La responsabilità proporzionale della pubblica amministrazione
La Plenaria con la sentenza 12.5.2017, n. 2, affronta il tema delle conseguenze dell’ineseguibilità del giudicato che dà ragione al controinteressato. Nel fare ciò disegna un’ipotesi di responsabilità dell’amministrazione quella di cui all’art. 112, co. 3, c.p.a. limitandosi ad operare una scelta arbitraria di allocazione delle conseguenze dannose in capo all’amministrazione. Ma disegna un caso di risarcimento del danno, la cui riconduzione a sistema risulta tutt’altro che agevole. Lo sforzo del giudice amministrativo è imponente nella misura in cui rivela ancora una volta la “crisi” del giudicato, che è crisi del processo, e ribadisce ancora una volta come la definizione della responsabilità dell’amministrazione, poggi anche nell’ordinamento italiano sul formante giurisprudenziale. Le conclusioni alle quali giunge l’Adunanza plenaria lasciano un ragionevole margine di riflessione per l’affermazione di una responsabilità proporzionale dell’amministrazione.
La relazione tra il processo amministrativo e l’azione di risarcimento del danno è stata da sempre a dir poco tormentata. La progressiva introduzione dell’esperibilità dell’azione risarcitoria, dapprima all’interno della giurisdizione esclusiva e solo a partire dall’avvio del nuovo millennio anche in seno alla giurisdizione generale di legittimità, è stata accompagnata da un elevato margine di incertezza in ordine non solo al sostrato sostanziale di riferimento nella definizione degli elementi dell’illecito dell’amministrazione, ma anche a quello processuale. Impossibile in questa sede soltanto accennare a tematiche quali quelle della cd. pregiudizialità ovvero dell’esatta decorrenza del dies a quo per proporre l’azione risarcitoria, non resta che prendere atto dell’emersione di un ulteriore elemento di criticità, che la pronuncia dell’Adunanza plenaria, n. 2/2017, non pare riuscire a risolvere in modo convincente.
Ma procediamo con ordine e riduciamo l’oggetto della presente indagine, perché gran parte della citata sentenza del massimo consesso della giustizia amministrativa, si trova ad affrontare la delicata tematica delle conseguenze del giudicato non eseguibile. Ossia della possibilità per il titolare del bene della vita, che non possa più conseguirlo pur potendo contare su di un giudicato favorevole, di soddisfare per equivalente la propria pretesa.
L’Adunanza plenaria è chiamata a districarsi tra una serie di questioni giuridiche di non facile soluzione in materia in presenza di non pochi elementi di disturbo, quali l’acclarata “crisi” del giudicato1, l’assenza di una disciplina chiara degli elementi dell’illecito da attività amministrativa autoritativa, ed il contemporaneo insorgere di un contrasto all’interno della giurisprudenza della Cassazione civile sul tema della causalità. Una vera e propria tempesta perfetta, che si materializza nel contenzioso, i cui termini fattuali devono così essere ricostruiti: a) all’esito di una procedura di gara per l’affidamento di un appalto di fornitura e lavori, una stazione appaltante aggiudica la gara ad un’A.T.I.; b) successivamente, rilevato che l’impresa mandataria della detta A.T.I. aveva una posizione contributiva irregolare, revocava l’aggiudicazione provvisoria a suo favore ed aggiudicava definitivamente la gara ad altra impresa concorrente; c) entrambi i provvedimenti venivano impugnati dall’originaria aggiudicataria; d) il TAR accoglieva il ricorso, ponendo nel nulla l’efficacia dei detti provvedimenti; e) la sentenza di primo grado veniva impugnata dinanzi alla IV Sezione del Consiglio di Stato, che, respinta la richiesta di sospensione cautelare, rilevava la presenza di un contrasto giurisprudenziale sulla questione concernente la possibilità di ammettere la cd. regolarizzazione postuma del DURC negativo e rimetteva la questione all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato; f) quest’ultima, con sentenza Cons. St., A.P., 29.2.2016, n. 6, sconfessava la tesi propugnata dal TAR ed accoglieva l’appello, confermando, pertanto, la bontà dei provvedimenti impugnati; g) l’appellante, quindi, proponeva ricorso per ottemperanza, lamentando che la stazione appaltante, nonostante a tanto diffidata, non eseguiva il giudicato e conseguentemente domandava l’affidamento dell’appalto in questione con correlata penalità di mora per il ritardo, ovvero, in subordine, in caso di impossibilità di esecuzione della sentenza il risarcimento del danno.
