La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. Corpi, materia e spazio
Corpi, materia e spazio
Autore di un trattato filosofico di grande successo, 'storico del re' e difensore della nobiltà, Scipion Dupleix (1569-1661) non poté fare a meno di osservare che "vi è tanto rumore tra gli scolastici riguardo alla costituzione della materia che la conciliazione di tutte le loro posizioni richiederebbe un eccessivo dispendio di tempo" (La physique, p. 129); un commento del genere indica chiaramente l'esistenza di una grande varietà di punti di vista nelle dottrine fisiche e metafisiche del XVII secolo. All'inizio dell'Età moderna, infatti, benché le scuole seguitassero a essere dominate dalla filosofia di Aristotele, emerse una crescente insoddisfazione nei riguardi dei concetti aristotelici, inclusi quelli relativi ai corpi, allo spazio e al vuoto. Ciò contribuì a mettere in luce alcune divergenze registrate da lunga data tra i difensori dell'aristotelismo, ed espose il Filosofo a sempre più frequenti osservazioni critiche. In effetti, in questo periodo, le differenze si approfondirono a tal punto da rendere difficile stabilire quali pensatori potessero essere definiti aristotelici basandosi esclusivamente sulle loro dottrine. Spesso, infatti, essi seguitavano a considerarsi aristotelici anche quando si discostavano dal pensiero di Aristotele. È sufficiente ricordare il caso di un trattatista del XVII sec., Théophraste Bouju, il cui Corps de toute la philosophie (1614) era sottotitolato: Le tout par demonstration et auctorité d'Aristote, avec eclaircissement de sa doctrine par luy-mesme. Nonostante quanto aveva asserito nel sottotitolo, Bouju in questo trattato negò l'esistenza della sfera del fuoco e di una rigida distinzione tra il mondo sublunare e quello celeste, dottrine che svolgevano innegabilmente un ruolo di primo piano nel pensiero di Aristotele e che non potevano essere abbandonate senza rielaborare le teorie aristoteliche dei quattro elementi, del moto naturale e violento e della diversità tra il mondo sublunare e quello celeste.
Naturalmente, vi era anche chi giudicava insignificanti i contrasti di opinioni tra gli aristotelici. René Descartes, per esempio, asserì che "quanto alla filosofia scolastica, non credo sia difficile da confutare a causa della diversità delle opinioni espresse dagli scolastici, dal momento che si possono facilmente demolire i principî fondamentali su cui essi concordano e, una volta completata quest'opera, tutte le loro dispute appariranno insensate" (Descartes a Mersenne, 11 novembre 1640, in AT, III, pp. 231-232). A prescindere dall'esistenza di principî fondamentali su cui tutti gli scolastici concordavano o di un'effettiva molteplicità di vedute sugli intenti del Filosofo, è possibile individuare due principali poli d'attrazione nel campo dell'aristotelismo, rappresentati rispettivamente da Tommaso d'Aquino e da Giovanni Duns Scoto con i rispettivi seguaci. In generale, coloro che appartenevano a una scuola tendevano a presentare le teorie che si discostavano dalle dottrine di Aristotele come tentativi di elaborazione delle sue intenzioni; al di fuori delle scuole, invece, le stesse teorie erano interpretate come critiche alle dottrine del Filosofo. Questa situazione diede naturalmente luogo, in entrambi i campi, a una serie di eccessi retorici. Sdegnato per l'atteggiamento critico che i novatores mostravano nei confronti di Aristotele, Marin Mersenne, per esempio, li biasimò affermando che:
Francesco Patrizi ha tentato di gettare il discredito sulla filosofia di Aristotele, ma non ha conseguito risultati più soddisfacenti di quelli ottenuti da Basson, Gorlée, Bodin, Charpentier, Hill, Olive e molti altri che, attraverso le loro opere, hanno elevato monumenti alla fama di Aristotele, dal momento che, nonostante tutti i loro sforzi, non sono riusciti a innalzarsi fino ad abbattere il volo e la gloria del filosofo peripatetico, che trascende ogni aspetto dei sensi e dell'immaginazione, e strisciano a terra come vermi: Aristotele è un'aquila in campo filosofico, mentre gli altri non sono che uccellini che tentano di spiccare il volo senza avere ancora le ali. (La vérité des sciences, pp. 109-110)
A parte l'atteggiamento difensivo di Mersenne, nella maggior parte dei casi le critiche degli scolastici non erano rivolte ad Aristotele, ma ad alcune specifiche interpretazioni della sua dottrina e alle posizioni eterodosse di molti di coloro che avevano il compito di perpetuare la sua filosofia all'interno delle scuole. A partire dalla metà del XVII sec., gli scolastici iniziarono abitualmente ad accusarsi tra loro di dissenso interno e di incoerenza filosofica. L'emergere di questi atteggiamenti critici coincise con l'ideazione di nuovi sistemi filosofici deliberatamente elaborati in alternativa alle tradizionali interpretazioni della fisica e della metafisica aristoteliche. Alcuni pensatori tentarono di attenuare le differenze esistenti tra questi sistemi antagonisti ‒ come, per esempio, René le Bossu, che nel 1674 pubblicò il trattato Parallèle des principes de la physique d'Aristote et de celle de René Des Cartes ‒ mentre altri si convinsero della necessità di adottare un atteggiamento eclettico, vale a dire di combinare gli elementi a loro parere più convincenti delle nuove e delle vecchie filosofie. Naturalmente, le nuove filosofie dovevano molto, a vari livelli, alla tradizione che si proponevano di superare.
Per ricostruire il percorso seguito dalla filosofia della Natura nella transizione dalla tradizione peripatetica alle nuove dottrine dei 'moderni', è necessario conoscere il contesto filosofico in cui si erano formati sia gli scolastici sia i novatores. All'interno della tradizione, la filosofia era abitualmente divisa in speculativa e pratica, a sua volta ripartita in filosofia morale e arti meccaniche. La filosofia speculativa includeva la metafisica, le scienze matematiche e la filosofia della Natura (considerata la scienza dei 'corpi naturali, nella misura in cui sono naturali'). La filosofia della Natura studiava gli oggetti in riferimento ai principî generali (e ai loro accidenti) o ai principî particolari. La prima branca di questa disciplina esaminava i principî dei corpi distinguendoli in attivi (forme e cause formali) e passivi (materia prima). Nel Libro I della Fisica, Aristotele, prendendo in esame i principî, aveva descritto gli oggetti naturali nei termini di principî fondamentali quali la materia, la forma e la privazione (dedicando a quest'ultima, tuttavia, un'attenzione relativamente scarsa). La descrizione ilemorfica degli oggetti naturali che ne derivava consentiva di spiegare il mutamento in termini di cause formali, finali, efficienti e materiali. La seconda branca della filosofia della Natura, che riguardava i principî particolari, descriveva i corpi nei termini dei quattro elementi materiali ‒ terra, acqua, aria e fuoco ‒ e delle loro rispettive qualità ‒ secco, umido, freddo e caldo. Aristotele, infatti, riteneva che tutti i corpi naturali fossero costituiti dai quattro elementi e dalle loro qualità.
Secondo gli aristotelici, lo studio della Natura doveva avere come oggetto le cose materiali soggette al mutamento, che avevano in sé la fonte del proprio mutamento o della loro immutabilità. Tutte le sostanze quindi erano unità di materia e forma ‒ la materia, infatti, acquisiva il potere di agire attraverso la ricezione (o la privazione) di una forma che, a sua volta, poteva essere sostanziale o accidentale. Le forme erano associate all'essere in atto e la materia alla potenzialità: essere in atto significava partecipare a una forma ed essere dotati di potenzialità equivaleva ad avere il 'potere' di fare o subire qualcosa. Secondo questa concezione della sostanza, la materia era dotata della potenzialità di ricevere le forme, sostanziali o accidentali. I corpi, quindi, erano una combinazione di potenza e atto. Le forme sostanziali si identificavano con gli universali che definivano la natura (o il genere) di una cosa ‒ facevano sì, per esempio, che un certo frammento di materia fosse un cane ‒ e, di conseguenza, non ammettevano contrari né gradi e non erano divisibili. Il cambiamento sostanziale (la generazione e la corruzione) si verificava quando la materia riceveva o perdeva la forma che la definiva, trasformando una cosa in un altro tipo di cosa, come, per esempio, nel caso della trasformazione del corpo vivente in cadavere. Le forme accidentali, invece, erano dotate di contrari o di termini opposti positivi, soggetti a graduazione. Secondo Aristotele, il movimento descriveva il successivo mutamento tra i contrari in relazione alla quantità, alla qualità o al luogo (o ubi). Queste tre categorie descrivevano tre tipi di moto: l'accrescimento e la diminuzione, l'alterazione, il moto locale. Qualcosa si muove quando compie successivi cambiamenti nelle sue dimensioni (che trasformano la sua forma quantitativa), nelle sue qualità (come, per esempio, quando cambia di colore) o nel suo luogo ‒ quello che oggi chiameremmo movimento in senso proprio. Benché l'ilemorfismo aristotelico accordasse in qualche modo la priorità alla forma, era grazie alla materia che le singole sostanze si distinguevano le une dalle altre. La teoria aristotelica dei corpi e del mutamento, o pluralismo qualitativo, era stata deliberatamente elaborata in alternativa all'atomismo di Democrito, secondo cui il mutamento, ossia la diminuzione e l'alterazione, era causato dalla riorganizzazione delle particelle immutabili che si muovevano nel vuoto. Aristotele rifiutò tutti gli elementi su cui si basava questa spiegazione ‒ vale a dire sia l'esistenza degli atomi come componenti di base della materia, sia quella del vuoto ‒ asserendo che la materia era un continuo divisibile e il mondo era costituito da un plenum. La teoria della materia di Aristotele contrastava anche con quella di Platone, dal momento che negava l'esistenza di forme separate dalla materia.
Anche la teoria aristotelica del luogo fu elaborata in contrapposizione alle concezioni platoniche e atomiste dello spazio. Nel Timeo, Platone aveva descritto lo spazio come il ricettacolo permanente di tutto ciò che esiste; secondo Aristotele, Platone pensava che la materia coincidesse con lo spazio e identificava lo spazio con il luogo. Aristotele accettò e mantenne l'identificazione di materia e spazio, adottando, tuttavia, la definizione secondo cui lo spazio è l'aggregato di tutti i luoghi, e il luogo (o collocazione nello spazio) è il limite del corpo contenente che si trova a contatto con il corpo contenuto. Elaborando ulteriormente questa concezione, Aristotele aveva presentato il luogo come il limite interno e immobile del contenitore. Il luogo di un battello che naviga lungo un fiume è quindi definito dal suo rapporto con le rive dell'intero fiume (che sono immobili) e non dalle acque di quest'ultimo (che sono in movimento).
Analizzando le nozioni aristoteliche di luogo e di spazio ci si trovava ben presto a dover affrontare alcuni problemi, in parte anticipati dallo stesso Aristotele. Nella sua descrizione del mondo in termini di sfere omocentriche, quella esterna, che non è racchiusa in un'altra sfera, sembrava non avere un luogo. Ma se fosse stata priva di un luogo non avrebbe potuto girare, dal momento che il movimento di rotazione presupponeva un mutamento di luogo. Ugualmente, era difficile stabilire se i luoghi stessi fossero mobili o immobili. Aristotele aveva tentato di risolvere, almeno in parte, questi problemi operando una distinzione tra due tipi di luogo. I corpi in movimento o in crescita possiedono un luogo in senso proprio. Ma altri tipi di corpi (come, per esempio, la sfera esterna) possono occupare indirettamente un luogo attraverso le cose congiunte con loro. Si poteva così presumere che, contenendone un'altra, la sfera esterna comprendesse e quindi fosse provvista, anche se indirettamente, di un luogo.
Come abbiamo già osservato, Aristotele negava l'esistenza del vuoto. Egli riteneva, infatti, che il vuoto fosse impossibile, se con questo si voleva intendere un luogo che non contiene nulla, cioè uno spazio realmente esistente indipendentemente da ogni corpo che lo occupi. Inoltre, contrapponendosi agli atomisti, egli giunse alla conclusione che il moto non avrebbe potuto esistere nel vuoto. Questa conclusione si basava su un argomento derivato dai suoi principî del moto, secondo cui il moto violento di un corpo è direttamente proporzionale alla forza impressa e inversamente proporzionale alla resistenza opposta dal mezzo che attraversa. Dal momento che il vuoto non può opporre alcuna resistenza, al suo interno i corpi si sarebbero dovuti muovere secondo un moto istantaneo impossibile. La maggior parte degli scolastici tentò di mitigare il rigore di questi argomenti con l'intento non di riconoscere l'esistenza del vuoto, ma di ammetterne la possibilità, argomentando che Dio avrebbe potuto crearlo. Benché non avessero atteso le condanne decretate nel 1277 dall'autorità ecclesiastica contro alcune proposizioni, i critici delle concezioni aristoteliche del vuoto in seguito trassero da esse diversi motivi d'ispirazione di ordine teologico. Tra le proposizioni condannate che sembravano suggerire la possibilità dell'esistenza del vuoto vi erano quella secondo cui 'Dio non poteva muovere i cieli in linea retta: in questo caso, infatti, egli avrebbe lasciato uno spazio vuoto' e quella in base alla quale 'colui che ha creato il mondo nella sua totalità ha prodotto il vuoto, perché il luogo precede ciò che è generato in esso; prima della Creazione del mondo quindi doveva esistere un luogo privo di contenuto, cioè il vuoto'. Ciò diede origine a una serie di discussioni incentrate sull'argomento relativo all'impossibilità del movimento nel vuoto di Aristotele, in gran parte suscitate da critiche interne alla posizione del Filosofo; in particolare, alcuni osservarono che nel suo sistema, pur presentando una certa velocità di rotazione, i cieli non sono rallentati dalla resistenza di un mezzo. Se si fosse applicata ai cieli l'argomentazione di Aristotele relativa all'impossibilità del movimento nel vuoto, si sarebbe dovuto concludere che questi ultimi giravano a una velocità infinita.
Nel XVII sec. si tendeva a ritenere che Aristotele avesse negato la possibilità del movimento nel vuoto in opposizione ad alcuni filosofi antichi solo perché essi individuavano la resistenza del mezzo come unica causa della durata del moto. Molti pensavano che il movimento nel vuoto non sarebbe stato privo di durata e che, per quanto non riscontrabile in Natura, l'esistenza del vuoto non fosse impossibile nell'ordine soprannaturale. Un membro del Collegio Romano, il gesuita Francisco Toledo (1532-1596), ripropose la posizione di Tommaso d'Aquino che, a suo parere, aveva negato l'istantaneità del movimento nel vuoto, contrapponendosi in questo caso ad Aristotele. La maggior parte degli studiosi concordò con le sue tesi, affermando che con ogni probabilità il vuoto non impediva il movimento. Tra questi ultimi ricorderemo Dupleix, che rifiutò l'argomento relativo all'impossibilità del movimento nel vuoto di Aristotele, asserendo che la velocità del moto non era determinata solo dalla resistenza del mezzo, ma anche dal peso e dalla forma dei corpi in movimento.
Nel Tardo Medioevo, anche l'ilemorfismo e la dottrina del luogo di Aristotele erano stati oggetto di profonde revisioni, volte a rendere filosoficamente coerenti e conformi all'ortodossia tali aspetti del pensiero del Filosofo. Queste modifiche e le loro giustificazioni furono ereditate dagli scolastici attivi all'inizio dell'Età moderna, contribuendo al generale dissenso suscitato da alcuni punti critici della dottrina e rendendo il pensiero scolastico molto più complesso di quanto lascino intendere le descrizioni abitualmente monolitiche di questa filosofia. Pur accettando in larga misura il rigoroso ilemorfismo di Aristotele, così come la sua concezione del luogo, in alcuni casi Tommaso d'Aquino aveva apportato lievi modifiche a queste dottrine. Per quanto riguardava il luogo, Tommaso aveva precisato che la sfera esterna del mondo occupa accidentalmente un luogo in relazione alle sue parti che sono potenzialmente situate in un luogo. Per risolvere i problemi relativi alla mobilità del luogo, i tomisti avevano operato una distinzione tra luogo materiale e formale (la ratio del luogo): un luogo può essere mosso accidentalmente (in quanto luogo materiale), ma essere inamovibile in sé (come luogo formale). Di conseguenza, i luoghi sono inamovibili in relazione all'insieme dell'Universo, mentre quest'ultimo è necessariamente immobile. Il battello che naviga lungo un fiume quindi è formalmente immobile, ma materialmente mobile (in relazione al flusso delle acque).
Le concezioni tomiste furono oggetto di molte critiche nel periodo successivo alle condanne del 1277; queste ultime erano state in gran parte determinate dalla difficoltà di conciliare la filosofia aristotelica con la dottrina cristiana dell'onnipotenza di Dio. Dal momento che si fondava sul presupposto secondo cui l'Universo nel suo insieme è immobile, la dottrina tomista sembrava concordare con la prima parte di una delle tesi condannate, quella secondo cui 'Dio non poteva muovere i cieli in linea retta: in questo caso, infatti, avrebbe lasciato uno spazio vuoto'.
