guerriera spartana, II, 3). 1654 - Simulare è una bell'arte/ che per tutto oggidì s'usa/ se tu brami, tu ricusa./ Qui sortisce più guadagno/ chi fa meglio la sua parte./ Simulare è una bell'arte (Cavalli, Eritrea, II, 1). 1654 - Spesso stanno in dover figli sfrenati/ per dubbio di vedersi esseredati (Cavalli, Giro, II, 2). 1655 - La speranza è un certo che/ dove sia nessun lo sa/ se talvolta corre a te/ come viene se ne va (Cavalli, Erismena, I, 13). 1656 - Che come star non ponno uniti insieme/ la memoria e l'oblìo/ così non mai s'avvien l'otio con Dio (Cavalli, Gli Amori di Apollo e Dafne, II, 1). 1656 - Chi scaccia il sonno a forza/ traballa et isbadiglia (Cavalli, Gli Amori di Apollo e Dafne, I, 2). 1656 - Chi si sa vendicar sempre è sicuro/ che la vendetta armata/ l'onor circonda di custodia e muro (Cavalli, Gli Amori di Apollo e Dafne, I, 3). 1656 - Delle pompe del Cielo/ la luce è la pittura e il mondo è il velo (Cavalli, Gli Amori di Apollo e Dafne, II, 1). 1656 - Il ben dura a momenti/ ma duran sempre i guai,/ né più ritornan mai/ i passati contenti./ E convien soggiacer ai casi humani:/ chi rise ieri, hoggi piange e muor domani (Cavalli, Gli Amori di Apollo e Dafne, I, 6). 1656 - Per il temporeggiar bastano i carmi/ ma al combattere al fin ci voglion l'armi (Cavalli, Gli Amori di Apollo e Dafne, I, 1). 1656 - Qualche frutto d'autunno ancor si coglie/ ma fa quella staggion cader le foglie (Cavalli, Gli Amori di Apollo e Dafne, I, 6). 1659 - Il buon soldato deve/ portar qualche notabil contrasegno/ almeno un braccio in pezzi/ un occhio di cristallo o un piè di legno (Cavalli, Giasone, II, 12). 1659 - Sotto vario ascendente/ nasce l'uomo mortale/ e perciò tra gli humani/ havvi il pazzo il prudente/ il prodigo, l'avaro e il liberale (Cavalli, Giasone, I, 1). 1661 - Se ben con l'età la forza si stanca/ bel tempo non manca/ chi prender lo sa (Cesti, Dori, I, 12). 1667 - Lo sdegno è cieco e a' precipitii guida (Pallavicino, Il Meraspe, II, 10). 1669 - Non gode del Mondo/ chi timido va (Cavalli, Il Coriolano, II, 3). 1669 - Ogni pena, ogni tormento/ può soffrire/ chi ha speranza di gioire (Cavalli, Il Coriolano, II, 10). 1672 - Remora a l'alte imprese è la tardanza (Ziani, L'Attila, II, 9). 1684 - Che nel mondo ha maggior uopo/ di virtù, quel ch'è Monarca (Pallavicino, Il ré infante, II, 9). 1684 - L'uom dal nulla ebbe i natali/ ma egli è tutto s'ha virtù (Pallavicino, Il ré infante, I, 1). 1684 - Più non tema le tempeste/ il nocchier che vede il porto (Pallavicino, Il ré infante, I, 2).
2. Moralità predicanti la buona fede e l'innocenza del desiderio nelle cose d'amore:
1643 - Amor, s'ebbe il natale,/ non è eterno, è mortale (Cavalli, Egisto, II, 5). 1643 - Amorosa ferita/ apporta à l'alma, e refrigerio e vita (Cavalli, Egisto, I, 7). 1654 - Chi l'amoroso foco/ giamai non hebbe in sen lo prende a gioco (Ziani, La guerriera spartana, II, 4). 1654 - Nell'amor non è buon patto/ trattar su la parola;/ taccia perciò la lingua e parli il tatto (Cavalli, Ciro, I, 10). 1655 - Amor ch'è tutto ardore/ fugge, fugge le brine,/ ama il calore (Cavalli, Erismena, I, 21). 1656 - Non è maitempo perduto/ il servire alla beltà (Cavalli, Artemisia, II, 4). 1656 - Non è perfetto amor se non è eterno (Cavalli, Gli Amori di Apollo e Dafne, II, 7). 1656 - Non ha per sostentar più d'un amore/ sostanze equivalenti un solo core (Cavalli, Gli Amori di Apollo e Dafne, II, 8). 1657 - Il penar doglia non è/ quando un core è amante amato./ Star non sdegna incatenato/ chi in Amor trova mercé (Ziani, Le fortune di Rodope e Damira, II, 14). 1659 - All'imprese d'amore/ quanto giova la fretta il tardar nuoce (Cavalli, Giasone, II, 7). 1669 - Un amante giammai non dee temere/ che morir per chi s'ama è un gran piacere (Cavalli, Il Coriolano, I, 17). 1671 - Chi piagato è una volta ama per sempre (Ziani, Annibale in Capua, I, 6). 1679 - Dir di voler amar/ è lo stesso che dir: voglio penar (Pallavicino, Le Amazzoni nelle isole fortunate, II, 3).
1638 - All'orlo del sepolcro il cor confina/ amator senza speme (Manelli, La maga fulminata, I, 1). 1638 - Che dove han loco le miserie e i pianti/ radi gli amici son, molti gli amanti (Manelli, La maga fulminata, II, 4). 1638 - E chi semina amor pianto raccoglie (Manelli, La maga fulminata, I, 1). 1638 - Ma suoi con morte star unito amore (Manelli, La maga fulminata, I, 5). 1639 - Credo che femina ancor troppo vorace/ peschi merce tallor che non le piace (Ferrari, L'Armida, II, 4). 1639 - E da me imparin l'alme poco accorte/ che chi serve ad amor serve alla morte (Ferrari, L'Armida, II, 3). 1639 - L'edra il muro abbracciato al piano stende/ e con gli amplessi lo scorpione ancide (Ferrari, L'Armida, III, 5). 1639 - O dolcezze d'amor fallaci e corte/ ogni vostro gioir termina in morte (Ferrari, L'Armida, II, 5). 1639 - O falsissimo pianto d'empia serpe d'Egitto/ che piange l'uomo quando l'ha trafitto (Ferrari, L'Armida, III, 5). 1639 - Recan meno dolore/ i fulmini del ciel che quei d'amore (Ferrari, L'Armida, I, 4). 1639 - Se chi dorme innamora e di morto ha figura/ posso credere/ ancora ch'amor regni bellezza in sepoltura (Ferrari, L'Armida, I, 6). 1639 - Vieni, che son d'amor vili le gioie/ e divengono alfin tormenti e noie (Ferrari, L'Armida, II, 3). 1641 - Meglio è arare un terren incolto/ che seguir un leggiadro volto./ Meno fatica è frangere le zolle/ che trescare con una Ninfa molle (Ferrari, La ninfa avara, I, 3). 1643 - Nel regno d'Amore/ impera la morte.../ - E folle quel core/ che crede a sua scorte (Ferrari, Il prencipe giardiniero, I, 5). 1643 - O questa dell'amar vera scienza/ che la femina alfine/ non è gusto dell'uom, ma penitenza (Ferrari, Il prencipe giardiniero, I, 2). 1643 - Qual donna non s'appaga/ per incantar altrui di far la Maga? (Ferrari, Il prencipe giardiniero, II, 1). 1654 - Avida di piaceri/ sempre la donna fu;/ né può soffrir già mai d'esser schernita (Ziani, La guerriera spartana, I, 2). 1654 Bellezza donnesca/ è sempre crudel (Ziani, La guerriera spartana, I, 11). 1654 - Concludiam che la femina/ sia una sciagura amabile/ nell'odio e nell'affetto insoportabile (Ziani, La guerriera spartana, I, 8). 1655 - Chi ha perduto il suo cor non si lamenti/ che le pesche d'amor sono tormenti (Cavalli, Erismena, I, 2). 1657 - Far gli afflitti e roder guanti/ con le Dame poco giova/ sol con l'or pietà si trova/ da le belle dispietate (Ziani, Le fortune di Rodope e Damira, I, 20). 1667 - Chi nel pelago d'amore/ col suo cor scorrendo va/ di più scogli fra '1 rigore/ naufragante se ne sta (Pallavicino, Il Meraspe, II, ultima). 1669 - Il prender moglie, o amico,/ è un gioco della sorte:/ tal'hor d'util si rende, or di danno:/ chi si sposa à un gran ben, chi à un gran malanno (Ziani, Antigona delusa da Alceste, I, 13). 1671 Chi pensa che la sorte/ sia vassalla al suo brando/ Femina è la Fortuna e come Donna/ è mutabile e vana, allor quando/ più prospera la miri, ad un sol giro/ della volubil rota/ ti precipita e balza: ben gli Sciti/ la dipinser con l'ali/ per mostrare ai Mortali/ che se a punto si tarda un'ora sola/ d'afferrarla nel crin, fugge e s'invola (Ziani, Annibale in Capua, II, 5). 1686 - Fu sempre nel mondo la donna superba/ inclina a l'Impero/ e mostra ch'altero/ il genio riserba (Pallavicino, L'Alvilda regina dei Goti, II, 9). 1686 - La donna è sempre scaltra/ nel Mondo ha questa lode/ non termina una frode/ che n'incomincia un'altra (Pallavicino, L'Alvilda regina dei Goti, II, 15). 1686 Son sempre mendaci/ le donne lo so/ per nostra sventura due cori natura/ nel sen le formò:/ l'un dice di sì/ e l'altro di no (Pallavicino, L'Alvilda regina dei Goti, II, 14).
1638 - Maturo il frutto ha succo peregrino/ miglior è vecchio che fanciullo il vino (Manelli, La maga fulminata, I, 4). 1640 - Son le rughe del viso/ sdruccioloso sentiero/ al pargoletto Arciero (Ferrari, Il pastor regio, I, 4). 1641 - Buon Historico mai d'amor sarà/ chi non pratica pria l'Antichità (Ferrari, La ninfa avara, II, 3). 1641 - Chi vuol amando non sentir tormento/ auguri a sua fortuna un crin d'argento (Ferrari, La ninfa avara, II, 3). 1656 - La bellezza invecchiata/ da tutti è sbeffeggiata./ Ninfa non vagheggiata e non goduta/ è una morta pittura/ che soggiace alla polve/ è una fredda sembianza una Tella insensata/ ch'in superficie vana/ conserva l'ombra sol di cosa humana (Cavalli, Gli Amori di Apollo e Dafne, I, 5). […].
Secondo quadro : un diagramma dell'incremento progressivo verso la fortuna massima nel fine secolo dell'effetto "tromba" nell'opera veneziana del secondo Seicento(103).