Il contenzioso giunge, quindi, all’attenzione dell’Adunanza plenaria non in ragione della remissione operata in forza di quanto dispone il co. 1 o il co. 3, art. 99, c.p.a. ovvero in ragione di un contrasto giurisprudenziale o di una richiesta di revirement, ma in quanto il giudicato di cui si invoca l’ottemperanza è una pronuncia resa dall’Adunanza plenaria in sede di cognizione. Difetta, pertanto, la presenza di quesiti formulati dalla Sezione remittente, ed il giudizio si articola in ragione delle specifiche domande della parte vittoriosa in cognizione e delle difese esposte dall’amministrazione intimata, nonché dall’originaria ricorrente nel giudizio di cognizione.
La prima, in particolare, sottolineava, da un lato, l’assenza di un’inottemperanza al giudicato, per essere stato il contratto interamente eseguito interamente prima della pubblicazione della sentenza dell’Adunanza plenaria, n. 6/2016. Dall’altro, invece, evidenziava la responsabilità unica dell’illegittimo affidatario ed esecutore dei lavori.
La seconda, invece, sosteneva il difetto di legittimazione passiva in relazione alla domanda risarcitoria, essendosi limitata a dare esecuzione alla sentenza di primo grado che sarebbe stata in seguito riformata dall’Adunanza plenaria.
L’Adunanza plenaria, n. 2/2017, per risolvere il contenzioso, individua le seguenti questioni: a) la natura, i presupposti e l’ambito soggettivo dell’azione disciplinata dall’art. 112, co. 3, c.p.a.; b) le peculiarità derivanti dalla circostanza che il giudicato accerti la legittimità del provvedimento impugnato e l’influenza delle vicende processuali; c) la quantificazione del danno da mancata aggiudicazione ed il correlato regime probatorio.
I giudici di Palazzo Spada chiariscono immediatamente che il parametro normativo di riferimento per collocare la domanda risarcitoria proposta dalla ricorrente è dato dall’art. 112, co. 3, c.p.a., come novellato dal d.lgs. 15.11.2011, n. 195, secondo il quale: «Può essere proposta, anche in unico grado dinanzi al giudice dell’ottemperanza, azione di condanna al pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza, nonché azione di risarcimento dei danni connessi all’impossibilità o comunque alla mancata esecuzione in forma specifica, totale o parziale, del giudicato o alla sua violazione o elusione». In definitiva, il risarcimento consegue all’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato, essendo stata, medio tempore, la prestazione del contratto oggetto di gara integralmente eseguita. La pronuncia mette sin da subito in luce la distanza tra il modello contenuto nel citato art. 112, e l’archetipo rappresentato dall’art. 1218 c.c. Questi i tratti di peculiarità: a) il presupposto rappresentato dal danno derivante da impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato, pur in assenza di un’elusione o violazione dello stesso; b) il carattere non solo processuale, ma anche sostanziale della norma che in deroga al dettato di cui all’art. 1218 c.c. prevede una forma di responsabilità che prescinde dall’inadempimento imputabile alla parte tenuta ad eseguire il giudicato, attraverso una conversione ex lege dell’obbligo di assicurare il bene in forma specifica nell’obbligo di risarcire il danno.
Da ciò deriva, quindi, che si è in presenza di una responsabilità oggettiva, per la quale non è ammessa alcuna liberatoria fondata sull’assenza di dolo o colpa a favore del danneggiante, ma solo la dimostrazione del venir meno del nesso causale. L’azione in questione si colloca, quindi, all’interno di quella concezione rimediale, che assicura l’effettività della tutela giurisdizionale.
