La periodizzazione della Grecia antica. Il periodo classico
In qualsivoglia civiltà artistica si osservano fenomeni che riconoscono come emblematici i fatti iconografici e formali che aderiscono a un gusto che è proprio di un periodo trascorso il quale viene, in un certo momento, considerato di tale perfezione da essere preso a paragone e a modello assoluto. Per quanto concerne il mondo antico per classico si intende il periodo compreso tra il 480 (battaglia di Salamina) e il 323 a.C. (morte di Alessandro Magno). Il termine “classico” è usato già da autori antichi (Gell., XIX, VIII, 15: ... classicus adsiduusque aliquis scriptor, non proletarius); è derivato da classis (cioè appartenente alla prima classe dei cittadini). Vale per gli autori considerati eccellenti e degni per questo di essere studiati nelle scuole. Dalla letteratura il termine si estese anche all’arte figurativa. Nell’arte egiziana, come nell’arte cinese, le grandi epoche iniziali, creatrici del gusto che rimarrà tipico ed esemplare per le rispettive civiltà, vengono prese a modello, imitate, talora seguite nelle opere e nei modi formali per lungo arco di tempo. Anche in questi casi si potrebbe dunque parlare di classico e di classicismo.
Quando si parla, nell’ambito dell’arte dell’antichità, di classico, si intende un fenomeno particolare, circoscritto nel tempo ed esattamente definibile (così come è circoscritto e definibile lo stesso termine di classicismo: quando lo si usa nell’ambito della civiltà artistica moderna dove significa il complesso di concetti e di norme desunti dagli antichi Greci e Romani e applicati sia alla composizione sia al giudizio nelle opere d’arte). Il concetto di classico non può essere separato, dunque, da quello di classicistico. Il periodo, che più specificamente può dirsi classicistico, inizia nel mondo antico alla metà del II sec. a.C., con centro specialmente ad Atene. Il fenomeno investe sia direttamente la produzione artistica, sia tutto l’atteggiamento culturale e critico attorno alle arti figurative. È opportuno indicare inoltre le conseguenze che l’atteggiamento culturale classicistico ha provocato nel modo di intendere l’arte antica. La posizione classicistica di quasi tutte le fonti letterarie antiche, che ne determina il particolare conservatorismo, si riflette direttamente nell’espressione di Plinio (Nat. hist., XXXIV, 52) secondo la quale: “dopo l’Olimpiade 121 (296-293 a.C.) l’arte cessò e nuovamente rivisse nell’Olimpiade 156 (156-153 a.C.)”.
La morte dell’arte viene fatta dunque coincidere con l’affermarsi della corrente ellenistica più originale, più sciolta da vincoli tradizionali (nella quale si affermano il realismo impressionistico, la libertà spaziale più razionalmente costruita e pienamente realizzata che mai sia raggiunta in una civiltà artistica, prima del Rinascimento italiano). In conseguenza di questo particolare punto di vista, le fonti letterarie antiche tacciono quasi interamente delle opere del periodo tra gli inizi del III e la metà del II sec. a.C., mentre parlano diffusamente sia di quelle di età arcaica, le quali preparano l’età classica del V e del IV sec. a.C., sia di quelle della corrente classicistica, che si ispiravano ai grandi modelli. Ciò ha direttamente influito sul nostro giudizio. In quella impostazione critica della cultura letteraria del tardo Ellenismo non è da vedersi soltanto un fenomeno di gusto e di moda, ma l’espressione culturale dei sentimenti di rimpianto della Grecia continentale, specialmente di Atene, verso un’epoca che era stata di libertà, di floridezza economica e di grandezza artistica.
Poiché questo parziale punto di vista delle fonti letterarie antiche coincise con la teoria e con il gusto estetico del Neoclassicismo europeo della fine del XVIII secolo (e da J.J. Winckelmann fu assunto come criterio di interpretazione storica dell’arte greca) l’impostazione classicistica delle fonti antiche si introdusse e si affermò anche nella moderna cultura europea e determinò, in modo esclusivo sino alla fine del XIX secolo, la valutazione delle opere di arte greca e romana e lo schema di svolgimento (inizi, fiorire e decadenza) della civiltà artistica antica. Solo una più storicistica considerazione dei fatti dell’arte antica ha potuto, e non senza fatica, superare tale tradizionale impostazione e aprire la cultura moderna a una più adeguata comprensione e valutazione critica dell’antico. Queste definizioni, di R. Bianchi Bandinelli, servono dunque a definire l’essenza del termine classico.
Il periodo classico è peraltro preceduto, secondo le fonti antiche, da quello cosiddetto “severo”, che ne prepara la fioritura. Viene infatti così designato lo stile di una generazione di artisti operanti in Grecia tra il 480 e il 450 a.C. È chiamato anche “stile di transizione” poiché si porrebbe come intermedio fra l’Arcaismo maturo e lo sbocciare della piena classicità. Il termine deriva da una libera interpretazione degli aggettivi con i quali venivano definiti dalle fonti gli artisti di quest’epoca (in Cicerone, Plinio, Quintiliano, Luciano: durus, rigidus, austerus) e viene impiegato dagli studiosi dell’inizio dell’Ottocento (generalmente tedeschi e poi adottato durante tutto quel secolo), per classificare la ceramica. È stato esteso solo da circa un sessantennio al complesso di tutte le manifestazioni artistiche coeve; Winckelmann peraltro già impiegava l’aggettivo “severo” (streng) a proposito della scultura prefidiaca.