Giovanni Duns Scoto, invece, modificò profondamente la dottrina aristotelica in modo da renderla più coerente con la nuova importanza assunta dal principio dell'onnipotenza divina. Scoto e i suoi seguaci rifiutavano la distinzione tomista tra luogo materiale e formale e sostenevano che il luogo fosse determinato dal rapporto tra il corpo contenente e il corpo contenuto e che cambiasse in conseguenza dei loro cambiamenti. In tal modo, quando un corpo si muoveva intorno al corpo in esso contenuto (come, per es., le acque di un fiume si muovono intorno al battello che naviga su di esse), il luogo cambiava costantemente, ma il corpo contenuto occupava in ogni momento un solo luogo. Secondo Scoto, infatti, dal punto di vista del movimento locale, il battello rimaneva in luoghi equivalenti, benché questi luoghi in sé fossero distinti. La dottrina di Scoto quindi liberava l'Universo dal suo ruolo di ultima cornice di riferimento del movimento e, grazie al suo relativismo, rendeva concettualmente accettabile l'ipotesi secondo cui Dio avrebbe potuto muovere l'insieme dell'Universo in linea retta.
Dalle discussioni sull'immobilità del luogo e sul luogo occupato dall'ultima sfera affrontate alla fine del XVI sec. e nei primi decenni del XVII emersero numerosi punti di vista, a grandi linee riconducibili al tomismo e allo scotismo. Toledo, per esempio, difese la posizione di Tommaso sull'immobilità del luogo contro quella di Scoto, come, del resto, Bouju, secondo il quale il movimento locale si produceva a rigor di termini in un "luogo situazionale", ma accidentalmente in un "luogo circostante".
La Terra è in […] un luogo circostante e si può inoltre dire che essa sia in un luogo situazionale in relazione ai poli del mondo. Ma non può cambiare luogo in relazione al suo insieme; in questo senso essa è quindi immobile, mentre è mobile solo in relazione ad alcune parti che possono essere separate dalla totalità e spostate in altre. Anche il firmamento è in un luogo situazionale rispetto alla Terra, ma non può cambiare se non in relazione alle sue parti e non nel suo insieme, allo stesso modo della Terra. (Corps de toute la philosophie, pp. 458-459)
Altri, invece, ricorsero al vocabolario di Scoto, secondo cui il termine 'luogo' designava la relazione esistente tra il corpo contenente e quello contenuto, rimanendo i luoghi gli stessi 'per equivalenza'. Come in altre occasioni, Dupleix definì con grande acutezza il contrasto tra i tomisti e gli scotisti. Interpretando la dottrina del luogo dell'Aquinate come quella concezione secondo cui sarebbe possibile immaginare la distanza che separa ogni luogo da certe regioni del mondo rispetto alle quali un dato luogo, benché soggetto al cambiamento, possa essere considerato immobile, egli si pronunciò contro la dottrina tomista, accusandola di essere uno sterile esercizio di immaginazione. Dupleix sostenne invece che i luoghi sono in sé immobili, mentre i corpi possono cambiare luogo, e si schierò a favore della dottrina secondo cui quando il vento soffia intorno a una casa, si può dire che il luogo in cui è situata la casa cambi accidentalmente. In questo caso, infatti, la casa si trova nello stesso luogo 'per equivalenza'. Anche per quanto riguardava il luogo dell'Universo, Dupleix rifiutò la concezione tomista, a suo parere del tutto fuorviante ed erronea.
Nel corso della seconda metà del XVII sec., anche i gesuiti, che fino ad allora avevano tenuto in alta considerazione le opinioni di Tommaso, rifiutarono alcuni aspetti della dottrina tomista del luogo, inclusa la proposizione secondo cui l'Universo nel suo insieme non poteva muoversi. Ma il dibattito sul concetto di luogo seguitò a impegnare gli scolastici anche nel periodo successivo alla metà del secolo. Benché i seguaci dichiarati dello scotismo avessero dimostrato la superiorità dei loro argomenti, molti optarono per un compromesso mentre alcuni tomisti rimasero ostinatamente legati alle loro posizioni. In breve, benché tendessero a concordare tra loro nel negare l'indipendenza dello spazio dai corpi, i tardi scolastici espressero punti di vista diversi su altre importanti questioni. I loro dibattiti sulla mobilità o l'immobilità dei luoghi e sul luogo dell'ultima sfera erano strettamente legati al problema della relatività del moto o del punto di riferimento del moto. Alcuni scolastici si schierarono a favore della dottrina secondo cui il moto di un corpo andava considerato in rapporto al suo luogo, concepito come termine di relazione tra il corpo e l'Universo nel suo insieme, che era necessariamente immobile. Altri, invece, privilegiarono la teoria in base alla quale il moto di un oggetto era connesso al suo luogo, concepito come proprietà che esprimeva esclusivamente una relazione tra i corpi.
Nel XVII sec. emerse un'originale dottrina relativa al luogo dell'ultima sfera. Secondo Eustache de Saint-Paul (m. 1640), un autore formatosi a Parigi, il luogo della sfera esterna è un luogo o spazio interno e, al tempo stesso, un luogo esterno ma immaginario. Nel suo testo sul vuoto, Eustache giunse a delineare la nozione di uno spazio immaginario situato al di là dei cieli richiamandosi a quella di vuoto. Anche altri studiosi discussero il concetto di luogo interno ed esterno, identificando il luogo esterno con la superficie concava del corpo e quello interno con lo spazio da esso occupato. Al suo interno l'ultimo cielo era situato in un luogo, occupava cioè uno spazio tridimensionale. Si iniziò quindi a ricorrere alla nozione di 'spazio immaginario' per rispondere a interrogativi quali, per esempio, quelli relativi al luogo da cui Dio poteva muovere l'Universo, nel caso in cui avesse deciso di muoverlo, e a ciò che esisteva prima della Creazione dell'Universo, vale a dire, prima della Creazione di tutte le sostanze corporee. Tuttavia, in generale, i luoghi immaginari non erano considerati enti reali, indipendenti dai corpi, ma erano definiti sul modello della privazione di un ente misurabile, dal momento che, come dimostrava il caso delle ombre, era possibile misurare la privazione di una cosa misurabile. Analogamente, si riteneva che prima dell'inizio del tempo e del mondo non fosse trascorso alcun tempo, ma che la Creazione fosse stata preceduta da un'immensa privazione di tempo, cioè da un tempo immaginario. Alcuni contemporanei, tuttavia, rifiutarono la dottrina del luogo immaginario, concepito come dimora di Dio, ricorrendo all'argomento secondo cui questi spazi o erano costituiti da qualcosa o si identificavano col nulla. Se erano enti reali, allora non dovevano essere definiti immaginari. Se, invece, si identificavano con il nulla, allora non si poteva pensare che Dio dimorasse nel nulla. Dal momento che poteva creare un altro mondo situato al di là dell'Universo, Dio avrebbe potuto dimorare nello spazio occupato dal nuovo mondo. Se tale spazio fosse esistito, ciò sarebbe stato vero, ma se questo spazio non fosse esistito, Dio non avrebbe potuto dimorarvi. In conclusione: "Dal momento che non vi è uno spazio diverso da quello che concepiamo come possibile, non si può dire che Dio si trovi in questo spazio, così come non si può dire che Dio sia in quelli che nasceranno nei secoli a venire" (de Ceriziers, Le philosophe français, Métaphysique, pp. 86-90).
Non si può analizzare a fondo il concetto scolastico di corpo, così come i concetti a questo connessi di spazio e vuoto, senza prendere in esame, almeno a grandi linee, la nozione di tempo, che implicava questioni analoghe, come, per esempio, quelle relative alla sua dipendenza o indipendenza dai corpi e dal pensiero e alla sua cornice di riferimento assoluta o relatività radicale. Molti aristotelici pensavano che il tempo dipendesse dai corpi, ma fosse indipendente dal pensiero. Altri invece, sull'esempio di Agostino, ritenevano che il tempo fosse indipendente dal moto dei corpi. Secondo Aristotele, il tempo è il 'numero' del movimento, cioè la numerazione del movimento. Non vi sarebbe tempo senza cambiamento; il movimento, infatti, è misurato attraverso il tempo e il tempo attraverso il movimento. Di conseguenza, vi sono tanti tempi quanti sono i cambiamenti e tutti possono essere utilizzati come definizione del tempo. Aristotele, tuttavia, credeva che la scelta dei movimenti attraverso cui misurare il tempo non dovesse essere arbitraria. Egli inoltre riteneva che l'esistenza del tempo fosse legata a quella del movimento che esso misurava, ma non a quella di chi misurava il movimento.
Tommaso sembrava accettare la dottrina aristotelica secondo cui senza movimento non vi sarebbe alcun tempo, mentre Scoto aveva rifiutato molti elementi di questa teoria. Ispirandosi alla concezione agostiniana del tempo, aveva sostenuto che, anche se tutti i movimenti si arrestassero, il tempo seguiterebbe a esistere e a misurare la quiete dell'Universo. Nel XVI sec., Toledo si schierò a favore della posizione tomista in base alla quale senza movimento non vi sarebbero né generazione né tempo. Altri, invece, difesero quella del nuovo rappresentante della linea scotista, secondo cui il tempo era divisibile in reale e immaginario, e quest'ultimo si identificava con il tempo che si poteva immaginare avesse preceduto la Creazione del mondo. Dupleix si riferì in termini elogiativi alla concezione del tempo di Agostino e affermò che esso misurava sia il movimento sia l'assenza di movimento. Alcuni scolastici, tuttavia, tentarono di trovare un compromesso tra queste due posizioni, operando una netta distinzione tra tempo interno ed esterno: "Aristotele sostiene che il tempo è il numero del movimento o delle sue parti, nella misura in cui sono tra loro in successione. Ora è certo che il tempo è un'opera della nostra mente, dal momento che noi costruiamo una quantità separata da una quantità continua, chiamandola il numero del movimento, vale a dire, delle parti che noi individuiamo in esso. Vi sono due tipi di tempo: quello interno è la durata di ogni cosa o la sua permanenza nell'essere, quello esterno è la misura di questa durata" (de Ceriziers, Le philosophe français, Physique, p. 100). Il dibattito tra i sostenitori della posizione tomista e quelli della linea scotista sul tema del tempo, della sua dipendenza dal pensiero e dal movimento, seguitò a svolgersi, come del resto quello sullo spazio, anche dopo la metà del XVII secolo.
Per i filosofi medievali e i rappresentanti della tarda Scolastica, la teoria aristotelica della materia e della forma non era meno problematica di quella del luogo e dello spazio. Alcune questioni, come, per esempio, 'se la materia è una sostanza', 'se l'essenza della materia sia la potenza', 'se alcune forme preesistano nella materia', 'in che modo la forma emerga dalla materia' e 'se è ipotizzabile l'esistenza di una materia prima separata dalle forme', diedero luogo a lunghe discussioni da cui, tuttavia, non emersero risposte in grado di riscuotere un unanime consenso. I problemi teologici sollevati dall'ilemorfismo aristotelico non riguardavano solo il principio dell'onnipotenza divina, ma anche alcuni aspetti della spiegazione del sacramento dell'Eucaristia. Nel 1277 furono condannate quattro proposizioni in cui si affermava che la mancanza di un soggetto rendeva impossibile l'esistenza degli accidenti; tra queste ultime ricorderemo quella, molto complessa, secondo cui 'Dio non può permettere l'esistenza di un accidente privo di soggetto o far sì che più di una dimensione esista simultaneamente'. Nel corso del tempo tali questioni assunsero una grande importanza, tanto che, per risolverle, si giunse a disporre la convocazione di vari concili ecclesiastici. L'esigenza di fornire una spiegazione naturalistica dei diversi aspetti del sacramento dell'Eucaristia sembrava porre rigidi limiti alle teorie della materia e del luogo formulate sia dagli scolastici sia dai loro critici.
Il mistero dell'Eucaristia sollevava questioni estremamente complesse. Esso, infatti, si basava sul riconoscimento della possibilità che, all'atto della consacrazione eucaristica durante la messa, la sostanza del pane e quella del vino si trasformassero in quella del corpo e del sangue di Cristo, pur conservando a tutti gli effetti il sapore e le sembianze del pane e del vino. Questo miracolo poteva essere efficacemente spiegato nei termini della metafisica della sostanza, della materia e della forma, che, tuttavia, lasciava irrisolto il problema relativo al soggetto degli accidenti del pane e del vino dopo la transustanziazione. Tutti gli studiosi concordavano tra loro nel riconoscere che un corpo non può occupare simultaneamente due luoghi e che due corpi non possono occupare simultaneamente lo stesso luogo: non era affatto facile quindi giustificare la presenza simultanea di Cristo come soggetto degli accidenti del pane e del vino e spiegare il tipo di cambiamento che gli consentiva di essere presente insieme a tali accidenti.
Secondo Tommaso, la materia prima era pura potenza (poiché la sua esistenza era solo potenziale), poteva essere creata solo congiuntamente a una forma e non poteva esistere senza di essa. Per spiegare la trasformazione della sostanza nel corso della transustanziazione, egli sostenne che gli accidenti del pane persistevano grazie alla continuazione della quantità del pane e che questa quantità operava come soggetto degli accidenti. Con il chiaro intento di rimuovere i limiti che, a suo parere, Tommaso poneva all'onnipotenza divina, Scoto affermò invece che Dio poteva creare una materia priva sia di forme sostanziali sia di forme accidentali, negando così il primato della forma, implicito nella teoria dell'Aquinate.
In polemica con quest'ultimo, Scoto asserì inoltre che due corpi possono occupare lo stesso luogo e che un corpo può occupare simultaneamente più luoghi. Questa originale dottrina finì per divenire un luogo comune nei manuali scolastici dell'inizio del XVII secolo. Nella sua discussione del luogo, Dupleix sostenne che nell'ordine sovrannaturale due corpi potevano occupare lo stesso luogo e che, come dimostrava il sacramento dell'Eucaristia, un corpo poteva occupare due luoghi. Anche i gesuiti risposero affermativamente a entrambe le questioni, citando a sostegno delle loro tesi il medesimo sacramento. Eustache de Saint-Paul difese una dottrina analoga. Dopo aver sostenuto che due corpi possono occupare lo stesso luogo in virtù della potenza divina, egli affermò che la tesi secondo cui un corpo può occupare simultaneamente più luoghi non era contraddittoria, menzionando lo stesso esempio di Dupleix: nell'Eucaristia il corpo di Cristo è realmente e personalmente presente in più di un luogo.
Per quanto concerne il problema delle relazioni esistenti tra la materia e la forma, alcuni studiosi difesero la posizione tomista; tra questi ricorderemo Toledo che, dopo aver riesaminato gli argomenti di Tommaso e di Scoto, finì per schierarsi dalla parte del primo, sostenendo che la materia è in sé imperfetta e non può passare all'atto senza la forma. Anche Bouju e altri studiosi difesero la posizione tomista, mentre Eustache de Saint-Paul, senza riferirsi esplicitamente né all'uno né all'altro, privilegiò la linea scotista: "Dio può spogliare di tutte le forme sostanziali o accidentali la materia, o crearla nuda, priva di forma, ex nihilo, e consentirle di esistere in tale stato in virtù della sua potenza" (Summa philosophiae quadripartita, Physica, pp. 16-17). Dupleix, così come altri studiosi, approvò le critiche rivolte da Scoto alle concezioni di Tommaso: "Ma la posizione [dell'Aquinate] è troppo audace e decisamente erronea, e tale è stata considerata da Scoto il Sottile e da molti altri che hanno condannato san Tommaso usando le sue stesse parole" (La physique, p. 130). Egli criticò la tesi secondo cui la materia non poteva esistere senza la forma e sostenne che la materia stessa poteva essere creata direttamente da Dio, spingendosi ad affermare che "la natura non ha orrore" di tale dottrina: la materia, infatti, precede la forma nella generazione delle cose naturali e "merita il nome di sostanza" (ibidem, p. 132). Secondo Dupleix, grazie a questa modifica la dottrina sarebbe stata in grado di spiegare meglio il miracolo dell'Eucaristia.
Nonostante la crescente popolarità delle concezioni non scolastiche della materia, cinquant'anni più tardi le dispute scolastiche su questi temi non si erano ancora esaurite. Un autore gesuita attivo in questo periodo, per esempio, dopo aver premesso che nel mondo naturale le forme non potevano esistere senza la materia e la materia non poteva esistere senza le forme, sostenne che Dio poteva far sì che gli accidenti esistessero senza sostanza e la materia senza forma, citando ancora una volta a sostegno di questa tesi il miracolo dell'Eucaristia. Ciononostante, non tutti abbandonarono la dottrina tomista della materia. Nel 1668, dopo aver preso nota delle critiche di Scoto, Antoine Goudin osservava: "sembra che la materia non possa esistere senza una forma neppure in virtù dell'assoluta potenza di Dio. È quanto è stato stabilito da san Tommaso" (Philosophia juxta inconcussa tutissimaque divi Thomae dogmata, II, p. 78).