L’obbligazione risarcitoria ex lege fonda, quindi, su due elementi oggettivi, rappresentati dal nesso di causalità e dall’antigiuridicità della condotta: la mancata esecuzione del giudicato deve dipendere dalla condotta del danneggiante e non deve essere giustificata da alcuna scusante.
Ai fini del riscontro del nesso di causalità la Plenaria richiama quali norme di riferimento quelle di cui agli artt. 40 e 41 c.p., che declinano la regola della condicio sine qua non temperata dal principio di causalità efficiente. Pertanto, come nel sistema civilistico il creditore è tenuto ad allegare e provare l’esistenza del titolo e ad allegare l’esistenza di un valido nesso causale secondo la regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non”. Mentre spetta in capo al debitore l’onere di provare il fortuito, comprensivo del fatto del terzo, restando a suo carico il fatto ignoto.
Inquadrati in termini generali la natura ed i presupposti dell’azione, i giudici di Palazzo Spada ne passano a trattare l’ambito soggettivo, dal momento che la richiesta risarcitoria viene avanzata non solo nei confronti della stazione appaltante, ma anche dell’ATI esecutrice delle opere. Al riguardo, la Plenaria richiama l’orientamento secondo il quale la giurisdizione del giudice amministrativo in forza della natura solidale della responsabilità può estendersi all’impresa beneficiaria del provvedimento illegittimo, che in caso l’azione risarcitoria venga spiegata in sede di ottemperanza poggia anche sull’obbligo di esecuzione del giudicato che non grava sulla sola amministrazione, ma si estende anche alle parti private. Ma lo ritiene poco convincente, da un lato perché le norme processuali dalle quali vengono tratti argomento a sostegno dell’opposta tesi non possono che presupporre e non fondare la giurisdizione; dall’altro, perché l’azione in questione avente ad oggetto un diritto soggettivo vedrebbe protagoniste due parti private, sicché una diversa interpretazione non sarebbe in linea con il precetto costituzionale contenuto nell’art. 103 Cost. che lega la giurisdizione del g.a. alla necessaria presenza di una parte pubblica.
In questo senso la necessaria estensione del contraddittorio al soggetto privato intimato e l’obbligo anche su questo gravante di darvi esecuzione si spiega con la necessità di rendere opponibile il dictum giudiziale anche al terzo e di fare in modo che anche il privato ponga in essere quei comportamenti riflessi e consequenziali rispetto all’attività adempitiva dell’amministrazione, necessari per assicurare l’esecuzione in forma specifica del giudicato.
Ciò non esclude, precisa la Plenaria, che l’amministrazione possa esercitare un’azione di regresso nei confronti del privato beneficiario dell’atto, questione esulante dal thema decidendi oggetto della pronuncia in esame.
Rispetto alla detta ricostruzione teorica l’Adunanza, da un lato, ha cura di precisare, con un passaggio che avrebbe meritato, però, un maggiore approfondimento, che l’esistenza di una pronuncia esecutiva del TAR sia in grado di recidere il nesso causale tra la condotta dell’amministrazione e l’impossibilità di eseguire il giudicato. Dall’altro, rimarca che all’indomani della pronuncia di primo grado vi è stata una particolare accelerazione sia della fase dell’aggiudicazione e della stipulazione del contratto avvenute senza attendere l’udienza cautelare dinanzi al Consiglio di Stato, sia di quella dell’esecuzione dei lavori conclusi prima della celebrazione dell’udienza di merito.
Pertanto, pur in assenza di ragioni di urgenza la stazione appaltante ha agito non osservando alcuna cautela, ossia al di fuori di quella “normale prudenza” imposta dall’art. 96 c.p.c., che integra un profilo colposo sia pure nella fattispecie non necessario anche in conformità con l’impostazione comunitaria in materia. Ancora non è corretto sostenere che la condotta contestata inerente alla stipulazione del contratto sarebbe coperta dalla sentenza di prime cure, dal momento che il giudicato di riforma di quella sentenza travolge ex art. 334, co. 2, c.p.c. sia il provvedimento di aggiudicazione che il contratto.