1639 - Le nozze di Teti e di Peleo - Teatro di S. Cassiano - Cavalli: La Fama suona la tromba poi daprincipio al canto (1°4). 1641 - Le nozze d'Enea con Lacinia - Teatro dei Ss. Giovanni e Paolo Monteverdi* (105): Lavinia: Frena l'aria e rimbomba/ all'orrido fragore/ della guerriera tromba (Arioso di cavata con tromba)('o°). 1642 - L'Alcate - Novissimo - Manelli* - Soldato: Qual novello rimbombo/ di bellici strumenti/ qui risuona d'intorno (Aria con tromba)(197). 1659 - La costanza di Rosmonda - Teatro dei Ss. Giovanni e Paolo - Volpe*: Qui s'ode dal palaggio il suon della tromba(IO8). 1660 - L'Elena - Teatro di S. Cassiano - Cavalli: Lotta (con trombe sinfonia): Il timpano suoni/ si tocchin le trombe (Arioso con tromba) (1 O9). 1659 - Amor guerriero - Teatro dei Ss. Giovanni e Paolo - P.A. Ziani - S'ode il suon della tromba. Arsace: Questo è il segno nemico (Recitativo cui segue ritornello con tromba)(119). 1664 - Scipione Africano - Teatro dei Ss. Giovanni e Paolo - Cavalli: Datosi con le trombe il segno della pugna, segue il gioco dei gladiatori(` 11). 1666 - Pompeo Magno - Teatro di S. Salvador - Cavalli - Piazza di trionfo. Ballo di cavalli vivi con cavalieri sopra al suon di tromba (112). 1671 - Ercole in Tebe - Teatro di S. Salvador - Boretti - Fama suonando l'aurea sua tromba chiama un choro d'eroe ("3). 1671 - Heraclio - Teatro dei Ss. Giovanni e Paolo P.A. Ziani - Arconte: Già dal Cesareo nome/ ode sparger il suon tromba festiva (Aria seguita da ritornello con trombe: S'ode concerto e sinfonia di trombe)(114). 1671 - Iphide Greca - Saloni - Partenio, Freschi e Gaspare Sartorio - Piazza con apparati di festività...: Sù s'affiatino le pompe (Recitativo cui segue Ritornello con trombe : S'odon trombe lontane : Co' rimbombi l'aure rompe (Arioso con trombe) Viva Iphide viva! - Recitativo seguito da Ritornello : "Suonano trombe vicine" (in partitura) ("5). 1672 - Attila - Teatro dei Ss. Giovanni e Paolo - P.A. Ziani - Aria d'Oronte - "Trombe vandale" (in Eco). Viva la pace viva (Aria con un rigo per le trombe) - Si suonano le trombe e smontano Attila e gli altri da cavallo(' 16). 1672 - Adelaide - Teatro di S. Salvador - Sartorio - Sinfonia (in partitura: 2 trombe) - Adalberto: Sarà lieta la mia sorte (Aria con trombe) - A l'armi, à l'armi, à l'armi (Ritornello con tromba) ("7). 1673 - Massenzio - Teatro di S. Salvador - Sartorio La Fama in aria. Il Tebro in terra con due sirene che sorgono dall'onda (Ritornello con trombe) - Aria della Fama : 0 Tebro famoso (segue ritornello con trombe) (I 18). 1674 - La schiava fortunata Teatro di S. Moisè - Cesti-Ziani - Bellona in macchina à suono di tromba: Risvegliatevi sù/ la tromba/ rimbomba (Aria con tromba) - Semiramide prigioniera. Sinfonia (I partitura: z rigo per la tromba) (I 19). 1674 - JVuma Pompilio - Teatro dei Ss. Giovanni e Paolo - Pagliardi - Regio anfiteatro. Suonano trombe di dentro. Flavio: Al grave suon di formidabil tromba/ l'orbe immenso di Giuno alto rimbomba... (Aria con tromba) - Compare (Prisco) al suono di trombe - Viva Arma e viva viva (Aria con tromba) - Partono al suono di trombe. - Anfiteatro di Romolo. Flavio guida seco Pompilia al suono di trombe - Piazza maggiore con trono. Popolo con due trombe - Parte la machina al suon di trombe - Al suono di trombe con popoli(120). 1675 - Diocletiano - Teatro dei Ss. Giovanni e Paolo - Pallavicino - Sinfonia: a 3 + tromba - Machina imperiale. La Vittoria conduce la machina. Dopo suon di trombe e ventilamento di bandiere - Suonano le trombe e Massimiliano con Diocleziano vanno al trono - Aria concertata con tromba: Diocleziano: Congiuratevi pur contro di me (segue ritornello con tromba) - Diocleziano: Ma di qual suon guerriero/ rimbomban questi tetti? (segue ritornello con tromba) (121). 1675 - Enea in Italia - Teatro dei Ss. Giovanni e Paolo - Pallavicino - Enea: Sù amici sù... (Arioso). Qui al suono guerriero delle trombe si sveglia e risorge tutto il campo - Piazza reale, a suon di trombe compariscono Latino, Turno, Camilla sopra destrie ri - S'ode il fremito di trombe - Lavinia : Ma di qual suon guerrier festivo accento/ freme per l'etra (recitativo) - Aria con tromba A suon di tromba: Deh cara mia tromba/ festeggia sì A suon di tromba compariscono Latino e Turno ambi vestiti di ferro - Si replicano le trombe al cui fremito guerriero si dà principio alla battaglia(122). 1675 - Eteocle e Polinice - Teatro di S. Salvador - Legrenzi - Sinfonia con due trombe (in partitura) - Polinice. Adrasto: duetto: S'accenda sì sì (segue ritornello con due trombe) Polinice Polinice Tideo, terzetto con tromba: A battaglia, guerrieri - Eteocle sopra carro trionfale tirato da schiavi à suono di due trombe: Al suon delle trombe - A replica delle trombe scendono dal carro - Adrasto: S'è vinto, campioni (Aria con due trombe)(123). 1676 - Galieno - Teatro dei Ss. Giovanni e Paolo - Pallavicino - Diletto: Al diletto, al canto, al giubilo (Aria con tromba) - Idea: Amanti gioite (Aria con tromba) (124). 1676 - Medea in Atene - Teatro di S. Moisè - Gianettini - Al suono di sinfonia bellicosa si muove uno de' lottatori contro d'Androgeo (in partitura: Rigo per la tromba)(125). 1676 - Germanico sul Reno - Teatro di S. Salvador - Legrenzi - Sinfonia con tromba - Bellona: Al Marte di Roma (Aria con tromba) - Fama in machina: 0 gran folgore d'armi (Aria con tromba) (126). 1677 Nicomede in Bitinia - Teatro di S. Moisè - Grossi - Re: Sciolgasi il prence (Recitativo, cui segue ritornello: "Qui suonano in lontano le trombe facendo l'ultima chiamata") (Sinfonia di trombe: in partitura) - Al suono di trombe e di musicali stromenti escono Manio e il Re (127). 1677 - Totila - Teatro dei SS. Giovanni e Paolo - Legrenzi - Clelia: Dei che farem! (Recitativo, segue: "Suono di trombe"). Desbo: Questo è il nemico (Recitativo con ritornello: "Suona di nuovo la tromba") - Piazza maggiore di Roma tutta foco, Totila e soldati laureati con bandiere e trombe. Totila: Arda Roma e Roma esangue (Aria con tromba) - Qui, al tocco di tromba, s'apre lo smisurato elefante e n'escono Belisario, Lepido e Cina; folta schiera di soldati, trombe ed alfieri - Belisario: Coronato di verdi allori (Aria con tromba) - Belisario: Snodate i fremiti/ o trombe e timpani (Aria con tromba) - Il mondo festeggi (Aria con tromba) - Coro: Viva la pace, viva Roma (Coro a cinque con tromba) (128). 1677 - Giulio Cesare in Egitto - Teatro di S. Salvador - Sartorio - Giulio Cesare: Sù trombe guerriere (Aria con tromba) - Qui, al fremito delle trombe, mentre passa il ponte l'essercito cesareo, si oscura l'aria dall'ecclissi del sole - Sinfonia con tromba - Al suon delle trombe precedono cavalieri egiziani e romani - Giulio Cesare: Al tonar di brando invitto (Aria senza tromba) - Cornelia: Ai bellici carmi di tromba guerriera (in Partitura: Ritornello con tromba) - Cleopatra: Seguaci campioni (Aria con tromba) - Qui segue la battaglia in terra tra soldati di Cleopatra e di Tolomeo - Doppo a un tocco di tromba Giulio Cesare con numerose schiere - Qui s'ode la tromba. - Sinfonia con tromba - Cleopatra: Hò un'alma che brilla (Aria con tromba) (129). 1677 - Antonino e Pompeiano - Teatro di S. Salvador - Sartorio - Sinfonia con tromba - Campidoglio. Antonino sopr'un'aquila: Antonino: Scende armato di saette (Aria con tromba) - Fama: Voi Ninfe d'amore (Aria con tromba) (130). 1678 - Vespasiano - Teatro di S. Giovanni Grisostorno - Pallavicino - Libertà libertà (Aria con tromba) - Discende Domiziano da maestosa scala precorso da due trombe - Tito di propria mano alza la cortina del padiglione, s'ode fremito di trombe - Tito: Ma qual di tromba audace/ ingrato suon l'aria notturna avviva? (Recitativo cui segue ritornello di tromba) - A suon di trombe e timpani, segue altro sbarco di Tito e Attilio - Vespasiano a suon di trombe si porta in loco eminente per osservar le pompe (131). 1678 - Anacreonte tiranno - Teatro di S. Salvador - Sartorio - Oronte: Sù, schiere guerrieri (Aria con tromba) - Campo ozioso d'Oronto. - Qui a suon di tromba sorge il campo per dar à l'armi - Campo d' Oronte à fronte della città nemica - Isifile: Guerra guerra (Aria con tromba) - Florimondo: Guerrieri à battaglia (Aria con tromba) - Rosiclea: Gioisci mio core (Aria con tromba) - Anacreonte ritorna fuggitivo e ferito - Qui s'ode il suono di tromba nemica (Aria con tromba) - Tromba suona "a capriccio" (132). 1679 - Alessandro Magno in Sidone - Teatro dei SS. Giovanni e Paolo - M.A. Ziani - Qui s'ode il rimbombo di trombe guerriere (Si suona le trombe specificato anche in Partitura) - Cleandro: Odi le trombe? (Recitativo, cui segue un ritornello) - Piazza di Sidone illuminata - Choro di popolo festeggiante con bandiere spiegate à l'ingresso di Alessandro Magno - Popolo: Viva Alessandro! - Efestione: Viva/ Cresca il lauro à le sue chiome/ ed applauda a sì gran nome/ con rimbombo sonor tromba festiva - Fortuna: Io ch'or placida (Aria con tromba) (133). 1679 - Sesto Tarquinio - Teatro di S. Salvador - Tomasi - Campo dell'armata toscana, al concerto de trombe festeggianti s'applaude alla pace - Porsenna, Fulvio suo generale venghono sopra del ponte con più schiere d'armati. S'ode un concerto di trombe (134). 1679 - Il Nerone - Teatro di S. Giovanni Grisostomo - Pallavicino - S'apre il sudetto globo trasformandosi in due scale con sopra la sudeta gente, la quale spiegando varie bandiere à quadruplicato suono di trombe riceve Tiridate - Teatro di Nerone nel quale à suono di trombe si vanno introducendo le maschere - Strepito di trombe fuori del teatro (135). 1679 - I duo tiranni al soglio - Teatro di S. Salvador - Sartorio - Si leva al tocco di tromba la tenda e comparisce. Anfiteatro con scalinata altissima, si ritoccano le trombe - Valenti niano accompagnato dal suono delle trombe - Suona tromba di dentro - Sileno: Taci, cha'al fragor de la tromba/ d'improvviso timor palpita il bosco (Suona ancora la tromba, in partitura) - Spalancate a forza le porte entrano con suon di trombe e bandiere spiegate, Decio e Flavio tutti armati di spada e immenso popolo d'armati (136). 1679 - Sardanapalo - Teatro di S. Angelo - Freschi - Armisia ch'esce in habito da cacciatrice. - Già sfida la tromba/ a guerra ogni belva (Aria con tromba) - S'ode rimbombar d'intorno la reggia strepitoso sono guerriero di trombe - Sardanapalo: Ma qual di fiera tromba/ insolito fragor odo in quest'ora! (Aria con coro e tromba) (137). 