La nascita della lingua italiana
Quando parliamo di nascita e di morte di una lingua, ricorriamo a metafore non sempre pertinenti. A rigore, una lingua muore solo quando si spegne l’ultimo dei suoi parlanti: si calcola che si trovino in condizione di rischio circa la metà delle 6000 lingue oggi esistenti nel mondo, quelle parlate da poche centinaia o migliaia di individui, specie in Australia e nelle Americhe. Il fenomeno è talvolta documentabile, grazie al progresso degli studi: l’ultimo parlante del dalmatico, una lingua romanza ancora parzialmente in uso nell’Isola di Veglia in epoca moderna, morì nel 1898; adottando criteri analoghi, possiamo dire che il manx (Isola di Man) si è spento nel 1974, il cupeño (California) nel 1987, l’ubykh (Turchia) nel 1992.
Molto più arduo, o meglio impossibile, dire quando una lingua nasce. In realtà, non abbiamo mai una separazione netta tra una lingua madre e una lingua figlia, come avviene negli organismi biologici, ma solo una lenta trasformazione, il cui punto d’arrivo è percepito, dai parlanti stessi o dagli studiosi moderni, come realtà autonoma e irriducibile rispetto al punto di partenza. Il processo è interamente induttivo per le lingue il cui capostipite è solo ricostruito, come per le lingue indoeuropee; è ben analizzabile, invece, nel caso delle lingue romanze, che discendono da una lingua nota e documentata: il latino.
La continuità tra latino e lingue romanze, e dunque tra latino e italiano, «comporta però qualche immediato problema: in quali secoli e sotto quali spinte si deve supporre siano avvenuti quei profondi mutamenti linguistici che misero capo al volgare?» (L. Petrucci, Il problema delle Origini e i più antichi testi italiani, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni e P. Trifone, 1993-94, III). Perché il volgare nella scrittura compare solo a partire da una certa epoca? Perché affiora solo in certi tipi di testo? L’ultimo quesito è anche quello di più agevole soluzione. La spinta a fissare qualcosa nella scrittura, e quindi a sottrarla all’evanescenza dell’oralità, scaturisce da esigenze pratiche, commerciali o giuridiche; solo più tardi la scrittura diventa il veicolo privilegiato per la letteratura. Come i poemi omerici sono preceduti dalle tavolette in lineare B relative alla contabilità dei palazzi regali, così il più antico documento del francese è un solenne testo giuridico, i Giuramenti di Strasburgo (842), e il più antico documento castigliano è la Nota di un dispensiere di formaggi del 959: in entrambi i casi si tratta di testi che, pur nella loro diversissima dignità storica, nascono da analoghe necessità della vita pratica, politica o quotidiana, non da libera creazione artistica.
Per la motivazione a scrivere nelle nuove lingue non ha altrettanta efficacia la spinta religiosa, che pure è in assoluto quella più potente per favorire l’uso orale, anche pubblico, del volgare: non a caso una precocissima testimonianza di contrapposizione tra latino e lingue moderne si ha in una delibera del Concilio di Tours dell’813, in cui si invitavano i predicatori a usare la rustica romana lingua o la thiotisca, perché tutti potessero comprendere («quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur»).
Naturalmente, tra latino e volgare si possono riconoscere nella scrittura varietà intermedie. F. Sabatini ha richiamato la caratteristica differenza, nei documenti scritti in latino notarile, tra le parti formulari, più o meno conformi alle norme del latino classico, e le parti libere, ossia il dispositivo variabile da testo a testo, in cui, come osserva G. Folena richiamandone gli assunti, «non solo il lessico formicola di volgarismi, ma anche morfologia e sintassi rivestono caratteri particolari, e i nomi son rappresentati, come di solito nelle liste, in caso retto oppure in caso non marcato oppure zero» (G. Folena, Textus testis, 2002).
Per l’italiano il testo che tradizionalmente viene considerato il primo documento scritto in volgare è rappresentato dalle formule testimoniali note come Placiti di Capua (960-963), relative alla proprietà di alcune terre rivendicate dall’abbazia di Montecassino, che tramite l’abate Aligerno fa valere a proprio favore, vincendo la causa, il principio dell’usucapione. Il più antico è del marzo 960 e recita: «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti»; cioè «So che quelle terre entro quei confini che qui (nel promemoria che reca i dati della vertenza, tenuto in mano dai testimoni) sono contenuti, le ha possedute per trent’anni la parte (la persona giuridica) di San Benedetto».