Una volta accertata l’esistenza dell’an debeatur la Plenaria passa a trattare la non meno complessa questione della quantificazione del danno nel caso di mancata aggiudicazione, che il giudicato accerti sarebbe spettata all’impresa danneggiata. Al riguardo, i giudici di Palazzo Spada premettono i punti fermi raggiunti dalla giurisprudenza, ossia: a) la necessità che il danneggiato offra la prova dell’an e del quantum debeatur; b) l’individuazione delle poste di danno del lucro cessante nell’interesse positivo rappresentato dal mancato utile e dal danno curricolare; c) l’onere gravante sul danneggiato di offrire la prova dell’utile che avrebbe conseguito in omaggio al principio dispositivo pieno; d) la possibilità di utilizzazione della valutazione equitativa solo in caso di impossibilità o di estrema difficoltà di una precisa prova sull’ammontare del danno; e) l’impossibilità di utilizzare la c.t.u., anche quella percipiente, quale scorciatoia probatoria; f) la possibilità di fare ricorso alle presunzioni che consentano di risalire univocamente da un fatto noto ad un fatto ignoto secondo un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit; g) l’impossibilità di invocare l’applicazione automatica della percentuale del 10% dell’importo a base d’asta; h) la necessità di offrire la prova anche del danno curricolare; i) la spettanza integrale del mancato utile solo nel caso di prova dell’impossibilità di utilizzo altrove delle risorse dell’impresa secondo l’ordinaria diligenza, dovendo in difetto farsi luogo ad una decurtazione dell’ammontare del risarcimento secondo il criterio dell’aliunde perceptum vel percipiendi; j) la somma liquidata a titolo di danno deve essere maggiorata dalla rivalutazione monetaria (secondo l’indice medio dei prezzi al consumo elaborato dall’Istat) dalla data di pubblicazione della sentenza del cui giudicato si invoca l’ottemperanza, nonché dalla corresponsione degli interessi compensativi (determinati in via equitativa assumendo il tasso legale) calcolati sulla somma periodicamente rivalutata e degli interessi legali sulla somma complessiva dal giorno della pubblicazione della sentenza di ottemperanza sino al soddisfo.
Gli spunti che possono trarsi dalla pronuncia n. 2/2017 dell’Adunanza plenaria sono davvero numerosi. In questa sede ci si limiterà a sottolineare quelli più eclatanti. Innanzitutto, l’intervento della Plenaria è necessitato in ragione di un fenomeno che investendone molteplici aspetti ha fatto coniare la locuzione di “crisi” del giudicato. Il dictum giurisdizionale esauriti gli ordinari mezzi di impugnazione conosce numerosissime ipotesi nelle quali non si pone quale la definitiva regolamentazione giuridica del rapporto controverso in giudizio, ma come un passaggio intermedio sulla via della possibile soddisfazione del ricorrente vittorioso in cognizione. Pertanto, se il giudizio di ottemperanza nasce come strumento da utilizzarsi per il caso in cui la parte soccombente in cognizione non intenda eseguire il precetto contenuto nel giudicato, attualmente si sviluppa una concezione dell’ottemperanza quale stanza di compensazione. Quale strumento per ponderare le sopravvenienze giuridiche e fattuali, che incidono sul giudicato.
Questa “crisi” se non adeguatamente gestita finisce inevitabilmente per tradursi in una crisi dello stesso potere giurisdizionale, che trova la sua ragion d’essere nella capacità di adottare precetti risolutivi di una controversia. La “crisi” del giudicato, in definitiva, se portata alle sue estreme conseguenze, potrebbe tradursi in una spinta incontenibile verso rimedi non giurisdizionali di definizione delle controversie.
Normalmente nella nozione di “crisi” del giudicato vengono ricondotte le ipotesi di giudicato rimovibile dalla pronuncia comunitaria, ovvero rescindibile dall’ius superveniens o permeabile alla pronuncia di illegittimità costituzionale della norma applicata dal provvedimento passato in cosa giudicata.