1679 - Le amazoni nell'isole fortunate - Piazzola sul Brenta, villa Contarini - Pallavicino - S'odono trombe e calpestio di cavalli - Pulcheria: Mà de' corsieri armati/ s'ode il ricalco! (in partitura: "Si ripiglia il suono della tromba") - Compariscono al suono di trombe cinquanta amazoni sopra destrieri armati - Si replica a piacere [la Sinfonia] ma sempre finiscono le trombe - Pulcheria: Coraggio costanza (Aria con trombe) - Assedio piantato sotto la fortezza con moltissime barache e padiglioni ad'uso militare - Sultano: Generosi miei pensieri (Aria con "tromba sola") - Si ritirano le amazoni e li mori ascendendo s'impadroniscono della fortezza, sormontando la stessa al suono di trombe - Qui si ripigliano le trombe guerriere - Numidio con molte amazoni incatenate - Pulcheria: Trombe guerriere/ suonate sù (Aria con tromba) - Segue concerto di trombe, nel qual tempo segue lo steccato di due cavalieri sopra il ponte (138). 1680 - Alcibiade - Teatro dei SS. Giovanni e Paolo - M.A. Ziani - Alcibiade ch'al fragor di trombe entra con nobil comparsa in senato - Frine, Alcibiade: S'ode suono di trombe. Alcibiade: Giungono i Lesbij, parti (Aria con tromba) (139). 1680 - Il ratto delle Sabine - Teatro di S. Giovanni Grisostomo - P.S. Agostini - Ostilio, Cesarino [...] Qui s'ode fragor di trombe - Ostilio: Ma qual fragor di tromba/ mi chiama à l'armi? (Recitativo con ritornello di trombe) (140). 1680 - Candaule - Teatro di S. Cassiano - P.A. Ziani - Giardini con bagni in lontananza ove si veggono Candaule e Alinda seminudi (in partitura: "Tromba") - Alinda: Voglio, vendetta, sì (Aria con tromba) (141). 1680 - Odoacre - Teatro di S. Angelo - Varischino - Sinfonia avanti el levar de la tenda (con tromba: in partitura) - Piazza circondata di eccelse moli [...] a tocco di trombe ruinano i guastatori l'antica reggia di Roma - Salone rappresentante la sfera di Marte erretto dagli Architetti ad'Odoacre (Sinfonia con tromba) - Giunia: Preparati all'arme (Aria con tromba) - Teodorico con l'essercito, a suono di trombe s'incontrano gl'esserciti sul ponte che non regendo al peso ruina dalla parte de' Romani con loro miserabile stragge - Precede suono di trombe festive. Alceste: Ecco a la tromba/ che qui rimbomba (Aria con tromba) (142). 1680 - Berenice vendicativa - Piazzola sul Brenta, villa Contarini - Freschi - Qui s'incamina la soldatesca al trionfo. Coro di trombe mentre passa il trionfo; coro di trombe lunghe - Piazza preparata per l'ingresso del trionfo nella città (143). 1681 - Pompeo Magno in Cilicia - Teatro di S. Angelo - Freschi - Sinfonia con trombe (in partitura) - Pompeo: Chi fa guerra al ciel latino (Aria con tromba) - Alimene che esce dal serraglio con schiera de' corsari: Su su campioni/ la tromba suoni (Aria con tromba) - Qui segue abbattimento feroce fra corsari e Romani - Eurillo, choro di soldati romani. - Qui segue un rapimento di cose più pretiose ne la reggia fatto da soldati romani - Qui Pompeo à suono di trombe siede co' gli altri à mensa - Pompeo: Su feroci miei guerrieri (Aria con trombe) - Alimene: Belliche trombe/ l'etra fendete (Aria con tromba) (144). 1681 - La Flore - Teatro di S. Angelo - Sartorio, M.A. Ziani - Campagna vicina à Roma, essercito con bagaglio - Strabone: Spieghi su l'orizonte il primo lampo (segue Sinfonia con tromba: in partitura) - Strabone, Pompeo, Silla seguiti dall'essercito coronato che marchia a suono di trombe. Strabone: Sempre vince (Aria con tromba) - Servio sopra il sasso. Pompeo che dorme, si fà vedere quantità di congiurati che snudate l'armi scendono al piano. S'odono trombe in lontananza. Servio: Ma qual fragor di tromba/ fere l'udito? Forse scoperti siam (Recitativo: suono di trombe) - Voce dei Congiurati: Mora Pompeo. Pompeo: Mora Pompeo? Felloni! (segue "Sinfonia presta con tromba" in partitura) - Geminio seguito da soldati vittoriosi a suono di tromba. Geminio:, Trombe d'Ausonia, / Bellici canti (Aria con tromba) (145). 1682 - Olimpia vendicata - Teatro di S. Angelo - Freschi - Sinfonia prima dell'opera con trombe (in partitura) (146). 1682 - Lisimaco riamato da Alessandro - Teatro di S. Salvador - Legrenzi* - À suono di trombe (Alessandro) seguito da nobile falange di guerrieri macedoni - Nell'incamminarsi Alessandro à suono di trombe verso il tempio inciampa in un sasso e cade - Qui al suono di trombe (...) segue tra Macedoni e Persiani curiosa pugna da scherzo sul ponte, (la) qual serve invece di ballo. 1682 - Pausania - Teatro di S. Salvador - Legrenzi* - Qui s'ode suono di trombe. Pausania: Mà qual odo di trombe/ rumor festivo? - Gilbo: Forse/ giunge Rosaura la tua reggia sposa - Ormondo con truppe di soldati: Di Marte pugnace/ non più qui rimbomba,/ ma solo di pace/ risuoni la tromba (147). 1682 - Giulio Cesare trionfante - Teatro di S. Angelo - Freschi* - Navi di Tolomeo debbellato. Da lontano invito di trombe e tamburi. Fausta dall'ingresso del palagio: Frange l'etra, amica tromba - Seguono inviti di trombe et apparenza di soldati - Precorso da gran numero di soldati di varie nationi, bandiere, trombe, tamburi, passa trionfante Giulio Cesare il ponte - Ad improvviso tocco di trombe e tamburi si vede mossa d'armi - Qui s'ode di dentro suono allegro di trombe. Cesare: E di qual suon giulivo il suol rimbomba? (148). 1683 - Giustino - Teatro di S. Salvador - Legrenzi - Sinfonia avanti l'opera. Piazza Imperiale con machina - Giustino: Di fiera tromba à strepitosi carmi/ vo' ne l'agon solo battaglie et armi. / Mi chiama nel campo/ un genio guerrier (Aria con tromba) - Vitaliano sopra d'un elefante circondato da capitani del su esercito con squadre de cavalli e fanti: A l'armi, guerrieri (Aria con tromba) - Campo di guerra con esercito schierato da i lati. Qui vedrassi approssimarsi Vitaliano co' suoi guerrieri. Anastasio: All'armi, all'armi, miei fieri guerrieri (Aria con tromba) - Giustino: A guerra à battaglia/ à l'armi sù sù (Aria con tromba) - S'ode suono di trombe. Erasto: Ah mio signor. Amantio: Che apporti? Erasto: Stragi, ruine e morti. - Anfiteatro nel quale apre l'Olimpo e comparisce la Gloria col tempio dell'Eternità. Giustino: Con aura sonora/ dia fiato a le trombe/ la Fama canora (Aria con tromba) (149). 1683 - Temistocle in bando - Teatro di S. Cassiano - Gianettini - Passano nove schiere sovra il ponte a suon di tromba. Artabano: Odi, signor la tromba (Recitativo cui segue ritornello in tromba) - Cleofante: L'aurea tromba infaticabile/ la tua fama suonerà (Aria con tromba) (150). 1683 - L'innocenza risorta ovvero Ezio - Teatro di S. Cassiano - Ziani - Acclamato dalle trombe si vede comparire Etio trionfante (151). 1684 - Il ré infante - Teatro di S. Giovanni Grisostomo - Pallavicino - Barche per il fiume che precorrono la venuta di Ergisto. Popoli sù le rive e trombe doppo il corteggio (152). 1684 - L'incoronazione di Dario - Teatro di S. Angelo - Freschi - Arpago: Io de l'Asia al vasto impero (Aria con tromba e violino) - Dario con Statira per mano accompagnato à suono di trombe dai satrapi del regno. Dario: Salva, ò Persi, è Statira (Recitativo cui segue ritornello con trombe) (153), 1684 - Traiano - Teatro dei SS. Giovanni e Paolo - Tosi - Suono di trombe, quindi Lidio: E de le trombe acclamanti senti/ il festivo fragor (Recitativo con intercalati squilli) - Traiano, mentre suonano le trombe, improviso tace (154). 1684 - Erginda - Piazzola sul Brenta, villa Contarini - [Autore anonimo] - Sinfonia con trombe avanti il primo atto (in partitura) - Altra sinfonia con trombe (carta 7 della partitura - Trionfante si vedrà/ Amor e Venere della beltà (Aria con tromba) - Ho mille furie (Aria con tromba) - Di trombe festive/ si sparge il fragor (Aria con tromba) (155). 1686 - Il Licurgo overo il cieco dalla acuta vista Teatro di S. Angelo - Gabrielli - Pollarolo - Approda dorata triremi e sbarcano Eracle e Teagene al suono di armoniosa sinfonia di trombe e timpani con lo sbaro di molte bombarde (156). 1691 - L'Alboino in Italia - Teatro dei SS. Giovanni e Paolo - Tosi-Pollarolo - Giustino che fugge, Sestilio e Elisa, che procurano di trattenerlo. Suono di trombe. Sestilio: Quest'è il nemico. Giustino: O cieli! Il nemico? Torna suono di tromba. Giustino: Ma... Sestilio: Che temi? Torna il suono di tromba. Giustino: È qui Alboino, fuggo! (157). 1696 - Rosimonda - Teatro di S. Giovanni Grisostomo - Pollarolo - Coro: Viva Cleffo, viva. Cleffo: La mia sfida a la fama/ di fiera tromba il suon consegni orora. - Un araldo à suon di tromba publica il cartello (158). 1698 - Marzio Coriolano - Teatro di S. Giovanni Grisostomo - Pollarolo - Coriolano: Roma/ Comincia in questo punto ad esser doma. Si pone in capo l'elmo e prende il bastone. Suonano allora trombe e si dispiegano bandiere. Tulio: A suon di tromba/ ogni falange. I capi delle schiere vanno a baciar la spada a Coriolano che siede: Vieni al tuo piè - Padiglione di Coriolano nel campo d'armi, trombe di dentro. Coriolano: Il suon de gli oricalchi./ Pone in sito i guerrieri. Denuda la spada - Tulio e Coriolano si sveglia al suono de le trombe. Tulio: Il fabriziero suono/ de gl'industri oricalchi. / Udisti o Coriolano? (159) [...].
Se un musicista di gran fama come il principe dei maestri marciani, il fiammingo Adriano Willaert, nel disporre per testamento dei 1.600 ducati, accantonati nella sua lunga vita di musicista, da devolvere ai luoghi pii, agli Ospedali, non vuole distinguere nella ripartizione della somma per sette, fra lasciti agli Ospizi in cui si fa, si studia, si insegna e si suona musica sacra e Ospedali senza musica (cioè se non fa nessun caso, Willaert, alla destinazione simbolica della musica in una città di cui egli ha diretto la musica ufficiale creandone una delle più appariscenti glorie), molto diversamente da lui si comporta invece un cittadino veneziano, di poco suo postero. Un cittadino semplice, non-musicista, che sta dall'altra parte di questa nostra storia: un membro di un pubblico, forse piccolo, di sensibili ascoltanti puri della musica, eletti all'esperienza musicale dal loro naturale sentimento e non dalla sapienza, non dalla erudizione, non dalla educazione o dal rango. Siamo nell'anno orribile, nero, della peste (1630) e il nostro personaggio è un libraio di Rialto, tale Piero Coletti, che in quell'anno della grande paura, quasi sicuro di morire anch'egli, contagiato, "lascia" un discreto capitale a un Ospedale (160) dove regolarmente, sia pur frequentandolo ufficialmente per atti di devozione, egli ha soddisfatto per anni il suo bisogno privato di "consolazioni" musicali. Con quest'atto pietoso, il libraio Coletti, di già prima di morire con un atto nostalgico della sua vita passata, onora la memoria delle corresponsioni ottenute, da lui stesso, personalmente, in intime esperienze "estetiche" ed "acustiche" di abbandoni alla percezione del bel canto, in intime esperienze di emozioni indicibili legate alla sensibilizzazione ambientale coniugata a sua volta ad una espansione congiunta del senso dell'ascolto e di un senso tutto particolare del "sacro", sentitivamente partecipato, solitariamente, fra sé e sé, nella penombra dei vespri.