Anteriori ai Placiti sono altri documenti: il cd. Indovinello veronese (tra 8° e 9° sec.), una «prova di penna» vergata su un codice liturgico e avente per tema l’attività di scrittura; un graffito nella catacomba romana di Commodilla (prima metà del 9° sec.), in cui si ammonisce il celebrante a non recitare ad alta voce la «segreta» della messa; un Glossario scritto in un codice della Biblioteca capitolare di Monza (inizi del 10° sec.), comprendente lemmi parte in latino parte in un volgare italiano settentrionale, accompagnati da traducenti in greco bizantino.
Ma, anche prescindendo dal fatto che il carattere volgare dell’indovinello è assai discusso e che la sezione italoromanza del Glossario di Monza è fortemente condizionata dal latino, i Placiti mantengono un loro primato indiscutibile. Le formule volgari sono inserite in un contesto latino, con chiara percezione dell’alterità tra le due lingue, e rispondono alla precisa volontà di dare una sorta di pubblicità alla deposizione, forse anche tenendo conto di una vera e propria offensiva laica contro i monaci di Montecassino ricostruibile per quegli anni. Il volgare ha insomma lo scopo di far spiccare la veridicità e l’individualità di quelle testimonianze, isolandole dal latino notarile dell’atto.
Il 10° sec. può in effetti essere considerato il secolo, non già della nascita (evento storicamente non accertabile), ma dell’avvenuta percezione di un volgare italoromanzo come idioma autonomo: se è vano andare alla ricerca di un «certificato di nascita», è possibile − per restare all’interno della metafora anagrafica − indicare un certificato di esistenza in vita. I fondamenti di questa affermazione sono di vario tipo, diretti e indiretti.
Tra quelli diretti, si deve menzionare il fatto che le più antiche testimonianze (quelle già citate, e altre immediatamente successive: Privilegio logudorese, intorno al 1080-85; Postilla amiatina, 1087; Iscrizione di Casale Monferrato, prima del 1106) danno conto dell’emersione del volgarein aree diverse, senza rapporti reciproci: segno di un avvenuto e generalizzato distacco, nella coscienza degli scriventi, tra l’abituale latino e il volgare già da tempo adoperato nella comunicazione orale. Specificamente al 10° sec. rinviano le più antiche testimonianze di un fenomeno fonetico che è l’ultimo a compiersi nel passaggio latino-volgare toscano (poi italiano senza aggettivi): il passaggio dei nessi di consonante + l a consonante + i semiconsonantica (plus › più, clamare › chiamare, florem › fiore ecc.); la più antica testimonianza del fenomeno è stata rintracciata in una carta lucchese (in latino) del 999: Vallechio, cioè Vallecchio ‹ *valliculum (A. Castellani, Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza, 1980).
Altri indizi, noti da tempo, sono indiretti e consistono in testimonianze coeve sull’esistenza di un volgare (italo)-romanzo distinto dal latino o da altre lingue moderne. Nel 965 il grammatico Gunzo (Gonzone) di Novara scrive una lettera ai monaci di Reichenau, prendendo spunto da un errore di latino che gli era stato rinfacciato, e si giustifica richiamando l’«usus nostrae vulgaris linguae quae latinitati vicina est»; il cronista sassone Widukindo (Vitichindo) di Corvey menziona la perizia dell’imperatore Ottone I nel parlare in lingua romana; nell’epitaffio di papa Gregorio V, morto nel 999 a soli ventisei anni, se ne celebra la capacità di predicare, oltre che in latino, nel proprio dialetto germanico e in «vulgari [...] voce», cioè nel volgare romanzo parlato a Roma.
La «nascita» dell’italiano dal latino non ha implicato la sostituzione di un codice linguistico con un altro: ha comportato solo il venir meno di quel tipo di latino sopravvissuto nell’Alto Medioevo come lingua primaria, appresa dalla madre o dalla balia. Com’è noto, il latino resta a lungo la lingua della scrittura e in generale della cultura, anche come mediatore dei grecismi, in diversi ambiti (più a lungo, come lingua liturgica della Chiesa cattolica; ma assai radicato − ed esclusivo fino al 18° sec. − è il suo uso come lingua dell’istruzione universitaria); in latino scrivono la maggior parte delle loro opere diversi autori della letteratura italiana fino al Cinquecento (l’esempio più clamoroso è quello del Petrarca). Le lingue romanze, infine, hanno attinto dal latino una parte decisiva del proprio lessico: in italiano sono «latinismi», ossia parole mediate dal latino, non trasmesse per via ereditaria, di generazione in generazione, vocaboli correnti come cibo, modo, numero, pensare (le rispettive forme «popolari» sarebbero, o sono, *cevo, *muodo, novero, pesare). In spagnolo e soprattutto in francese il latino ha condizionato le rispettive ortografie: si pensi solo al mantenimento dell’h per puro omaggio etimologico in franc. histoire, spagn. historia (rispetto all’ital. storia) o hiver (rispetto a spagn. invierno, ital. inverno).