La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. Qualita primarie e qualita secondarie
Qualità primarie e qualità secondarie
Il dibattito sulle qualità aristoteliche
Il problema della natura delle qualità dei corpi fu ampiamente dibattuto nel Seicento. La distinzione tra qualità ‘primarie’, inerenti alla natura dell’oggetto e inseparabili da esso, e ‘secondarie’ derivanti, invece, dalla relazione tra l’oggetto e il soggetto della percezione, ma soprattutto la scelta di considerare primarie, cioè ‘reali’, alcune qualità piuttosto che altre, rivelano concezioni del mondo naturale profondamente diverse. Nella fisica qualitativa di Aristotele, tutte le sostanze percettibili possedevano almeno una delle qualità primarie (caldo, freddo, secco e umido) o una combinazione di esse. Tutte le altre qualità, per esempio l’odore, il sapore e il colore erano considerate derivate. Le qualità primarie identificavano i quattro elementi: freddo-secco=terra, freddo-umido=acqua, caldo-umido=aria, caldo-secco=fuoco.
Nella tarda Scolastica, la fisica qualitativa di Aristotele cominciò a cedere il passo a un’istanza nuova, di natura quantitativa, secondo cui tutte le differenze qualitative percepibili in Natura potevano essere ridotte a differenze di quantità. Per Aristotele, invece, qualità e quantità appartenevano a due categorie differenti e irriducibili l’una all’altra: un cambiamento di quantità si realizzava mediante la somma di parti omogenee; per la qualità, invece, anche se essa poteva esistere in diversi gradi d’intensità, l’addizione o la sottrazione delle parti non comportava un cambiamento di qualità, ma piuttosto la perdita di un attributo, per esempio di una certa specie di calore, e l’acquisizione di un’altra. La nascente fisica matematica riduceva le differenze qualitative delle specie a diversità di struttura geometrica, di numero o di movimento. Alla questione se le relazioni delle cose fossero sempre esprimibili in termini matematici, «Platone avrebbe risposto affermativamente [...] Aristotele negativamente. Il Medioevo oscillò fra una posizione fiduciosamente aristotelica e una posizione dubbiosamente platonica, mentre il Seicento adottò un platonismo modificato» (Hall 1973, p. 68).
La concezione matematica della realtà, che derivava dal platonismo pitagorico, e l’idea che il comportamento delle cose fosse determinato esclusivamente dalla loro struttura geometrica ebbero fortuna nell’Italia del Quattrocento e del Cinquecento. Galileo Galilei riteneva che le teorie matematiche in cui si inquadravano le osservazioni naturali rappresentassero la realtà durevole, la sostanza dei fenomeni. La matematica non era una scienza astratta, ma il modello della realtà fisica: la Natura è matematica; l’intelletto umano intende le proposizioni matematiche «così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura» (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in EN, VII, p. 128). Tutto ciò che non era matematico era relegato nella sfera della soggettività. L’accentuazione della natura matematica delle qualità primarie in Galilei aveva lo scopo di eliminare la concezione aristotelica delle essenze, con le loro varie qualità irriducibili, le loro posizioni naturali nell’Universo e i loro moti naturali,mettendo a tacere l’opposizione aristotelica alla nuova fisica e alla nuova cinematica matematiche cioè, in ultima analisi, a Copernico.
Galilei, Il Saggiatore
Nel Saggiatore, discutendo la proposizione del De caelo di Aristotele «il moto è causa di calore», Galilei presenta una teoria corpuscolare della materia nel quadro di una vera e propria filosofia meccanicistica della Natura. L’obiettivo è la scoperta della struttura reale del mondo fisico, la lettura del vero libro della Natura scritto in lingua matematica.