Il periodo compreso tra la battaglia di Salamina (480 a.C.) e la morte di Alessandro (323 a.C.) rappresenta il momento più alto della civiltà antica. Durante cinque generazioni furono raggiunte e teorizzate esperienze che sono alla base della civiltà moderna. Il merito maggiore fu di Atene: soprattutto tra il 480 e il 432/1 a.C. La città, uscita vittoriosa da Maratona e un decennio dopo da Salamina e Platea, ebbe piena consapevolezza della propria grandezza; divenne punto di riferimento per tutti coloro i quali, in seguito alla pressione persiana, avevano dovuto abbandonare le proprie terre (fenomeno già caratteristico nella seconda metà del VI sec. a.C., sempre più intenso). Atene mostra enorme capacità di assimilazione: i nuovi inurbati non sono mal tollerati o isolati, la cultura attica è ricettiva di nuove esigenze, disposta a farle proprie e a riproporle all’intera cittadinanza. Proprio perché giungono tante sollecitazioni dalla Ionia e dalle isole, altri isolani e peloponnesiaci sono costretti a mettere a confronto le proprie possibilità come può essere dimostrato dalle dediche e dagli etnici e dei dedicanti e degli artisti già prima del 480 a.C. Atene esce dalla seconda invasione persiana profondamente provata per quanto concerne gli edifici: nulla o quasi rimaneva di quelli costruiti prima del 480 a.C. Dopo la distruzione del 480, al momento della ricostruzione, i motivi tradizionali ebbero il sopravvento e il tessuto urbano riprese quell’aspetto disordinato che sarà caratteristico in tutta la vita della città. Tucidide (1, 89) conferma la casualità della ricostruzione. Ma la cittadinanza è salva, la flotta intatta. L’orgoglio porta gli Ateniesi a moltiplicare le possibilità di innumerevoli categorie artigiane: la produzione dei beni è moltiplicata. Non si tratta di beni di consumo costosi, ma di prodotti di facile acquisto, indispensabili, che potevano circolare in tutto il Mediterraneo. È singolare notare che le esportazioni di ceramiche non subiscono stasi, quasi che gli avvenimenti non avessero avuto riflesso sulle fabbriche che pure, forzatamente, furono abbandonate, seppure per un arco di tempo limitato (Tab. 2).
Atene si giova di una capacità di amministrazione finanziaria lungimirante. Lo sfruttamento delle miniere di argento le permette di coniare monete, le “civette”, dal simbolo che su di esse compare, che hanno circolazione costante e diffusa. Prodotte in metallo ben sperimentato, servono ai commerci di beni di livello medio, indispensabili e bene accolte ovunque; ben presto, protetta dallo Stato con ogni possibile facilitazione, la moneta ateniese egemonizza ogni traffico. La moneta d’oro viene lentamente tesaurizzata dalle città e dalle leghe; servirà ancora per gli indispensabili traffici con le popolazioni del Mar Nero, abituate da tempo a scambiare con quel metallo. Dopo appena una generazione, collaudato il potere della propria economia, gli Ateniesi inizieranno alcune operazioni geniali a sostegno della propria finanza. In un primo momento riassorbendo la circolazione del bronzo, che viene fuso nel donario di Maratona a Delfi e soprattutto nella enorme Promachos sul-l’Acropoli. In un secondo momento immobilizzando l’oro di tutta la lega nella Parthenos; operazione quest’ultima che obbliga gran parte delle città della Grecia a costruire, per riflesso, colossi d’oro e di avorio e che facilita ancora la circolazione dell’argento ateniese. Il momento più difficile di questa politica è compreso tra il 480 e il 450 a.C. Si trattava di impostare una linea politica che contrastasse più antichi privilegi. Sono predilette le classi medie: forse, anche per non rinnovare i vantaggi delle classi più abbienti, è fatto divieto di costruire i luoghi sacri distrutti dai Persiani. L’opposizione a questo programma dovette essere fortissima. Le antiche classi sociali cercano di prevalere, ma un’abile politica di equilibrio e soprattutto lo slancio e la fantasia di una nuova classe di imprenditori, impedisce che gli antichi privilegi siano ristabiliti.
Atene fa in questo trentennio una vera e propria opera di imperialismo, non solo commerciale. Tutte le Cicladi, tutte le città del Mar di Tracia, divengono parte di un impero. Quando la città è sicura della propria politica, decide di trasferire sull’Acropoli il tesoro della lega. Se la spedizione in Egitto e il suo fallimento mostrano i limiti dell’espansione della democrazia al di fuori della Grecia propria, la potenza di Atene, che ormai si identifica con Pericle, è ora in grado di proporre una nuova politica anche per quanto concerne gli edifici sacri della città e dell’Attica. A testimoniare l’importanza della città, di seguito, alcune proposte per quanto concerne la sua popolazione (Tabb. 3 e 4).
Si è proposto che le case di Atene in età classica fossero (per difetto) almeno 6000. Per quanto concerne l’edilizia disponiamo di documenti particolarmente preziosi. Un decreto, votato dagli alleati a Platea, volle che nessuno dei luoghi sacri distrutti dai Persiani fosse ricostruito; che essi rimanessero nello stato in cui erano stati ridotti a ricordo dell’empietà dei barbari. Anche se il decreto non fu in realtà mai emanato (si tratta di un’invenzione del IV sec. a.C.), Atene fu assorbita nel periodo compreso tra il 480 e il 450 a.C. a ristabilire la propria potenza amministrativa e commerciale, i propri opifici; solo in un secondo momento poté affrontare il problema della ricostruzione dei santuari. Questo avvenne dopo la cosiddetta “pace di Kallias” del 449 a.C.; immediatamente dopo la metà del secolo è revocato l’antico divieto per la ricostruzione dei luoghi sacri. Si progettano edifici per l’Acropoli e per i santuari della città e dell’Attica che sostituiscono quelli più antichi. Questo non significa fare, solo, opera di incremento edilizio, ma anche sostituire a quelli più antichi culti più moderni. Le divinità tradizionali si vanno radicalmente rarefacendo: gli dei si umanizzano e assumono, a volte, il carattere di vere e proprie personificazioni.
