di Armando Sanguini
La tradizionale riservatezza e discrezione della politica estera saudita ha conosciuto in questi ultimi tempi segnali di significativa discontinuità. Pensiamo ai gesti di insofferenza per l’irresolutezza del gruppo degli ‘Amici della Siria’ nel sostegno alle forze di opposizione ad Assad e alla cancellazione dell’intervento del ministro degli esteri all’Assemblea generale dell’UN e da ultimo alla rinuncia al seggio non permanente nel Consiglio di sicurezza per il biennio 2014- 2015. Da membro attento e scrupoloso a soggetto capace di denunciare con clamore la ‘incapacità-non volontà’ delle Nazioni Unite – e dello stesso Consiglio - di porre fine alla spaventosa strage di popolo del regime di Assad e di sciogliere i più spinosi dossier del mondo arabo e islamico. Per manifestare la sua irritazione? Certo, ma anche per riproporre il tema di una riforma di un Consiglio non più rappresentativo della governance del pianeta e avanzare con forza la sua auto-candidatura in rappresentanza del mondo arabo e islamico. Questa rappresentanza Riyadh l’ha da sempre ricercata, coltivandola nel tempo con pazienza, tenacia e un gigantesco investimento finanziario finalizzato a far crescere una maglia internazionale di solidarismo sociale e di proselitismo religioso, in una sintesi non sempre trasparente tra dottrina wahhabita, influenza politica e ruolo di ‘custodia’ dei Luoghi santi di Mecca e Medina, destinazione di milioni di pellegrini l’anno e occasione straordinaria di tessitura di rapporti a tutto campo con gli esponenti di un ‘popolo’ di oltre 1,6 miliardi di fedeli. Sintesi non trasparente perché in quest’azione a tutto campo è arduo identificare sempre la componente portante rispetto a quelle complementari, così come risulterebbe fuorviante cercare di ricondurre l’azione di proselitismo ad un solco di coerenza religiosa. Ciò che occorre ritenere è l’assoluta priorità assegnata all’accrescimento del suo peso specifico e dunque della sua capacità di influenza attraverso l’affermazione della bandiera islamico-sunnita, perseguita nelle sue più diverse espressioni, direttamente e indirettamente attraverso esponenti della società civile e religiosa. Ciò che ha portato, ad esempio, all’umbratile fenomeno delle charities e ai reticoli di indottrinamento radical-estremista, sottoposto a una brutale politica di contrasto da parte dell’amministrazione americana a seguito dell’attacco delle Torri gemelle. Ovvero al finanziamento di nuclei di attivisti e di veri e propri movimenti politici di ispirazione islamica, non necessariamente wahhabita, e delle articolazioni assistenziali esistenti o in fieri attorno alle moschee. Su questo sfondo si sono venute a collocare le cosiddette Primavere arabe del 2011. Potenziale fattore destabilizzante, si sono rivelate col tempo un fattore coadiuvante della strategia espansionistica saudita, grazie proprio a questa consolidata disinvoltura d’azione cui hanno di fatto e diversamente concorso le altre monarchie del Golfo: annegata in un mare di denaro la debole protesta interna, ha contrastato le rivendicazioni sciite a casa sua col confronto politico e quelle più rischiose in Bahrain con la repressione armata, denunciandovi la mano di Teheran. Ha usato la mediazione in Yemen. Ha agito cioè come l’arbitro degli equilibri nella Penisola. La sua mano benedicente si è estesa nel Nord Africa, anche qui con modalità diverse: contro Gheddafi in Libia, a sostegno della monarchia e alla locale Fratellanza in Marocco; intensificando il sostegno alle forze islamiche in Tunisia; cercando dapprima di ‘usare’ la Fratellanza di Mursi e poi accogliendo con la generosità di una cospicua borsa di miliardi il colpo di stato del generale al-Sisi, sfidando apertamente l’ambigua reticenza occidentale e quell’americana in particolare. La stessa crescente instabilità irachena non è forse estranea a Riyadh che non ha mai accettato la paradossale ‘consegna’ di quel paese al controllo del gruppo sciita e di riflesso all’influenza di Teheran, seguita alla caduta di Saddam Hussein. Per qualche tempo era parsa probabile anche la caduta di Assad, altro grande alleato dell’Iran. Quest’obiettivo si è poi progressivamente allontanato, per responsabilità dei ribelli, per lo stallo in sede di Consiglio di sicurezza, ma anche per le cautele degli ‘Amici della Siria’ e degli USA in particolare. Poi è venuto l’accordo USA-Russia sugli arsenali chimici col quale si è definitivamente sacrificata l’opzione del rovesciamento manu militari di Assad in favore di una soluzione politica - la Conferenza di pace (Ginevra 2) - di cui appare arduo intravvedere i termini concreti. Riyadh però non demorde, avendo dalla sua, ora, anche la chiamata di correo per crimini di guerra pronunciata dal Commissario UN per i diritti umani. Tanto più che si trova a fare i conti con un ulteriore fattore critico anche in termini di divaricazione con gli USA: l’intesa preliminare di Ginevra siglata col gruppo 5+1 sul programma nucleare iraniano. Per quanto tutta da verificare nel tempo, essa ha comunque aperto la prospettiva di una Teheran in graduale recupero di cittadinanza regionale e mondiale. Benedetta da Washington in coerenza con la nuova strategia di pax multipolare che Obama appare intenzionato a portare avanti in Medio Oriente, questa dinamica viene vista come prodromo di un parallelo ridimensionamento delle sue ambizioni regionali e di una inesorabile rivisitazione di alcuni dei termini di equilibrio su cui poggia l’alleanza, pur sempre solida, con gli USA. E si prepara, in chiave polemicamente strumentale, come si è visto ma anche attraverso un richiamo alla coesione araba e islamica, azioni volte all’allargamento delle sue partnership, dall’Asia all’Africa passando da Mosca. Senza escludere gesti distensivi verso Teheran con cui la partita del confronto settario-egemonico non è certo destinata a diminuire.