La politica e l’istituzionalizzazione della scienza nell’età delle riforme
Nei Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia (1703), manifesto del rinnovamento culturale italiano, Ludovico Antonio Muratori dava ampio spazio alla «filosofia sperimentale» e indicava ai principali Stati italiani gli obiettivi da realizzare per promuovere la scienza: l’istituzione di un’accademia dove raccogliere i migliori ingegni italiani, e federarli in un’ideale ‘repubblica letteraria’, integrando i diversi spazi politici e culturali della penisola; la fondazione di un giornale per la comunicazione delle ricerche e della produzione culturale italiana ed europea; la riforma dei programmi scolastici e la loro apertura agli studi ‘utili’. Questi temi rimasero attuali per molti decenni e con essi si misurarono i programmi rivolti alla specializzazione e professionalizzazione degli intellettuali.
Importanti riforme nell’ambito scolastico e dell’organizzazione della ricerca furono tentate o avviate a Torino, Bologna e Napoli nella prima metà del 18° sec., grazie all’azione del gruppo dei ‘cattolici illuminati’, formato da personalità come Celestino Galiani, Gaspare Cerati, Bernardo Lama, Joseph Roma, molti dei quali impegnati a sostegno del programma riformatore di papa Benedetto XIV. Ma fu nella seconda metà del Settecento che in Italia le istituzioni culturali subirono una decisiva trasformazione con interventi che in gran parte degli Stati italiani posero le basi per la riforma delle professioni ‘tecniche’, l’ammodernamento dei programmi educativi universitari e scolastici e l’organizzazione della ricerca tramite la creazione di nuovi istituti.
All’interno di questo movimento, particolare importanza assunse la fondazione di nuove accademie, così come la ridefinizione delle funzioni di quelle già esistenti. Tale processo fu più marcato per le accademie scientifiche o per quelle miste, letterario-scientifiche, che al loro interno accoglievano sezioni dedicate alle scienze. I risultati di maggior rilievo furono tuttavia limitati a un ristretto numero di accademie. Oltre a queste ultime, contribuirono alla diffusione delle conoscenze e pratiche scientifiche alcune delle maggiori società economiche e agrarie.
Le accademie scientifiche settecentesche cercarono, con esiti alterni, di superare la frammentarietà che impediva di affrontare ampi progetti di ricerca e di dotarsi della necessaria strumentazione. Era necessario andare oltre il carattere privatistico delle tradizionali accademie, che per lo più dipendevano da aleatorie forme di mecenatismo. Solo l’intervento statale avrebbe potuto risolvere tali difficoltà operative. Dal canto loro, gli scienziati italiani si impegnarono in un’opera di trasformazione delle accademie, stabilendo severe modalità di reclutamento in base a criteri non sociali ma culturali, professionali e di competenza, e adottando innovative modalità di comunicazione, quali la memoria scientifica. Si delineava così su modelli europei il processo di specializzazione della figura dell’intellettuale e il progressivo affermarsi del ruolo autonomo dello scienziato.
Nei primi decenni del 18° sec. le università versavano in condizioni precarie. Per fare un solo esempio, a Bologna nel 1713 furono confermati i programmi didattici stabiliti nel 1639. Gli atenei italiani si trovavano in condizioni di crisi finanziaria, di ruolo, di programmi; erano dominati dai Collegi dottorali che, grazie al controllo esercitato sulle professioni mediche e giuridiche e sui canali di accesso a cariche e uffici, si erano trasformati in organismi di difesa dei propri privilegi disinteressandosi di ricerca e didattica.
In parte mitigata dall’istituto delle lezioni private, che consentiva ai docenti di trasmettere agli allievi i necessari aggiornamenti disciplinari, tale situazione fu denunciata in alcuni progetti elaborati da Luigi Ferdinando Marsili (1709) e da Scipione Maffei nei Pareri redatti per riformare le università di Padova (1715) e di Torino (1718). Quegli scritti indicavano i modi per recuperare il ritardo che anche in quel campo caratterizzava l’Italia, facendo perno sulle materie scientifiche, soprattutto la nuova fisica e la matematica applicata a usi civili e militari. Emerse in modo chiaro la necessità di abbandonare il sistema di dettatura delle lezioni (in uso fino agli anni Settanta) a favore di libri di testo a stampa, e di rendere al contempo più selettive le modalità di reclutamento dei docenti tramite concorsi pubblici.
A causa della loro ampiezza e innovatività, tali progetti incontrarono forti resistenze; solo laddove l’intervento statale riuscì a spezzare il monopolio dei Collegi e a porre l’insegnamento universitario sotto il controllo degli Stati si sarebbe registrato il rilancio dell’università. Dove ciò non accadde, la crisi universitaria perdurò nonostante i tentativi di riforma che spesso migliorarono solo alcuni aspetti organizzativi.