Chi esamini un elenco degli edifici costruiti in Atene e in Attica tra il 480 e il 430 a.C. rimane sorpreso del loro numero e della loro importanza. Se però si isolano quelli compresi tra il 450 e il 430 a.C. si resta sbalorditi non solo per l’imponenza e il numero, ma per la qualità della realizzazione. Le maestranze che, tra il 480 e il 450 a.C., avevano acquisito nuove e più approfondite tecnologie, tra il 450 e il 430 a.C. lavorano per squadre sottomettendosi a piani precisi e organici così da articolarsi con un modo di produzione non solo impeccabile per quanto concerne i risultati, ma estremamente rapido, sostanzialmente meno costoso. Gli edifici imponenti vengono elevati a tempo di primato: il Partenone è ultimato in dieci anni, gli altri templi, in media, in quattro anni. Il lavoro di gruppo arriva a fondere esigenze comuni, a creare uno stile di vita nuovo, un linguaggio nel quale tutti si riconoscevano. Il fenomeno dell’uso di maestranze che lavorassero a squadre è particolarmente evidente per quanto concerne i lavori del Partenone. I conti dimostrano sia che esso fu iniziato nel 447 a.C., evidentemente dopo un decreto che prevedeva un progetto definito, sia che la costruzione della partitura architettonica continuò sino al 438 a.C. (quando fu inaugurata la statua crisoelefantina di Fidia, evidentemente in un edificio coperto). I conti dimostrano inoltre che da quell’anno le squadre degli artigiani furono utilizzate per la costruzione dei Propilei. Ma i lavori al Partenone non si arrestarono: i rendiconti testimoniano che squadre di scultori furono attivi per completare la decorazione, probabilmente dei frontoni, sino al 432 a.C. L’edificio fu costruito dall’esterno verso l’interno: prima fu completato il colonnato, poi la cella, quindi l’interno di essa.
Decine di muratori, divisi in squadre a seconda delle specializzazioni, operarono con una velocità quasi incredibile e riuscirono in un decennio a completare il lavoro. Insieme a queste agirono ben presto anche le squadre più specializzate degli scultori, dei pittori, dei falegnami, dei doratori, dei pittori. Il Partenone divenne il banco di prova di ogni capacità artigiana di Atene. Tanto fervore di lavoro richiedeva un piano ben definito, un esecutivo preciso nei minimi dettagli, affinché il lavoro non subisse interruzioni e soprattutto non fosse sottoposto a critiche da parte delle correnti più tradizionali della cultura ateniese (che certo non avranno visto di buon occhio la costruzione non solo di un immenso e costosissimo edificio, ma soprattutto la proposta di un nuovo culto di Atena: culto che era destinato a imporsi su tutti gli altri di Atene). Il lavoro di gruppo arriva a fondere esigenze comuni, a creare uno stile di vita nuovo, un linguaggio nel quale tutti si riconoscevano. È Pericle a volere tutto questo, come afferma Plutarco (Per., 12-13): “...A questo scopo portò e propose all’assemblea piani grandiosi di costruzioni e disegni d’opere, la cui esecuzione richiedeva molto tempo e l’intervento di molte categorie d’artigiani; in tal modo anche i cittadini rimasti a casa avevano una giustificazione per partecipare al godimento degli utili pubblici, non meno degli equipaggi, delle guarnigioni e degli eserciti. Furono usati come materiali il bronzo, l’avorio, l’oro, l’ebano, il cipresso; furono impiegate le arti che li trattavano e lavoravano, cioè falegnami, scultori, fabbri, scalpellini, tintori, modellatori d’oro e d’avorio, pittori, arazzieri, intagliatori, per non dire di coloro che importarono e trasportarono tutte queste merci: armatori, marinai e piloti di mare, carradori, allevatori, conducenti, cordai, tessitori, cuoiai, terrazzieri e minatori. Ogni categoria aveva poi schierata sotto di sé, come un generale il proprio corpo d’armata, una folla particolare di manovali, che erano le membra di cui si serviva per disimpegnare la sua mansione. Gli edifici salivano superbi di mole, impareggiabili in grazia di linee, poiché gli artigiani andavano a gara per superarsi l’un l’altro nella perfezione del lavoro. Ma specialmente era sbalorditiva la celerità con cui progredivano. Si pensava che ciascuno avrebbe richiesto il lavoro di molte generazioni di seguito per essere condotto a termine, e poi ancora; invece furono completati tutti allo sbocciare di un solo governo. Perciò stupiscono ancor più le opere di Pericle, create in breve e durate lungo spazio di tempo...”.
Non bisogna credere che il tutto sia stato risolto senza opposizioni; il tradizionalismo di educazione ionica non scomparve. Lo dimostrano le dispute per l’occupazione del bastione di Atena Nike; i culti più antichi vengono riproposti con accanimento. Episodi come il processo e la prigionia di Fidia sono emblematici di difficoltà mai sopite. Per realizzare un programma così vasto, era indispensabile l’equilibrio che Pericle ottenne con un prodigioso senso della misura sino al 432/1 a.C. Lo scoppio della guerra del Peloponneso, le epidemie che decimarono Atene, il risorgere di antichi benefici, la fallimentare spedizione in Sicilia obbligano la cultura ateniese ad affievolire nell’arco di una generazione quella coralità di iniziative che era stata dell’età di Pericle. Manifestazioni più isolate, spesso di altissimo pregio, non hanno l’organicità di quelle realizzate nel periodo precedente. Se per Atene è possibile fare quest’opera di ricostruzione, per la ricchezza degli avanzi monumentali, dei testi epigrafici e letterari, più complesso il tentativo di comprendere quanto avviene in altri ambienti culturali. La Beozia ed Egina vengono assorbite nella cultura ateniese sin dalla metà del V secolo (Tab. 5).