Adi primo Agosto 1630. Venetia. Vedendo il flagello che Dio manda in questa città viene per li nostri peccati & cioè una pestilentia oribile con mortalità grande di popolo sterminando le case intiere, et smenuendo le Città non vi restando la metà della gente, et perciò vedendo, et suspettando, che in questa Città di Venetia Iddio potrebbe mandar simil flagello per la nostra Colpa, et per li miei peccati con privarmi di vita, che prego la sua infinita Misericordia mi guardi in particolar in questi tempi, però non essendo sicuro di esser essaudito ho voluto prima raccomandar l'anima mea alla sua Divina Maestà, pregandolo almeno concedermi gratia di riceverla ne beni di vita etterna quando sarà il tempo che si doverà separare da questo Corpo, et perciò per gratia di Dio ritrovandomi Sano nel Corpo et della Mente ho pensato senza perder tempo di disponer, et far testamento di quanto spirato da Dio di disponer, et ordinar di quanto desidero sia fatto della mea facultà, la qual ho fatta in Venetia con le mie fatiche mediante l'agiuto divino [...]. Item lascio alle Cantore dell'Hospedal di san Giovanni e Paolo per l'amor di Dio, et per l'affetione che li porto per haverle sentite a cantar tutte le feste d'anni doi con molto mio gusto, che per tal causa ho schivato molte compagnie quale potrebbe essermi per me state danose; però li lascio da esser devise tra di loro e ugualmente ducati dusento, Le quali prego si accordino a pregar Dio per la salute dell'anima mia [...]. Item lascio a Lauretta Cantora di detto Loco ducati cento, quali li lascio per l'amor di Dio, et per affetione a lei pigliata per il suo cantar, che tra tutte quelle più mi piaceva, et sempre ho havuto questo pensiero di farli questa carità anco vivendo con la occasione o di monacare, o maridarse, restar ivi in quel loco conforme a Dio l'havesse sperata, et la prego da ricordarsi pregar Dio per me (161).
Questa testimonianza del Coletti porta una data molto precoce. Precoce se la valutiamo in ordine alle ragioni della Storia della musica veneziana e in rapporto a una sua stagione fra le più tipiche, per repertorio, gusto, fortuna, fama mondiale, la quale fiorì più esplicitamente nel Settecento che non ai tempi di Coletti e nel secolo fatto oggetto delle osservazioni sin qui condotte. Ed anche, al riguardo della tipicità, una stagione che aveva come suo riferimento di celebrità ed anche di "mito ", più che la musica degli autori, o la musica degli eventi - pubblici o privati - "musicati", la musica come atto di recezione coscientemente partecipe. La musica come compromissione emotiva di pubblici diversi, di classe mista, e confusi nelle penombre di ambienti sentimentalmente più "misticheggiantemente atteggiati" che "socialmente devoti".
Mi sto riferendo appunto a quel che diverranno come carattere precipuo della vita musicale del pieno Settecento la domanda e la corresponsione, tutta colorata di "eticità", della musica che farà il repertorio aperto delle "stagioni", dapprima sacre-quaresimali, poi buone per tutto l'anno, dei celebri quattro Ospedali in cui le "figlie dei cori", guidate da maestri sempre più illustri, fanno musica di bel canto e di virtuosismo strumentale. La musica degli Ospedali.
È noto che quelle "stagioni" ospedaliere costituiranno una delle attrattive più intensamente vissute dal turismo artistico del secolo XVIII. Un'attrattiva solo secondariamente definibile "veneziana di Stato", già che lo Stato, per quanto in effetti la secondi come propria istituzione riconosciuta, di fatto incoraggia, però, in ogni modo e oltre-modo l'autofinanziamento degli istituti pii di ricovero ed educazione (con musica), abbandonandola in specie alle oblazioni occasionali di riconoscenza dei "pubblici" ammessi ai "concerti sacri" delle Figlie (quasi degli "utili alla porta" del tipo di quello dei teatri), ed ancor più all'occasionalità delle pie trasmissioni di eredità patrimoniali (motivate sulla falsariga del testamento del Coletti). Sarà significativo, al proposito, il fatto che nel secolo XVIII lo Stato controllerà molto da vicino la "resa" in oblazioni artisticamente motivate degli Ospedali, orientando o tentando di orientare anche incrementi di qualificazione delle prestazioni (licenziando maestri, raccogliendo opinioni su disservizi di didattica, valutando le curve statistiche sulla produttività, ecc.; laddove, come si era visto sopra, il personale musicale della cappella era, per statuto, invece, illicenziabile, incontrollabile, garantito).
Sarà opportuno che, così come per lo sviluppo (veneziano) dell'aria da capo cui s'è già accennato, così come per l'amplificazione del pubblico servizio di musica in città che oltre alle ordinarie feste canoniche civili, oltre alle cerimonie occasionali quali i Te Deum per le grazie a Dio di fatti speciali o le monacazioni, oltre alle feste dei patroni di scuole piccole e grandi a gara, oltre alla stagione carnevalesca dei teatri, e a quella quaresimale degli Ospedali, acquisirà aperture d'altre stagioni teatrali accessorie (per la Sensa, per l'Estate, per l'Autunno) e altre tempora musicali sacre in Ospedali, sarà opportuno che quei temi la cui storia si enuclea specificamente nel Settecento restino riservati e tenuti aperti per una trattazione adeguata nell'VIII volume di questa Storia di Venezia. È comunque atto dovuto lasciar pure sensibilmente aperta la tematica intravedibile come piccolo sentimento espresso dal Coletti nelle righe e ancor più fra le righe del suo testamento. Si tratta di ricordare che quella modernità "veneziana", già esiste, impalpabile, forse, poco documentabile, nella motivazione della storia musicale della città; che sorge nel XVII secolo, nel contempo di una crisi strutturale della società che consente una sensibile liberazione degli autori dalle committenze di tipo antico (in stato di consunzione, spegnimento e di inidentificazione), così come consente la nascita di una committenza di tipo assolutamente inedito. Ovvero una committenza pubblica, ma pubblica nel senso che fonda la sua domanda di musica sulla autocoscienza privata delle sensibilità di ascolto (162) e di gusto, e di scelta, critica, coscienza estetica diffusa, di una comunità del tutto ignara di essere un collettivo, ma che collettivo è nel suo farsi in esperienze etiche (verso un'epoca in cui, per un certo tratto, l'identificazione di alcuni bisogni, dati per secondari, veniva ad essere trattata in una dimensione che stava per privilegiare, della esperienza artistica, la natura antropologica sulla politica, per ricercare in essa i presupposti di una nuova politica) (163).
1. L'uso della immagine del cannocchiale, che taglia in due paragrafi questa ricognizione sulla presenza della musica a Venezia nel tempo storico di questo volume cronologico, secondo due vedute inverse, una diritta e una rovescia, è scelto in omaggio alla repentina assunzione da parte di chi trattò nel Seicento di Teatro musicale della invenzione del cannocchiale per intitolare le descrizioni delle opere musicali viste e sentite "dalla parte del pubblico", cominciando nel 1641 con il "Cannocchiale della Finta Pazza".
2. Più specifica, come tipicità, addirittura di altre manifestazioni di cultura notoriamente segnate dalla stessa aggettivazione.
3. Un carattere talmente consolidatosi come paradigma universale, quello della musica "classico-romantica", che la maggior parte delle energie di chi si occupa oggi di cose musicali per motivi di studio va a consumarsi nel neutralizzarne la potenza, nel reagire alle sue ri-apparizioni ricorrenti e ubique, o quantomeno nell'attenuarne le semplicistiche verità.
4. Con allure tipicamente feudale (restata tale e quale "feudale", non adattata ad alcun sistema neo-feudale).
5. Della rovinosità che tenta, senza successo, di rodere dall'interno delle proprie memorie reali la facciata di rappresentanza dello Stato gli esempi emblematici potrebbero essere evocati a decine: a Regensburg i rappresentanti dei Nostri arrivano al tavolo diplomatico quando il trattato è già stato concluso e firmato da tutti; a Valeggio il comandante dei Nostri, Sagredo, non regge a uno scontrino con gli Imperiali pur disponendo di quindicimila soldati e duemila cavalieri, e fugge in ritirata ancor prima dei suoi uomini; alla Pace di Cherasco non sono invitati a trattare i rappresentanti della Repubblica; Antonio Barbaro sfida la Storia e la Verosimiglianza ed anche il Buon Senso erigendosi da sé un marmoreo monumento ove compare, sulla facciata della chiesa di S. Maria del Giglio, fra le icone del Valore e dell'Onore, in un campo di illustrazioni rappresentative encomiastiche di atti clamorosi di inettitudine e di disonore compiuti nel contesto di una guerra patentemente persa...
6. Non è forse irrilevante il fatto che la dimostrazione dialettica sia relegata, specie in Venezia, e nel periodo in oggetto, agli esercizi giocosi, geniali, della routine del perditempo accademico, applicata a questioni oziose, di momento bizzarro, comunque extravagante e confinato ad una dimensione di "pubblicità" coatta agli arresti domiciliari di alcune, dissociate, pessimiste, pseudo-élites a riposo, pensionate ancor prima di essere assunte ad alcun rango di servizio (culturale, sociale, politico).
7. Prima di introdurre con "rappresenta" l'azione verbale contrapposta a "dibattere/discutere" Carl Schmitt avanza una formula prudenziale: "[...] se mi è lecito definirla così".
8. Carl Schmitt, Römischer Katolizismus und politische Form, München 1925.
9. A.S.V., SS.. Giovanni e Paolo, Registri, b. XII (1617-1636), c. 206.
10. Nel caso, il licenziato-sospeso dal servizio è Cavalli, primo organista di S. Marco che da dieci anni (ossia dal 1620, quand'era ancora giovane cantore nella cappella della Basilica) è a libro-paga dei frati di S. Zanipolo per un salario stranamente basso (30 ducati annui; ossia meno di 10 dello stipendio di un sonador comune della cappella ducale, corrispondentemente ad un impegno di responsabilità di reiterate direzioni musicali di un centinaio di feste, fra fisse e mobili; retribuito pertanto, a conti fatti, per meno di 1 lira all'ora).
11. "Il Signor prencipe di Bornit della casa di Brandeburgo che con la sua consorte e nobilissimo seguito frequenta i teatri e spesso si portano in maschera per strada per godere la libertà". Dal report dell'archi-giornale dei loisirs veneziani, "Pallade Veneta", del gennaio 1687 (cf. in Eleanor Selfridge-Field, Pallade Veneta. Writings on Music in Venetian Society, 1650-1750, Venezia 1985, p. 145).
12. Il dedicatario della cronaca mensile è Ferdinando Carlo Gonzaga, duca di Mantova.
13. Per quanto frastornato il Pascià capisce bene che la prestazione artistica, per quanto pubblica, è anche cosa fungibilmente privata, acquisibile, vuoi nella forma di una cessione al privato della pubblica rappresentanza attraverso i suoi agenti artistici (Maometto va alla montagna), o nel consumo privato, reiterato, del bene di consumo rappresentativo, con l'andare della montagna a Maometto, ossia là, nel pubblico teatro, a consumare "come se fosse privato" quanto in pubblico la città offre, o meglio, "lascia consumare" a cittadini e ospiti.
14. Probabilmente l'opera cui assiste entusiasmandosi il Pascià è L'Elmiro di Carlo Pallavicino; e la scena di battaglia, "con sinfonie di timpani e trombe", forse un po' alla turchesca, cui tanto si applaude, rappresenta una lotta musicale pan-greca di Ateniesi contro Corinzi.