Le discussioni sul ruolo della materia e della forma dell'inizio del XVII sec. riflettono la tendenza a schierarsi a favore di una metafisica più dualistica e meno ilemorfica, un'inclinazione che emerge chiaramente dalla tesi formulata da Dupleix secondo cui la materia è dotata dell'essere. In questo periodo si tese anche a modificare le funzioni della forma e della materia. Aristotele aveva sostenuto che la materia è il principio di individuazione delle cose e l'Aquinate aveva specificato che solo la materia signata, la materia cioè legata da una certa relazione alla quantità, poteva servire da principio di individuazione. Dupleix osservò che i tomisti non erano in grado di spiegare efficacemente l'individuazione delle entità non corporee, come, per esempio, gli angeli, perché ogni intelligenza (o angelo) doveva essere considerata sia universale sia individuale, e che la quantità, nono-stante il tentativo dell'Aquinate di elevarla al rango di principio di individuazione, era un accidente e non poteva a rigor di termini operare al livello delle essenze. Egli quindi rifiutò tutte le interpretazioni tomiste della materia come principio di individuazione e adottò invece la concezione scotista, secondo cui ogni individuo di una stessa specie si distingue dagli altri in virtù di una differenza specifica (haecceitas). Nel XVII sec., la posizione scotista sembrò riscuotere un notevole successo: molti, infatti, formularono tesi analoghe a quella di Dupleix. Oltre a esprimere i diversi punti di vista adottati dagli scolastici in relazione ai principî fondamentali della filosofia peripatetica, queste discussioni misero in luce il nuovo ruolo assunto dalla forma, che iniziò a non essere più considerata il principio organizzativo che fa sì che un certo ente sia quello che è, ma piuttosto il modo in cui la materia si differenzia.
Un'altra significativa modifica introdotta dal tardo aristotelismo nella teoria della materia era costituita dalla dottrina dei minima naturalia, abitualmente discussa nel contesto dei fenomeni della rarefazione e della condensazione, vale a dire del mutamento della quantità. Come abbiamo già osservato, Aristotele aveva fermamente rifiutato le teorie atomiste, sostenendo che il continuo era divisibile indefinitamente. Tuttavia, nella Physica si trovava l'asserzione: "la carne o l'osso o qualsivoglia altra cosa si identifichino con la grandezza, sia in relazione al più, sia in relazione al meno" (187b, 20). Questa frase, invero piuttosto oscura, finì per subire uno sviluppo autonomo e, nel XVII sec., la sua interpretazione diede luogo alla dottrina secondo cui esistevano intrinseci limiti di grandezza e piccolezza per ogni sorta di essere. Inoltre, dal momento che possedeva una data forma, ogni corpo naturale doveva avere determinati accidenti e una quantità limitata. Ma gli elementi, o corpi omogenei semplici, non avevano una dimensione determinata intrinsecamente: potevano essere accresciuti indefinitamente, se ci fosse stata materia sufficiente, e potevano essere suddivisi indefinitamente. Gli elementi avevano invece limiti estrinseci derivanti dalla quantità limitata della materia prima. Inoltre, gli elementi non potevano essere condensati o rarefatti, non potevano cioè subire illimitati cambiamenti di quantità senza essere corrotti. La terra, per esempio, non poteva essere rarefatta nella stessa misura del fuoco e il fuoco non poteva essere condensato nella stessa misura della terra; eccessivamente condensata, l'aria si trasformava in acqua e a un alto grado di rarefazione l'acqua si trasformava in aria. Per i tardi scolastici quindi la rarefazione e la condensazione, vale a dire l'aumento e la diminuzione delle quantità, potevano dar luogo, in certe circostanze, alla generazione o alla corruzione. Affermando che ogni elemento presentava un minimo naturale, la tarda Scolastica finiva per assecondare spiegazioni di carattere atomistico. La dottrina dei minima naturalia aprì una via di comunicazione tra la teoria aristotelica della materia e quella alchemica.
L'alchimia comprendeva diverse pratiche fondate su ampie basi teoretiche e potrebbe essere interpretata come una parte della più vasta tradizione dell'occultismo. Le dottrine peripatetiche della forma, della materia e della sostanza e qualità hanno spesso fornito le basi teoriche alla magia naturale. Nel XVII sec. la Magia naturalis (1558) di Giambattista Della Porta, che conteneva un ulteriore perfezionamento di quel matrimonio tra neoplatonismo e aristotelismo sostenuto da Marsilio Ficino, suscitò un tale interesse da essere pubblicata in due lingue e richiedere diverse edizioni. A Leida, il protestante Frank Burgersdijk (1590-1635) insegnava ai suoi studenti che la generazione e la corruzione dei composti materiali avvenivano per cause celesti e naturali, ricollegando entrambe ai concetti di simpatia e antipatia, e alle cause manifeste aristoteliche. Altri attinsero in diversi modi alla teoria della materia aristotelica nel tentativo di esporre la magia naturale e le pratiche alchemiche.
Sebbene molti alchimisti si dedicassero al segreto tentativo si raggiungere la ricchezza trasmutando metalli in oro, Paracelso (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim, 1493-1541), esponeva le virtù e i benefici spirituali dell'alchimia medica, ritenendo la filosofia peripatetica non altrettanto soddisfacente. Egli infatti rifiutò la teoria galenica degli umori come possibile base terapeutica e sostenne che il sale, lo zolfo e il mercurio fossero più importanti dei quattro elementi aristotelici. I tre elementi paracelsiani rappresentavano chiaramente i poteri spirituali, così come le medicine erano essenzialmente spirituali, e richiedevano di essere liberate dalla materia grezza nella quale potevano essere trovate. Un processo che poteva essere realizzato con l'uso del fuoco, simile alla Creazione del mondo quale era descritta nella Genesi. In questo modo, la visione di Paracelso dei fenomeni naturali, incentrata sulla chimica, approfondiva le relazioni tra il mondo (macrocosmo) e l'uomo (microcosmo). Sebbene le dottrine mediche paracelsiane siano state sottoposte a censura e Paracelso accusato di essere un mago e un ciarlatano, la sua teoria fisica ebbe una vasta risonanza. Per esempio, Robert Fludd (1574-1637), altrettanto poco ortodosso, ripudiò la filosofia aristotelica, ritenendola inutile, e si avvicinò all'alchimia considerandola una scienza divina. Egli pensava che la Creazione fosse una separazione alchemica della luce, del buio e dell'acqua e che le tradizionali difficoltà teologiche potessero trovare una risposta nella cabala alchemica. L'eterodossia di Fludd provocò la reazione dei critici, fra i quali Mersenne, che attaccarono le sue dottrine specifiche e lo accusarono di pratiche demoniache. Nella sua difesa, Fludd affermò che le cause ricercate erano naturali e non demoniache. Jan Baptista van Helmont (1577-1644) sostenne argomenti simili a favore della spiegazione paracelsiana della guarigione delle ferite mediante l'applicazione del rimedio all'arma. Un tale fenomeno poteva infatti essere spiegato in termini di simpatia tra gli elementi (o di effetti purgativi e di repulsione dovuti all'antipatia), una dottrina che van Helmont riteneva coerente con la teoria chimica paracelsiana. Come Paracelso, infatti, egli rifiutava il ricorso ai quattro elementi aristotelici e, basandosi su fondamenti biblici, sosteneva che il fuoco non fosse un elemento e che l'acqua e il 'cielo' fossero più primordiali della terra. La popolarità di van Helmont si rifletté nella traduzione inglese delle sue teorie chimiche a cura di Walter Charleton. In conclusione, l'alchimia (e più in generale l'occultismo) poteva essere in accordo ma anche in pieno contrasto con la teoria aristotelica della materia. Grazie a van Helmont, Fludd e altri, l'alchimia fece da ponte tra la teoria corpuscolare della materia e la tradizione occulta.
Ne La vérité des sciences, Mersenne mise il suo Alchimista in contrasto con uno Scettico e un Filosofo cristiano, tutti e tre in opposizione all'Aristotelico; una caratterizzazione dell'alchimia che però non deve essere considerata usuale per i suoi contemporanei. Nel Discours de la méthode, Descartes disprezzava l'alchimia, considerandola una falsa dottrina di cui conosceva il valore tanto da non essere tratto in inganno dalle sue promesse, ossia dagli "artifizi o dalle vanterie di quelli che voglion far credere di sapere di più di ciò che realmente sanno" (OS, II, p. 503). D'altra parte egli a partire dal 1630 studiò chimica, sviluppando una propria visione delle entità cui si riferivano i principî alchemici. Nei Principia (IV, art. 63), mise in relazione tre tipi di corpuscoli con i tre principî alchemici del sale, dello zolfo e del mercurio e dedicò gran parte dell'opera alla spiegazione di processi chimici, quali la distillazione e la calcinazione.
Infatti nella maggior parte dei casi gli alchimisti si richiamavano alla dottrina secondo cui la materia era costituita da corpuscoli. Il corpuscolarismo, tuttavia, includeva una vasta gamma di posizioni: le concezioni peripatetiche e paracelsiane si intrecciavano spesso con le più antiche tradizioni alchemiche dando luogo a teorie molto originali. Alcuni chimici rifiutarono la nozione di atomo quale particella ultima (o preferirono non pronunciarsi su tale questione) e formularono una serie di teorie corpuscolari, ma non atomistiche, della materia; altri, invece, interpretarono esplicitamente i testi alchemici in senso atomistico. Le teorie formulate da Daniel Sennert (1572-1637), professore di medicina a Wittenberg, possono essere considerate un significativo esempio della prima tendenza. Egli scrisse un gran numero di opere dedicate alla filosofia della Natura, alla chimica e alla medicina, che conobbero numerose edizioni e in alcuni casi furono tradotte in inglese. In effetti, la traduzione inglese di uno dei primi scritti consacrati da Sennert alla filosofia della Natura (Epitome naturalis scientiae, del 1618, in parte basata sulla rielaborazione di dispute precedenti) e quella di uno dei suoi ultimi volumi, furono pubblicate sotto forma di singolo trattato vent'anni dopo la morte dell'autore (Thirteen books of natural philosophy, 1659). Nella maturità, Sennert aveva asserito che il suo scopo era correggere la dottrina di Aristotele attraverso la ragione e l'esperienza: "Non sono uno di quegli sconsiderati innovatori, paracelsiani o chimici, o in qualsiasi altro modo si voglia chiamarli, che si sforzano di bandire dalle scuole la filosofia antica, che ci è pervenuta soprattutto attraverso le opere di Aristotele, né vorrei essere collocato tra coloro che ai nostri giorni non si vergognano di dichiarare apertamente che preferirebbero errare con Aristotele e Galeno, piuttosto che essere nel vero con qualsiasi autore più tardo" (Thirteen books of natural philosophy, p. 413). Le modifiche che Sennert desiderava introdurre nella dottrina di Aristotele emergono con grande chiarezza dal terzo discorso, quello dedicato agli atomi e alle misture; in questo discorso Sennert sostiene che la materia di cui sono costituiti i corpi è composta di particelle che a loro volta possono essere ridotte alle loro forme minime originali. Come molti altri suoi colleghi, egli tentò di dimostrare l'esistenza degli atomi nel mondo naturale basandosi su operazioni di carattere chimico:
Come è stato recentemente osservato e come l'esperienza stessa può attestare, benché tali atomi siano estremamente piccoli, le forme essenziali delle cose rimangono integre in essi. Mescolando, infatti, l'oro e l'argento, gli atomi di questi ultimi si mescolano perfettamente tra loro, tanto che nessun senso riesce a distinguere gli uni dagli altri. Tuttavia, entrambi i tipi di atomi conservano integralmente la loro forma. Ciò può essere dimostrato attraverso questo procedimento: inserendo l'Aqua fortis nella suddetta massa, l'argento si liquefa e si trasforma in sostanza liquida, ma l'oro seguita a presentarsi in forma di polvere. (ibidem, pp. 453-454)
Sennert distingueva due tipi di atomi: i primi si identificavano con le componenti costitutive di tutte le cose, vale a dire con i quattro elementi aristotelici (terra, acqua, aria e fuoco), ed erano le entità più piccole riscontrabili nel mondo naturale. Precisò anche che le particelle del fuoco erano le più piccole, non perché vi fosse un limite nella loro quantità, ma perché tale limite era nella loro forma. Impiegando il vocabolario della tradizione peripatetica dei minima naturalia, asserì che: "benché in riferimento alla quantità non si possa parlare di oggetti più piccoli, la luce ha un minimo in natura, vale a dire che una luce può essere tanto piccola da non poter divenire ancora più piccola senza estinguersi" (ibidem, p. 454). Sennert giunse persino a sostenere che questa concezione era coerente con il principio dell'infinita divisibilità del continuum:
Ora, queste dispute contro gli atomi concernenti l'infinita divisibilità di ciò che continua in linee indivisibili, sono affrontate non dal punto di vista dei principî della Natura, ma da quello dei principî matematici. Si tratta, infatti, non di stabilire […] se una cosa continua possa essere divisa all'infinito in termini matematici, ma se la Natura nella sua generazione e risoluzione dei corpi non si arresti di fronte ad alcuni corpi più piccoli che non possono essere ancora più piccoli. (ibidem)
Il secondo tipo di atomi, che Sennert identificava con i principî dei chimici, era rappresentato dalle prime misture, o corpuscoli di secondo ordine costituiti dagli elementi atomici. Questi ultimi si dividevano solo di rado, ma gli altri corpi composti in generale si risolvevano in loro: "Oltre agli atomi elementari vi sono, infatti, (in secondo luogo) atomi di un altro tipo (che chi vuole potrà definire primi corpi misti) in cui in quanto parti simili gli altri composti si risolvono" (ibidem, p. 451). Grazie alla sua gerarchia delle particelle, Sennert riuscì a recuperare la tradizione alchemica assegnandole un ruolo di mediazione all'interno di una cornice d'impronta decisamente aristotelica dei quattro elementi differenziati a livello di base dalle loro forme.
Gli avversari della Scolastica proposero concezioni che di-scordavano tra loro forse in misura ancora maggiore di quelle sostenute dai seguaci di questa filosofia. Un certo numero di novatores si limitò a redigere trattati critici in cui si attaccavano alcune teorie scolastiche, come, per esempio, la dottrina delle forme sostanziali. Tra questi ultimi ricorderemo William Pemble che nel 1628 scrisse De formarum origine e Gerhard e Arnold de Boot che nel 1641 diedero alle stampe la Philosophia naturalis reformata, avendo una certa familiarità con Descartes e il cartesianesimo olandese. Il pregio principale di queste opere non risiedeva tanto nella dottrina espressa, quanto nell'analisi minuziosa dei diversi argomenti rinascimentali a favore o in opposizione ad Aristotele. Gli autori si proponevano di dimostrare che le forme non potevano essere considerate sostanze corporee, né sostanze immateriali o 'temperamenti' di sostanze e così via. Come provano le discussioni sul concetto di forma affrontate a partire dalla metà del XVII sec., in questo periodo i diversi autori si sforzarono di adattare il vocabolario tradizionale alle trasformazioni subite dai concetti relativi al mondo naturale.
Altri, tuttavia, proposero teorie alternative a quelle del Filosofo tentando di riportare in vita la filosofia degli Antichi. Nicholas Hill (1570 ca.-1610), per esempio, pubblicò una collezione di aforismi intitolata Philosophia Epicurea, Democritiana, Theophrastica proposita simpliciter, non edocta, nella quale attaccò con grande veemenza alcuni criteri di utilizzazione del concetto di forma adottati da certi scolastici e sviluppò la concezione secondo cui gli oggetti naturali sono costituiti da conglomerazioni di particelle solide, indivisibili e diversamente configurate. Secondo Hill, la generazione, l'alterazione qualitativa, la corruzione e il movimento locale potevano essere spiegati in termini di mutamento della composizione atomica, senza ricorrere alle forme. Ogni forma quindi non era che "lo stato e la condizione di una cosa derivante dalla connessione di principî materiali" (ibidem, pp. 13-14). Distinguendosi dagli atomisti classici e da alcuni dei suoi contemporanei, che spiegavano la causa prima nei termini del moto originario guidato da Dio, Hill riteneva che Dio agisse direttamente sugli atomi attraverso una forza: "la prima forza, la causa efficiente, attiva e universale, l'essenza assoluta e semplice, il fondamento e la radice di tutta la potenza materiale è Dio" (ibidem, p. 28).