A Bologna i piani di Marsili portarono alla fondazione dell’Istituto-Accademia delle scienze che, con il suo ruolo di stimolo, costrinse l’università a rinnovarsi e, a partire dagli anni Trenta e Quaranta, vennero istituite nuove cattedre scientifiche, come quella di chimica (nel 1737, ma già in funzione nell’Istituto dal 1734), e fu potenziata la facoltà medica.
Benedetto XIV si mosse per varare un piano di riforma dello Studium Urbis Sapientiae (1748), che nei fatti si ridusse a provvedimenti di mera razionalizzazione organizzativa, lasciando inalterati i contenuti didattici e il potere dei collegi professionali di notai e avvocati.
A Pisa si registrò un maggiore sforzo di modernizzazione dei programmi di studio e delle attrezzature scientifiche grazie all’attività di Gaspare Cerati, provveditore dell’Università dal 1733 al 1769, con la costruzione di un osservatorio astronomico, di un laboratorio chimico, della biblioteca, e con l’istituzione di cattedre di astronomia, fisica sperimentale, diritto naturale, chimica. Queste iniziative e la presenza di qualificati docenti, come Tommaso Perelli, l’astronomo Giuseppe Antonio Slop de Cadenberg e il matematico Paolo Frisi, non riuscirono comunque a fare dello Studio pisano un forte centro di irradiazione delle scienze, soprattutto a causa delle resistenze dei docenti alle innovazioni. L’intervento riformatore del granduca Pietro Leopoldo mirò quindi a promuovere istituti culturali esterni al mondo accademico, come il Museo di fisica di Firenze, oppure si indirizzò verso la più modesta Università di Siena che, tra il 1771 e il 1780, si trasformò in università di Stato, funzionale alle esigenze di formazione e di controllo delle professioni.
A Napoli nel 1735 Celestino Galiani aveva portato a compimento una riorganizzazione a lungo attesa: riuscì a far adottare l’apertura di una nuova sede e l’avvio di insegnamenti di astronomia, botanica, fisica sperimentale, chimica, diritto municipale, storia ecclesiastica ed ebraica, ma era una riforma solo parziale, non prevedendo l’aumento di stipendi, il cambiamento delle modalità di reclutamento dei professori, la riduzione dei poteri degli organi di autogoverno. Neppure le riforme del 1777 intaccarono l’ordinamento universitario e le modalità di formazione e accesso alle professioni ‘intellettuali’. Le maggiori disponibilità economiche permisero comunque il potenziamento delle cattedre di scienze naturali e matematica, la creazione di un osservatorio astronomico, un laboratorio chimico, un orto botanico.
Torino e Pavia furono le università in cui le riforme conseguirono i risultati più duraturi grazie all’intervento statale, che le sottopose a un saldo controllo e ne fece uno strumento del dispotismo riformatore. Le costituzioni universitarie promulgate a Torino tra il 1720 e il 1729 sancirono il rafforzamento dello Stato contro i privilegi locali, ecclesiastici, nobiliari e dei collegi professionali, attraverso l’ispezione sulla disciplina e sulla formazione del corpo insegnante e degli studenti, la revisione dei titoli accademici, resi obbligatori per accedere a uffici, professioni e dignità ecclesiastiche; ingegneri, architetti, agrimensori vennero sottoposti alla supervisione statale, favorendo il precoce sviluppo in Piemonte di nuove leve di tecnici al servizio della burocrazia statale. Alla riorganizzazione degli insegnamenti si accompagnò il potenziamento degli istituti a sostegno della ricerca, con l’istituzione di laboratori sperimentali e della biblioteca, ma dopo il concordato con la Chiesa (1727) si registrò un blocco nel processo innovativo intrapreso e, anzi, vennero imposti ai professori rigidi controlli in materia di didattica e di ortodossia religiosa, e fu loro vietato di pubblicare libri e discutere tesi privi del preventivo assenso dei superiori. Malgrado i limiti assolutistici della riforma, l’ateneo torinese si aprì verso metà secolo agli sviluppi nel campo delle scienze e portò nuovi stimoli nella vita intellettuale dello Stato sabaudo, grazie alla presenza a Torino del fisico Jean-Antoine Nollet e alla chiamata di Giambattista Beccaria sulla cattedra di fisica sperimentale. Il ciclo delle riforme scolastiche sabaude si chiuse con le costituzioni universitarie del 1772, caratterizzate da assenza di provvedimenti significativi e dal misoneismo dei programmi. Il rinnovamento culturale piemontese che prese ad affermarsi dagli anni Sessanta non si appoggiò all’università, bensì ai circoli intellettuali sorti attorno alla Società privata torinese e alle Reali scuole di artiglieria.