15. È noto che alcuni ospiti più capricciosi, anche se filo-musici come filo-musico era il granprincipe di Toscana, habitué di molti Carnevali in laguna, frequentavano più la multiteatralità veneziana che non i Teatri o le Opere, passando nel corso della notte da un teatro all'altro (seguendo il filo di stimoli presenti nelle sedi, altri dal dramma, altri dal teatro o dalla musica). L'andare a teatro è pertanto una esperienza frammentata, composta, componibile, nella quale non necessariamente il contenuto teatrale o musicale è prevalente o, tantomeno, unico.
16. Un mezzo secolo appena. Ma basterebbe tenersi a una distanza di appena una quindicina di anni per trovare di già testimonianze attendibili della organizzazione della apparente opulenza della vita teatrale veneziana del tipo di quella dell'occhiuto nunzio apostolico Pannocchieschi che già nel 1647 registra in più dispacci la funzione di rappresentanza dello stato delle cose civili ed economiche del Teatro musicale, un'istituzione da pochissimo avviata, esaltata dalla sua stessa novità, eccitata dallo stesso basso tenore di tradizione: "Quanto alli Teatri, ovvero come essi [i Veneziani] dicono le Opere in musica, si rappresentano in Venetia in ogni più ampia et esquisita forma, concorrendo a renderli più ragguardevoli, oltre l'industria della gente, l'opulenza del proprio Paese, d'onde pare che habbino tratte l'origine et ove patimenti basterà di dire che le si fanno quasi più per negozio che per trattenimento" (cf in Nicola Mangini, I teatri di Venezia, Milano 1974, p. 30).
17. Che la musica sia un tratto identificativo della cultura veneziana è confermato dall'interesse, anche politico portato, alla apparenza musicale; si pensi alla produzione mottettistica dogale ancor tardo-medioevale, o alla caccia in età rinascimentale e poi barocca alla scrittura per l'impiego statale di stars musicali di primo rango come Willaert, Merulo, Rore, Monteverdi.
18. Una "festa di Stato" con molta musica di sfondo, ad libitum: con accompagnamento di "replicati sbarri", sinfonie di strumenti e di voci dal Bucintoro, ove il "lontano" continuum musicale è evidenziato dalla formula più usata dai cronisti: "non tacevano [ossia mai smettevano, mai; non venivano a mancare in alcun momento], melodie delle voci sciolte al canto" ossia: i madrigali a cappella a 8 parti reali (+16 di rinforzo) cantati ad hoc nella fase dello sposalizio e/o le messe cantate, in S. Nicolò. Poi - dopo che la signoria ha fatto ritorno a Palazzo per banchettare -: banchetti qua e banchetti là, dentro e fuori dalla sede ufficiale; con musica sciolta d'ogni sorta ("duetti, terzetti, composizioni a voce sola, sinfonie da camera"). Fino al cader del meriggio.
19. Quando, linguisticamente parlando, e col senno di poi, esso è "evoluto".
20. Valutazione da trattare con cautela, data la vaghezza dello stesso concetto di "scuola" in epoche in cui il magistero della "composizione musicale" o non esiste o non è praticato.
21. In una concertazione, economica, ben armonizzata di prestazioni e relativi "privilegi [paghe]" garantiti dal salario statale e prestazioni per conto terzi ad libitum più o meno casualmente sopravvenute nell'agenda dei maestri.
22. Un'impresa improbabile, già che il Carissimi è molto radicato nella sua sede (dove sarà seppellito quarant'anni dopo) e nella contigua area di produzioni dell'arciconfraternita del SS. Crocifisso, ha già rifiutato il servizio a due imperatori asburgici.
23. La lettera, conservata nell'archivio del Pontificio Collegio Germanico di Roma, è stata già pubblicata da Thomas Culley, Jesuits and Music, I, Roma 1970, pp. 332-333, da Paolo Fabbri, Monteverdi, Torino 1982, pp. 189-190, ed infine, in una versione emendatissima, da Claudio Annibaldi, Tipologia della committenza musicale, in Musica scienze e idee nella Serenissima durante il Seicento, a cura di Francesco Passadore-Franco Rossi, Venezia 1996, pp. 70-71.
24. Pronti ad alternarsi nelle funzioni regolari della settimana, entrambi presenti nelle feste maggiori.
25. Pagati dal maestro cui è concessa una somma forfettaria per la copertura degli straordinari.
26. Che al Razzi, quelli del Carissimi par già "di sentirli", e di "vederla [lui, Carissimi] in attione".
27. V. nella edizione delle Lettere, curata da Éva Lax (Firenze 1994) la lettera 106 (pp. 172-174).
28. Molto inquietante per lui, ammenoché...: "Altro non mi potrebbe quietare, con sodisfazione del'animo che un canonicato in Cremona, oltre alle terre mie - senza altro utile della Tesoreria -, e tal Canonicato, con il mezzo del comando della Maestà Imperatrice [Eleonora Gonzaga, moglie di Ferdinando II] al signor Governator di Milano [Don Gómez Suàrez de Figueroa y Córdoba di Feria] o lo stesso cardinal di Cremona [Monsignor Campori], subbito l'avverei; qual canonicato di potria rendere da qualche trecento scudi di quella moneta. Così, io, assicurato sopra questa fermezza, con l'agionta delle terre mie, potrei essere sicuro che, servito fino a quando io avessi potuto, di aver poi ove ritirarmi per gli ulltimi miei giorni, onoratamente in Dio. In altra maniera dubiterei sempre, come ho detto a Vostra Signoria Illustrissima, de qualche solenne burla che mi facesse la mia mala fortuna - e la potrei certamente speare, perché non son più del'erba de eri".
29. Argomentazione aggrovigliata sino ad una sorta di rave di astrusità.
30. Tranne che, ovviamente, in Mantova.
31. In una sorta di immagine rovescia dello Sganarello di Molière quasi sembra adombrarsi la rivendicazione di una modernissima "reversibilità della pensione" del dipendente morto.
32. Per quanto sia al servizio della cappella del doge il maestro di S. Marco non riceve mai ordini, mai investiture, mai emolumenti, mai regalìe, mai sanzioni disciplinari, dal principe, ma sempre tutto quel che gli compete è comandato da un procuratore sopra la chiesa, che neppure è un delegato dal doge, ma un magistrato nominato da organi amministrativi autonomi.
33. Continueranno infatti i procuratori, dopo di lui, a cercar fuori dalla cappella un suo prossimo successore, quasi fosse anche questa, della importazione degli ingegni, una convenzione tradizionale di reggimento della musica ufficiale.
34. Ci sono segni evidenti però di come Monteverdi non s'approfitti di quella libertà di chi sbandiera le clausole contrattuali, una libertà che per un maestro di fama potrebbe facilmente declinare al lassismo; e di come, invece, ritagli, spesso a fatica, dal tempo del lavoro creativo dedicato ai tempora della Chiesa, lo spazio, a volte minimo, che si risolve a dedicare - supplicato da grandi committenti - alla libera professione: alle musiche private, alle musiche da stampare, alle musiche teatrali e a quelle accademiche. Non è facile però decidere se attribuire il rispetto di Monteverdi per i doveri dell'impiego a una gran presa sul serio della sua condizione di neo-prete ovvero a una fioritura - anzitempo - di un moralismo trascendentale, laico, moderno, ideal-autonomo.
35. Cf. in Lettere, pp. 206-208.
36. Minacciando, in caso di mancata corrispondenza, un ritiro dal ruolo ed un ritorno in patria.
37. V. alle righe in corsivo nell'esposto qui sotto citato per intero.
38. In abstracto, e non soltanto manifestatasi in virtù di una iper-qualificazione del Monteverdi, sacrosanta, di certo, in un giudizio ex post, ma non realmente applicata ad personam al tempo.
39. E se quattro: quattro padroni, dei quali, come si vedrà, i confini delle strutture di committenza non sono nientaffatto netti ma tendono a confondersi, a sovrapporsi e, comunque, a sfumare.
40. I banchetti in palazzo Ducale nelle quattro feste fisse con banchetto (s. Marco, Sensa, s. Vito e s. Modesto - in memoria infamata di Baiamonte Tiepolo -, Natale ovvero s. Stefano) non sembrano necessitare di accompagnamenti musicali fatti con nuove composizioni riconoscibili come tali (nessuno baderebbe alla musica, dati il brusio e le distrazioni degli altri quattro sensi, tutti sovrimpegnati; pertanto, non di rado, i loro accompagnamenti musicali sono "senza Maestro").
41. Studi sistematici recenti sul consumo e la produzione di musica verificati a tappeto parrocchia per parrocchia, altare per altare e relativa scuola, schola o confraternita (v. in Elena Quaranta, La musica nelle chiese di Venezia nel Rinascimento. Organizzazione e prassi, Turnhout [in corso di stampa]) stanno dimostrando come e quanto questo "primo padrone" stemperi la sua unità/unicità in una miriade di attività devozionali, dislocate e calendarizzate, che scandiscono con più o meno musica, più o meno buona, le cerimonie religiose sostenute a carico dei diversi gruppi sociali cui le numerose feste dei (santi) patroni e le ricorrenze liturgiche pertinenti alle devozioni particolari fan capo. La stessa committenza istituzionale si sfrangia in sub-iniziative ibride (un po' pubbliche e un po' private) nelle quali si vedono investiti interessi di apparenza e apparato suscettibili di variare nel tempo storico; comunque "regolarmente irregolari".
42. L'"agibilità" si direbbe oggi, nel linguaggio delle burocrazie dello spettacolo.
43. Significativamente numerose sono le testimonanze di queste committenze, al confronto delle testimonianze relative ad eventi d'ufficio ordinario o straordinario - soltanto otto rispetto alle tante più numerose connesse a committenze private -: l'impegno notevole per una gran messa di Natale in S. Marco nel 1616 (lettera 20 nella ediz. delle Lettere) che ostacola il lavoro di una commissione mantovana di una favola marittima; le "molte fonzioni" per la settimana santa in S. Marco, nel 1617 (lettera 27) che potrebbero frenare la fabbrica di un'altra "favola" mantovana; il grand'impegno per la creazione di messa concertata e i mottetti grandi "per tutto il giorno" nella festa della Santa Croce, e quello della cantata nuova nonché del vespero nuovo per la Sensa (1618: lettera 29, a Vincenzo Gonzaga) che fa mancare "notte" nuove (musica nuova) per Mantova; l'impegno per i nuovi pezzi per la settimana santa in Basilica (lettera 33, al Gonzaga, nel 1619) che causa un altro "mancamento" nella finitura della Andromeda mantovana; e così nelle restanti lettere 57 (1620), 82 (1625), 113 (1627) e 125 (1634) che ricordano le applicazioni laboriose a nuovi pezzi per le liturgie cerimoniali estive in S. Marco, per le feste e gli intrattenimenti (in chiesa e in camera) di Sigismondo III re di Polonia in visita ufficiale, e ancora per altre messe della notte di Natale.
44. Nella ediz. citata, e così di seguito.
45. Non mette conto di insistere sul dato di fatto che, data la sua residenza veneziana, molto stanziale, Monteverdi ha avuto limitati rapporti epistolari, limitati più che altro a quelli intrattenuti con i committenti continentali (fra i quali emergono le figure dei titolari di corti signorili; e fra questi i mantovani, che si rodono le dita per la perdita del maestro). La lista proposta qui sopra apre pertanto una pista che sarebbe fuorviante nel caso che il lettore non sapesse, credesse, o immaginasse che proporzionalmente maggiore non sia stato incombente sulla vita creativa del maestro un vorticoso giro di committenze cittadine, non trattate mai ovviamente per lettera.
46. Addolcendosi così, in questi nuovi rapporti di concertazione del legame umanistico "nel lavoro" fra committente e artista, quello scarto sociale che nelle relazioni committente-artista nei regimi cortigiani aveva determinato invece, sempre, dei rapporti clientelari, sempre venati da un paternalismo che copriva le défaillances delle sofferenti tesorerie dei principi, s'avvantaggiava anche la performance contrattuale di nuovo genere, la quale, meno capziosamente, ora, rappresenta l'effettivo paradigma della relazione prodotto/giusto-prezzo, prestazione/mercede. Meno capziosamente, già che fonda una seria determinazione del valore artistico, pagato per quel che vale secondo una scala tabellare di concordanze che annichilisce ogni possibile scimmiottamento o simulazione delle aure di subordinazione dall'una parte e protezione dall'altra. Liberando così, o per lo meno avviando la liberazione reciproca dell'artista e del suo (provvisorio, avventizio) padrone.