Sébastien Basson (1579 ca.-m. dopo il 1625) si rivolse soprattutto a Democrito, e rifiutando l'intera problematica delle discussioni sulla materia e sulla forma, propose la tesi secondo cui la materia produce i suoi stessi minima naturalia attraverso la combinazione di atomi omogenei e incorruttibili che "una volta congiunti tra loro, conservano le loro differenze" (Philosophiae naturalis adversus Aristotelem libri XII, p. 14). Pur accettando la tesi secondo cui i quattro tipi di atomi elementari coincidevano con i quattro elementi tradizionali, Basson si distinse dagli altri atomisti per l'introduzione del pneuma, definito anche etere, anima del mondo o 'spirito dell'Universo'. Secondo la sua teoria, tutti i mutamenti naturali potevano essere spiegati in termini di organizzazione degli atomi nell'etere; quindi, la generazione e l'aumento quantitativo erano determinati dall'unione degli atomi e dei loro insiemi, mentre la corruzione e la diminuzione erano prodotte dalla loro dispersione. L'alterazione quantitativa era invece provocata dal mutamento dei rapporti che legano tra loro i diversi tipi di atomi di una data organizzazione. Basson spiegò la condensazione, la rarefazione e i movimenti degli atomi basandosi sul suo quinto elemento, vale a dire sull'etere, composto da atomi che, come un conglomerato, penetravano nei pori e nelle aperture di tutti gli oggetti, provocando il movimento di altri atomi e, indirettamente, tutti i mutamenti subiti dagli oggetti. Dal momento che riempiva tutti gli spazi, l'etere poteva penetrare più profondamente nei pori di un oggetto rendendolo più rarefatto, provocando così l'aumento delle sue dimensioni e la riduzione della sua densità. Ipotizzando l'esistenza dell'etere, Basson poté concordare con la tesi formulata da Aristotele secondo cui la Natura aveva orrore del vuoto. L'etere non si combinava con gli atomi degli altri quattro elementi e, benché fosse la causa del movimento, doveva essere tenuto costantemente in moto da una causa più elevata. Secondo Basson, la causa da cui l'etere dipendeva non solo per quanto riguardava il suo moto, ma anche per ciò che concerneva la direzione del movimento degli atomi degli elementi secondo le loro attitudini, doveva essere ricercata in Dio. L'etere o spirito dipendeva in ogni caso dalla forza motrice costantemente infusa da Dio: "Attraverso questo spirito Dio muove i singoli elementi non diversamente da come essi si muoverebbero se questa forza motrice fosse innata in loro" (ibidem, p. 341).
Come Hill e Basson, Bacon e Galilei formularono diverse tesi corpuscolariste, senza però conferire mai all'atomismo un ruolo di primo piano nelle loro filosofie. L'atteggiamento di Bacon nei confronti dell'atomismo fu piuttosto ambiguo: dopo aver proposto alcune tesi atomiste e a favore dell'esistenza del vuoto, le abbandonò optando per una teoria della materia d'impronta paracelsiana o le subordinò a quest'ultima. Lo sviluppo delle riflessioni di Galilei fu più coerente: nel Saggiatore, dato alle stampe nel 1623, egli sviluppò alcune dottrine esplicitamente atomistiche. Nel tentativo di spiegare la tesi secondo cui "la causa del calore è il movimento", propose una concezione del calore diametralmente opposta a quella comunemente sostenuta, secondo cui si trattava di un accidente, un'affezione o qualità inerente al materiale riscaldato. Le sostanze corporee, secondo Galilei, dovevano essere considerate limitate e dotate di particolari dimensioni, forme e luoghi, oltre che di una durata, un moto o quiete e un numero specifici; senza però essere necessariamente connesse a condizioni come i colori, i sapori, ecc., che non erano "altro che puri nomi". Galilei spiegò questa dottrina con l'esempio della sensazione del solletico provocata da una piuma che sfiora un corpo umano: la sensazione non si trova nella piuma ma nel corpo e senza questo è soltanto un "vuoto nome". La stessa cosa poteva dirsi di tutte le qualità attribuite abitualmente ai corpi come il sapore, l'odore, il colore e così via, che, come il solletico, non si trovano nell'oggetto che le provoca ma soltanto nel soggetto che le avverte. Galilei proseguì la sua analisi spiegando che i corpi possono essere scomposti in particelle differenziate in base alla loro struttura e consistenza, come il fuoco, che, a suo parere, era "una moltitudine di corpicelli minimi, in tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità" (EN, VI, p. 350). Egli, infine, ricorse all'analisi per risolvere il problema originario: l'affezione chiamata calore era costituita dalle particelle di fuoco che penetravano nei corpi. Nella Giornata Prima dei Discorsi (1638), Galilei conferma nuovamente il corpuscolarismo, discutendo su come il fuoco serpeggi fra le particelle minime di questo o quel metallo; inoltre, spiegando una delle pseudoaristoteliche Questioni meccaniche, riguardante due poligoni equilateri e equiangoli inscritti e in movimento attorno a un centro comune, egli ricorre a un atomismo matematico, richiamandosi a parti infinitesimali separate da vuoti infinitesimali.
Le teorie corpuscolari galileiane non passarono inosservate. Menzionando i brani del Saggiatore, un delatore rimasto anonimo lo denunciò alla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede.
Il delatore sostenne che l'analisi relativa all'esempio del solletico e la dottrina in essa implicita erano filosoficamente erronee: "Ne discorreria bene chi dicesse: la vista con la quale vedo la luce del Sole è in me, dunque la luce del Sole è in me" (in Redondi 1991, p. 428), ma ritenne riprovevole soprattutto il corpuscolarismo dell'autore che assimilava all'atomismo di Democrito: "Hor se questa filosofia d'accidenti si ammette per vera, mi pare che grandemente difficulti l'esistenza degli accidenti del pane e del vino che nel Santissimo Sacramento stanno separati dalla propria sustanza" (ibidem). Egli inoltre asserì che la dottrina galileiana non concordava con le interpretazioni del mistero eucaristico proposte da diversi concili ecclesiastici e, in particolare, dal Concilio di Trento.
Nonostante questa e altre analoghe denunce, Galilei non fu formalmente accusato di eresia. Altri, tuttavia, non furono altrettanto fortunati. Nel 1624, a un anno di distanza dalla pubblicazione del Saggiatore, tre oppositori dell'aristotelismo, Étienne de Clave, Jean Bitault e Antoine de Villon, tentarono di organizzare a Parigi una pubblica confutazione di quattordici tesi aristoteliche, paracelsiane e cabalistiche, suscitando l'intervento di diverse autorità che impedirono ai tre disputanti di dar seguito alla loro iniziativa. Il Parlamento ordinò loro di allontanarsi da Parigi e di non insegnare mai più nella propria giurisdizione, minacciandoli di sanzioni corporali. La Facoltà di teologia di Parigi, la Sorbona, reagì censurando molte delle loro tesi, ritenute false, eccessivamente audaci, molto vicine all'eresia o erronee per quanto riguardava la fede. Tra le proposizioni condannate, ricordiamo quella che definiva fittizia la materia prima e assurde le forme sostanziali (a eccezione delle anime razionali). Ma la Sorbona sembrò contrariata soprattutto dalle tesi che contraddicevano la concezione peripatetica del cambiamento, e dalla dottrina atomistica, considerate una minaccia per il sacramento dell'Eucaristia.
Tra coloro che approvarono la censura delle tesi contrarie all'aristotelismo figuravano alcuni degli amici e dei corrispondenti di Descartes. Tra questi ultimi ricorderemo Mersenne che, insieme agli altri, si oppose decisamente alla negazione delle forme sostanziali sostenuta dai disputanti, poiché, su queste basi, sarebbe stato impossibile spiegare i generi naturali e giustificare l'eccezionalità del genere umano.
Nonostante il forzato allontanamento da Parigi, de Clave seguitò a dedicarsi alla sua attività di critica dell'aristotelismo.
Nei suoi ultimi trattati chimici negò l'esistenza dell'elemento del fuoco e la dottrina secondo cui gli elementi erano prodotti dalla permutazione tra le qualità opposte, cioè tra il caldo e il freddo e tra il secco e l'umido. De Clave, tuttavia, conservò la nozione di forma nella spiegazione dei tre elementi primari che, a suo parere, potevano derivare solo da una singola forma che non poteva a sua volta essere originata dalla materia. Egli negò l'esistenza delle forme sostanziali in relazione alle cose animate, a cui preferì pensare in termini di composti degli elementi primari, considerati come insiemi di forma e di materia.
Le descrizioni tradizionali del pensiero filosofico del XVII sec. tendono a identificare la filosofia sistematica di René Des-cartes con una completa negazione della Scolastica. Tuttavia, come abbiamo già osservato, i cambiamenti intervenuti in questo campo avevano i loro antecedenti nell'opera di alcuni scolastici, che avevano dovuto affrontare una serie di annosi problemi inerenti alla metafisica di Aristotele, e in quella di diversi critici della dottrina del Filosofo. Alla luce della situazione fluida ed eterogenea delle attività filosofiche della prima metà del secolo, il contrasto tra la filosofia di Descartes e le dottrine della Scolastica appare meno netto di quanto lo stesso Descartes abbia lasciato intendere. Per quanto possa sembrare strano, infatti, egli derivò sia consapevolmente sia inconsapevolmente alcuni elementi della sua dottrina dalla filosofia tradizionale. Non per questo però il suo contributo alla definizione dei concetti di materia e di spazio, il suo esplicito rifiuto delle forme sostanziali, delle qualità reali e delle cause finali, devono essere considerati risultati filosofici poco significativi. Benché desiderasse sfruttare la consapevolezza dello stato rovinoso in cui versava la filosofia ‒ presentata come un vecchio edificio che non meritava di essere restaurato, ma che doveva essere abbattuto ‒ e definire un nuovo sistema destinato a sostituirla, egli adottò un metodo che (almeno dal punto di vista retorico) indica un approccio decisamente più cauto. Descartes spesso pensò di non poter essere considerato un diretto e aperto oppositore della vecchia filosofia, come dimostra una lettera in cui confessò: "Spero che i lettori si abituino gradualmente ai miei principî e riconoscano il loro contenuto di verità prima di accorgersi che essi demoliscono quelli di Aristotele" (AT, III, pp. 297-298).
Tuttavia, analogamente ai critici di Aristotele suoi contemporanei, Descartes abbandonò il discorso materia-forma che considerava superfluo e, come questi ultimi, lo impiegò solo in riferimento agli esseri umani, che erano dotati di un'anima razionale. Uno dei più importanti principî metafisici della filosofia di Descartes era quello secondo cui nell'uomo doveva essere operata una netta distinzione tra mente e corpo; nelle opere della maturità, tuttavia, il filosofo asserì che l'anima umana 'informava' il corpo, proprio come le forme sostanziali informavano la materia. Diversamente dall'ilemorfismo classico, che indicava nella materia e nella forma i due principî responsabili della costituzione delle sostanze complete, questa concezione si basava sul presupposto che una sostanza potesse esistere autonomamente e informare un'altra sostanza. A prescindere da questo caso specifico, per quanto riguardava le forme sostanziali (e le forme in generale), Descartes si espresse in termini che andavano da un aperto rifiuto a un implicito abbandono. In seguito al recente scontro con i teologi di Utrecht, che sarebbe culminato nell'emissione di un mandato di arresto nei suoi confronti, Descartes rimproverò il suo discepolo Henricus Regius (Hendrik van Roy, 1598-1679) per l'irruenza della sua retorica: "Credo che tu non debba presentare nuove opinioni, è più opportuno conservare formalmente tutte le vecchie idee". Regius cioè avrebbe dovuto evitare di "rifiutare apertamente le forme sostanziali e le qualità reali" (ibidem, pp. 491-492). Descartes quindi lo esortò a seguire il modello delle sue Météores, in cui aveva fatto a meno dei concetti che considerava insoddisfacenti, rivelando così il carattere strategico del suo impiego dei concetti tradizionali e, in particolare, del concetto di forma.
Descartes aveva già dato una definizione di 'forma' nel Monde, un'opera rimasta inedita, in cui aveva affermato: "Altri, dunque possono immaginare in questo legno, se così gli aggrada la Forma del fuoco, la Qualità del calore e l'azione che lo brucia come cose del tutto diverse l'una dall'altra; […] io mi contento di concepirvi il movimento delle sue parti" (OF, I, p. 339). Ciò significava nel migliore dei casi rifiutare, anche se implicitamente, una componente essenziale della filosofia peripatetica, introducendo, al tempo stesso, un'ontologia più raffinata. Descartes, tuttavia, non rifiuta il termine 'forma', ma inizia a utilizzarlo in un modo diverso: "tutte le Forme dei corpi inanimati, possono essere spiegate senza che a tal fine occorra supporre nella loro materia altra cosa che non sia il movimento, la grandezza, la figura e la disposizione delle parti" (ibidem, p. 411). Secondo Descartes, la materia era definita dall'estensione, vale a dire dalla "proprietà di occupare lo spazio", interamente spiegabile in termini geometrici. Egli chiamava 'forme', o modi della materia, le particolari modalità dell'estensione. In un'opera della maturità, Principia philosophiae, in cui aveva tentato di tradurre le Meditationes nello stile della Scolastica, Descartes presentò l'estensione come "il principale attributo" della materia e sostituì esplicitamente le forme, incluse quelle sostanziali, con la disposizione dei corpi ad assumere una dimensione e una forma e con il movimento delle loro parti. La 'forma' in tal modo perdeva il suo stato ontologico, che la poneva al di sopra e al di là della materia, per essere identificata con le particolari modalità di estensione dei corpi. Descartes può quindi essere considerato l'ultimo rappresentante della corrente di pensiero che subordinava la nozione tradizionale di forma a quella di materia.
La teoria della materia di Descartes, privata dell'ontologia delle forme sostanziali e degli accidenti reali, era esposta alla stessa accusa di eresia mossa contro gli atomisti suoi contemporanei: si sarebbe potuto sostenere, infatti, che la sua filosofia non consentiva di spiegare in termini naturalistici il mistero dell'Eucaristia. Descartes era perfettamente consapevole di questo problema. Sin dal 1630, nella sua teoria dei colori, egli aveva tentato di spiegare la ragione per cui il pane del Santo Sacramento conservava la sua bianchezza e, nel 1637, in una lettera inviata a un gesuita suo corrispondente, aveva audacemente sostenuto che le sue spiegazioni naturalistiche non erano in contrasto con i misteri della fede cattolica ‒ vale a dire che la sua fisica era compatibile con la teologia rivelata del cattolicesimo, e quindi anche con il mistero dell'Eucaristia ‒ e che si riprometteva di chiarire in seguito tale questione.
Incoraggiato dal fatto che il suo corrispondente aveva accolto favorevolmente gli Essais, Descartes gli confessò di avere soppesato attentamente le sue opinioni: "Vi dirò inoltre che, in fondo, non temo affatto che vi si trovi [nella mia Fisica e Metafisica] qualcosa contro la Fede, ché, al contrario, oso vantarmi che mai essa è stata sostenuta tanto seriamente con ragioni quanto può esserlo se si seguono i miei principî: particolarmente la Transustanziazione, che i Calvinisti considerano impossibile spiegare con la Filosofia corrente lo è molto facilmente con la mia" (Descartes a Vatier, 22 febbraio 1638, in OF, I, pp. 579-580). Nella sua corrispondenza quindi Descartes aveva esplicitamente annunciato che i suoi principî di filosofia della Natura consentivano di spiegare il mistero dell'Eucaristia.