Accanto a queste ipotesi deve, come in fondo riconosciuto dallo stesso legislatore all’art. 112, co. 3, c.p.a, ricondursi quella del giudicato non eseguibile ossia di quella pronuncia definitiva che per vicende maturate nel corso, e come nella fattispecie a causa del giudizio, diviene non eseguibile. L’ineseguibilità, si badi, secondo il citato precetto normativo, non comporta l’inesistenza del giudicato, ma impone una trasformazione dell’utilità spettante alla parte vittoriosa del giudizio di cognizione in termini di equivalenza monetaria.
La distanza tra questa ipotesi e quelle che ordinariamente vengono evocate quando si utilizza la locuzione di “crisi” del giudicato è data dal fatto che non ci si trova dinanzi ad un contrasto radicale tra il dictum del giudice ed una fonte di rango sovraordinato, che può spingere, per ricondurre ad armonia il sistema, ad una rilettura del principio di intangibilità del giudicato.
La “crisi” del giudicato, che si evoca in questa sede trae fondamento all’interno dello stesso processo e proprio per questo esalta quella dimensione di crisi e di profondo disagio, che induce la frustrazione delle buone ragioni della parte vittoriosa nel giudizio di cognizione.
Una crisi ancora più profonda, perché non coglie il dato formale del giudicato, ma colpisce il giudicato al cuore, ossia sul versante più schiettamente sostanziale, quasi vanificando del tutto il tempo impiegato dalla parte per ottenere giustizia. Nella fattispecie il controinteressato e l’amministrazione resistente vedono riconosciuta alla fine, con il giudicato appunto, la bontà delle proprie ragioni in sede di cognizione, ma l’andamento delle vicende procedimentali e processuali, impedisce di vedere realizzato l’assetto di interessi da loro tutelato. Qui interviene il co. 3, art. 112, c.p.a. e la pretesa sostanziale insoddisfatta si tramuta in riconoscimento di un danno. Ma chi ha patito il danno e chi lo ha prodotto? Qual è l’entità del danno?
Le domande con le quali si è chiuso il precedente paragrafo possono trovare risposta solo in sede di ottemperanza. Come si accennava sopra l’ottemperanza nasce per consentire al ricorrente vittorioso di piegare coattivamente alle proprie ragioni l’amministrazione riottosa. Questa funzione originaria non può più ritenersi esclusiva. Così, se il giudicato resta l’anello di congiunzione tra la fase di accertamento delle posizioni giuridiche dedotte in giudizio e l’attuazione dell’assetto di interessi ivi accertato.
L’ottemperanza sviluppa nuove funzioni2 a guisa della crisi della certezza che dovrebbe connotare il giudicato. Crisi di certezza che sposta il giudizio di ottemperanza da una dimensione meramente esecutiva ad una dimensione sempre più marcatamente cognitoria, come dimostrato dal caso deciso dalla pronuncia in esame.
Il giudicato nella situazione fronteggiata dall’Adunanza plenaria non rappresenta il punto finale ed irretrattabile della vicenda giurisdizionale, ma al contrario un momento di instabilità che proietta le parti verso un giudizio che è pienamente cognitorio più che esecutivo. L’immutabilità delle situazioni definite con la pronuncia passata in giudicato è minata al suo interno dallo stesso processo necessario per giungervi. Ecco che l’ottemperanza appare come un rimedio al processo più che come il suo completamento. La domanda di risarcimento contemplata dall’art. 112, co. 3, c.p.a. secondo l’esegesi offerta dall’Adunanza plenaria non è la domanda alternativa alla domanda che avrebbe potuto aprire il giudizio di cognizione, non è rimedio per equivalente rispetto alla domanda di annullamento.