Nel Peloponneso si articolano, in contrapposizione a quanto accade ad Atene, forme culturali autonome e definite. Un’antica aristocrazia mantiene, nel Peloponneso, i propri vantaggi. Le scuole artistiche peloponnesiache, soprattutto quella argiva, esaltano non la coralità delle azioni umane in rapporto al divenire della storia o le divinità preposte alle azioni degli uomini, come ad Atene, ma le singole imprese di chi apparteneva a particolari classi sociali. La cultura peloponnesiaca trova il proprio interprete in Policleto: egli esalta soprattutto la presenza terrena dell’uomo, il suo individualismo, la sua educazione (secondo un’etica che in Pindaro aveva trovato l’interprete magistrale). La popolazione di Sparta in età classica è riassunta in questa sede in una tabella (Tab. 6).
La guerra del Peloponneso determina il crollo di molte contrapposizioni. La cultura peloponnesiaca assimila spunti attici negli edifici e nelle opere di alcune personalità maggiori; la cultura attica assimila spunti peloponnesiaci. Alla fine del V sec. a.C. alcuni interpreti dello stile attico saranno peloponnesiaci, così come i realizzatori di grandi cicli decorativi per gli edifici peloponnesiaci saranno ateniesi: almeno quanto a formazione. Ma se la planimetria di Atene, di Tebe, di Sparta rimane sostanzialmente tradizionale, l’età classica è quella che propone fondamentali canoni per quanto concerne l’urbanistica. Nel secondo venticinquennio del V sec. a.C. compaiono nel mondo greco, anche continentale, alcune città caratterizzate da una pianta a schema ortogonale (con strade che si intersecano ad angolo retto). Caratterizza l’impianto di questi centri una razionale sistemazione della struttura cittadina, diversificata nelle funzioni (a ognuna delle quali corrisponde un’area ben definita). Per le nuove città sono previste le necessità relative ai singoli quartieri, non solo per il momento in cui essi vengono costruiti, ma anche quelle future, di sviluppo demografico (a volte trascorrono secoli prima di arrivare a una saturazione dei quartieri che, in qualche caso, non vennero mai occupati).
È ovvio che questi motivi possono manifestarsi e svilupparsi solo in città di nuova fondazione. Il carattere stesso degli impianti cittadini prevede una mente organizzatrice dei lavori: si tratta di motivi che non possono nascere spontaneamente, ma dalla codificazione di norme urbanistiche a lungo sperimentate nelle città democratiche. La teorizzazione e applicazione di norme, così diverse dai singoli provvedimenti del periodo tirannico, significa la riduzione a scala democratica delle esigenze della vita cittadina. L’adozione di motivi, apparentemente così semplici, può avvenire solo quando l’autorità tradizionale si fonde con la libertà e la responsabilità dei singoli cittadini (ognuno dei quali condiziona la propria esistenza in funzione di una convivenza). Gli elementi dell’urbanistica regolare in età classica si manifestano la prima volta nelle città dell’Asia Minore proprio perché il mondo ionico viveva nella consuetudine al rispetto del potere centrale. Non a caso la prima città che presenta l’adozione di una pianta ordinata è la metropoli della Ionia, Mileto, dopo la distruzione del 494 a.C. A un cittadino di Mileto, Ippodamo, le fonti antiche attribuiscono l’invenzione dei caratteri delle città ordinate (descrivendo la figura di lui quasi fosse mitica, esaltando le sue qualità di urbanista e di sociologo). La figura di Ippodamo di Mileto dovette certamente essere di notevolissima importanza nel mondo greco, se egli è indicato, direttamente o indirettamente, come autore del piano di Mileto, di quello del Pireo, della colonia panellenica di Thurii, di quello di Rodi. La politica urbanistica di Ippodamo porta alla teorizzazione, alla formulazione di regole precise relative alle città espresse dai due massimi teorici del IV sec. a.C.: Platone e Aristotele.
Platone s’interessa del problema delle Leggi, egli vuole esprimere le esigenze e i desideri di una nuova aristocrazia che prende a modello gli ordinamenti spartani (lo stesso numero dei cittadini che egli propone per le città, 5040, altro non è che il risultato di un calcolo teorico basato su canoni pitagorici: 1 x 2 x 3 x 4 x 5 x 6 x 7). La sua posizione è di grande importanza come espressione di un presunto ideale aristocratico di larghi settori della classe dirigente di Atene e del Peloponneso. Per quanto riguarda una corrispondenza nella realtà delle norme da lui ipotizzate, non si hanno città che mostrino un’adesione completa a quei canoni (alcune di nuova fondazione, forse Megalopolis, possono però avere assimilato singoli elementi da lui suggeriti).
Ancora, Platone ribadisce l’aspetto tradizionalistico della città antica, basata sul rapporto tra agglomerato urbano e contado agricolo. Nel brano che segue (Leg., VI, 778, b-d) la teorizzazione giunge a definire lo schema di una città ideale: “(...) Trattandosi di una nuova colonia, disabitata in precedenza, bisogna prima di tutto sistemarne la parte, per così dire, architettonica in generale, dire cioè come saranno fabbricati e disposti i templi e le mura della capitale. Bisogna disporre tutti i templi intorno alla piazza del mercato e tutto il resto delle abitazioni private in centri concentrici sulle alture per ragioni igieniche e di sicurezza. Vicino ai templi la sede delle magistrature e dei tribunali: i luoghi in cui si rende giustizia ai cittadini sono infatti da ritenere sacri (...) soprattutto quei tribunali in cui si giudicheranno gli omicidi e gli altri delitti che si puniscono con la morte. Quanto alle mura sarei dello stesso parere di Sparta: lasciarle giacere in terra e non drizzarle mai. Le mura non di terra devono essere, ma petti di uomo armati di ferro e di bronzo”.