Descartes rese nota questa spiegazione nella sua risposta a una critica che gli era stata mossa da Antoine Arnauld (1612-1694), l'autore delle Quartae objectiones alle Meditationes. Secondo Arnauld, la transustanziazione presupponeva che gli accidenti del pane si preservassero in seguito alla sottrazione della sua sostanza. A suo parere, la filosofia cartesiana escludeva questa possibilità, perché non faceva menzione degli accidenti reali e parlava solo dei modi della sostanza che erano inconcepibili separatamente dalla sostanza a cui erano inerenti. Descartes accettò in via generale questa definizione della sua posizione, ma negò di avere rifiutato l'esistenza degli accidenti reali e affermò che Dio poteva produrre cose che gli uomini non possono comprendere. Quindi proseguì abbozzando una descrizione del modo in cui gli oggetti colpiscono i sensi attraverso la loro superficie, l'aria circostante o altri corpi, che contraddiceva la teoria scolastica della trasmissione delle specie intenzionali. Egli ipotizzò che, se la sostanza del pane si trasformava in un'altra sostanza, che seguitava a occupare lo stesso spazio, la seconda sostanza poteva colpire i nostri sensi nello stesso modo della prima. In questa occasione, Descartes citò persino il Concilio di Trento e affermò che la sua ipotesi era più convincente delle dottrine dei teologi, mostrandosi profondamente convinto della correttezza della sua posizione:
Vi renderete conto che la mia filosofia concorda perfettamente con quanto è stato dichiarato dai concili in relazione al Santo Sacramento, al punto che non credo sia possibile offrire una spiegazione più convincente attraverso la filosofia tradizionale. In realtà, penso che quest'ultima sarebbe stata considerata contraria alla fede se la mia fosse già stata conosciuta. Sono certo di poter dimostrare che nella loro filosofia non vi è un'opinione che si accorda più perfettamente della mia alla fede. (Descartes a Mersenne, 31 marzo 1641, in AT, III, pp. 349-350)
La risposta ad Arnauld era chiaramente condizionata dal problema in discussione: bisognava spiegare la ragione per cui, dopo la transustanziazione, il pane seguitava a conservare le sue sembianze senza ricorrere agli accidenti reali. Naturalmente, Descartes non affrontò molti aspetti della spiegazione tradizionale della transustanziazione ‒ evitando di prendere in esame, in particolare, il tema della reale presenza di Cristo nel pane consacrato. In seguito, analizzò questo aspetto nella sua corrispondenza, riaffermando e chiarendo l'ipotesi delle Quartae responsiones, e delineando una spiegazione del principio di individuazione dei corpi e del corpo umano: "l'identità numerica della superficie non dipende dall'identità dei corpi in cui è rilevabile, ma soltanto dall'identità o dalla somiglianza delle dimensioni. Allo stesso modo, possiamo dire che la Loira è lo stesso fiume di dieci anni fa, benché esso non contenga più le stesse acque e, forse, non vi sia più un solo frammento della terra che circondava quelle acque" (Descartes a Mesland, 9 febbraio 1645 (?), in AT, IV, pp. 164-165). Per quanto riguardava il corpo umano, egli affermò che esso rimaneva lo stesso al di là dei mutamenti della materia, a causa della sua associazione all'anima: "Essi sono eadem numero, solo perché sono informati dalla stessa anima" (ibidem, p. 167). Negli esseri umani, quindi, la transustanziazione si verificava naturalmente: essi convertivano un'altra materia, incorporandola e rendendola parte dei loro corpi, che erano informati da un'anima. Allo stesso modo, affermando che all'atto della consacrazione l'anima di Cristo informa per vie sovrannaturali la materia dell'ostia, Descartes riuscì a spiegare un altro aspetto del mistero della transustanziazione.
I tradizionalisti non accettarono nessuna delle spiegazioni di Descartes. Le sue teorie dello spazio e del vuoto ricevettero, tuttavia, un'accoglienza meno sfavorevole. Nelle Regulae ad directionem ingenii, Descartes mitigò la sua condanna dell'uso scolastico della nozione di 'luogo': "Ad esempio, se talvolta chiamano luogo la superficie del corpo ambiente [i dotti] in verità non concepiscono una cosa falsa, ma abusano soltanto del nome di luogo" (OF, I, p. 287). Descartes rifiutava il concetto scolastico di luogo interno e derise la nozione scolastica di luogo immaginario. Nei Principia, tuttavia, sviluppò una dottrina fondata sulle nozioni di luogo interno ed esterno, chiaramente derivata da quelle in precedenza rifiutate. Egli asserì che lo spazio, o luogo interno, non si differenziava dalla sostanza corporea in esso contenuta, se non per opera del nostro pensiero (ibidem, II, pp. 109-110); l'estensione definiva non solo la natura dei corpi, ma anche quella dello spazio. Negli articoli 13-15, operò una distinzione tra due tipi di luogo, sviluppando la nozione di luogo esterno ed esaminando le sue relazioni con lo spazio o luogo interno (ibidem, pp. 111-112). Secondo Descartes, le particolari modalità del movimento della loro materia erano responsabili della differenziazione degli oggetti. Tutta la materia era essenzialmente costituita dalla stessa sostanza estesa. Egli quindi si trovò a dover raffrontare il movimento relativo delle parti di un oggetto con il movimento del corpo circostante o spazio. In altre parole, per determinare la posizione di un oggetto tra i corpi (nello spazio), bisognava prendere in considerazione i corpi che si ritenevano immobili. A tal fine, si doveva definire il luogo esterno, vale a dire la superficie del corpo circostante e, infine, un presunto referente fisso. Si poteva quindi dire che un corpo cambiava il suo luogo esterno (la sua collocazione) senza cambiare il suo luogo interno (la sua estensione o forma). Tuttavia, per Descartes, quest'ultima non era che una distinzione concettuale: egli, infatti, credeva che in ultima analisi fosse impossibile scoprire un punto effettivamente immobile nell'Universo e asserì che "nessun luogo di nessuna cosa è permanente, se non in quanto determinato dal nostro pensiero" (ibidem, p. 111). Naturalmente questa distinzione era molto utile anche perché gli consentiva di sostenere che la Terra poteva essere concepita come un locus fisso attorno al quale si muovevano i mondi circostanti. Probabilmente Descartes sperava così di evitare di dare credito alla proposizione condannata secondo cui la Terra si muoveva, eludendo le difficoltà incontrate da Galilei che lo indussero a non dare seguito al suo progetto che prevedeva in primo luogo la pubblicazione del Monde.
Descartes, tuttavia, non riuscì a eludere, nella sua discussione dei concetti di luogo e di spazio, tutti i motivi di controversia. Egli, infatti, affrontò nei Principia uno dei problemi tradizionali indirettamente associati alla nozione di luogo, quello relativo all'esistenza di una pluralità di mondi, negando tale possibilità: "La materia del cielo non è diversa da quella della Terra; inoltre se i mondi fossero infiniti, non potrebbero assolutamente non constare tutti quanti di un'unica e medesima materia: non è dunque possibile che se ne diano molti, ma uno soltanto" (OF, II, p. 116). Questa tesi entrava in conflitto con la proposizione ufficialmente accreditata secondo cui Dio avrebbe potuto creare diversi mondi allo stesso tempo. Alcuni ritenevano che Descartes in tal modo violasse il principio dell'onnipotenza di Dio. In particolare nel 1682 Jean-Baptiste de La Grange ne Les principes de la philosophie contre les nouveaux philosophes affermò:
Chi può credere che Descartes insegni solo la verità e ciò che è conosciuto chiaramente dalla ragione naturale, quando, nella tesi dell'articolo 22 della seconda parte dei suoi Principia, egli afferma che non possono esistere molti mondi? È possibile esprimere un giudizio più estraneo e contrario alla ragione? Probabilmente, sin da quando i popoli hanno iniziato a tentare di ragionare sull'opera di Dio, non c'è stato nessuno che abbia osato insegnare una tale dottrina, o che si sia espresso a favore di una tale opinione. In effetti, nulla ci appare più chiaro e naturale dell'asserzione secondo cui il creatore di questo mondo può aver creato un altro mondo. (I, p. 6)
Analizzando più a fondo la questione, si poteva scoprire che l'argomentazione di Descartes era fondata anche su un altro pericoloso principio. All'epoca, infatti, si riteneva che la tesi formulata da Descartes nell'articolo 22 fosse basata sulla definizione secondo cui la materia si identificava con l'estensione (che implicava l'infinita estensione del mondo), così come sul presupposto in base al quale due corpi non possono occupare lo stesso luogo.
Descartes giunge audacemente a conclusioni estremamente pericolose che deriva da due principî non dimostrati. Il primo è che "ovunque vi sia spazio vi sia materia, perché chiunque dice spazio dice estensione, che non è altro che materia […]". Il secondo principio che egli deve necessariamente assumere per poter giungere alla conclusione che non possono esistere molti mondi, e di cui, tuttavia, non si fa parola, è che due corpi non possono, a rigor di termini, occupare lo stesso luogo, e che la materia non può occupare un'altra materia. (ibidem, pp. 7-9)
Come abbiamo già osservato, il 'pericoloso' principio non dichiarato secondo il quale due corpi non possono occupare lo stesso luogo svolgeva un ruolo tutt'altro che trascurabile nelle discussioni imperniate sulla spiegazione del mistero dell'Eucaristia.
Per altri versi, tuttavia, la teoria dello spazio di Descartes era relativamente più tradizionalista e conforme a quella di Aristotele, probabilmente sulla base di una scelta consapevole. Altrimenti avrebbe potuto adottare uno dei concetti di spazio elaborati dai neoplatonici e, in particolare, da Giordano Bruno, Bernardino Telesio e Tommaso Campanella, che avevano pensato lo spazio come un contenitore, indipendente dai corpi, ma sempre occupato da essi; oppure la concezione più radicale di Francesco Patrizi, secondo cui lo spazio tridimensionale non era una sostanza o un accidente, ma qualcosa esistente in sé, non in connessione ad altri enti; si trattava del contenitore infinito e immobile in cui Dio collocava i corpi, riempiendo alcuni luoghi e lasciandone altri vuoti. Come vedremo più avanti, una concezione analoga fu elaborata da Pierre Gassendi, che si proponeva di rendere nuovamente attuale l'atomismo di Epicuro.
Per quanto riguardava il concetto di spazio, Descartes rimase legato invece alle teorie di alcuni peripatetici, discostandosi dall'atomismo soprattutto per la negazione dell'esistenza del vuoto. In questo caso, tuttavia, il suo atteggiamento fu meno conseguente di quello mostrato nei confronti delle forme sostanziali. In un primo momento, infatti, egli assunse una posizione ambigua in relazione alla possibilità dell'esistenza del vuoto. Nel Monde egli derise quelli che negavano l'esistenza del vuoto basando le proprie argomentazioni sulle cause finali. Egli affermò, per esempio, che non era corretto attribuire all'"orrore del vuoto" il fenomeno per cui il vino non defluiva dal foro praticato sul fondo di una botte priva di altre aperture. "Sappiamo bene che questo vino non ha coscienza per temere qualcosa e, quando anche l'avesse, non vedo in rapporto a che potrebbe temere questo vuoto, che, in realtà, è solo chimera" (OF, I, p. 408).
Descartes, tuttavia, elaborò una spiegazione pienista della ragione per cui l'apertura di un altro foro alla sommità della botte determinava la fuoriuscita del vino: "bisogna piuttosto dire che non può uscire da questa botte, perché fuori tutto è pieno quanto può esserlo, e la parte d'aria di cui, se discendesse, occuperebbe il posto non può trovare in tutto il resto dell'Universo altro luogo ove situarsi, a meno che non si pratichi un'apertura nella parte superiore della botte, attraverso la quale quest'aria possa risalire per via circolare al posto 'del vino'" (ibidem). Egli ammetteva, però, di non poter dimostrare l'impossibilità dell'esistenza del vuoto, decidendo di assumere al riguardo una posizione ambigua: "Non potendo però con ciò assicurare che non vi sia vuoto in Natura; se spiegassi come a questo proposito stanno veramente le cose, avrei timore che il mio Discorso divenisse troppo lungo" (ibidem). Non sono chiare le ragioni che spinsero Descartes a non approfondire tale questione nelle sue prime opere, ma occorre ricordare che il tema dell'esistenza del vuoto in Natura e quello dell'assoluto potere di Dio di crearlo erano parte integrante di un'eredità che includeva alcune condanne della Chiesa, così come celebri controversie tra i suoi contemporanei. Molti anni più tardi, tuttavia, nella parte seconda dei Principia, Descartes sostenne di avere dimostrato l'impossibilità del vuoto a partire dalla sua definizione di materia:
In realtà che non possa darsi il vuoto così come comunemente lo intendevano i Filosofi […] appare manifesto dal fatto che l'estensione dello spazio, o luogo interno, non differisce dall'estensione del corpo. Infatti, poiché da ciò solo che il corpo sia esteso in lunghezza, larghezza e profondità concludiamo correttamente che è sostanza, essendo del tutto contraddittorio che il nulla possieda qualche estensione, identica cosa dobbiamo concludere anche a proposito dello spazio che si suppone vuoto, giacché esso, possedendo estensione, possiede necessariamente anche sostanza. (OF, II, pp. 112-113)
Descartes inserì in questa spiegazione un'allusione all'argomento degli scolastici secondo cui Dio poteva annientare un corpo lasciando vuoto il suo contenitore, affermando che, se Dio avesse compiuto una tale azione, i lati del contenitore sarebbero immediatamente entrati in contatto tra loro. È difficile spiegare da un punto di vista esclusivamente filosofico le differenze esistenti tra la posizione assunta in un primo momento da Descartes in relazione all'esistenza del vuoto e le tesi successive in cui essa è negata. L'identificazione della materia con l'estensione, infatti, avrebbe dovuto indurlo a negare la possibilità dell'esistenza del vuoto anche nel Monde.
Il problema dell'esistenza del vuoto fu discusso in uno scambio di opinioni tra Descartes e Blaise Pascal relativo a un esperimento effettuato con il tubo di Torricelli (che aprì la strada all'invenzione del barometro) in cui si riempiva di mercurio un tubo di vetro ermeticamente sigillato a un'estremità e lo si inseriva in posizione capovolta in una vasca contenente altro mercurio. Questa operazione determinava la discesa del mercurio dall'estremità chiusa (ora superiore) del tubo tenuto in posizione verticale e la comparsa di uno spazio tra il mercurio e la parte superiore del tubo. In un primo momento, Pascal sostenne che l'aria penetrava nel mercurio occupando uno spazio nel tubo di vetro; in seguito, tuttavia, egli effettuò una serie di esperimenti analoghi che lo condussero ad affermare che nella parte superiore del tubo, al di sopra del mercurio, si creava un vuoto. Seguirono ulteriori esperimenti, forse suggeriti da Descartes, tra i quali ricordiamo quello effettuato sul Puy-de-Dôme per constatare se il cambiamento di quota determinasse la diminuzione dell'altezza della colonna di mercurio, come in effetti avvenne. Ma mentre Pascal riteneva che questo risultato confermasse l'esistenza del vuoto in Natura, Descartes pensava che esso convalidasse la sua ipotesi, secondo cui un vero vuoto non poteva esistere. Egli affermò di non dubitare che l'esperimento fosse riuscito "perché concordava interamente con i [suoi] principî" (Descartes a Carcavi, 17 agosto 1649, in AT, V, p. 391). A suo parere, dal momento che l'aria esterna diveniva più rarefatta a quote più elevate, il mercurio perdeva sostegno, consentendo alla materia sottile di penetrare nel vetro. Era questa la causa della diminuzione dell'altezza della colonna di mercurio e della crescita del livello del mercurio contenuto nella vasca. Dopo tutto, dal momento che lo 'spazio' formatosi nel tubo era penetrato dalla luce, esso non poteva essere privo di materia. Benché, come abbiamo già osservato in relazione ai Principia, le definizioni di materia e di spazio adottate da Descartes precludessero la possibilità dell'esistenza del vuoto, egli scorse nei risultati sperimentali di Pascal la conferma della sua concezione della materia. Queste prime osservazioni del vuoto dimostrano che i supposti esperimenti 'cruciali' potevano dare luogo a interpretazioni opposte. In seguito ricercatori come Robert Hooke, Robert Boyle, Christiaan Huygens e altri avrebbero sviluppato e perfezionato la pompa pneumatica. Nonostante il livello raggiunto dalla nuova tecnologia, il problema metafisico del vuoto avrebbe cessato di essere considerato fondamentale.
Pierre Gassendi (1592-1655), un sacerdote cattolico che si richiamava alla tradizione umanistica, tentò di rendere attuale l'antica filosofia atomistica di Epicuro elaborando una dottrina in grado di distinguersi dalle altre 'nuove' filosofie e di rivaleggiare in modo sistematico con le teorie di Des-cartes, soprattutto per quanto riguardava le nozioni relative allo spazio, al luogo, al vuoto e alla materia. Gassendi intraprese la sua carriera di autore nel 1624 ‒ nello stesso anno in cui gli atomisti Villon, de Clave e Bitault furono espulsi da Parigi ‒ con la pubblicazione di un'opera in sette volumi, ambiziosa e potenzialmente controversa, intitolata Exercitationes paradoxicae adversus Aristoteleos. Gassendi diede alle stampe solo il primo di questi volumi, limitandosi a completare il secondo, nel quale criticava le spiegazioni della quantità fornite dai suoi contemporanei: "Nelle spiegazioni dei nostri filosofi, la quantità, che è la cosa più evidente che ci sia, diviene la più oscura delle nozioni" (p. 337). Ammettendo che il riconoscimento dell'equivalenza tra quantità ed estensione avrebbe "potuto aggiungere alcune difficoltà" alla spiegazione del mistero dell'Eucaristia, Gassendi spiegò l'estensione "nei termini della lunghezza, della larghezza e della profondità [dei corpi] che, a sua volta, in virtù della sua natura, rende le cose estese commensurabili al luogo, in modo che ogni loro parte corrisponda a una parte del luogo" (ibidem, pp. 337, 339). Egli quindi abbandonò la distinzione tra luogo interno (disposizione delle parti di un oggetto in relazione a tutte le altre considerate separatamente) e luogo esterno (identificato con l'estensione dei corpi, così come è descritta nel brano precedentemente menzionato). Gassendi sosteneva che queste due nozioni erano equivalenti e inseparabili: "Ma credetemi, non può esservi un'estensione delle parti in un ordine relativo a ciascuna delle altre, senza che le parti siano disposte in modo che ognuna di esse occupi questa o quella parte del luogo" (ibidem, p. 339).