47. Citato, allusivamente, nella premessa alla partitura del Combattimento di Tancredi e Clorinda pubblicata nella stampa dell' Ottavo libro dei Madrigali guerrieri e amorosi.
48. Può servire da eloquente eccezione alla regola il collasso dell'attenzione portata alla coscienza uditiva del pregio della musica; musica relegata (cf. le righe corsivizzate) a far piuttosto nient'altro che da "rumore festivo di fondo" di una gloria in nulla e per nulla "umanistica", che si può leggere fra le righe nel resoconto "giornalistico" - pubblicato sulla "Pallade Veneta" (aprile 1688, pp. 4-11; cf. in E. Selfridge-Field, Pallade Veneta, pp. 215-216) - della elezione a doge di Francesco Morosini, laddove la predominanza della gloria politica per la gloria politica, della gloria militare per la gloria militare e in fondo, immancabile, il gaudio rituale di cessazione per l'allarme di una peste contratta, forse, dalle milizie in Morea ("quarantenate" a Climino nell'isola di Leftada in gennaio e quindi ritenute incontaminate) data poi scongiurata, emerge ancora, e si conferma, alla moda antica, violentemente, su tutto, non senza effetto d'inattualità di stile politico e culturale: "[Aprile 1688] [...] le trombe guerriere, gl'oricalchi di Marte, i tamburi e le voci festive della plebe [non musicali già che appunto plebee] acclamavano per degnissimo doge il Generalissimo Morosini, Ercole del nostro secolo, e con lingue di fuochi inviavano al cielo le suppliche per ottenerlo principe. Spiegavano quantità di bandiere, tolte agl'ottomani da quel valoroso imperator dei mari [...]. Passeggiavano per questi canali gondole e peotte coperte di ricchi tap-peti, ornate di vaghe livree, con trombe e tamburi per risvegliare nella memoria di tutti i meriti riguardevoli di quest'eroe ed insinuare alla nobiltà il genio comune di veder ascendere a questo grado sublime coronato il valore. Parlavano i sassi, et i marmi istessi presentavano ad ogni passo agl'occhi dei passeggieri il viva a quel Francesco, rintuzzatore dell'orgoglio de' barbari. Leggevasi in ogni angolo, in ogni colonna, alle porte dei tempi in poetiche rime la volontà di questo popolo affettionato al bellico terrore, al flagello dei musulmani. Le canzoni [verosimilmente non cantate: poemi], i sonetti, gl'elogii, i madrigali, e l'anagramme, e numeriche e letterali, quasi bocche della fama, contavano i gloriosi trionfi, le conquiste di tante piazze, gl'acquisti dei regni, fatti da quella destra ardimentosa, le stragi di quel brando invincibile, e le fughe vergognose dell'inimico Trace alla generosa comparsa dell'illustrissimo e Eccellentissimo Signor Capitano General da Mar. [...] In tanto nel Gran Consiglio si praticavano le solite estrattioni delle palle d'oro per l'elettione del quarant'uno (numero determinato all'elettione del Serenissimo Principe), questi trascielti più dalla sorte che dall'affetto appassionato. Il dí tre del cadente, ascoltata la messa dello Spirito Santo e rassegnata la volontà propria a quella di Dio, invocarono un raggio di quel lume celeste che fra le tenebre delle cieche passioni rischiara i sentieri più giusti e conduce alla cognitione del vero. Ritornati in Senato, elessero per doge di questa reale e maestosa Republica Francesco Mori [o] sini LI. Su le quindici della mattina, uscite le voci di cosí felice elettione, gli spari di quanti basti-menti havevano gettato l'ancore in questi lidi marittimi, le campane d'ogni sacra torre, i tamburi, le trombe, i puri e quanti altri strumenti di giubilo e di contento inventò l'arte, tutti in un tempo, uniti in grate dissonanze, formavano un'armonioso concerto [...]. In tanto su la gran Piazza di S. Stefano, dove ergesi l'alto e nobilissimo palazzo della paterna habitatione di Sua Serenità, senza risparmio, ad onta dell'interesse, s'aprivano le cantine, si votavano le botti de' vini i più scelti, si dispensava il pane a corbe e colme ceste, si spargeva denaro fra la plebe, tumultuante per satollar l'ingordigia e si davano evidentissimi segni della più alta generosità che mai più practicassero i monarchi del Campidoglio. Stava aperto quell'abbondante recettacolo d'eroi alla publica vista, e perché v'accorresse il popolo con più libertà e pompa maggiore, si dispensò al solito l'uso delle maschere per tre giorni, cosa però che fu praticata con somma modestia a causa del tempo quaresimale, e confinante ai giorni più santi di penitenza. Non visitavasi sala, portico, o camera in quel regio palazzo dove non fosse un concerto di musici strumenti per sollievo e divertimento di chi passeggiava quella casa di Marte".
49. Significative per dispendio e ostentazione di lusso, qualità artistica delle esecuzioni musicali, concorso di personale attivo e di pubblico passivo, durata, sono le cerimonie e feste di monacazione, il cui costo medio è decisamente rilevante, fra i più alti (in genere 300 ducati).
50. O in quelle de'pendances di palazzo, spazi eccedenti di palazzo, o adiacenze al palazzo, riadattati che sa-ranno i Teatri di titolazione patrizia.
51. Nientemeno che di fatto la prima opera "alla veneziana" della storia, ossia il vero archetipo del melo-dramma di tradizione indiscussa.
52. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2492 (= 10145) : Diari di Girolamo Priuli. Scoperta e segnalata da Gaetano Cozzi, la paginetta del diario qui citata, è già stata pubblicata con un puntuale commento da Luca Zoppelli (Il rapto perfettissimo: un'inedita testimonianza sulla "Proserpina" di Monteverdi, "Ras-segna Veneta di Studi Musicali", 2-3, 1986-1987, pp. 343-345).
53. Il segno della competizione, nella festa semi-privata, con i fasti signorili feudali trascinati per tutto il Rinascimento nelle corti. Aspirazione all'abbassamento ai ranghi patrizi non dinastici e non regali delle insegne della regalità attraverso l'uso diretto delle stesse insegne decontestualizzate e ricontestualizzate.
54. Altra innovazione: lo spettacolo serale, funzionale in ciò anche agli illusionismi narrativi di cui si impasta.
55. Formula di certificazione autentica della novità, ché novità il Rapto lo è per davvero: tutta musicata e cantata la favola di Giulio Strozzi è infatti, a tutti gli effetti, la prima opera lirica in assoluto, o per lo meno un'illustre sua anteprima, la vera prima pagina (a dispetto della sua perdita documentale) di una storia veneziana del melodramma apertasi immaturamente prima di quel dopo-peste in cui il genere d'arte neo-nato trovò l'adattissimo terreno di cultura della sua decantata "pubblicità" (una tipicità connessa ad un certo sentimento di controllo degli assembramenti nei pubblici divertimenti, che l'organizzazione, dopo il 1637, dei pubblici teatri, secondò secondando il "nuovo genere" dei luoghi deputati alla vita musicale della città).
56. Questo inciso descrittivo lascia intendere come fossero già tentate appieno nel Rapto in casa Mocenigo le meravigliose visioni meccaniche su cui si fonderà per secoli lo statuto dello charme più passivo e per-suasivo connesso alla comunicazione ai pubblici delle poetiche del melodramma.
57. I classici modi della immaginazione melodrammatica come vissuto estetico.
58. Si adombra forse qui, nella manipolazione del doppio solaro (con sfondamento degli appartamenti), un prototipo (effimero) della sala melodrammatica special-mente edificata come sarà nei futuri teatri pubblici (S. Cassiano, Ss. Giovanni e Paolo e altri).
59. La coppia dei responsabili artistici è prova della intenzione di far sfoggio del meglio : Monteverdi è Monteverdi, un'allegoria vivente dell'arte d'avanguardia; Strozzi è personaggio pluri-emblematico in ordine ai nostri intenti di cogliere nuove forme della rappresentatività del "nuovo" innestato in Venezia in tronchi di tradizione: nobile ma intellettuale colto di formazione universitaria pisana, Giulio Strozzi, arriva in laguna come membro di un diplomatico (di stanza provvisoria). Ci resta, in Venezia, per importarvi il gusto marinista, e per avviarvi, sul modello di altre simili già create in Roma e Udine ("Ordinati" e "Dubbiosi") e divenirne poi custode, importanti accademie letterario-filosofiche e letterario-musicali: per l'una classe quella degli "Incogniti" (un prototipo di Accademia Nazionale "di tendenza", per il quale Strozzi inventa anche la nuova dotazione di un albo illustrato con ritratti dei soci ordinari e corrispondenti: "Le Glorie degli Accademici Incogniti", celeberrime, appunto), per l'altra classe quella degli "Unisoni" (un centro di sperimentazione di sensibilizzazione musicale dei letterati, favorito anche dallo spargimento generoso, nel corso delle riunioni, delle grazie di una figlia naturale, poi riconosciuta, Barbara [Strozzi appunto], cantatrice, musicista educata e consacrata da una dozzina di stampe illustri, allieva di Claudio Monteverdi stesso, virtuosa nel canto dello stile alla moda, inventrice di un nuovo genere di musica sacra [il "mottetto lirico latino, per voce sola femminile concertata"] che avrà grandissima voga come tipicità veneziana assoluta nel futuro repertorio dei mitici "ospedali" settecenteschi). Ma non solo questo. Strozzi da Venezia tenta con Monteverdi (v. la citata Finta pazza Licori) una fondazione del genere opera lirica mantovana (nel 1627) che lasciò però il passo alle veneziane fra le quali si distinsero, firmate da Strozzi, opere melodrammatiche importanti come La Delia nel 1639, La finta pazza (non più Licori, ma Deidamia in Sciro, poi esportata come modello a fondare l'opera francese alla corte di Mazzarino) nel 1641, La finta savia nel 1643, Il Romolo e 'l Remo per le musiche di Cavalli e della figlia Barbara nel 1645. Così pure si deve a Strozzi, come "penso accademico" dilatatissimo un epos (La Venezia edificata) che dovrebbe stare a "Venezia Terza Roma" come l'Eneide sta alla Seconda (augustea). Lo stesso Strozzi si distinse come leader di una nuova religio accademica centrata sulla adorazione delle "dive" del canto, inventandone la stessa fortunata sino a oggidì figurazione lessicale (diva, divo, divismo), promovendo accanto alla edizione delle "Glorie" degli accademici Incogniti, una edizione, non meno accademica delle "Glorie" pluripennute di una reginetta dell'Opera delle origini (Anna Renzi): Le glorie della signora Anna Renzi romana (1644). Occorre segnalare anche che sotto il falso nome anagrammatico di Luigi Zorzisto, lo Strozzi è anche uno dei titolari della "riduzione in nuova forma" di una "commedia in musica" che nel 1652, a Napoli, col titolo di Veremonda. L'Amazzone d'Aragona unì, secondo gli intenti del viceré Conte d'Ognatte e grazie alla prestazione di una "compagnia" o "accademia" musicale viaggiante proveniente da Venezia e dalle aree strozziane (i Febi Armonici), la celebrazione del compleanno della regina di Spagna con le feste destinate (in una nuova sala del palazzo Reale ad hoc allestita) a celebrare, a caldo, la "ricuperatione di Barcellona e di tutto il principato di Catalogna"; rivelandosi così in questo il fu fiorentino e fu romano, venezianizzato Strozzi, il co-inventore di un riuso politico, ma questa volta moderno, delle pertinenze "rappresentative" dell'opera in musica ancor neonata. Per una magistrale descrizione di questo processo politico-culturale indagato in lungo e in largo e fin dentro ogni piega scoperta dei pur reticenti e contraddittori documenti si legga, di Lorenzo Biainconi-Thomas R. Walker, Dalla "Finta pazza" alla "Veremonda": storie di Febiarmonici, "Rivista Italiana di Musicologia", 10, 1975, pp. 379-454.