L’esempio torinese fu in parte seguito dal governo austriaco della Lombardia per l’ateneo pavese. Dopo insoddisfacenti proposte di riordinamento, il progetto del 1767, per arditezza di prospettive e innovatività, fece di Pavia il migliore ateneo italiano. Manifesto della monarchia illuminata asburgica, dal punto di vista organizzativo esso colpiva l’ingerenza del potere vescovile e i privilegi dei Collegi professionali e patrizi, mentre la parte riguardante i contenuti degli insegnamenti si richiamava ai temi della «pubblica felicità», alle più avanzate conquiste del pensiero europeo e aderiva al metodo scientifico-induttivo riprendendo apertamente le analisi di John Locke ed Étienne Bonnot de Condillac. Le materie teologiche erano richiamate allo spirito evangelico dei primi secoli della storia della Chiesa e al rispetto delle prerogative regie – scelte che fecero di Pavia la sede di un nucleo di giansenisti riuniti attorno a Martino Natali e Pietro Tamburini.
Per dare corpo alle innovazioni, il governo fece notevoli sforzi per attrarre docenti prestigiosi, quali Lazzaro Spallanzani, Alessandro Volta, il matematico Gregorio Fontana, l’anatomista Antonio Scarpa, i medici Samuel Auguste André Tissot e Johann Peter Frank, e fondò biblioteca, gabinetto degli strumenti di fisica e teatro anatomico. Gli studenti salirono da 283 nel 1770 a 1064 nel 1788: era il successo di una politica che mirava a creare una scuola statale capace di insegnare le nuove scienze ad allievi sia patrizi sia ‘civili’, e attuava un’opera di promozione sociale e culturale delle professioni intellettuali borghesi.
Nello stesso senso andava l’impegno a favore delle Scuole palatine di Milano, potenziate con l’aumento degli insegnamenti e l’obbligo di seguire i corsi afferenti alle singole professioni imposto a quanti aspiravano ad assumere impieghi pubblici. L’Illuminismo lombardo trovò nelle Scuole un riconoscimento eccezionale con il conferimento delle principali cattedre a Frisi, Alfonso Longo, Ruggero Giuseppe Boscovich, Giuseppe Parini, Cesare Beccaria.
Nella Repubblica di Venezia, solo dopo il 1760, grazie all’impegno dei riformatori dello Studio di Padova (l’organo che soprintendeva all’università) e alle nuove linee di politica culturale sostenute dai patrizi innovatori di cui si fece interprete Simone Stratico, professore a Padova, si intraprese la riforma dell’antiquata organizzazione dei corsi. Stratico prevedeva la costituzione di un’università statale per preparare professionisti utili allo Stato: occorreva modificare le modalità di reclutamento dei docenti, istituire insegnamenti di economia politica, accentuare il carattere pratico-sperimentale delle discipline medico-chirurgiche e scientifiche, ridurre il peso delle cattedre teologiche e storico-filologiche. Queste proposte furono parzialmente realizzate dopo il 1771.
I collegi militari contribuirono non poco alla formazione scientifica di quadri tecnici specializzati: le Reali scuole di artiglieria e fortificazioni di Torino (1739), il Collegio militare di Verona (1759) e la Reale accademia militare della Nunziatella di Napoli (1787) perseguirono una selezione basata sul merito e la competenza. Il ruolo di quest’ultima istituzione fu meno proficuo rispetto alle altre due a causa delle forti resistenze dei quadri dell’esercito borbonico alla professionalizzazione tecnico-scientifica degli ufficiali. Le Scuole torinesi rappresentarono invece un elemento di novità per i saldi legami con il mondo scientifico europeo e per la prestigiosa attività di ricerca in campo chimico e metallurgico. Il Collegio veronese, affermatosi dal 1765 come istituto per un’aggiornata preparazione di ingegneri del genio, ricoprì un ruolo fondamentale nella gestione del territorio idrogeologico veneto e costituì il modello della Scuola militare istituita dalla Repubblica Cisalpina a Modena (1798).
Gli interventi intrapresi con diversa intensità dai governi per rinnovare politiche culturali e istituzionali modificarono in modo significativo il panorama accademico italiano. Sebbene la fondazione, a inizio secolo, dell’Istituto e dell’annessa Accademia delle scienze di Bologna avesse rappresentato un passo decisivo nella istituzionalizzazione della scienza sperimentale, la quale aveva finalmente trovato un istituto pubblico dove essere coltivata liberamente, i progetti del fondatore, L.F. Marsili, incontrarono difficoltà a causa del disinteresse del Senato felsineo. A questa situazione posero termine gli interventi voluti da Benedetto XIV tra il 1740 e il 1758 e, soprattutto, la riforma da lui promossa nel 1745.