Questo appare evidente in ragione del fatto che il giudicato non si relazione con l’eventuale riesercizio del potere, atteso che la domanda di risarcimento poggia sull’impossibilità che quel potere venga riesercitato a favore della parte vittoriosa nel giudizio di cognizione. L’ottemperanza, quindi, in questa dimensione assume prepotentemente i caratteri del giudizio di cognizione con l’incertezza che ne caratterizza ab imis la funzione e che è speculare rispetto alla certezza che normalmente caratterizza il giudicato sul quale si attiva l’ottemperanza nella sua dimensione più tradizionale.
Il concorrente ad una gara d’appalto impugna il provvedimento con il quale la stazione appaltante revoca l’aggiudicazione provvisoria a suo favore ed affida l’appalto ad altro concorrente. All’esito dei due gradi di giudizio il ricorso in questione si rivela infondato, ma poiché l’amministrazione ha dato esecuzione alla sentenza di primo grado che accoglieva il detto gravame, le prestazioni oggetto dell’appalto non può più essere eseguito.
Il diritto del concorrente all’aggiudicazione della gara in sede di ottemperanza si converte in diritto al risarcimento del danno che viene imputato all’amministrazione, pur se i provvedimenti impugnati in sede di cognizione vengono ritenuti legittimi, sicché deve ritenersi che anche l’amministrazione sia parte vittoriosa del giudizio.
L’operazione ermeneutica compiuta dall’Adunanza plenaria ad un esame dall’alto pare quella di mera allocazione delle conseguenze del danno patito dal controinteressato, che vengono imputate in capo all’amministrazione, nonostante la riscontrata legittimità degli atti sui quali si è incentrato il giudizio di cognizione e sull’eventuale responsabilità in via di regresso del ricorrente.
Se il giudicato non accerta definitivamente l’intero rapporto giuridico controverso è evidente che la problematica affrontata dall’Adunanza plenaria è essenzialmente una problematica che ha ad oggetto la natura, la disciplina ed i confini di una particolare ipotesi di responsabilità dell’amministrazione.
Responsabilità che è diversa da quella, ad esempio, espressamente prevista dall’art. 124 c.p.a., che rappresenta un’alternativa fisiologica già in chiave di cognizione alla tutela in forma specifica. Sicché nel caos in cui il giudice ritenga di non dover dichiarare l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato. Nella fattispecie in esame non solo la soddisfazione in forma specifica non è possibile, ma il danno non è geneticamente riconducibile all’illegittimità dell’atto impugnato, che è, infatti, riconosciuto, legittimo, ma ad una successiva attività illegittima dell’amministrazione. A questo punto occorre prestare attenzione ad un elemento: l’art. 112, co. 3, c.p.a. col prevedere li risarcimento del danno in caso di impossibilità di esecuzione del giudicato non giustifica di per sé la bontà della risposta offerta dall’Adunanza plenaria. La norma, in questione, infatti, potrebbe intendersi come limitata al caso in cui il giudizio di cognizione si concluda con l’accertamento dell’illegittimità dell’atto impugnato e però in ragione di sopravvenienza il giudicato con il suo effetto caducatorio o conformativo non possa in alcun caso soddisfare la pretesa sostanziale del ricorrente. In questo caso il risarcimento del danno rappresenta in sede di ottemperanza un rimedio per equivalente rispetto alla tutela in forma specifica non erogabile. Ossia come un rimedio analogo a quello assicurato in sede di cognizione dall’art. 124 c.p.a.
Pertanto, la norma contenuta nell’art. 112, co. 3, c.p.a. ha una sua ragion d’essere sufficiente nel fronteggiare l’ipotesi in questione. La scelta dell’Adunanza plenaria, in assenza di un’esplicita indicazione normativa in questo senso, di ritenere che la norma copra anche il caso del danno cagionato al controinteressato, perché il riconoscimento della legittimità del provvedimento non può più essere fatta valere non è necessitato. Al contrario, è un primo approdo discrezionale dell’interpretazione offerta dalla pronuncia in esame, che impone di domandarsi quale sia lo stato dell’arte in termini di responsabilità della pubblica amministrazione da attività autoritativa anche in relazione all’impostazione prescelta in altri ordinamenti europei e nell’ordinamento dell’Unione europea.