60. Gli ospiti stranieri: il suggello della publicness.
61. In linea con la reazione negativa alla supposta "democratizzazione" santuriniana della fruizione dell'opera, si esprime con calda pacatezza il grimaniano Cristoforo Ivanovich nei capitoli XIII-XVI delle sue Memorie teatrali, in appendice alla sua raccolta di scritti, Minerva al tavolino, Venezia 1681, riedite nel 1688: "Il Teatro prima di ricevere utilità alcuna, ricerca molte spese [...] Dal principio bastavano due voci isquisite, poco numero d'arie per dilettare, poche mutazioni di scena per appagare la curiosità; ora più si osserva una voce che non corrisponda che molte delle migliori ch'abbia l'Europa. Si vorrebbe ch'ogni scena del Drama caminasse con la mutazione e che le invenzioni delle Machine d'andassero a trovare fuori dal Mondo. Queste sono le cause per le quali cresce ogni anno la spesa [...]. L'utile finalmente come necessario stromento à sostenere il concetto del Teatro ad inanimarne la volontà dell'operazioni virtuose di cui l'interesse è un caro allettamento [...]. Tutti li utili [bollettini di passaporta, scagni, botteghini di rinfresco, ecc.] si fanno considerabili quando incontra l'Opera; la cui riuscita ò buona ò cattiva dipende da mille accidenti [..]. Le spese del Teatro sono più che certe, ma gli utili [...] sono incerti. Pure il Teatro studia sempre d'accrescere i suoi aggravij; ma l'utile della Porta, ch'è fondamento principale dell'interesse, in vece di crescere si va diminuendo con evidente pregiudizio, e pericolo di tralasciarsi la continuazione di questo nobilissimo trattenimento. [...] Francesco Santurini quell'anno [1674] col comodo del Teatro di S. Moisè preso ad affitto vantaggiosamente, con le Scene, e Materiali, che servirono l'anno innanzi ad una generosità Accademica, e con una mediocre compagnia de' Cantanti [violò] l'integrità [4£] dell'uso [alla Porta] con un quarto di ducato [...]. Questa novità vantaggiosa piacque all'universale [...] gli esempij di Novità s'abbracciano volentieri quando ridondano in beneficio. [...] Un calo eccedente la metà allettò il concorso col pregiudicio de' Teatri soliti a ricever le quattro lire, [facendo sì che tutti s'adeguassero, SS. Giovanni e Paolo nel 1670, S. Salvadore e S. Cassiano nel 1680] non rimanendo altro al prezzo primiero che il Novissimo di S. Giovanni Grisostomo; dove tutta si vede impiegata la magnificenza maggiore de' fratelli Grimani".
62. Ibid., cap. XV.
63. La ripresa-rifacimento della Arianna mantovana, Il ritorno di Ulisse in patria, Le nozze di Enea con Lavinia, La coronazione di Poppea, le opere; il S. (aassiano, il SS. Giovanni e Paolo e il S. Moisè, i teatri.
64. Le Memorie, dedicate, nella ediz. del 1688, "all'Eccell. de' Signori Gio. Carlo e Vincenzo Abbate Fratelli Grimani" trattati da "Apolli" protettori dei teatri i quali "con la profusione dell'oro [loro]" consentono ai Veneziani di udire "i più elevati metri, e le più isquisite voci [...]". La notizia sulla multiproprietà iniziale delle edificazioni è alla p. 401 della ediz. 1688, al centro di un capitoletto intitolato "L'uso d'affittar palchetti, e la ragione, che acquista chi li prende ad affitto".
65. Ibid., "il secondo ['regallo'] [...] si passa ogni volta che in quell'anno fà recitar il Teatro, non altrimenti venendo fatto questo pagamento in riguardo della spesa, che impiega il Teatro, e del comodo, che riceve chi lo tiene in affitto". In altre parole i comproprietari sono nel contempo affittuari della stessa limitata proprietà del loro palco (se il Teatro non funziona - come accade a volte, specie per colpa del Turco - non sono né l'uno né l'altro).
66. Trascrivo un po' più in lungo dal capitolo X delle Memorie della citata Minerva per rendere più sensibile, attraverso le parole originali della cronaca, la fredda notarilità della organizzazione delle "glorie poetiche e musicali" della scena alla veneziana nel secondo Seicento con la quale vengono fissati quei dati di fatto peraltro da me già riassunti più sopra nel testo: "I proventi derivati dall'affitto dei palchi costituivano l'utile più sicuro sul quale i palchi sono almeno in numero di cento, oltre le soffitte compartite in più ordini. e non tutti hanno lo stesso prezzo, mentre questo si considera dall'ordine e dal numero, che migliora il sito de' medesimi; onde non si può precisamente assegnare l'importanza di cadauno per la varietà suddetta dei siti, che varia parimenti gli affitti medesimi. Anno questi ordini di Palchetti comode ascese, illuminate sufficientemente, e ogni Palchetto ha il suo numero. La chiave ha due segni, cioè il numero dell'ordine e del Palchetto, il che serve a divertire ogni confusione, e a ritrovare con la medesima il suo Palchetto. Sogliono dal principio che si vuol fabricare un Teatro, praticarsi due capi d'utilità, il primo un regallo in denaro per cadaun Palchetto, e questo serve in gran parte alla spesa della fabrica, e questa è stata la causa principale che si siano fabricati più Teatri con tanta facilità e prestezza; il secondo si conviene in un affitto annuale, e si paga ogni volta che in quell'anno fa recitar il Teatro, non altrimenti venendo fatto questo pagamento in riguardo della spesa che impiega il Teatro, e del comodo che riceve chi lo tiene in affitto. Il Jus poi, che acquista il Possessore d'esso Palchetto si è di tenerlo per sua propria ragione, senza facoltà di cederlo ad altri, di più d'adoprarlo per uso suo, e d'imprestarlo a beneplacito. Per due capi può ritornare Padrone del Teatro, o quando non viene pagato annualmente l'affitto suddetto quando si recita, o quando viene abbandonato volontariamente da chi lo possiede; e in questi casi può passar a nuova locazione, altrimenti acquistato una volta sola lo si possede durante la vita del Possessore, non meno che doppo la di lui morte dagli Eredi [..]. Questo uso è stabilito da più casi in giudizio, e viene osservato puntualmente".
67. C. Ivanovich, Minerva al tavolino, p. 404: Memorie teatrali.
68. 6 Lire.
69. 4 Lire.
70. 2 Lire.
71. Da devolvere al poeta o a un suo rappresentante, o al rifacitore del libretto quando cominceranno a girare i rifacimenti e gli ammodernamenti dei drammi.
72. Una situazione del genere oggidì praticata nel cinema cosiddetto "indipendente", o, meno esplicitamente nei casi di compartecipazione azionaria di artisti nelle società di produzioni di spettacoli, concerti, film.
73. Su questo peccato originale di liberazione economico-imprenditoriale degli artisti dell'Opera per musica, in cui nessuno più cadde per decenni e decenni (se ne tornò a impicciare, ahilui, Vivaldi, un secolo dopo) è stata raccolta e commentata una documentazione eloquentemente distesa in uno studio dei
primi anni '70 (Giovanni Morelli-Thomas Walker, Tre controversie intorno al San Cassiano, in Venezia e il melodramma nel Seicento, a cura di Maria Teresa Muraro, Firenze 1976 [1971], pp. 31-35).
74. Sul ruolo - anche eteronomo, molto eteronomo - del cantante d'opera secentesco si vedano i preliminari di un'indagine poi divenuta fruttuosa in bibliografia, raccolti passim nelle molte note in calce del citato articolo di L. Bianconi - T.R. Walker, Dalla "Finta pazza" alla "Veremonda".
75. Per un quadro abbastanza pittoresco della proiezione viennese (e relativi riferimenti bibliografici ovviamente limitati alla produzione critica precedente la sua stesura) si v. nel saggio dello scrivente Un pomo d'oro sull'unverzehrlig Tisch: il lungo momento della connessione musicale di Venezia e Vienna, alle pp. 89-104 del volume miscellaneo Venezia-Vienna, a cura di Giandomenico Romanelli, Milano 1983, che comprende altri saggi descrittivi della relazione culturale e artistica fra le due capitali, di Gino Benzoni, Franca Zava, Massimo Cacciari, et al.
76. Per una bella descrizione delle connotazioni artistiche, sul lato specifico dell'apparenza, si legga di R.M. Isherwood, Music in the Service of the King, Ithaca (N.Y.) - London 1975 (trad. it. La musica al servizio del re, Bologna 1986).
77. "Non vi fù mai alcuna Republica nel Mondo, che meglio superasse tutte le altre Republiche, che quella di Roma; né alcun'altra, che meglio imitasse questa, che la Republica di Venezia; onde con ragione nel Sonetto, ch'io feci in lode di questa inclita città, registrato a car. 13 delle mie Poesie, la dichiarai Delle Glorie Latine inclita Erede [...]". Così cominciano le citatissime Memorie dell'ivanovich ad apertura del capitolo I, intitolato: La Republica di Venezia imitando la Grandezza della Romana, rinovò la magnificenza de' Teatri. Circa la cura di "romanizzare" al massimo grado l'aura teatrale ci sarebbe da ricordare che la "messa in favola" di storie romane, dal 1642 della Coronazione di Poppea di Busenello-Monteverdi, diventa una sorta di liturgia obbligata: da una, a due, a tre opere all'anno in cartellone che fanno agire Pompei, Caligule, Cesari, Appi Claudi, Elii Sejani, Massenzi, Domiziani, Romoli, Remi, Vespasiani, Galieni, Germanici, Mutii, Scipioni, Gordiani, Amulii, Puppieni, Traiani, Marzii Coriolani, ecc. ecc. in fantasiosissimi intrecci (ne ha trattato dilungatamente lo scrivente in un saggio intitolato Il filo di Poppea. Il soggetto antico-romano nell'Opera veneziana del Seicento pubblicato nel volume miscellaneo Venezia e la Roma dei Papi, Milano 1987, pp. 245-274).
78. Quando le cose non van bene, economicamente parlando, è l'impresario a fallire, non il nobile proprietario, né tantomeno gli altri nobili palchettisticamente consociati.
79. Un godimento estetico di tipo nuovo, ghiotto; fatto d'interconnessioni di più charmes: quelle della pittura, della plastica, del canto, della musica strumentale, della danza, la cui fusione-confusione è ancora un'esperienza rave sia per gli stranieri che per i nativi (colta come esotica dagli uni, circonfusa dal pathos dello spaesamento [spaesamento in casa, in patria, già che perlomeno si canta in italiano e qualche parola al volo vien colta come familiare] dagli altri).
80. È un fenomeno progressivo e molto evidenziato nella transizione fra i secoli Sedicesimo e Diciassettesimo: se ne veda a occhio la portata sfogliando i volumi catalografici sulle "miscellanee a stampa" del Repertoire International des Sources Musicales. La "tendenza" già riconoscibile nel Cinquecento, in buona evidenza, è ben illustrata da Jane Bernstein nell'articolo Financial Arrangements and Role of Printer and Composer in Sixteenth-Century Italian Music Printing, "Acta Musico-logica", 53, 1991, pp. 40-45.