Il disegno lambertiniano valorizzava il ruolo dell’Accademia bolognese con il riconoscimento del suo operato e del confronto che essa aveva stabilito con le comunità scientifiche straniere. La rifondazione ‘benedettina’ riunificava così l’assetto complessivo della cultura scientifica bolognese attorno alla ricerca accademica che, grazie al parallelo potenziamento delle discipline mediche e fisiche promosso dal papa, si indirizzò verso la medicina e la fisica dando spazio a medici di grande livello, quali Germano Azzoguidi, Pier Paolo Molinelli, Domenico Gusmano Galeazzi, Luigi Galvani. Il rapporto diretto instaurato tra il pontefice e l’Istituto, a scapito dei poteri locali laici e religiosi, incrementò l’autonomia e le possibilità di ricerca degli accademici bolognesi, mentre il profondo ricambio nell’aristocrazia cittadina nei decenni postlambertiniani e la sua apertura culturale dovevano portare a un seppure tardivo coinvolgimento dell’élite cittadina nelle attività dell’Istituto-Accademia.
Le riforme napoleoniche costituirono una sorta di prolungamento del rinnovamento avviato nel secondo Settecento dalla nuova classe senatoria in collaborazione con i docenti dell’Istituto e il suo presidente, il matematico Sebastiano Canterzani.
Decisivo per la riapertura nel 1759 dell’Accademia dei Fisiocritici di Siena, dopo decenni di decadenza, si dimostrò l’intervento del consigliere per le finanze Pompeo Neri, che consentì all’Accademia di assumere una dimensione istituzionale pubblica alle dipendenze del governo toscano. Essa accentuò così il suo ruolo a sostegno dell’attività riformatrice della reggenza lorenese e del governo di Pietro Leopoldo – in particolare dopo la riforma delle Costituzioni accademiche promossa da Neri nel 1767 e le ulteriori trasformazioni del 1771 – e valorizzò le competenze scientifiche degli accademici e la loro funzione di consulenti del governo granducale. Questo processo si inseriva in un più ampio disegno di riassetto delle istituzioni del Granducato, che investiva negli stessi anni l’Accademia dei Georgofili e dava origine ai progetti da cui sarebbe nato il Real museo di fisica di Firenze.
A Mantova, grazie all’impegno dei governi di Vienna e di Milano, nel 1767 nacque l’Accademia di scienze, lettere ed arti. Strutturata in quattro classi (matematica, filosofia, fisica sperimentale, belle lettere), essa richiamò sempre più ampi finanziamenti governativi grazie alla prontezza con cui seppe aderire agli indirizzi riformatori asburgici e al suo utilizzo come corpo consultivo e tecnico nel Mantovano su questioni pratiche, come l’idraulica applicata o la salubrità dell’aria, ma anche con l’affidamento dell’ufficio di censura e di supervisione sull’insegnamento in città e provincia. Nel 1770 l’Accademia promosse una colonia agraria che, utilizzando appositi spazi, si dedicò alla sperimentazione botanica e alla promozione dell’agricoltura; quindi aprì una Colonia di mestieri (1771) e scuole di ostetricia, idraulica e idrostatica.
Non dissimili le vicende che, dopo l’avvio dell’eccezionale rete di accademie agrarie venete nel 1768, portarono nel 1779 alla fondazione dell’Accademia di scienze, lettere e arti di Padova, che riconvertì radicalmente le preesistenti strutture accademiche verso nuovi assetti e programmi. L’Accademia rappresentava una netta rottura con il passato poiché, come «corpo pubblico» destinato al servizio del governo veneziano, le era riservato un esplicito ruolo di coordinamento e promozione dell’attività di ricerca scientifica dell’intera Repubblica. Era il disegno politico e culturale sostenuto da un nuovo gruppo di potere affermatosi a metà degli anni Sessanta a Venezia sotto la guida del senatore Andrea Tron. Il suo scopo era la realizzazione di un programma di riforme che, facendo leva sulla ripresa della politica giurisdizionalista, avrebbe varato provvedimenti per il potenziamento dell’industria e del commercio e il rinnovamento delle istituzioni educative.
Diverso fu, invece, il percorso seguito dalla Societas privata di Torino per trasformarsi in accademia statale. Nata nel 1757 per iniziativa di tre giovani scienziati (il medico e studioso dei fenomeni elettrici Giovanni Francesco Cigna; il chimico Angelo Saluzzo di Monesiglio; il matematico Giuseppe Luigi Lagrange), essa rappresentò il punto di riferimento degli elementi più aperti operanti nelle istituzioni culturali sabaude e nella piccola corte di intellettuali riunita attorno all’erede al trono, il futuro Vittorio Amedeo III. Questa era composta da tecnici e scienziati cresciuti nelle istituzioni scolastiche toccate dalle riforme dei decenni precedenti e interessati a intraprendere un’attività innovativa.