All’ideale di Platone si oppone Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi e nella Politica. Le sue osservazioni sono tra le più acute che il pensiero antico abbia tramandato riguardo all’organizzazione delle città. Sia pure entro i limiti del pensiero classico (per quanto riguarda le aree delle città stato e il numero degli abitanti), Aristotele riassume e articola tutta l’esperienza precedente. La Costituzione degli Ateniesi (50) contiene un passo nel quale sono indicazioni relative alla sistemazione di Atene: “A sorte si eleggono (...) 10 edili. Di questi, 5 funzionano nel Pireo, 5 in città. E curano che i collettori di immondizie non gettino entro il perimetro di 10 stadi intorno alle mura, né che le vie vengano soffocate dalle costruzioni, né che si protendano sulle vie i balconi, né che si facciano pendere dei canali aventi l’imboccatura sulla via, né che le finestre s’aprano dalla parte della strada. Rimuovono i cadaveri dalle vie per mezzo dei servizi pubblici (...)”.
Ma al di là di queste osservazioni, empiriche, il filosofo ci offre nella Politica un’immagine quanto mai efficace di una città quale egli riteneva opportuna e soprattutto della base etica di questa città. L’importanza di questi passi (ad. es., VII, 1325 b ss.), che non possono essere trascritti per questioni di spazio e ai quali si rimanda, è eccezionale. Anche Aristotele però è legato al passato, egli riesce a vedere le conseguenze della propria teoria politica se considera impossibile sia uno stato di 10 abitanti sia uno stato di 10.000 (Eth. Nicom., IX, 1170 b); durante l’Ellenismo la popolazione cittadina spesso supererà questa cifra (e soprattutto verrà a cessare l’equilibrio tra città e contado). Ma la vitalità del pensiero aristotelico e delle norme democratiche può essere documentata: sia pure attraverso un enorme ampliamento territoriale e demografico le norme stabilite dal filosofo rimangono valide sin quando, in età romana e attraverso nuovi ordinamenti giuridici, si cercherà di ovviare, senza peraltro riuscire completamente, al particolarismo delle singole città.
Tra la fine del V e durante tutta la prima metà del IV sec. a.C. la cultura greca continentale visse nel ricordo di quanto avvenuto nel secolo precedente. Nel Peloponneso continua la tradizione policletea, ma insieme si assimilano sempre nuovi spunti attici; in Attica la situazione è più complessa. Non si realizzano più cantieri nella dimensione del passato, ma con singole creazioni si ottiene un’articolazione così complessa dei tanti spunti del mondo del V sec. a.C. da rimanere stupiti per la quantità di nuove proposte. Durante il IV sec. a.C. Atene dovette soprattutto modificare le proprie condizioni finanziarie. Circoli ristretti dovettero raggiungere un livello di vita notevole, ma la grande massa della popolazione subì un tracollo economico che costringerà molti all’emigrazione. Il ritorno alla rendita fondiaria come sanatoria di ogni male, l’opposizione ai traffici marittimi, sono predicati da fonti autorevoli (Platone). La vita culturale non coinvolge più l’intera popolazione: i temi letterari si fanno più sottili, studi di carattere condotti con uno psicologismo attento e invadente. L’oratoria, la capacità dialettica, riconducono a uso privato il discorso politico. E il discorso, per essere di pochi, si fa più complesso, spesso si articola in cifra. Ma la cultura, soprattutto attica, del IV sec. a.C. crea una serie così ricca di spunti da proporsi alla cultura europea, soprattutto del XIX secolo, come il punto di riferimento più alto e costante. Riconducendo il discorso a fatti più propriamente formali: personalità come quella di Prassitele personificano la necessità per gli artisti di una meditata produzione individuale e propongono modi che si ritroveranno, analoghi, nella moderna creatività europea.
Alcuni protagonisti del IV sec. a.C. avranno un modo di fare cultura che non subirà mutamenti, quanto a interpretazione, sino ai giorni nostri. Una cultura isolata, che trova il proprio essere nel privilegio di una classe, nell’otium cum dignitate che è proprio di tanta parte della cultura occidentale. Aver reso possibile un’interpretazione speculativa degli avvenimenti, un’interpretazione distaccata dal particolare o dal contingente, è fatto che si deve, in gran parte, alla cultura ateniese del IV sec. a.C. Accanto a questa elaborazione tutta particolare che giungerà a livelli elevatissimi di immediatezza e di obiettività descrittiva, il modo corale di più antica tradizione attica viene ripreso in altri ambienti.
Il IV sec. a.C. è infatti uno dei momenti della storia della Grecia più difficilmente comprensibili. Uno studio di questo periodo è impossibile se condotto entro termini unitari (i quali cioè vogliano considerare come un insieme tutti i territori che partecipano alla cultura greca). Se infatti la Grecia continentale mostra una notevole ripresa di motivi tradizionali e al più cerca di superare, mediante il fenomeno delle leghe, principi particolaristici della civiltà democratica (e per quanto riguarda le città, i provvedimenti per quelle di più antica fondazione si limitano alle iniziative individuali, benché una bella casa sia ancora considerata uno scandalo), ben diversa è la situazione in regioni sino da allora considerate eccentriche, come la Macedonia e l’Asia Minore, dove si vanno definendo motivi urbanistici e architettonici che trionferanno in età successive. Il fermento urbanistico e architettonico delle città asiatiche è, in questo momento, molto notevole e porta alla creazione di nuovi spunti. Le città sono caratterizzate dalla fusione tra schemi ortogonali ippodamei e quelli più tipicamente scenografici, come Alicarnasso. Autore del progetto urbanistico di Alicarnasso deve essere Pytheos, ricordato soprattutto come il progettista del tempio di Atena a Priene (dopo un’importante serie di esperienze).