81. Le ricerche più recenti ed accurate stanno dimensionando in grande questo fenomeno sino ad oggi trascurato dalla storiografia accademica; occorreranno molte verifiche positive attuate sul filo di campionature utili, tanto più eloquenti quanto più elusive dai consuetudinari eccessi di circoscrizione localistica delle indagini. Quel che ha reso in chiarificazione della storia materiale delle origini dell'Opera (anche "veneziana") nelle rilevazioni disgiunte in sedi dislocateoperate da Lorenzo Bianconi e Thomas Walker in tre distanziati centri italiani - più, meno e poco canonici dell'affermazione del Teatro musicale alla veneziana - (cf. Idd., Production, Consumption and Political Function of Sixteenth-Century Opera, "Early Music History", 4, 1984, pp. 209-296) potrebbe essere realizzato ove si portassero a termine rilievi a tappeto sull'uso, la produzione e il consumo della musica sacra (anche sub specie della musica sacra edita).
82. Circa la identificazione di questo settore mancano gli strumenti critici per giungere a valutazione corretta di cosa sia e di come si presenti la "didatticità" (stilistica? tecnica? della composizione) nei secoli Sedicesimo e Diciassettesimo; ben poco rinvenibile, come carattere, categoria, contenuto e forma nella trattatistica musicale (interessata, come è ben noto, a volare molto alto, nelle dimensioni esclusive esoteriche e impopolari della teoria).
83. È frequente trovar cenno nelle prefazioni d'autore di questo sentimento di riconoscenza per la stampa riconosciuta come un "antidoto contro il Tempo mortificatore", un "balsamo [in rapporto lessicale col senso della "imbalsamazione"] per la conservazione immortale", una procedura "d'eternamento", ecc. ecc.
84. Non più negli aperti spazi di torneo (in parco o in giardino) ove erano nate le favole rappresentative, in spirito illusionistico, ovvero non più come negli spazi chiusi, delle sale aulicissime di corte, quando gli "antenati dell'opera" erano fioriti come intermedii di commedie umanistiche, senza neppur tentare di attingere la dimensione dell'illusione.
85. Quasi automatico, quello della committenza statale, incontrollato. Del tutto nominale per non dire fantastico, quello della committenza editoriale.
86. A determinare una mutazione "europea", molto significativa, del ruolo del musicista di carriera, costretto a una libero-professionalizzazione imperfetta (con qualche raro ingresso di rapporti clientelari, con mecenati amichevoli, spiritualmente gemellati all'autore), la quale caratterizzerà, anche attraverso le carriere artistico-produttive di Mozart, Haydn e Beethoven, l'età del classicismo e classicismo-romanticismo che ai tre viennesi di dedica, fu la crisi, il collasso, la chiusura definitiva delle cappelle/orchestre di corte, specie le tante tedesche, che fecero diventare un gran numero di musicisti talentosi dei liberi-professionisti, dei liberi disoccupati pronti a tutto e ovunque emigranti o emigrati, dei didatti per forza o per caso, dei virtuosi d'ogni risma a caccia di tournées. In tal senso Venezia, se questa condizione, che giunse ad essere comunemente diffusa solo a mezzo Settecento, era quella della modernità, Venezia divenne moderna con un bell'anticipo sul resto del mondo.
87. Un po' come l'acqua minerale d'oggidì, canonica mente "addizionata di" anidride carbonica.
88. Ossia un regime di "segnaletica della rappresentanza".
89. Il fatto che in ogni barca si suonasse lascia intendere (da qui il mio esclamativo aggiunto al testo) che l'obiettivo non fosse quello di una sinfonia o di una "Intrada" mobile a corteggio ma soltanto quello di un diffuso frastuono en plein air.
90. Cf. in David Bryant, Alcune osservazioni preliminari sulle notizie musicali nelle relazioni degli ambasciatori stranieri a Venezia, in Andrea Gabrieli e il suo tempo, a cura di Francesco Degrada, Firenze 1987, pp. 190-192.
91. Fuori calendario, imprevista, non iscritta nel libro-paga della cappella.
92. Nell'evento sonoro musicale appena appena delineato entrano anche le campane scampananti (i "sacri bronzi").
93. Cf. nella citata ediz. della "Pallade Veneta", p. 183.
94. A.S.V., Procuratori de Supra, Terminazioni, busta 147.
95. Cf nella ediz. della "Pallade Veneta", p. 181.
96. Dispaccio dell'ambasciatore del duca Johann Friedrich d'Hannover, comunicato, trascritto dall'originale conservato negli archivi di Brunswick, da Thomas Walker.
97. Il viaggiatore Alexandre T. Limojon De Saint-Didier, attento ascoltatore critico, in una stessa pagina di recensione di quel che ha visto e sentito all'opera, nel 1680 (cf. pp. 418-419 del suo grosso reportage veneziano: La Ville et la république de Venise, Paris 1680), riesce a descrivere, sovrapposte, le reazioni di un mezzo pubblico volgarone e insensibile ("le acclamazioni non sono mai contenute [...] questa canaglia dicono tutto ciò che loro aggrada impunemente sicuri di fàr ridere") e di un mezzo pubblico di ipersensibili tanto "influenzati" dalla "messa di voce" delle cantanti da approvare le "voci divine" con dionisiaco trasporto gridando dal loro palco "Mi butto! mi butto!". Il che ci fa credere che il frastuono e il fragore per lo più non provenisse dalle musiche ma dagli accompagnamenti di recezione delle stesse. Con qualche differenziazione fra le reazioni sensibili e quelle insensibili (ovvero le plebee, consentite dai democratici accessi a eventi artistici pubblici di personalità tipicamente distanti per comportamento).
98. La citazione deriva dalla traduzione it. di F. Marenco e A. Meo del Viaggio del Coryat (Milano 1975, pp. 433-435). I corsivi, da me aggiunti, vorrebbero sottolineare l'acuità analitica del viaggiatore e l'estrema attenzione portata ai fenomeni musicali puri.
99. Segnalati in corsivo nella citazione seguente.
100. "Pallade Veneta", p. 173.
101. Vedine evidenziate le mosse nei corsivi. Avviso del maggio 1716, festa per la nascita dell'arciduca Leopoldo, "avviso" di Pietro Carrara riportato nella ediz. della "Pallade Veneta", p. 286 n. 3.
102. Cf. nella ediz. citata della "Pallade Veneta", p. 184 (nella stessa recensione il critico si lancia in apprezzamenti per il tocco "estasiante" della tiorba e le "galante ricercate" sul liuto della signora Francesca, le "articolazioni nella pronuncia" delle altre "Signore").
103. Il primo seme della tromba è monteverdiano-mantovano, gettato 32 anni prima della prima tromba in opera, a Venezia: v. la "Toccata avanti l'opera [...] et si fa un tuono più alto volendo sonar le trombe con le sordine" nella edizione a stampa (Venezia 1609) dell'Orfeo eseguito nel 1607 presso l'Accademia degli Invaghiti (ma committenza ducale). La Zivilisierung, l'uso, e l'applicazione melo-drammatica della tromba nell'opera del Seicento sono stati trattati e censiti da Edward Tarr-Thomas Walker, "Bellici carmi, festivo fragor". Der Verwendung der Trompete in der italienischen Oper des 17. Jahrhunderts, nel terzo volume: Studien zur Barockopern dell'"Hamburger Jahrbuch für Musikwissenschaft ", 1978, pp. 143-203.
104. Prologo.
105. L'asterisco qui e infra = musica perduta, e tromba suggerita però dal libretto. Col titolo dell'opera e la sua data in neretto, si indica, per brevità, soltanto il Teatro della sua "prima" e il cognome del musicista. Nelle note: il romano indica l'atto, l'arabo la scena.
106. III, 3.
107. III, 9.
108. I, 3.
109. I, 9 - II, 16.
110. II, 15.
111. I, 2.
112. I, 1.
113. II, 20.
114. III, 19.
115. I, 4.
116. I, 1.
117. I, 1- III, 15.
118. III, 7.
119. I, 1 - II, 9.
120. I, 1 - I,4 - I, 21 - II, 16 - III, 30.
121. I, 1 - II, 7 - II, 18 - III, 24.
122. I, 2 - I, 9 - II, 19 - III, 23-III, 24.
123. I, 7 - I, 20 - II, 1 - III, 24.
124. I, 1.
125. I, 4.
126. I, 10 - III, 19.
127. III, 14 - III, 17.
128. I,2 - I, 3 - I, 21- I,22 - III, 3 - Finale.
129. I, 1 - I, 17-II,22-III, 1 -III, 15 - III, 17 - Finale.
130. I, 1 - I, 9 - III, 2.
131. I, 5 - I, 12 - II, I - III, 26.
132. I, 7 - I, 21 - III, 8 - III, 12 - III, 18 - III, 19.
133. I, 2 - I, 7 - Finale dell'opera.
134. I, 1 - II, 23.
135. I, 3 - III, 1.
136. I, 1 - I, 2-II, 7-III, 27.
137. I, 12 - III, 16 - III, 17.
138. II, 8 - II, 9 - II, 16 - III, 4 - III, 11 - III, 15.
139. I, 12-III,5.
140. III, 2.
141. I, 1- II, 1.
142. Sinfonia prima dell'opera - I, 1 - II, 1 - II, 4 - III, 2 - III, 13.
143. I, 2 - I, 6.
144. Sinfonia - I, 8 - I, 12 - II, 7 - II, 16 - III, 11.
145. I, 1- II, 17 - II, 18 - III, 1 - III, 26 Fine dell'opera.
146. Tromba: solo in partitura.
147. I, 13-III, 1.
148. I, 1 - I, 3 - III, 7 - III, 20.
149. Sinfonia avanti l'opera - I, 8 - I, 11 - II, 15 Finale II - III, 22 - III, 24 Finale dell'opera.
150. I, 2 - III, 14.
151. I, 2.
152. III, 1.
153. I, 7 - III, 4.
154. III, 17-III, 19.
155. Carta 27 della partitura - carta 32 (cs) - III, 2.
156. I, 2.
157. I, 4.
158. IV, 6 - IV, 7.
159. I, 8 - II, 1 - III, 13.
160. L'Ospedaletto.
161. Il testamento è trascritto e pubblicato da Giuseppe Ellero-Jolando Scarpa, nel catalogo della mostra Arte e Musica all'Ospedaletto, Venezia 1978, p. 199.
162. Si fonda su una realtà particolarmente invisibile, su una "sensibilità" mai attestata descrittivamente in quanto "nuova", questa nuova committenza di una vita musicale che sta mutando di padrone, passando da padroni ormai invisibili, dispersi, periti nel gorgo della loro stessa storia, a un padrone anonimo, innocente ed ignaro di essere padrone d'alcunché in un processo di produzioni artistiche nei cui confronti solo e soltanto "assiste", sia pur con partecipazione "morale". Ci troviamo di fronte alla formazione di un "pubblico" che esiste nella misura in cui sottopone il suo ascolto ai tre ordini di autocoscienza che si possono ritenere già nati e già viventi nel secolo barocco, a Venezia. Quelle tre disposizioni etiche che per comodità ho numerato sopra da 1 a 3, e che sempre per comodità riepilogo abbreviatamente a termine di questa nota: 1) l'autocoscienza dell'ascolto in sé e per sé, ossia critico; 2) l'autocoscienza nell'ascolto come esperienza rappresentativa di mutazioni e invenzioni e creative di irritualità; 3) quella (emblematicamente attribuita al testamento del libraio Coletti) "autocoscienza, nell'ascolto, di simbolizzazioni degli universi privati ovvero ῾psicologici' dell'affetto, della dialettica degli stati d'animo, attingibili fuori o oltre il ῾discorso' parlato o scritto (bene, benissimo, nella musica in quanto ῾discorso che non dice')".
163. Lo scrivente ha consegnato una laboriosa ricerca di identità veneziane di questo fenomeno, rispecchiate, a loro volta, nelle esperienze musicali veneziane di Jean Jacques-Rousseau durante i dieci mesi del suo soggiorno lagunare fra il 1743 e il 1744, in un saggio, non breve, recentemente pubblicato sulla rivista "Musica e Storia", 2, 1994, pp. 17-100: Prima che l'ultimo osso si svegli. Le musiche di Venezia prestate alla querelle antistorica nella Bildung retrospettiva di Rousseau.