Se nel 1760 la Societas privata subì una sconfitta nel processo di assunzione di una funzione propria all’interno delle strutture statali, a causa della ferma opposizione di Carlo Emanuele III, e riuscì solo a mutare nome in Società reale, l’ascesa al trono di Vittorio Amedeo III (1773) riaprì il dibattito: in virtù dei successi conseguiti dalla Società, in particolare il riconoscimento delle comunità scientifiche europee, gli scienziati torinesi riuscirono a ottenere strutture di ricerca moderne e a far nascere nel 1783 l’Académie des sciences, che in Italia più di altre si avvicinò al modello parigino di accademia di Stato. Diventata parte integrante della struttura governativa con l’affidamento della supervisione delle scienze, commercio e arti, essa costituì un «apparato» della burocrazia statale che sottrasse competenze alle magistrature preesistenti e assunse una funzione propulsiva nell’ammodernamento della struttura burocratica e della società piemontesi.
Solo una grande accademia scientifico-letteraria operò nel Mezzogiorno d’Italia, chiaro segno della debolezza istituzionale e sociale in cui si dibatteva il Regno delle Due Sicilie. Pur ispirandosi alla concezione illuministica della scienza quale attività utile per «la felicità dei popoli» e per il «pubblico bene», la napoletana Reale accademia delle scienze e belle lettere non produsse i risultati sperati, non solo perché non coadiuvata dall’università, ma perché aveva ben poca autonomia organizzativa e quasi nessuna libertà di azione. Nei fatti, essa era diretta emanazione della Casa reale, e il suo compito principale era quello di esaltare la ‘magnificenza’ e il prestigio del sovrano.
Malgrado i nomi prestigiosi degli scienziati chiamati a farne parte (i medici Domenico Cirillo e Domenico Cotugno, il chimico Giuseppe Vairo, i matematici Vito Caravelli e Niccolò Fergola, il fisico Giuseppe Saverio Poli), pressoché da subito si prese a parlare di «intorpidimento» delle sue attività. Fu indebolita sia dalla nomina nel 1784 a segretario accademico del letterato Pietro Napoli Signorelli, che assunse su di sé anche l’incarico di seguire la sezione scientifica, sia dai contrasti che sorsero tra i soci. Subito dopo il terremoto che distrusse Messina e Reggio Calabria, nel 1783 l’Accademia organizzò una spedizione in Calabria per studiare i fenomeni tellurici, le loro conseguenze e la storia naturale della regione; ne scaturì l’Istoria de’ fenomeni del tremuoto (1784). A causa di rivalità interne, l’Accademia napoletana pubblicò un solo volume di «Atti» nel 1788.
Le accademie italiane hanno dovuto fare i conti con la divisione regionale e statale della penisola, che indeboliva il ruolo degli scienziati e rendeva meno incisiva la loro presenza rispetto alle più omogenee comunità intellettuali d’oltralpe. Per superare tali limiti, sorse nel 1782 a Verona la Società italiana, poi anche delle scienze, il cui scopo era il superamento della frammentazione e l’unificazione degli scienziati italiani. Iniziativa del matematico e ingegnere Anton Mario Lorgna, essa costituiva un unicum nel panorama accademico europeo: rifiutate tutte le ritualità accademiche e ogni forma di mecenatismo pubblico e aristocratico, essa si presentava come iniziativa promossa dagli stessi scienziati, ubiquitaria, priva di sedi (la partecipazione alla vita accademica avveniva per via epistolare) e di obblighi, se non quello di pubblicare ogni due anni un volume di memorie.
Le esigenze evidenziate dal programma della Società dimostravano la raggiunta consapevolezza di un ceto intellettuale di costituire una élite culturale e professionale che iniziava a rivendicare ruoli e funzioni propri e lo portava a confrontarsi con le comunità scientifiche europee su un piano di parità. Tramite la Società, i maggiori scienziati italiani si proponevano come primo nucleo di ‘opinione pubblica’ nazionale. La consapevolezza che nessun governo italiano avrebbe potuto portare a compimento quell’integrazione spingeva gli scienziati all’autopromozione e a farsi attivi protagonisti di un’unione sovrastatale dei dotti, basata sull’elemento coagulante della scienza. Lì traeva alimento l’anelito ‘repubblicano’ e confederativo della Società, che la contrapponeva alle istituzioni culturali di antico regime: tale caratteristica indusse Jean-Antoine Caritat de Condorcet a prendere a modello la Società nei suoi progetti di riforma del sistema accademico francese, elaborati tra 1788 e 1793.
Malgrado la tradizionale separazione tra accademie e università, a Bologna l’Istituto-Accademia agì fin dall’inizio come pungolo e stimolo dell’Università, riuscendo nella seconda metà del secolo ad avviare una significativa opera di rinnovamento delle discipline universitarie. Innovativo fu anche il tentativo avviato dall’Accademia di Padova di istituire la figura del docente-accademico distinto dall’insegnante dedito soltanto alla mera trasmissione del sapere. A Padova, infatti, il rapporto che si istituì tra l’Accademia e l’Università non coinvolse tutto il corpo docente, ma solo l’élite dei professori primari, una scelta che premiava quelli più rinomati e tagliava fuori i docenti locali, che per lunga tradizione occupavano le numerose cattedre secondarie. Gli statuti accademici ribaltavano l’antica logica dei privilegi universitari e imponevano ai docenti titolari delle cattedre scientifiche di porsi al servizio delle esigenze di ricerca dell’Accademia.