Nella sua critica delle concezioni dei seguaci di Aristotele, Gassendi confutò la distinzione tra luogo interno e luogo esterno e asserì che l'estensione non doveva essere presentata come una qualità della materia, ma piuttosto come la sua essenza. Nell'opera più significativa della maturità, il Syntagma philosophicum, egli, tuttavia, affermò che l'estensione o dimensione poteva essere intesa in senso sia corporeo sia incorporeo. Lo spazio e il tempo, e quindi anche il luogo, dovevano essere considerati separatamente dall'estensione corporea. Essi non erano accidenti della materia, né si identificavano con la materia, ma "dovevano essere considerati cose reali, o entità effettive, […] poiché lo spazio permane e il tempo scorre indipendentemente dal pensiero" (Opera omnia, I, p. 182). Lo spazio quindi costituiva una categoria non riducibile a quelle di sostanza e accidente e si caratterizzava per la sua immensità, immobilità e assoluta permeabilità. Gassendi riteneva che la sua concezione dello spazio fosse conforme ai principî dell'ortodossia. Adeguandosi alle condanne decretate dalla Chiesa contro chi, negando la possibilità dell'esistenza del vuoto, limitava l'onnipotenza di Dio, sostenne che Dio poteva, per esempio, annientare tutti i corpi contenuti nella sfera lunare preservando la sua integrità, in modo da non alterare le sue precedenti dimensioni.
Inoltre, Dio avrebbe potuto abolire "l'intera macchina dei cieli", lasciando così uno spazio vuoto delle stesse dimensioni dell'Universo annientato. Gassendi giunse persino a collegare la sua nozione di spazio incorporeo alla dottrina tradizionale, osservando che Aristotele non aveva potuto fare a meno di 'immaginare' le dimensioni indipendentemente dalla massa lineare e da altri accidenti. Egli precisò che, come la nozione di spazio immaginario di Aristotele, il suo concetto di spazio incorporeo non era definito in senso positivo. In entrambe le concezioni, infatti, lo spazio incorporeo non poteva essere soggetto al cambiamento né agire sui corpi. Tuttavia, pur conformandosi ai principî dell'ortodossia, la posizione assunta da Gassendi in relazione alla possibilità dell'esistenza del vuoto sollevava alcuni problemi teologici. Nella sua concezione, infatti, lo spazio sembrava essere necessariamente increato e indipendente da Dio, ed egli riteneva che ciò fosse accettabile dal punto di vista teologico per le ragioni a cui abbiamo già accennato: lo spazio incorporeo non era un'entità positiva e non poteva in alcun modo agire sul suo contenuto. Presentando il vuoto come il contenitore all'interno del quale si muovevano gli atomi e i corpi composti, Gassendi riuscì a inserirlo in modo essenziale e naturale al centro del suo sistema.
Coloro che consideravano opinabile la tesi secondo cui lo spazio e il tempo erano cose reali increate, avrebbero giudicato ancora più discutibile la dottrina epicurea in base alla quale anche gli atomi, vale a dire le componenti dell'universo fisico, erano eterni e increati. Gassendi tentò di correggere questa dottrina considerata eretica, sostenendo che tali 'correzioni' erano analoghe a quelle introdotte nella concezione della materia di Aristotele. Egli asserì che gli atomi erano sostanze create a cui era stato impresso il moto che si alimentava grazie al supporto di Dio. Citando Epicuro e Lattanzio, Gassendi sostenne che gli atomi non erano particelle omogenee, ma unità indivisibili di materia di 'ineffabile varietà': "A dire il vero, Lattanzio era tutt'altro che inconsapevole del fatto che tutti gli atomi non dovevano essere considerati rotondi e regolari; egli sapeva che vi sono anche atomi angolari e ricurvi" (Opera omnia, p. 281). Al contrario dei corpi divisibili e composti da essi formati, gli atomi erano completamente solidi e, di conseguenza, la loro integrità non poteva essere compromessa dai processi naturali. Inoltre, gli atomi, pur non possedendo forme o qualità diverse "dalle dimensioni, dalla forma, e dal peso o moto", consentivano tuttavia di spiegare tutti i mutamenti fisici come prodotti di queste qualità essenziali.
La rarefazione, per esempio, poteva essere interpretata come una relazione tra il vuoto e gli atomi: un corpo diveniva meno denso nel momento in cui lo spazio vuoto si estendeva nelle sue dimensioni interne. I tipi particolari (in termini di dimensioni, forma, peso e quantità di moto) di atomi presenti in un dato corpo composto spiegavano i particolari processi naturali da esso subiti. L'evaporazione dell'acqua poteva essere provocata dalla presenza al suo interno di atomi o particelle "regolari, o meno angolari e ricurvi, che liberandosi volavano via" (ibidem, p. 282), mentre gli atomi ricurvi rimanevano al loro posto. A eccezione di quanto riguardava l'anima umana, Gassendi pensava di poter descrivere le cause secondarie in termini di atomi, senza dover ricorrere a principî immateriali, e attaccò Aristotele e i suoi interpreti sostenendo che il discorso materia-forma non contribuiva affatto alla conoscenza: "Benché affermino abitualmente che la forma deriva dalla materia, essi enunciano un concetto che sfugge alla nostra comprensione, nella misura in cui pretendono che la forma sia un'entità reale distinta dalla materia; e tuttavia non ammettono che anche la più sottile particella di materia partecipa della sua costituzione" (ibidem, p. 335).
Come Descartes, Gassendi deve essere considerato uno dei principali esponenti della tendenza a subordinare la forma alla materia ‒ vale a dire ad attribuire una maggiore importanza alle cause materiali ed efficienti e a fare a meno delle cause formali e finali ‒ e quindi a ridurre la prima alla seconda (nel campo della descrizione dei corpi). Descartes e Gassendi, no-nostante le significative differenze riscontrabili nei loro concetti di corpo, di movimento, di spazio e di vuoto, così come tra le loro concezioni epistemologiche, finirono per elaborare quelle che oggi definiremmo due interpretazioni 'meccanicistiche' della scienza. Entrambi gli autori, infatti, idearono due influenti sistemi di filosofia della Natura in competizione tra loro e con numerosi sostenitori sia nell'Europa continentale sia al di fuori dei suoi confini.
I sistemi metafisici rivali di Gassendi e di Descartes crearono una profonda dicotomia nel campo del 'meccanicismo', che potrebbe rivelarsi un utile criterio di differenziazione delle posizioni dei pensatori che si richiamarono a questa filosofia negli ultimi anni del XVII secolo. I seguaci di Gassendi difesero una concezione atomistica del mondo in cui i corpuscoli materiali si muovevano all'interno di uno spazio vuoto. I cartesiani, invece, si schierarono a favore della teoria secondo cui il mondo era costituito da un plenum di estensione materiale, negando decisamente la possibilità dell'esistenza del vuoto. Tuttavia, anche per quanto riguarda i circoli 'meccanicisti', è difficile definire le posizioni filosofiche dei nuovi pensatori basandosi solo sulla loro adesione a uno dei due schieramenti. Prima di prendere in esame i dibattiti relativi allo spazio, alla materia e al vuoto che ebbero luogo tra i seguaci di Gassendi e quelli di Descartes, è necessario descrivere a grandi linee la posizione di Thomas Hobbes (1588-1679), filosofo meccanicista vissuto nello stesso periodo. Hobbes non era molto apprezzato dai suoi contemporanei e la sua influenza filosofica si manifestò soprattutto nella capacità di suscitare reazioni negative. Le sue concezioni politiche e morali, alle quali oggi è legata la sua fama, subordinavano la Chiesa e il clero alla monarchia, intesa come strumento di controllo sociale. La sua filosofia materialista si distingueva da quelle dei suoi colleghi scolastici e meccanicisti per il rifiuto del discorso relativo alle sostanze immateriali e per la riduzione dell'intelletto umano ai principî del meccanicismo. Hobbes non riconosceva l'esistenza di principî del movimento diversi da quello della Creazione originaria dell'Universo da parte di Dio. Secondo i suoi numerosi critici, Hobbes avrebbe elaborato una filosofia che faceva a meno di ogni entità non materiale, in cui ci si riferiva a Dio solo per ragioni di opportunità.
Grazie al suo materialismo radicale, Hobbes sembrava sottrarsi alle preoccupazioni relative al rispetto dei principî dell'ortodossia religiosa ed eludeva quindi, almeno potenzialmente, molte delle difficoltà incontrate dai suoi contemporanei. Tuttavia, alcuni aspetti critici della sua concezione dello spazio, ossia dello spatium imaginarium, seguitavano a essere per molti versi analoghi a certe interpretazioni seicentesche del pensiero di Aristotele. Come Gassendi e Descartes, Hobbes propose un esperimento concettuale: egli chiese ai suoi lettori di immaginare l'annientamento dell'intero Universo a eccezione di un solo uomo. Secondo Hobbes, quest'uomo avrebbe conservato la memoria e l'immaginazione delle dimensioni, dei movimenti, dei suoni, dei colori e delle altre percezioni sensoriali: "Tutte queste cose, che non sono altro che idee e fantasmi, prendono forma in colui che le immagina; tuttavia, gli appariranno come cose esterne e indipendenti dal potere della sua mente" (The English works, I, p. 92). Hobbes definì queste percezioni e questi ricordi nei termini della propagazione del moto nell'anima, richiamandosi al concetto di immaginazione formulato da Aristotele. Ricordando il mondo così come appariva prima del suo annientamento, l'unico individuo sopravvissuto avrebbe continuato a concepire l'idea di spazio e le altre nozioni legate alla percezione del mondo esterno, benché quest'ultimo avesse cessato di esistere. Questo spazio immaginario, questo 'fantasma', per riprendere un termine utilizzato da Hobbes, era percepito come un ricettacolo destinato ad accogliere i corpi. Hobbes sviluppò così una nozione di spazio immaginario molto simile a quella impiegata da coloro che affrontavano i problemi teologici relativi alla capacità di Dio di muovere il mondo, all'eternità dello spazio o ad altre questioni trattate dagli scolastici.
Hobbes riconosceva che lo spazio, almeno come 'fantasma', esisteva indipendentemente dall'estensione materiale. Tuttavia, lo 'spazio reale' non dipendeva dalla percezione umana e si identificava con l'estensione dei corpi. Hobbes operò una meticolosa distinzione tra l'equivalenza delle nozioni di corpo e spazio stabilita da Descartes e il suo concetto di estensione dei corpi, allontanandosi così, almeno retoricamente, dalla posizione assunta da quest'ultimo. Egli inoltre criticò l'argomento di Descartes secondo cui l'equivalenza delle nozioni di corpo e spazio rendeva impossibile l'esistenza del vuoto, sostenendo che tra le particelle poteva esservi uno spazio immaginario e che quindi esse non dovevano essere considerate continue. Hobbes, tuttavia, negò l'esistenza del vuoto in Natura, e anche la sua stessa possibilità, non meno veementemente di Descartes, e criticò con grande acutezza gli scolastici che avevano difeso questo concetto: "ogni parte dell'universo è corpo, e ciò che non è corpo non è parte dell'universo; e poiché l'universo è tutto, ciò che non ne è parte è nulla, e, di conseguenza, non è in nessun luogo" (Leviathan, ed. Pacchi, p. 544). Nonostante la sua critica delle concezioni di Descartes, Hobbes condivise la metafisica pienista del filosofo francese che spiegava i fenomeni fisici, inclusa la percezione sensoriale, in termini di movimento dei corpi composti. L'estensione, il movimento, la quiete e le figure erano 'accidenti' dei corpi. Tutte le altre qualità erano "movimenti della mente di colui che percepisce o dei corpi stessi che sono percepiti" (The English works, I, p. 105). Benché analoga a quella di Descartes, la metafisica pienista e antiatomistica di Hobbes se ne distingueva per la sua negazione delle sostanze spirituali che estendeva il meccanicismo a un settore più vasto della realtà.
Benché la contrapposizione tra 'cartesiani' e 'gassendisti' costituisca un utile criterio di classificazione delle posizioni assunte dai meccanicisti nella seconda metà del XVII sec., non si può non riconoscere che, come i loro colleghi aristotelici, questi filosofi enunciarono una vasta gamma di dottrine. Ricordiamo, per esempio, il caso del filosofo parigino Gérauld de Cordemoy (1620-1684), assiduo frequentatore di diverse accademie e numerosi salotti cartesiani. La prima opera di Cordemoy, i Discours de l'action des corps, fu pubblicata anonima come appendice all'edizione del 1664 del Monde. In un testo molto popolare dato alle stampe nel 1666, Le discernement du corps de l'âme, egli descrisse la fisica cartesiana, risolvendo in senso occasionalista il problema del rapporto mente-corpo nell'uomo posto da Descartes. Cordemoy accettò la definizione cartesiana secondo cui i corpi sono 'sostanze estese', ma sostenne che essi erano indivisibili. Quindi proseguì la sua analisi operando una distinzione tra i corpi (come sostanze) e la materia come aggregato di corpi. Questi ultimi quindi, al contrario della materia, non erano divisibili. Benché avesse riconosciuto anche la possibilità dell'esistenza del vuoto, egli seguitò a considerarsi un fedele difensore della filosofia cartesiana.
Altri 'cartesiani' tentarono di operare una sintesi tra le vecchie e le nuove dottrine della materia, della forma e del vuoto. René Le Bossu, per esempio, pubblicò un 'parallelo' tra i principî della fisica di Aristotele e quelli della fisica di Des-cartes, sostenendo che non erano tra loro inconciliabili. Basando la sua esposizione soprattutto sull'opera del pensatore cartesiano Jacques Rohault (1620-1672), Le Bossu sostenne che Aristotele aveva analizzato la materia nei termini di ciò che di essa era conoscibile ai suoi tempi, mentre Descartes, potendosi basare su una scienza più raffinata, pensava che la materia fosse comune a tutte le cose, cioè a ogni sostanza estesa. Le Bossu osservò che i tre principî indicati da Aristotele, la materia, la forma e la privazione, erano analoghi a quelli descritti da Descartes (materia e forma). La ragione delle discordanze individuabili tra le due posizioni andava ricercata nel fatto che Aristotele aveva analizzato ciò che serviva alla conoscenza dei corpi, mentre Descartes aveva preso in esame gli elementi della loro costituzione.
I cartesiani seguitarono a raffrontare tra loro le definizioni di materia e di forma di Descartes e di Aristotele, ritenendo in effetti che le loro differenze fossero il risultato del notevole sviluppo della conoscenza scientifica.
Ma il pensiero di Aristotele e quello di Descartes potevano essere accordati tra loro seguendo altre strade. Johannes de Raey, per esempio, dopo aver biasimato i commentatori di Aristotele e i tardi scolastici che, a suo parere, avevano distorto il pensiero del Filosofo, tentò di riconciliare i due pensatori estraendo dal loro contesto alcuni passaggi di Aristotele e interpretandoli nei termini della filosofia cartesiana. Verso la fine del XVII sec., alcune accademie incorporarono le concezioni di Descartes nei programmi tradizionali, in particolare nello studio del rapporto tra materia e forma, e molti autori di libri di testo esposero le dottrine cartesiane della materia e della forma inserendole nel consueto insegnamento scolastico.
In Francia, diverse proposizioni cartesiane furono ripetutamente condannate. Anche dopo il 1663, anno in cui le opere di Descartes furono inserite nell'indice dei libri proibiti, le autorità non cessarono di censurare le tesi del filosofo. Tra le ragioni abitualmente menzionate a giustificazione di tali condanne ricordiamo la negazione delle forme sostanziali e degli accidenti reali e l'identificazione della materia con l'estensione, tesi che si riteneva non consentissero di spiegare in modo adeguato il mistero dell'Eucaristia. La frequenza delle condanne potrebbe aver dato un sostegno alla filosofia cartesiana, che in certe situazioni non poteva essere apertamente difesa.