L’immunità dell’amministrazione dal subire azioni risarcitorie quale riflesso dell’immunità del sovrano è una condizione che caratterizza il diritto europeo continentale per gran parte del novecento. Sicché, l’affermazione della responsabilità dell’amministrazione nell’esercizio del potere autoritativo è frutto di un percorso evolutivo ancora in divenire, che in nessuno degli ordinamenti occidentali ha conosciuto una totale equiparazione con il regime di responsabilità dei privati. Sia in forza della diversità ontologica che si riconosce all’attività autoritativa dell’amministrazione rispetto all’attività del privato, che in forza del fatto che si tiene in considerazione l’interesse della collettività sulla quale ricadono normalmente le conseguenze economiche dell’azione risarcitoria.
Ecco, quindi, che nell’ordinamento italiano, come in quello inglese, in quello francese o in quello dell’Unione Europea l’illegittimità dell’atto non si traduce ex se in illiceità della condotta dell’amministrazione3.
Abbiamo così che l’invalidità che rileva ai fini dell’esperimento dei rimedi pubblicistici, quale l’adozione di un atto ultra vires non esaurisce lo sforzo probatorio richiesto al danneggiato in un’azione in tort. Del pari, nell’ordinamento francese nel quale la distanza tra illegittimità dell’atto amministrativo e condotta illecita dell’amministrazione risulta più stretto, il più recente orientamento del Conseil d’Etat, esclude che l’illegittimità per meri vizi formali in presenza di decisioni sostanzialmente corrette possa condurre all’affermazione della responsabilità dell’amministrazione. Senza dire che limitazioni alla responsabilità dell’amministrazione vengono rinvenute sotto il profilo del nesso causale specie per le attività di controllo o di regolazione ovvero nel caso in cui si riconosca la rilevanza del fatto del terzo.
Allo stesso modo il regime di responsabilità dell’amministrazione comunitaria o nazionale non viene declinato semplicemente sulla scorta della presenza del danno e del nesso causale in costanza di un atto illegittimo, richiedendo la Corte di giustizia non la dimostrazione della colpa dell’amministrazione, ma la ricorrenza di una violazione grave e manifesta di una norma del diritto europeo. Violazione che denoti il superamento dei limiti della discrezionalità amministrativa considerata la complessità o ambiguità del dato normativo, la intenzionalità dell’errore o la sua scusabilità. L’approccio seguito dall’Adunanza plenaria fa propri i punti comuni dell’impostazione seguita nei citati ordinamenti dal momento che: a) sebbene richiami la disciplina della responsabilità da inadempimento di cui all’art. 1218 c.c. segnala la differenza tra il regime privatistico e quello pubblicistico contemplato dall’art. 112, co. 3, c.p.a. in termini di specialità della seconda rispetto alla prima; b) l’illegittimità dell’atto adottato dall’amministrazione nel corso del giudizio non si traduce automaticamente in inadempimento dell’obbligazione del giudicato ossia in illecito. Infatti, sebbene all’interno di paradigma di responsabilità oggettiva, l’Adunanza plenaria ha cura di rimarcare come l’attività successiva alla pronuncia di primo grado da parte dell’amministrazione, ossia l’affidamento dell’appalto a favore del ricorrente e la stipula con quest’ultimo del contratto facciano emergere profili di colpa, che integrano il presupposto dell’assenza della normale prudenza i cui all’art. 96 c.p.c.; c) nel sottolineare quest’ultimo aspetto la Plenaria sottolinea l’utilizzo scorretto di un potere discrezionale, una gestione incauta dell’assetto di interessi in gioco in presenza di un quadro normativo ed interpretativo talmente poco chiaro da imporre l’intervento nomofilattico dell’Adunanza plenaria.
Tanto premesso non si può nascondere un passaggio troppo debole nella motivazione della pronuncia in esame che è quello relativo alla verifica dell’antigiuridicità della condotta dell’amministrazione.