A Torino, invece, le attività della Societas Privata e poi dell’Académie erano estranee agli ambienti universitari, sottoposti ancora negli anni Settanta a un asfissiante controllo della facoltà teologica e dei gruppi giansenisti. Gli accademici trovarono al contrario una positiva collaborazione, radicata in comuni orientamenti di ricerca tecnologica, in una istituzione di recente fondazione, le Reali scuole di artiglieria e fortificazione. Non fu dunque una fortuita coincidenza che numerosi accademici fossero militari-scienziati che avevano intrapreso la loro formazione nelle Scuole o che vi insegnavano.
Il motto dell’Académie des sciences di Torino era Veritas et utilitas. La verità del metodo scientifico e l’utilità della scienza e dei suoi valori per la società e per lo Stato costituirono i due fondamenti dell’accademismo scientifico italiano del secondo Settecento. Il tema dell’utilità, mutuato dall’ideale del servizio civico e dall’ideologia del progresso elaborati dagli scienziati settecenteschi, fu diversamente declinato dalle accademie italiane, ma era comunque un elemento condiviso.
Un’immagine accomunava le dichiarazioni programmatiche delle accademie: il ruolo dell’«ottimo principe», compresa la sua variante aristocratica per la Repubblica di Venezia, che trovava giustificazione nella ricerca della felicità dei governati e nell’uso delle discipline scientifiche per migliorare la società. A ciò faceva pendant la consapevolezza che le accademie erano impegnate nel compito di favorire strategie e progetti di rinnovamento delle strutture statali e sociali, in contrasto con resistenze e tradizioni corporative. Erano finalità condivise da tutte le maggiori accademie scientifiche di Stato, ma anche dalla Società italiana, benché fosse privata. Si sottolineava la centralità delle discipline scientifiche nella promozione di benefici per la salute umana, nel miglioramento di arti e scambi, e del benessere della popolazione, considerati le fondamenta di un florido Stato.
Gli accademici-scienziati mettevano a disposizione delle strutture statali e della collettività le proprie conoscenze, sottolineandone gli aspetti operativi, cosicché alla medicina, alla fisica, alla chimica e alle matematiche applicate (meccanica, ingegneria, idraulica) si offrivano insperate possibilità di intervento. Esemplari gli esperimenti condotti dai fisiocritici sull’innesto del vaiolo nel 1760 a Siena, trasformata, grazie al coinvolgimento della popolazione, in un grande laboratorio a cielo aperto. L’Accademia si occupò anche di argomenti legati al progresso sociale, attraverso le ricerche su geologia, sfruttamento delle risorse della Maremma e miglioramento dell’agricoltura senese, analisi chimica delle acque minerali o medico-statistiche sulla mortalità infantile (1781). Diversi soci dell’Accademia delle Scienze bolognese si impegnarono su temi relativi alla pubblica felicità, quali i ‘mali popolari’, le febbri e le malattie endemiche come lo scorbuto (1767) e la pellagra (1782), così come la nocività delle risaie e la salubrità dell’aria; le indagini sui raccolti negli anni di carestia (1767) o sull’epidemia di afta epizootica che toccò negli anni Ottanta diverse parti dell’Italia settentrionale.
I risultati più significativi furono ottenuti dalle comunità scientifiche che potevano vantare una maggiore strutturazione istituzionale, come Padova e Torino. Tra il 1779 e la caduta della Repubblica veneta, l’Accademia di Padova si vide affidare almeno sedici commissioni pubbliche in materia di agricoltura e idraulica, comunicazioni e commercio, metallurgia e mineralogia, produzione industriale e tecnologica (la produzione di salnitro a fini bellici; la costruzione di forni economici). Tuttavia, il coinvolgimento dell’Accademia conobbe forti limiti non solo perché chiamata a occuparsi di competenze spesso locali, ma soprattutto perché mancò il suo organico inserimento nelle strutture burocratiche.
Saldamente inserita nel «sistema del governo» e incaricata di sovrintendere al pubblico bene, l’Académie des sciences di Torino non conobbe quei limiti. I suoi membri avviarono indagini sui rapporti tra malattia e ambiente di vita mantenendo rapporti continui con le strutture statali e le comunità locali. Nel 1784 l’Accademia avviò uno studio chimico delle acque, con cui affrontava un problema legato alle condizioni igieniche della capitale sabauda, priva di acquedotto. Ottenuta dai poteri statali la delega a occuparsi di aspetti concreti della salute, essa studiò l’epidemia di febbri intermittenti registratasi a Biella nel 1790 e le malattie che colpivano la popolazione piemontese, avviando, con l’opera del medico e botanico Carlo Allioni, l’indagine epidemiologica della pellagra.