Riproposto a sua volta da molti autori, il meccanicismo di Gassendi fu spesso confuso dai critici di questa filosofia con quello di Descartes. Nel 1680, il gesuita Louis Le Valois attaccò sia Descartes sia François Bernier, un seguace di Gassendi, sostenendo che le loro teorie meccaniciste non erano conciliabili con la spiegazione del mistero dell'Eucaristia. Due anni prima, Bernier aveva pubblicato un'opera in sette volumi, Abrégé de la philosophie de Gassendi, rendendo accessibile al grande pubblico il monumentale Syntagma philosophicum. Commentando questo dibattito, Pierre Bayle (1647-1706) sostenne che se la filosofia di Descartes non poteva essere conciliata con la spiegazione della reale presenza di Cristo nel pane e nel vino dell'Eucaristia; la posizione dei seguaci di Gassendi e, in particolare, di Bernier, era diversa. Come abbiamo già osservato, sia Gassendi sia Descartes avevano definito la materia in termini di estensione. In entrambe le concezioni l'estensione del pane sembrava perdurare anche dopo la transustanziazione. Ciò equivaleva ad affermare che la materia non aveva subito alcun mutamento o che l'estensione era un semplice accidente della materia, una tesi condivisa dalla maggior parte degli aristotelici. In difesa di Gassendi, Bernier poté appellarsi al rispetto mostrato dal suo maestro nei confronti dei teologi. Secondo Gassendi, infatti, non vi era alcun bisogno di elaborare una spiegazione dettagliata del mistero dell'Eucaristia, ma ci si doveva limitare ad affermare la permanenza delle specie del pane e del vino. Per difendere la sua posizione, Bernier tentò invece di chiarire le discordanze rilevabili tra le tesi dei seguaci di Gassendi e quelle dei difensori di Descartes attaccando apertamente i cartesiani. Egli accusò Descartes di aver negato la possibilità dell'esistenza del vuoto, una tesi tutt'altro che priva di implicazioni teologiche. Sostenne inoltre che la dottrina delle sostanze spirituali difesa dai cartesiani rendeva dubbia l'esistenza dei corpi nel mondo naturale e sembrava suggerire che ogni cosa fosse riconducibile al pensiero. I cartesiani, forse non a torto, data la vasta gamma delle idee elaborate dai membri del loro schieramento, ricorsero alla strategia di occultare le differenze rilevabili tra la loro filosofia e quella dei seguaci di Gassendi. Essi sostennero che i gassendisti erano altrettanto colpevoli ‒ se non più colpevoli ‒ di aver enunciato tesi eretiche. Per esempio, in una lettera incentrata sul divieto di leggere le opere di Descartes emanato dai censori di Roma, Arnauld affermò: "Non trovo sorprendente […] che alcuni giovani sconsiderati siano divenuti atei ed epicurei dopo aver letto le opere di Gassendi" (Oeuvres, III, p. 395).
L'atomismo di Gassendi si diffuse anche al di là dei confini dell'Europa continentale, grazie soprattutto all'attività di Walter Charleton (1620-1707) e di altri studiosi che lo resero accessibile in inglese. Si ritiene che Charleton, medico del re e membro del circolo di Newcastle (il cui membro più eminente era Hobbes), si fosse convertito all'atomismo di Gassendi dopo aver aderito ai principî dell'alchimia rinascimentale. Tuttavia, poiché egli stesso riconosceva di essere uno spirito eclettico, è possibile che la sua adesione alla filosofia di Gassendi non fosse senza riserve. In una delle sue prime opere, Charleton tradusse e integrò alcuni trattati paracelsiani compilati da van Helmont. Nel primo trattato intitolato The magnetick cure of wounds, Charleton propose una spiegazione naturalistica del trattamento delle ferite basato sull'applicazione del vetriolo all'arma che aveva causato la lesione, presentando questo fenomeno come il risultato del flusso degli "atomi mummificanti" che circolavano tra l'arma e la ferita. Questi invisibili 'effluvi' erano prodotti dalla divisibilità "pressoché infinita" degli atomi. In quest'opera Charleton non elaborò una metafisica sistematica e non si schierò a favore del pienismo o dell'indivisibilità degli atomi, ma si rivelò incline a trattare le 'simpatie' di van Helmont in termini molto vicini a quelli del meccanicismo. In un'altra opera, The darkness of atheism dispelled by the light of Nature, Charleton parafrasò a suo modo gli argomenti impiegati da Descartes nelle Meditationes per dimostrare l'esistenza di Dio; ma la sua attrazione per il progetto cartesiano si estendeva anche al suo impianto meccanicista. Come Descartes, egli rifiutò le qualità reali e le forme accidentali: "La luce, i suoni, gli odori, i sapori, il caldo, il freddo e le altre qualità tattili non rientrano in quanto può essere colto dai miei pensieri" (The darkness of atheism, p. 11). Inoltre interpretò la sostanza corporea come semplice "Grandezza o quantità estesa nelle sue tre dimensioni" (ibidem). Charleton si espresse in termini estremamente elogiativi nei confronti delle risposte date da Descartes ai critici delle Méditations, sostenendo che il maestro "superava di gran lunga tutti gli altri in fatto di comprensione, perspicacia, profondità e convinzione" (ibidem, Advertisement to the reader).
Con la Physiologia Epicuro-Gassendo-Charltoniana, un'opera dedicata alla metafisica e alla fisica, Charleton si propose, come indica il titolo, di ricostruire "sull'ipotesi degli atomi l'edificio della scienza naturale" che era stato "fondato da Epicuro, riparato da Gassendi e ampliato da Walter Charleton". Ma, come egli stesso dovette ammettere, Charleton non accettava senza riserve le teorie di Gassendi. Nel primo capitolo della Physiologia, egli asserì che preferiva essere libero di 'scegliere' tra diverse opinioni e di non appartenere né alla categoria degli "assertori della libertà filosofica", né a quella dei "rinnovatori" del pensiero degli Antichi, che a suo parere erano rappresentate rispettivamente da Descartes e da Gassendi.
La Physiologia era in gran parte costituita dalla traduzione di una serie di brani di carattere fisico e metafisico dell'ultima opera redatta da Gassendi, le Animadversiones in decimum librum Diogenis Laertii, integrata da alcuni passaggi del suo Syntagma philosophicum, un'opera a quel tempo ancora inedita. Nella Physiologia, tuttavia, Charleton inserì anche molte riflessioni cartesiane e le sue stesse interpretazioni. Egli, per esempio, combinò le antiche testimonianze volte a dimostrare l'esistenza del vuoto in natura o l'esistenza di spazi vuoti impercettibili tra le particelle della materia, con una serie di più recenti esperimenti chimici, come quello del sale che "in stato di dissoluzione si riduce alle sue più piccole o atomiche particelle" (Physiologia, p. 31). Nell'affrontare il tema del vuoto preternaturale, o spazio vuoto conglomerato, egli discusse a fondo l'esperimento di Torricelli, offrendo una chiara descrizione della procedura sperimentale. Tuttavia egli ammetteva che le prove relative all'esistenza del vuoto non fossero conclusive:
Molti eccellenti discorsi sono stati scritti dal signor Petit, dal dottor Pascal, da Mersenne, da Gassendi e da étienne Noël che, essendo tutti francesi, sembrano unanimemente scorgere in questo esperimento l'opportunità di sfidare tutti gli ingegni europei a una gara d'emulazione in fatto di perspicacia. Finora, tuttavia, dobbiamo riconoscere di non essere profondamente convinti che il principale fenomeno prodotto da questo illustre esperimento dimostri chiaramente l'esistenza di un accumulo di vacuità. (ibidem, p. 35)
Charleton proseguì la sua analisi indicando dieci ragioni per le quali l'aria non poteva essere presente nel tubo. Tuttavia, riguardo all'esistenza di "una più sottile e generalmente penetrante sostanza", egli sostenne di non sentirsi in alcun modo tenuto "ad ammettere che lo spazio deserto nel tubo sia pieno di [etere]", almeno fino a quando i difensori di tale ipotesi non avessero potuto giustificare l'"incerta supposizione" che la Natura ha orrore del vuoto (ibidem, p. 40). Rifiutando di scorgere nei risultati degli esperimenti di Torricelli le prove decisive per confermare o invalidare l'ipotesi dell'esistenza di un vuoto assoluto, Charleton dimostrò di aver compreso le differenze che distinguevano la metafisica di Gassendi da quella di Descartes. Nel primo capitolo del secondo libro, dedicato alla questione dell'esistenza degli atomi, egli, tuttavia, tentò di attenuare alcune di queste differenze:
La radice o l'inizio dell'estensione materiale o fisica non può essere che […] aliquid indissolubile, vale a dire qualcosa di minuscolo e solido, al punto che niente di quanto sia concepibile in natura possa essere più minuto o ridotto (infatti, se la radice matematica, o continuità immaginaria, è un punto, così quella fisica o continuità percettibile deve essere un corpo della più piccola quantità). Della stessa natura sono gli atomi di Democrito e di Epicuro, dei seguaci di questi pensatori e le particelle impercettibili di Descartes. (ibidem, p. 85)
Charleton giunse alla conclusione che i corpi descritti da Gassendi e da Descartes non potevano che essere indivisibili. Egli inoltre citò i Principia di Descartes (parte IV, art. 201) a sostegno dell'ipotesi dell'esistenza di corpi 'estremamente piccoli' che consentiva di spiegare la nutrizione.
Per quanto riguardava il luogo, Charleton seguì l'esempio di Gassendi e rifiutò sia le spiegazioni di Aristotele sia quelle di Descartes, affermando che essi "erano incorsi nello stesso errore, del resto molto comune", di sostenere che la dimensione presuppone l'esistenza della materia. Egli ripropose l'esperimento concettuale di Gassendi, chiedendo ai suoi lettori di immaginare l'annientamento di tutta la materia che si trovava al di sotto della sfera sublunare, tentando di dimostrare che in questo caso la dimensione non avrebbe cessato di esistere. Quindi operò una distinzione tra dimensioni corporee e incorporee, "attribuendo queste ultime allo spazio". Charleton giunse alla conclusione che solo l'incorporeità era la ragione formale per cui lo spazio e il luogo potevano essere definiti "propriamente e interamente incorporei" (Physiologia, p. 71). Tale conclusione, a suo parere, rendeva coerente la tesi secondo cui gli angeli potevano essere concepiti in un luogo, erano dotati di mobilità e potevano coesistere con le dimensioni corporee.
Le inclinazioni meccaniciste di Charleton furono mitigate dal suo eclettismo. L'adesione alla filosofia di Descartes non si estese alla spiegazione di tutti i fenomeni fisici. Egli, per esempio, rifiutò la teoria cartesiana della visione, a vantaggio di una dottrina che a suo parere risaliva a Epicuro, ma che in realtà sembra molto vicina ad alcune spiegazioni aristoteliche. L'ingegnosità con cui Charleton riuscì a modificare le cornici esplicative di Gassendi e di Descartes e a combinare le loro dottrine può essere considerata un'ulteriore replica alle sfide lanciate dalle nuove filosofie.
Tuttavia Charleton non rappresenta l'unica risposta alle nuove filosofie che sia provenuta dall'ambito inglese: il gruppo conosciuto come i platonici di Cambridge propugnava una filosofia permeata sia dalla tradizione dell'occultismo sia dal tardo arrivo del meccanicismo. Uno dei suoi membri più importanti, Henry More (1614-1687), considerava i principî meccanicistici di Descartes e di Hobbes insufficienti a spiegare molti fenomeni naturali. More riteneva che per spiegare forze come la gravità e il magnetismo fosse necessario ricorrere a una sostanza incorporea ('spirito della natura'), vale a dire una sostanza estesa spirituale "che può muovere sé stessa, ha la proprietà di penetrare, contrarre e dilatare sé stessa e può anche penetrare muovere e alterare la materia" (The immortality of the soul, p. 25). Lo spirito della Natura, creato da Dio e capace di agire sulla (e nella) materia, conteneva per autorità divina le leggi della Natura descritte matematicamente. La sostanza spirituale di More conteneva dunque i principî attivi attribuiti alla materia. Altre concezioni sul medesimo tema furono sviluppate, in modi diversi, nel corso delle discussioni di Leibniz e Newton su questioni come l'attività e le forze attive.
La fama di Robert Boyle (1627-1691) è legata agli esperimenti con la pompa pneumatica, effettuati in stretta collaborazione con il celebre fabbricante di strumenti e sperimentatore Robert Hooke. I successi empirici di Boyle sono spesso descritti nei termini di una metodologia di ricerca in cui la speculazione metafisica era stata messa da parte, a vantaggio di una ben articolata 'filosofia meccanicista', un'espressione a quanto sembra coniata dallo stesso Boyle in riferimento ai sistemi di Descartes, Gassendi e Hobbes. In About the excellency and grounds of the mechanical hypotesis (1674), Boyle sostenne che i principî non potevano essere meno di due: la materia e il movimento, che rappresentavano i principî più importanti, più semplici e più estesi. Egli adottò la concezione secondo cui la "Natura fa scarsezza di sé, si divide sempre [in minuscole particelle]" (The works, ed. 1772, IV, p. 76). Boyle rifiutò per ragioni di convenienza esplicativa le nozioni di forme sostanziali e qualità reali, a vantaggio dei concetti di grandezza, forma, moto o quiete dei corpi particolari. Tuttavia, il suo impiego di questo 'sistema generale' spesso lo condusse a contraddire alcune specifiche dottrine associate alle nozioni di corpo, movimento e vuoto. Egli inoltre si ispirò alle opere di un gran numero di filosofi, tra cui ricordiamo Charleton, Kenelm Digby, Daniel Sennert, Jan Baptista van Helmont, George Starkey e molti altri, tanto che, almeno nella pratica, i suoi metodi finirono per rivelarsi decisamente eclettici. Alcuni hanno persino suggerito che le radici del meccanicismo di Boyle siano da ricercare non tanto nelle opere di Descartes, Gassendi e Hobbes quanto nella tradizione alchemica.
Le prime opere di Boyle dimostrano che il loro autore si fondava sia sui principî del corpuscolarismo sia sulle interpretazioni alchemiche della materia. La sua teoria della materia, per esempio, così come è presentata nel trattato Of the atomicall philosophy, è in gran parte riconducibile all'opera dedicata da Sennert alla dissoluzione dei metalli. Boyle credeva che l'uso dell'aqua fortis nella dissoluzione dell'argento in una lega composta da argento e oro (che produceva la precipitazione dell'oro), dimostrasse che questa lega non era una mistura perfetta. Egli constatò, invece, che in tale trasformazione i metalli preservavano i loro corpuscoli metallici. Boyle, come del resto Sennert e molti altri chimici, pensava che questo e altri analoghi esperimenti convalidassero l'atomismo. Persino nello Sceptical chymist (1661), un'opera in cui aveva criticato gran parte della tradizione alchemica, egli seguitò a riferirsi a esperimenti alchemici per dimostrare che l'oro, così come altri metalli, conserva in ultima analisi la sua natura anche se sottoposto a diverse mutazioni. Benché ammettesse che l'oro è a sua volta un corpo misto, egli sostenne che i suoi corpuscoli agivano come un aggregato permanente di corpi minuscoli; è dal tema alchemico della dissoluzione e della ricombinazione dei corpi che derivò la sua ipotesi meccanicistica, fondandosi quindi su una fonte completamente diversa da quelle rappresentate dalle interpretazioni scolastiche di Aristotele o dai nuovi sistemi ideati dagli oppositori della Scolastica. Adottando un atteggiamento di assoluta neutralità per quanto riguarda la metafisica, Boyle riuscì ad assimilare tutte le teorie apparentemente diverse di cui era venuto a conoscenza.
Nei New experiments physico-mechanicall, touching the spring of the air and its effects (1660), Boyle evitò accuratamente di esprimersi sui dibattiti svoltisi, prima della conduzione dei suoi esperimenti con la pompa pneumatica, tra i sostenitori dell'esistenza del vuoto e i pienisti. Egli sostenne di non avere "né il tempo, né la competenza necessari a prender parte a un dibattito tanto solenne su una questione così delicata" (The works, ed. 1772, I, p. 37). L'esperimento di Torricelli e le analoghe osservazioni effettuate da Pascal e da altri ricercatori avevano suscitato una serie di discussioni relative alla dimostrazione dell'esistenza del vuoto in Natura. Come Charleton, Boyle con ogni probabilità era giunto alla conclusione che questo problema metafisico rimaneva in gran parte irrisolto e che anche la tecnologia più ricercata della pompa pneumatica non poteva contribuire in modo decisivo alla sua definizione. Nel momento in cui si rese conto che la sua opera era impiegata in modo erroneo, Boyle non si sottrasse al confronto e pubblicò l'Hydrostatical discorse occasioned by the objections of the learned Dr. Henry More, against some explications of new experiments made by Mr. Boyle, per rispondere a Henry More, il quale nell'Enchiridion metaphisicum aveva affermato che gli esperimenti con la pompa pneumatica dimostravano che uno spirito incorporeo agiva sulla materia. Boyle era stato indotto da una serie di considerazioni teologiche a rifiutare il ricorso a una fonte secondaria di attività nella materia e il suo rifiuto della nozione secondo cui gli atomi erano dotati di un principio interno del movimento fu con ogni probabilità determinato dalle stesse ragioni. In The usefulness of experimental philosophy, Boyle attaccò l'atomismo di Lucrezio e di Epicuro anche perché essi avevano difeso la teoria secondo cui la materia aveva in sé la fonte del suo movimento, che a suo parere negava l'azione di Dio nel mondo. Contrapponendosi a Gassendi e a Charleton, per i quali la materia era dotata di un'attività interna, Boyle asserì che "il movimento non è in alcun modo necessario all'essenza della materia" (The works, ed. 1772, II, p. 42). La teoria della materia da lui elaborata in risposta alle interpretazioni potenzialmente atee dell'atomismo, si distingueva nettamente dai progetti di revisione del pensiero di Epicuro formulati da Gassendi e da Charleton. Secondo Boyle, Dio aveva impresso direttamente il movimento alla materia e lo guidava, a eccezione di alcune particelle di materia che aveva dotato di principî seminali (vale a dire del potere generativo che dava origine ai corpi viventi).