Vitruvio (II, VIII, II) afferma a proposito di Mausolo: “Ma la sua acuta intelligenza nel fabbricare può desumersi dal fatto che, pur essendo nato a Mylasa, pose la sua sede ad Alicarnasso, città che egli capiva forte di natura e adatta per il porto e per il commercio. La città è disposta come sulla cavea di un teatro; in basso è l’agorà lungo il porto; a metà della curvatura a mo’ di precinzione è una larga piazza, in mezzo alla quale fece costruire il mausoleo di sì nobile struttura e ornamenti, che fu annoverato tra le sette meraviglie. In mezzo all’arce, in alto, c’è il tempio di Ares con un acrolito colossale opera egregia di Leochares, secondo altri di Timotheos. Sempre in alto, a destra, il tempio di Afrodite e Ares presso la fonte Salmacide. Ma poiché mi son lasciato trasportare a parlare di quelle mura, ne terminerò la descrizione completa. Infatti, mentre a destra c’è il tempio di Afrodite e la fonte di cui ho parlato, all’estremità sinistra è la reggia che Mausolo fece costruire lì secondo un suo progetto. Da essa si vede infatti a destra l’agorà e il porto e tutto il circuito delle mura, a sinistra si scorge un porto, appartato dal resto e coperto dalle mura, tal che nessuno può vedervi e conoscere quel che vi si faccia, mentre il re personalmente dal suo palazzo, all’insaputa di tutti, può comandare ciò che occorra ai marinai e ai soldati...”. Probabilmente il piano, organico, della città risale al 367 a.C., opera proprio di Pytheos.
L’occasione, per quanto concerne la realizzazione pratica dei canoni teorici di Pytheos (ben diversi da quelli classici), è la realizzazione di un immenso cantiere: il Mausoleo. Il Mausoleo trova precedenti nelle tante costruzioni, soprattutto funerarie, che si erano articolate in Licia, nelle quali, già nel V sec. a.C., erano stati affrontati problemi assolutamente nuovi. Nel Mausoleo questi modi sono riproposti con una monumentalità e un impegno eccezionale: le difficoltà che si incontrano nella comprensione dell’edificio sono dovute sia al suo stato di conservazione sia a una constatazione: probabilmente esso fu costruito adattando e rinnovando i modi caratteristici delle costruzioni attiche del V sec. a.C. Un unico architetto, Pytheos, dové curare i modi dell’architettura; un unico scultore quelli della scultura. Così come un Pytheos esalta l’ordine ionico, il maestro scultore esalta l’importanza dei fregi di più antica tradizione ionica.
Per quanto concerne la scultura nella Grecia continentale si nota una divaricazione tra quella ateniese più coloristica e quella peloponnesiaca, più plastica (soprattutto allo scorcio del V e all’inizio del IV secolo). Nell’ambito della stessa scultura nasce e si articola il ritratto fisionomico individualizzato che sarà di tutta la cultura antica e poi di quella europea. Ma ad Atene, come in tutta la Grecia continentale, iconografie isolate dell’arte del V sec. a.C. sono ricomposte in rilievi, o in una folla di statue tra loro complementari. I protagonisti annullano la propria individualità in scene sempre più complesse che hanno, nei fregi, un ritmo talvolta concitato. Il risultato è così sorprendente da essere riproposto in una categoria convenzionale: quella delle stele funerarie.
Nella Grecia settentrionale (in Tessaglia, Macedonia, Tracia), si va organizzando una nuova cultura che sarà ricchissima di risultati: quella macedone. La complessità dei problemi che si articolano durante il V e il IV secolo impedisce di riassumere entro una cifra uniforme il carattere dei Greci che vissero quel particolare momento storico. Il nuovo modello umano che la cultura ateniese suggeriva rimane, probabilmente, allo stato di proposta. Ma questa proposta è esposta con tale chiarezza così da rimanere emblematica per le generazioni successive. Essa è, in pratica, tutta riassunta nel discorso di Pericle in onore dei caduti del primo anno della guerra del Peloponneso riportato da Tucidide (II, 37 ss.). Se la disillusione del mancato raggiungimento di un obiettivo così ardito sarà sentita sempre come un limite per molti, l’approfondimento di tanti temi determinerà nel IV sec. a.C. la possibilità di raggiungere vette ancora ignote nel pensiero speculativo, in quello giuridico, in quello scientifico. L’assimilazione del modello ateniese in Macedonia e in Asia non darà spunti definitivi, almeno all’inizio del IV sec. a.C.; esso contrastava con strutture politiche e amministrative che erano proprie dei dinasti e dei satrapi ellenizzati (non a caso l’espressione più notevole dell’assimilazione attica è in un monumento funerario).
Ma se nella Grecia continentale il IV sec. a.C. rappresenta un momento di crisi, diversi sono i temi esaltati in Macedonia: soprattutto dopo la metà del secolo. Ripresi in forma paradigmatica dalle classi dirigenti macedoni, soprattutto per merito di Aristotele, gli spunti della grande cultura attica saranno riproposti e imposti a tutta la Grecia e al mondo orientale per almeno 300 anni. Il mondo macedone saprà rinnovare ancora questi temi proprio attraverso il contatto con il mondo greco-iranico che avverrà con la conquista dell’Asia Minore da parte di Alessandro. La religiosità, durante il V e il IV sec. a.C., subisce trasformazioni imponenti. Nel V sec. a.C. gli dei tendono a umanizzarsi. Essi non hanno più quella perentoria presenza che caratterizza le divinità del VI sec. a.C. Il loro carattere distintivo è la gentilezza, l’umanità. Al più la loro terribilità è negli antichi attributi. Il culto è rivolto a un numero sempre minore di dei. Spesso i caratteri di più divinità si fondono in una, insieme nascono divinità nuove, come Asclepio (in seguito alle terribili epidemie che devastarono la Grecia durante la guerra del Peloponneso). Man mano che, per rarefazione, alcune divinità assumono quasi il carattere di personificazioni, o nasce il culto per personificazioni vere e proprie, un Pantheon minore si fa sempre più evidente. Satiri e Menadi non appartengono più a una sfera diversa da quella umana: si umanizzano.