Notevole l’impegno da essa profuso nel campo della chimica, vista come uno strumento per favorire le attività manifatturiere. Particolarmente esemplare fu l’opera di consulenza e sovrintendenza espletata nel concorso di chimica tintoria del 1789, con il quale l’Accademia dimostrò la sua capacità di intervento sulla struttura produttiva del Paese in un campo economico vitale, approfondendo la conoscenza dell’industria laniera e l’applicazione pratica della chimica.
A eccezione della Società italiana, iniziativa privata degli scienziati, il processo di istituzionalizzazione pubblica e l’intervento dei governi a favore della fondazione delle accademie statali comportò la destinazione di fondi pubblici al finanziamento delle ricerche degli scienziati, con l’acquisto di macchine e attrezzature e la costituzione di biblioteche, permettendo anche all’Italia di esperire strade già percorse dalle principali accademie europee. Non meno innovativi furono il conferimento di pensioni ai membri delle accademie di Stato, il finanziamento di progetti specifici di studio e la possibilità di promuovere concorsi a premio su temi di particolare rilievo.
Le accademie di Torino e di Mantova si distinsero per la mole e la qualità di concorsi, in particolare quelli su temi di tecnologia e chimica. In poco meno di trent’anni, tra il 1768 e il 1795, le varie sezioni dell’Accademia mantovana bandirono non meno di sessantanove concorsi su argomenti quali la libertà del commercio, l’educazione dei fanciulli del «minuto popolo», i mezzi per favorire il commercio del Mantovano, il ruolo dell’opinione pubblica, la necessità e i limiti della specializzazione per il progresso delle scienze – temi tutti proposti dalla classe di filosofia. Le classi di matematica e fisica indissero concorsi su temi di idrologia, idrodinamica e meccanica applicata, salubrità dell’aria e applicazione della chimica alla medicina.
Tra i principali impegni delle accademie settecentesche vi fu la diffusione delle conoscenze, per mezzo della stampa di opere, traduzioni, memorie. Tutte le grandi accademie assunsero l’obbligo di pubblicare i propri atti accademici, guardando al modello dei «Mémoires» dell’Académie des sciences parigina, che imponeva severi e selettivi criteri, anche stilistici, di scelta delle memorie da pubblicare. Lo scopo era quello di conferire una dimensione pubblica alla ricerca accademica e di favorire la comunicazione con scienziati di altri Paesi.
Fin dalla loro apparizione, i «Commentarii» dell’Istituto-Accademia di Bologna s’imposero per il loro prestigio e rappresentarono un punto di riferimento per gli uomini di scienza italiani ed europei, nonostante i ritardi spesso verificatisi nella loro pubblicazione. Malgrado le dichiarazioni di intenti, le Accademie di Padova e di Mantova pubblicarono ben poche memorie: la prima pubblicò nel Settecento solo tre volumi (tra il 1786 e il 1794), la seconda ne diede alla luce solo uno nel 1795. Non conobbe invece deficienze di tale natura l’Académie des sciences di Torino con i suoi «Mémoires», editi ogni due anni, che si aggiungevano alla serie pubblicata come Società reale. Anche la Società Italiana si distinse per la regolarità delle sue pubblicazioni, facendo della pubblicazione biennale (annuale nel primo decennio dell’Ottocento) di memorie uno dei suoi principali obblighi.
È necessario fare un cenno all’attività di diffusione delle scienze promossa dalle accademie attraverso la partecipazione a pubblicazioni periodiche dagli intenti meno specialistici e rivolti a un ampio pubblico che guardava con rinnovata curiosità a questo ambito. Il sollecito avvio della ristampa bolognese del «Journal des journaux» di Mannheim (1760-1761), composto dai migliori estratti di trentasei periodici europei, ebbe nell’Istituto-Accademia di Bologna il proprio punto di riferimento. Le «Memorie enciclopediche» (1780-1787) dirette da Giovanni Ristori trovarono nei suoi membri dei validi collaboratori, come i matematici Sebastiano Canterzani e Girolamo Saladini. Lo stesso avvenne nella redazione del «Giornale letterario» di Siena, che si appoggiò agli ambienti gravitanti attorno all’università e all’Accademia dei Fisiocritici. A Padova i professori aperti alla cultura ‘laica’ e illuministica (il matematico Simone Stratico, l’astronomo Giuseppe Toaldo) facevano capo al più diffuso periodico veneto e forse italiano del Settecento, il «Giornale enciclopedico» di Elisabetta Caminer.
L’esempio più noto di interazione tra stampa periodica e accademie è quello del Piemonte sabaudo, con il primo periodico subalpino, l’edizione torinese della «Scelta di opuscoli interessanti». Dal 1777 esso fu utilizzato dai membri della Società reale delle scienze come organo semiufficiale per dar conto delle loro ricerche sull’elettricismo e sulla natura chimica dei gas.