La riluttanza di Boyle a dar credito a proposizioni esplicitamente metafisiche si estendeva anche alle teorie del luogo e dello spazio. La concezione secondo cui la maggior parte dei corpi non era dotata di principî interni del movimento lo condusse naturalmente a riproporre alcuni argomenti contrari alla dottrina aristotelica del luogo naturale. In generale, Boyle evitò di esprimere opinioni relative agli spazi immaginari, ma in alcune occasioni ricorse a esperimenti concettuali basati su questa nozione. Egli fece riferimento alla rigida identificazione di spazio e materia stabilita da Descartes, riconoscendo che questa concezione precludeva la possibilità dell'esistenza sia del vuoto extramondano sia del vuoto intercorpuscolare. Ma anche in questa occasione rifiutò di esprimersi in termini di esplicito assenso: "Affermando che la natura dei corpi è costituita in ogni modo dall'estensione, Des Cartes ha enunciato una nozione più facile da criticare che da sostituire" (ibidem, IV, p. 43). Anche la posizione assunta da Boyle in relazione al problema dell'esistenza dello spazio assoluto è difficilmente definibile. In Forms and qualities egli definì la 'postura' di un corpo "in riferimento ai corpi (realmente o presumibilmente) stabili che lo circondano" e l''ordine' dei corpi "nel caso in cui due o più corpi sono collocati uno accanto all'altro" (The works, ed. 1772, III, p. 22), sostenendo che entrambi erano riducibili alla 'situazione'. Tuttavia, in altre occasioni ricorse a esperimenti concettuali che si basavano sul presupposto dell'esistenza dello spazio assoluto e impiegò l'espressione "quiete assoluta" per designare l'assenza di ogni movimento locale.
Contrariamente a Boyle, che aveva adottato un atteggiamento sostanzialmente agnostico in relazione alla natura specifica e all'esistenza dello spazio, del luogo, del tempo e del vuoto, Isaac Newton affrontò apertamente i dibattiti relativi a tali questioni nei Principia. Nello scolio alla definizione 8 del Libro I asserì che "lo spazio assoluto, in virtù della sua natura, che non implica relazioni con nessuna cosa esterna, rimane sempre identico e immobile". Nello scolio generale alla seconda edizione del Libro III associò lo spazio assoluto a Dio: "Egli ha una durata infinita, ed è presente in ogni luogo, ed esistendo sempre e in ogni luogo, ha stabilito la durata e lo spazio […]. Tutte le cose sono contenute in lui e si muovono in lui". Newton riteneva che anche il tempo fosse assoluto e ben distinto dalle misurazioni relative: "tutti i movimenti possono essere accelerati e ritardati, ma il flusso del tempo non può essere alterato […]. Il tempo assoluto, vero e matematico, in sé e in virtù della sua natura che non implica relazioni con alcuna cosa esterna, scorre uniformemente" (Principia, def. 8, scolio).
Newton elaborò la sua concezione dello spazio, del tempo e del luogo indirettamente, attraverso la mediazione di Samuel Clarke (1675-1729) che lo rappresentò in uno scambio epistolare con Leibniz nel corso degli ultimi due anni della vita del filosofo. Nelle opere della maturità, Leibniz elaborò una concezione relativistica dello spazio. Egli definì chiaramente la sua posizione in una replica alle obiezioni sollevate contro il suo Système nouveau de la Nature: "L'estensione o spazio e le superfici, le linee e i punti che si possono concepire in esso sono solo relazioni o ordine o ordini di coesistenza, sia per le cose realmente esistenti che per quelle che potrebbero essere collocate in esso" (GP, IV, p. 491). Leibniz ripropose questo punto di vista anche nella propria critica delle concezioni dello spazio e del tempo di Newton. Nella corrispondenza con Clarke, tuttavia, integrò la propria argomentazione con una giustificazione teologica: "Io dico, allora, che se lo spazio fosse un'entità assoluta, si darebbe qualcosa di cui sarebbe impossibile trovare una ragione sufficiente ‒ ciò è contrario al mio assioma" (ibidem, VII, p. 364). Leibniz sosteneva che l'"assoluta uniformità" dello spazio e del tempo assoluti non avrebbe consentito di distinguere uno spazio o un tempo particolari da tutti gli altri. Di conseguenza sarebbe stato "impossibile individuare la ragione per cui Dio […] aveva collocato [i corpi] nello spazio in un certo modo piuttosto che in un altro" (ibidem). Secondo il filosofo, anche la creazione del mondo non avrebbe potuto aver luogo in nessun tempo e in nessun luogo particolari perché ogni tempo o luogo particolari sarebbero stati indiscernibili da tutti gli altri. Egli criticò anche la concezione newtoniana del vuoto. Clarke sosteneva che in Natura era riscontrabile la presenza di spazi vuoti: questi ultimi non erano spazi privi di ogni contenuto, ma spazi privi di corpi, nei quali si poteva presumere che Dio fosse presente. Leibniz riteneva che tanto il vuoto extramondano quanto gli spazi vuoti interni alla materia fossero immaginari. Il vuoto, così come lo spazio e il tempo assoluti, risultavano in contraddizione con alcuni dei suoi principî: quello del plenum, quello dell'identità degli indiscernibili e, in ultima analisi, anche con un principio fondamentale della sua filosofia, quello della ragione sufficiente.
Nella carriera di Leibniz, così come viene ripercorsa dal filosofo stesso alla fine della sua vita, si rispecchia con grande chiarezza la complessità scientifica e metafisica del pensiero filosofico del XVII secolo:
Nel corso della mia giovinezza ho scoperto Aristotele e in quel periodo persino gli scolastici non mi ispiravano ripugnanza; anche oggi non mi rammarico di ciò […]. Dopo aver completato le scuole del trivium, mi imbattei nei moderni. Mi ricordo che a quindici anni, passeggiando in un boschetto di un sobborgo di Lipsia chiamato Rosenthal, mi chiesi a lungo se preservare o no le forme sostanziali. Alla fine il meccanicismo prevalse e mi condusse ad applicarmi alle matematiche […]. Ma quando volli ricercare le ragioni prime del meccanicismo e le leggi del moto, rimasi enormemente sorpreso nel constatare che esse non potevano essere individuate nella matematica e che era necessario ritornare alla metafisica. Ciò mi riportò alle entelechie e da ciò che è materiale a ciò che è formale. (ibidem, III, p. 606)
Nell'attività di Leibniz è possibile individuare una profonda conversione dalla fisica, e quindi dalle spiegazioni in termini di corpi geometrici che agiscono in conformità alle leggi del moto, alla metafisica come fondamento delle leggi fisiche e, infine, allo sviluppo del suo sistema metafisico. Il percorso della sua carriera intellettuale quindi finì per entrare in contrasto con la tendenza a subordinare ciò che era formale a ciò che era materiale.
Le prime opere di Leibniz dimostrano che all'inizio della carriera era profondamente attratto dalle teorie meccanicistiche; egli, tuttavia, tentò ben presto di differenziarsi dagli altri meccanicisti (e, in particolare, da Descartes) e di riconciliare Aristotele con la nuova filosofia.
Mi attengo a una regola comune a tutti questi rinnovatori della filosofia, quella secondo cui solo la grandezza, la forma e il movimento devono essere impiegati per spiegare le proprietà dei corpi. Ritengo che lo stesso Descartes si sia limitato a proporre questa regola metodologica: nell'affrontare i problemi reali, egli, infatti, ha completamente abbandonato il suo rigoroso metodo, per passare inaspettatamente alla formulazione di ipotesi sconcertanti […]. Ammetto così senza esitazioni di approvare più il contenuto dei libri di Aristotele che quello delle meditazioni di Descartes: sono quindi ben lungi dall'essere un cartesiano! (ibidem, I, p. 16)
A questo punto Leibniz affrontò il problema della materia e della forma. Egli designò la materia prima di Aristotele con l'espressione di 'massa stessa' e la descrisse semplicemente come estensione impenetrabile, soggetta al moto a contatto con altri corpi e continua. Identificò le forme di Aristotele con la forma in quanto 'limite dei corpi'; in conclusione tentò consapevolmente di riconciliare il meccanicismo con l'ilemorfismo aristotelico.
Nel Discours de métaphisique (1686) Leibniz elaborò una concezione estremamente critica nei confronti del meccanicismo cartesiano, sostenendo che "se nel corpo non vi fosse che una massa estesa, e se non vi fosse nel moto che il cambiamento di posto; e se tutto si dovesse e si potesse dedurre esclusivamente da queste definizioni per necessità geometrica, ne conseguirebbe […] che il corpo minore trasmetterebbe a un corpo maggiore in quiete, urtandolo, la stessa velocità che possiede, senza perdere alcuna frazione della propria" (Scritti filosofici, I, pp. 284-285). Questa osservazione lo indusse a sostenere l'utilità delle cause finali e a ristabilire le forme sostanziali. Il ritorno a una più equilibrata nozione di forma, o unità semplice, sembrò aprire la strada alla risoluzione di un problema inerente al meccanicismo di Descartes. Se i corpi erano divisibili all'infinito e per descriverli bisognava limitarsi a ricorrere alle nozioni di grandezza, forma e movimento, non sarebbe stato possibile dire in che modo essi, o le loro parti, divenissero ciò che erano. Leibniz suggerì di risolvere questo problema ricorrendo al concetto di unità semplice (sostanziale), che fondamentalmente si identificava con quello di forma. Un corpo per essere reale deve contenere un elemento unificatore, vale a dire un punto metafisico. Questo atomo formale dovrebbe essere analogo all'anima razionale degli esseri umani. "È quindi necessario restaurare e riabilitare le forme sostanziali oggi cadute in discredito, in modo, tuttavia, da renderle intelligibili, distinguendo l'uso che di esse si dovrebbe fare dall'abuso che ne è stato fatto. Ritengo che la loro natura consista nella forza, e che da questa consegua qualcosa di analogo alla sensazione e all'appetizione, cosicché esse devono essere concepite sul modello della nozione di anima" (GP, IV, pp. 478-479). Questa concezione arricchì in modo straordinario l'ontologia di Leibniz. Ogni entità corporea possedeva una forma unificante dotata di percezione e di appetizione, ma ogni entità corporea era un aggregato di aggregati e così via all'infinito. Ogni aggregato era a sua volta unificato da una forma indivisibile. Nel mondo vi era quindi un numero infinito di forme. In una lettera ad Antoine Arnauld (1612-1694), Leibniz, per spiegare la sua dottrina, si richiamò alla distinzione scolastica di materia prima e materia secondaria. Egli interpretò la materia prima "nel senso di alcuni scolastici […] [come] l'originario potere passivo di una sostanza" (ibidem, II, p. 120). Nella stessa lettera Leibniz affermò: "ma se si considera come la materia delle sostanze corporee non la massa priva di forme, ma una seconda materia che è la molteplicità delle sostanze di cui la massa è il corpo totale, si può dire che queste sostanze sono parte di tale materia, così come quelle che costituiscono il nostro corpo sono parte di esso" (ibidem, p. 119). Egli sosteneva che, dal momento che la materia era divisibile all'infinito, se non vi fossero state 'unità' o forme, non vi sarebbe stato "nulla di sostanziale nel mondo visibile" e i corpi "sarebbero solo veri fenomeni" (ibidem, p. 77). Sviluppando le sue concezioni metafisiche, Leibniz iniziò a considerare onnicomprensivo il ruolo delle sostanze semplici: "Le monadi o sostanze semplici sono le sole vere sostanze e le cose materiali sono solo fenomeni, anche se ben fondati e connessi" (ibidem, III, p. 606). Lo sviluppo della nozione di monade come ultima realtà metafisica condusse il filosofo ad affrontare la questione della riducibilità alle sostanze genuine dei corpi connessi a un'anima, cioè al modo in cui giustificare l'esistenza di aggregati nella costituzione dei corpi: "La sostanza composta non consiste formalmente nelle monadi e nella loro subordinazione, altrimenti sarebbe un mero aggregato o un ente per accidens" (ibidem, II, pp. 517-518). Questa constatazione indusse inoltre Leibniz a parlare delle qualità e delle azioni dei corpi composti (accessibili ai sensi), posta la condizione "che essi non siano solo fenomeni" (ibidem). Tuttavia, come dimostra la sua critica della nozione di azione a distanza di Newton, Leibniz non cessò di ricorrere ai principî del meccanicismo. Egli incorporò la spiegazione fisica in un sistema metafisico descritto esclusivamente in termini di relazioni tra monadi.
I considerevoli cambiamenti subìti dalle teorie metafisiche e fisiche della materia, del vuoto, dello spazio e del tempo nel corso del XVII sec. a volte derivarono da un sistematico rifiuto delle precedenti filosofie, ma molto spesso furono il risultato della grande flessibilità con cui furono interpretate le dottrine preesistenti. L''impollinazione incrociata' tra le diverse interpretazioni del pensiero di Aristotele, le antiche dottrine atomistiche e le teorie alchemiche, produsse un gran numero di ibridi e in alcune occasioni la semenza di sistemi integralmente 'nuovi'. Le schermaglie verbali tra i sostenitori di diverse filosofie furono accompagnate da efficaci tentativi di assimilare concezioni in competizione tra loro. A questo proposito sarà sufficiente ricordare il grande successo del Traité de physique (1671) di Jacques Rohault, tradotto da John Clarke e integrato da Samuel Clarke. Pubblicata per la prima volta in inglese con il titolo di Rohault's system of natural philosophy (1697), quest'opera divenne un importante testo di riferimento. Nel corso delle sue molteplici edizioni, il System fu sempre più ampiamente 'illustrato' da Samuel Clarke con "note desunte soprattutto dalla filosofia di Sir Isaac Newton" (dal frontespizio). Benché le note a piè di pagina di Clarke spesso tendano a oscurare il testo cartesiano, quest'opera può essere considerata la più importante testimonianza del tentativo di combinare la filosofia naturale di Descartes con la teoria fisica di Newton, così come della flessibilità del pensiero scientifico all'alba del nuovo secolo.
Tavola II - QUALITÀ PRIMARIE E QUALITÀ SECONDARIE
Tavola III - LA SOSTANZA E IL DOGMA DELL’EUCARISTIA
Tavola IV - ESPERIMENTI SUL VUOTO
Tavola V - PASCAL E L’HORROR VACUI
Armogathe 1977: Armogathe, Jean-Robert, Theologia cartesiana. L'explication physique de l'Eucharistie chez Descartes et Dom Desgabets, Den Haag, Nijhoff, 1977.
‒ 2001: Armogathe, Jean-Robert - Carraud, Vincent, La première condemnation des œuvres de Descartes, d'après des documents inédits aux Archives du Saint-Office, "Nouvelles de la République des Lettres", 2001-2, pp. 103-137.
Crombie 1970: Crombie, Alistair C., Da S. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal V al XVII secolo, Milano, Feltrinelli, 1970.
Des Chene 1996: Des Chene, Dennis, Physiologia. Natural philosophy in late Aristotelian and Cartesian thought, Ithaca (N.Y.), Cornell University Press, 1996.
Duhem 1914: Duhem, Pierre, Roger Bacon et l'horreur du vide, in: Roger Bacon. Essays, contributed by various writers on the occasion of the commemoration of the 7th centenary of his birth, collected and edited by Andrew G. Little, Oxford, Clarendon, 1914.
‒ 1985: Duhem, Pierre, Medieval cosmology. Theories of infinity, place, time, void, and the plurality of worlds, edited and transl. by Roger Ariew, Chicago, University of Chicago Press, 1985.
Garber 1992: Garber, Daniel, Descartes' metaphysical physics, Chicago, University of Chicago Press, 1992.
Grant 1981: Grant, Edward, Much ado about nothing. Theories of space and vacuum from the Middle Ages to the scientific revolution, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1981.
Hall 1973: Hall, A. Rupert, Da Galileo a Newton. 1630-1720, Milano, Feltrinelli, 1973 (ed. orig.: From Galileo to Newton, 1630-1720, London, Fontana, 1970).
Lennon 1993: Lennon, Thomas M., The battle of the gods and giants. The legacies of Descartes and Gassendi, 1655-1715, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1993.
Lüthy 1997: The fate of hylomorphism. 'Matter' and 'form' in early modern science, edited by Christoph H. Lüthy and William R. Newman, "Early science and medicine", 2, 1997, 3 (numero monografico).
Newman 1994: Newman, William R., Gehennical fire. The lives of George Starkey, an American alchemist in the scientific revolution, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1994.
Redondi 1983: Redondi, Pietro, Galileo eretico, Torino, Einaudi, 1983.
Shapin 1985: Shapin, Steven - Schaffer, Simon, Leviathan and the air-pump. Hobbes, Boyle and the experimental life, including a translation of Thomas Hobbes' Dialogus physicus de natura aeris, by Simon Schaffer, Princeton (N.J.), Princeton University Press, 1985.
Sina 1999: Sina, Mario, Introduzione a Locke, Roma-Bari, Laterza, 1999.