Il mondo di età classica propone una collocazione diversa dell’uomo, un rapporto diverso tra lui e la divinità. La fortuna di Delfi, in quanto santuario mantico, diminuisce non poco in età classica. Al più esso diviene la sede dove esporre gruppi famosi a elogio della cittadinanza (così come faranno gli Ateniesi in ricordo di Maratona e così come faranno i peloponnesiaci all’inizio del IV sec.). Le dediche a Olimpia sono frequentissime e fondamentali soprattutto durante il V sec. a.C.: corrispettivo dell’importanza e dell’esaltazione dell’impresa individuale, eroica, del singolo. Ma soprattutto a partire dal 430 a.C. circa avranno sempre maggiore importanza alcuni santuari prima meno notevoli: quelli dedicati a Dioniso; quelli destinati ad Asclepio, sede, in qualche caso, di vera e propria ricerca scientifica; quelli dedicati a divinità di un Pantheon minore, più vicine e incombenti (come Pan, le ninfe).
Ma non bisogna ritenere che la proposta etica della poetica periclea scendesse in tutti gli strati della popolazione. Vivono sempre le consuetudini di una più antica e aristocratica classe dirigente, insieme l’irrazionalismo, la paura e l’angoscia sono caratteristici dell’uomo di età classica (si esasperano proprio durante la guerra del Peloponneso, per il terrore delle epidemie e delle avversità, divengono un coefficiente oscuro dell’animo dei Greci che è inutile ormai esorcizzare: manca la fede anche nell’esorcismo). E se nel IV sec. a.C. il razionalismo diverrà fede imperante delle classi più colte, le classi meno colte vedranno aumentare i propri timori, soprattutto non vedranno più interpretate le proprie esigenze. Le divinità tradizionali, per le classi più colte, divengono personificazioni di forze naturali e umane: e personificazione era, in sostanza, la stessa Parthenos. La perdita di una religiosità più minuta e subalterna toglie un sostegno a quella civiltà media proprio nel momento in cui non è dato ancora a tutta la popolazione di raggiungere il livello sociale proposto dalla cultura periclea.
L’impossibilità di realizzare il piano culturale ateniese (piano che non possedeva obiettivi intermedi, ma solo obiettivi globali, e che presentava, pure, manifestazioni di imperialismo e di intolleranza) determina un abbassamento del tono medio di cultura. L’individualità culturale di età arcaica, la felicità di una tradizione che si trasmetteva di generazione in generazione, di città in città, sono ricondotte entro generi e sistemi di produzione collettivi. Alla fine del V sec. a.C. non si potrà parlare più di autonomia artigianale. Per artigiano individuale si intenderà qualcosa di diverso: la riduzione a notazione individuale dei temi proposti dall’arte ufficiale, così nel caso delle stele funerarie. Molti spunti che continuamente erano proposti dall’artigianato e che rappresentavano la parte più ricca della cultura ateniese durante il VI sec. a.C. vanno ormai spegnendosi. Se non intervengono proposte di grandi personalità artistiche si rischia, per la difficoltà dei temi affrontati, di cadere in una ripetitività e in una monotonia che non può essere suggestionata da mode diverse, ormai divenute per sempre subalterne.
Il problema della cultura ateniese rimane, come sempre, l’antico problema di ogni cultura che cerchi di diffondersi in termini egemonici. Ma è possibile affermare che, anche se il programma più immediato del mondo della Atene del V sec. a.C. subì un destino tanto diverso da quello per cui era stato proposto, pure esso conteneva tanta potenza espansiva da essere adottato per 2500 anni da gran parte del mondo occidentale (e da parte di quello islamico).
La bibliografia sull’età classica è sterminata; di seguito alcune indicazioni per risalire a temi più generali:
N.D. Fustel de Coulanges, La cité antique, Paris 1864.
J. Burckhardt, Griechische Kulturgeschichte (F. Oeri ed.), Stuttgart 1898-1902.
G. Glotz, La cité grecque, Paris 1928.
V. Ehrenberg, Der Staat der Griechen (Der griechische und der hellenistische Staat), in Die Bibliothek der Alten Welt, Zürich-Stuttgart 1965.
Per una ricostruzione storica della politica ateniese del V secolo:
R. Meiggs, The Athenian Empire, Oxford 1972.
Un buon inquadramento dell’arte di età classica è in R. Bianchi Bandinelli (ed.), Storia e civiltà dei Greci, IV, Milano 1979.
Su alcuni problemi particolari:
F.W. Hamdorf, Griechische Kultpersonifikationen der vorhellenistischen Zeit, Mainz a.Rh. 1964.
Esemplari, metodologicamente, alcune ricerche come:
J. Boardman, The Parthenon Frieze. Another View, in Festschrift für Frank Brommer, Mainz a.Rh. 1977, pp. 39-49.
Per il computo della popolazione di Atene:
A.W. Gomme, The Population of Athens in the Fifth and Fourth Centuries B.C., Oxford 1933.
Urbanistica in generale:
R.E. Wycherley, How the Greeks Built Cities, London 1949.
A. Wąsowicz, Zagospodarowanie przestrzenne antýcznych miast greckich [L’assetto spaziale delle città greche nell’antichità], Wrocław 1982.
A. Giuliano, Urbanistica delle città greche, in Xenia, 7 (1984), pp. 3-42.
W. Höpfner -E.L. Schwandner, Haus und Stadt im klassischen Griechenland, München 1986.
Sulle dimore agricole in Attica:
J.E. Jones - A.J. Graham - L.H. Sackett, The Dema House in Attica, in BSA, 57 (1962), pp. 75-114.
Iid., An Attic Country House below the Cave of Pan at Vari, ibid., 68 (1973), pp. 355-452.
Architettura in generale:
D.S. Robertson, A Handbook of Greek and Roman Architecture, Cambridge 1959.
J.J. Coulton, Greek Architects at Work. Problems of Structure and Design, Granada 1977.
M.-Ch. Hellmann, L’architecture grecque, I. Les principes de la construction, Paris 2002.
Sull’organizzazione del lavoro e le spese per la costruzione di templi:
R.S. Stanier, The Cost of the Parthenon, in JHS, 73 (1953), pp. 68-76.