Malgrado gli aspetti positivi, in Italia il processo di istituzionalizzazione delle scienze dovette fare i conti con i limiti derivanti dalla frammentazione geopolitica della penisola e dalle scelte organizzative adottate in alcuni Stati. Ne è un esempio l’Accademia dei Fisiocritici che, pur conseguendo importanti risultati nello studio del territorio, non divenne mai il punto di riferimento e di organizzazione della ricerca in Toscana. L’accademia di Siena scontò così sia la sua oggettiva perifericità, sia la concezione verticistica dell’organizzazione istituzionale del granduca.
La volontà di quest’ultimo di controllare le istituzioni toscane fece fallire la proposta di costituzione di una moderna accademia delle scienze con sede a Firenze, elaborata nel 1780 dal fisico Felice Fontana. Il granduca Pietro Leopoldo si orientò verso il decisivo potenziamento di una struttura come il Gabinetto, o Museo, di fisica e storia naturale, diretto da Fontana, arricchito nel corso degli anni da numerosi macchinari e strumenti aggiornatissimi, modelli anatomici in cera, laboratorio chimico, biblioteca. Il Museo divenne l’istituzione scientifica nella quale meglio si manifestò lo stile del mecenatismo leopoldino, che promuoveva, insieme a progetti di pubblica utilità, l’immagine del principe, celebrandone la benevolenza verso i sudditi.
Il Museo fu inaugurato formalmente nel 1775 e fatto conoscere sulla scena nazionale e internazionale con la pubblicazione nello stesso anno di un importante volume promosso da Fontana (Saggio del Real Gabinetto di fisica e di storia naturale di Firenze). Divenuto un vero centro di ricerca, di sperimentazione e di irradiazione in Toscana di libri e di aggiornate dottrine scientifiche, nonché luogo di maturazione di una nuova leva di esperti al servizio del governo, negli anni successivi esso avrebbe richiesto un continuo sforzo di aggiornamento della strumentazione, motivo per il quale Fontana e il suo collaboratore Giovanni Fabbroni, destinato a succedergli alla guida del Museo, intrapresero un lungo viaggio di aggiornamento, e anche di ‘spionaggio’ industriale, a Ginevra, Parigi e Londra.
La scelta asburgica di un dispersivo policentrismo istituzionale fu una delle cause della debolezza degli istituti accademici lombardi, compresa l’Accademia di Mantova, che restò ai margini delle più vitali comunità scientifiche milanesi e pavesi. Il disegno di non concentrare uomini e mezzi e di tenere in sedi distinte i poli politico-amministrativo (Milano), universitario (Pavia), accademico (Mantova) non trovava corrispondenze in Europa, a eccezione forse della Toscana leopoldina.
Un ruolo significativo nella promozione della scienza in Lombardia fu giocato dal complesso di Brera che, già sede del collegio gesuitico, fu trasformato in un grande centro culturale polifunzionale. Vi furono concentrati l’osservatorio astronomico, l’orto botanico, i laboratori di chimica e fisica, nonché il ginnasio inferiore e superiore, le Scuole palatine e scuole tecniche, l’Accademia d’arte, la Società patriotica, la biblioteca «imperial regia». Con una vasta opera di laicizzazione della cultura, molti di quegli istituti passarono dalla gestione ecclesiastica al controllo statale, con radicale rinnovamento di ruoli e compiti. L’osservatorio, già avviato con i gesuiti, fu potenziato dopo il 1773 per volere di Maria Teresa, dotato di finanziamenti, arricchito di nuovi strumenti e presidiato da importanti scienziati: dopo Boscovich, Lagrange, Francesco Reggio, Angelo de Cesaris, Barnaba Oriani. Reggio, de Cesaris e Oriani furono i protagonisti, tra il 1788 e il 1791, dell’importante lavoro di rilevamento su base trigonometrica di un’esatta mappa della Lombardia, un lavoro che dimostrò notevoli doti organizzative.
Malgrado i limiti segnalati, va pure ribadito che la struttura istituzionale di grandi accademie messa in cantiere negli ultimi decenni del Settecento costituì una salda ossatura sulla quale si inserirono le riforme e i mutamenti elaborati in età napoleonica e, insieme con numerose accademie economico-agrarie, esse costituirono il nucleo portante della rete accademica italiana almeno sino all’Unità d’Italia e oltre, mentre la convinzione che vedeva nella scienza e nelle sue ricadute pratiche il motore del benessere sociale costituì la parola d’ordine intorno alla quale si mobilitarono gli scienziati italiani, soprattutto nelle Riunioni degli scienziati italiani che si tennero tra il 1839 e il 1847, prodromo dell’unificazione nazionale.
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