E, infatti, il massimo consesso di giustizia amministrativa evidenzia che la sentenza del giudice di prime non ha capacità di interrompere il nesso causale tra il comportamento dell’amministrazione e l’impossibilità di eseguire il giudicato, ma non spiega se quella sentenza esecutiva, peraltro, non sospesa dal Consiglio di Stato potesse condurre a ritenere il danno jure, ossia giustificato proprio dall’avallo del primo giudice. Non spiega, in definitiva, se al di là di ogni valutazione sul crinale della colpa, se la condotta dell’amministrazione possa ritenersi scusabile. Potremmo chiederci rifacendoci alle conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza della Corte di giustizia: siamo in presenza di una violazione di una norma chiara e manifesta? La risposta dovrebbe essere negativa, visto che la questione del DURC negativo per essere chiarita necessita dell’intervento nomofilattico dell’Adunanza plenaria, ma a questo punto, per qualificare in termini di antigiuridicità la condotta dell’amministrazione, dovremmo dire che la norma violata è da rinvenirsi nell’art. 96 c.p.c. Soluzione quest’ultima davvero in salita che comporterebbe rilevanti conseguenze nell’atteggiamento processuale dell’amministrazione.
Ulteriori spunti di riflessione sorgono nell’esaminare l’elemento di responsabilità al quale l’Adunanza plenaria dedica maggiore attenzione, ossia il nesso di causalità tra la condotta dell’amministrazione ed il danno cagionato al privato. I giudici di Palazzo Spada si rifanno all’orientamento dominante nella giurisprudenza civile, che accoglie il criterio della condicio sine qua, che tiene conto della prevedibilità ex ante e non ex post per l’applicazione degli artt. 40 e 41
c.p. e della soglia del più probabile che non. Secondo il modello prescelto dalla giurisprudenza civile dominante i fattori causali concorrenti o gli stati pregressi o sono in grado di interrompere il nesso causale della condotta umana o sono irrilevanti secondo il criterio: “all or nothing”.
Al fine di attenuare la rigidità di una simile lettura una giurisprudenza minoritaria della Cassazione (Cass., 16.1.2009, n. 975) propone un modello causale proporzionale che scompone la causa materiale dell’evento, riconoscendo come l’evento possa essere ricondotto a una pluralità di serie causali che devono essere rilevanti anche se non imputabili ad un distinto danneggiante4. Ciò consente di imputare al danneggiante una quota, quella effettivamente riconducibile alla propria condotta, del più ampio danno cagionato. In questo modo si riduce la forbice esistente tra causalità materiale e causalità giuridica. Si tende quindi ad atomizzare le singole serie causali ed a frazionare le responsabilità già in sede di ricostruzione del nesso causale.
Questa tesi pesantemente bocciata dalla successiva giurisprudenza della Cassazione (ex plurimis, Cass., 21.7.2011, n. 15991), potrebbe essere efficacemente recuperata per comprendere il regime di responsabilità dell’amministrazione disegnato dall’art. 112, co. 3, c.p.a., introducendo un meccanismo che limita già sul piano causale la responsabilità dell’amministrazione, riconoscendo rilevanza a stati pregressi, quale il contrasto giurisprudenziale sul tema del DURC negativo, ovvero a fattori causali autonomi quali la pronuncia di primo grado ovvero la condotta del ricorrente.
In questo modo si potrebbe dimensionare un regime di responsabilità che non faccia suonare come troppo pesante una condanna per l’amministrazione e che riconosca che lo stato di incertezza che caratterizza i fenomeni sociali nel nostro modello di sviluppo è un elemento che non deve essere monetizzato a favore di qualcuno, dovendo il danno prodotto da un simile stato essere ripartito tra tutte le parti del giudizio.
1 Cordopatri, F., La “crisi” del giudicato?, in Riv. Dir. Proc., 2015, 894 ss.
2 Francario, F., La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2016, 1025 ss.
3 Marchetti, B., La responsabilità civile della pubblica amministrazione: profili comunitari e comparati, in Dir. proc. amm., 2017, 499 ss.
4 Cortese, M., Profili della causalità civile e criteri di definizione e liquidazione del danno, in Danno e Resp., 2017, 142 ss.