A. Burford, Craftsmen in Greek and Roman Society, London 1972.
A. Giuliano, Politische Tendenzen und Arbeitseinsatz bei der Errichtung offentlicher Gebäude in Athen in der 2. Hälfte des 5 Jhs. v. Chr., in Palast und Hütte, Mainz a.Rh. 1982, pp. 325-32.
Una fondamentale ricostruzione dell’edilizia di Atene in:
J.S. Boersma, Athenian Building Policy from 561/0 to 405/4 B.C., Groningen 1970.
Sui singoli monumenti di Atene:
J. Travlos, Bildlexikon zur Topographie des antiken Athen, Tübingen 1971.
R.E. Wycherley, The Stones of Athens, Princeton 1978.
Su quelli dell’Attica:
J. Travlos, Bildlexikon zur Topographie des antiken Attika, Tübingen 1988.
Sul Partenone:
S.R. McCredie, The Architects of the Parthenon, in Studies in Classical Art and Archaeology. A Tribute to P.H. von Blanckenhagen, Locust Valley - New York 1979, pp. 69-73.
Su tutti i monumenti dell’Asia Minore è fondamentale:
E. Akurgal, Griechische und römische Kunst in der Türkei, München 1987.
Sul Mausoleo:
K. Jeppesen, Paradeigmata. Three Mid-Fourth Century Main Works of Hellenic Architecture Reconsidered, Aarhus 1958.
G.B. Waywell, The Free-Standing Sculptures of the Mausoleum at Halicarnassus in the British Museum, London 1978.
Scultura:
G. Rodenwaldt, Das Relief bei den Griechen, Berlin 1923.
Sulle basi di statue:
F. Eckstein, Anathemata, Berlin 1969.
Su aspetti e monumenti particolari:
V.H. Poulsen, Der Strenge Stil. Studien zur Geschichte der griechischen Plastik 480-450 v. Chr., in ActaArch, 8 (1937), pp. 1-142.
B. Schweitzer, Prolegomena zur Kunst des Parthenon-Meisters, I-II, in JdI, 53 (1938), pp. 1-89.
Id., ibid., 54 (1939), pp. 1-96.
Id., Pheidias, der Parthenon Meister, ibid., 55 (1940), pp. 170-241.
T. Hölscher, Griechische Historienbilder des 5. und 4. Jhs. v. Chr., Würzburg 1973.
F. Brommer, The Sculpture of the Parthenon: Methopes, Frieze, Pediments, Cult Statue, London 1979.
E. Berger (ed.), Parthenon Kongress Basel, I-II, Mainz a.Rh. 1984.
La bibliografia relativa ai singoli scultori è riportata alle singole voci dell’EAA. Sui programmi generali della generazione dei post-fidiaci:
B. Schlörb, Untersuchungen zur Bildhauergeneration nach Phidias, Waldsassen 1964.
Sui ritratti di età classica:
L. Laurenzi, Ritratti greci, Firenze 1941.
B. Schweitzer, Studien zur Entstehung des Porträts bei den Griechen, in Zur Kunst der Antike, Ausgewählte Schriften, II, Tübingen 1963, pp. 115-97.
Sulla scultura tardoclassica e del IV sec. a.C. in generale:
H.K. Süsserott, Griechische Plastik des 4. Jhs. v. Chr., Frankfurt a.M. 1938.
T. Dohrn, Attische Plastik vom Tode des Phidias bis zum Wirken der grossen Meister des IV. Jhs. v. Chr., Krefeld 1957.
L. Todisco, Scultura greca del IV secolo, Milano 1993 (con bibl. prec.).
Su Prassitele:
A. Corso, The Monument of Phryne at Delphi, in NumAntCl, 26 (1997), pp. 123-49 (con bibl. prec.).
Sulle stele funerarie:
H. Diepolder, Die attischen Grabreliefs des 5. und 4. Jahr. v. Chr., Berlin 1931.
Sulle stele non attiche:
H. Biesantz, Die thessalischen Grabreliefs, Mainz a.Rh. 1965.
Sui rilievi onorari e votivi:
R. Binneboessel, Studien zu den attischen Urkundenreliefs des 5. und 4. Jhs., Kaldenkirchen 1932.
L. Beschi, Il monumento di Telemachos, fondatore dell’Asklepieion ateniese, in ASAtene, 45-46 (1967-68), pp. 381-436.
Sui rilievi votivi:
C.L. Lawton, Attic Document Reliefs. Art and Politics in Ancient Athens, Oxford 1995.
Sui bronzi in generale:
C. Rolley, Die griechischen Bronzen, München 1984.
Argenteria, oreficeria, gioielli:
P. Jacobsthal, Greek Pins, Oxford 1956.
B. Segal, Zur griechischen Goldschmiedekunst des Vierten Jahrhunderts v. Chr., Wiesbaden 1966.
Gemme e incisioni:
G.M.A. Richter, Engraved Gems of the Greeks and the Etruscans, London 1969.
Monete, in generale:
P.R. Franke - M. Hirmer, Die griechische Münze, München 1964.
Sulla ceramica, fondamentali:
P. Jacobstahl, Ornamente griechischer Vasen, Berlin 1927.
J.D. Beazley, Attic White Lekythoi, Oxford 1938.
E. Buschor, Grab eines attischen Mädchens, München 1959.
Sui vasi del IV sec. a.C.:
K. Schefold, Kertscher Vasen, Berlin -Leipzig 1930.
Su alcuni fenomeni sociali relativi alla produzione ceramica:
B.R. MacDonald, The Emigration of Potters from Athens in the Late Fifth Century B.C. and its Effect on the Attic Pottery Industry, in AJA, 85 (1981), pp. 159-68.
Sulle rappresentazioni sulla ceramica:
H. Metzger, Les représentations dans la céramique attique du IVe siècle, Paris 1951.
T. Rasmussen - N. Spivey (edd.), Looking at Greek Vases, Cambridge - New York 1991.