«Restami ora che, conforme alla promessa fatta di sopra a V.S. Illustrissima, io dica certo mio pensiero intorno alla proposizione ‘il moto è causa di calore’, mostrando in qual modo mi par ch’ella possa esser vera. Ma prima mi fa di bisogno fare alcuna considerazione sopra questo che noi chiamiamo ‘caldo’, del qual dubito grandemente che in universale ne venga formato concetto assai lontano dal vero, mentre vien creduto essere un vero accidente affezzione e qualità che realmente risegga nella materia dalla quale noi sentiamo riscaldarci. Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per sé stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli degli altri primi e reali accidenti, volessimo credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse. Io credo che con qualche essempio più chiaramente spiegherò il mio concetto. Io vo movendo una mano ora sopra una statua di marmo, ora sopra un uomo vivo. Quanto all’azzione che vien dalla mano, rispetto ad essa mano è la medesima sopra l’uno e l’altro soggetto, ch’è di quei primi accidenti, cioè moto e toccamento, né per altri nomi vien da noi chiamata: ma il corpo animato, che riceve tali operazioni, sente diverse affezzioni secondo che in diverse parti vien tocco; e venendo toccato, v.g. [cioè], sotto le piante de’ piedi, sopra le ginocchia o sotto l’ascelle, sente, oltre al commun toccamento, un’altra affezzione, alla quale noi abbiamo imposto un nome particolare, chiamandola solletico: la quale affezzione è tutta nostra, e non punto della mano [...]. Ora, di simile e non maggiore essistenza credo io che possano esser molte qualità che vengono attribuite a i corpi naturali, come sapori, odori, colori ed altre. [...] che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via gli orecchi le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell’animal vivente non credo che sieno altro che nomi [...]. E tornando al primo mio proposito [...], dico che inclino assai a credere che il calore sia di questo genere, e che quelle materie che in noi producono e fanno sentire il caldo, le quali noi chiamiamo con nome generale fuoco, siano una moltitudine di corpicelli minimi, in tal e tal modo figurati, mossi con tanta e tanta velocità; li quali, incontrando il nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità, e che il lor toccamento, fatto nel lor passaggio per la nostra sostanza e sentito da noi, sia l’affezzione che noi chiamiamo caldo [...].Ma che oltre alla figura, moltitudine, moto, penetrazione e toccamento, sia nel fuoco altra qualità, che questa sia caldo, io non lo credo altrimenti; e stimo che questo sia talmente nostro, che, rimosso il corpo animato e sensitivo, il calore non resti altro che un semplice vocabolo. Ed essendo che questa affezzione si produce in noi nel passaggio e toccamento de’ minimi ignei per la nostra sostanza, è manifesto che quando quelli stessero fermi, la loro operazion resterebbe nulla [...]. Perché, dunque, ad eccitare il caldo non basta la presenza de gl’ignicoli, ma ci vuol il lor movimento ancora, quindi pare a me che non fusse se non con gran ragione detto il moto esser causa di calore» (EN, VI, pp. 347-351).
Descartes, Boyle e Locke
Nei Principia philosophiae René Descartes sostiene che «la natura della materia, o del corpo considerato in generale, non consiste nell’essere cosa dura o pesante o colorata o che colpisce i sensi in qualche altro modo, ma soltanto nell’essere cosa estesa in lunghezza, larghezza e profondità» (OF, II, pp. 105-106). Le qualità secondarie sono soggettive, e solo estensione e moto hanno realtà oggettiva. Per chiarire la distinzione tra qualità primarie e secondarie, Descartes ripropone nel Monde l’esempio galileiano del solletico.
«Di tutti i nostri sensi il tatto è stimato il meno ingannevole ed il più certo: così, se vi mostro che il tatto stesso ci fa concepire molte idee che non assomigliano in alcun modo agli oggetti che le producono, penso che non dobbiate trovare strano se affermo che anche la vista può fare altrettanto. Ora non v’è nessuno che ignori che le idee del solletico e del dolore, che si formano nel nostro pensiero in occasione del contatto con corpi esterni, non presentano somiglianza alcuna con questi. Un fanciullo che s’addormenta e sulle cui labbra si passi dolcemente una piuma avvertirà il solletico: pensate che l’idea del solletico che concepisce sia simile a qualche cosa che è in questa piuma» (ibidem, I, p. 398).
Secondo Descartes, il caldo è una qualità secondaria che nasce dalla relazione tra l’oggetto, il fuoco, e il soggetto. Il movimento velocissimo delle particelle del fuoco si trasmette meccanicamente al soggetto attraverso il contatto con la pelle e poi al cervello che lo percepisce come ‘caldo’.
Descartes, però, rifiuta l’idea che i corpi siano naturalmente dotati di peso e in una lettera a Marin Mersenne dell’11 ottobre del 1638 critica aspramente Galilei per aver postulato, senza spiegarlo, che la gravità fosse una qualità innata: «mi sembra che [Galilei] sbagli molto nel fare continuamente delle digressioni, e nel non fermarsi affatto a spiegare completamente un argomento; questo dimostra che non li ha esaminati per ordine e che, senza aver considerato le prime cause della natura, ha solamente cercato le ragioni di qualche effetto particolare, e così ha costruito senza fondamento » (AT, II, p. 380).
La dottrina della soggettività delle qualità secondarie fu raccolta da John Locke nell’Essay concerning human understanding (1690). Secondo Locke, gli oggetti propri della conoscenza umana non sono gli oggetti del mondo esterno, ma piuttosto i dati dell’esperienza raccolti attraverso gli organi di senso e organizzati dalla mente. Le idee semplici possono avere una duplice origine, la sensazione e la riflessione. Locke ritenne indispensabile chiarire una duplice accezione del sintagma ‘idea semplice’, intesa sia come «percezione del nostro spirito» sia come «modificazione della materia nei corpi che causano in noi tali percezioni». Questo lo condusse all’approfondimento della distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie, seguendo da vicino, anche a livello terminologico, le teorie di Robert Boyle. Nell’Origin of forms and qualities, according to the corpuscolar philosophy (1666), Boyle aveva infatti osservato che:
«[...] noi siamo nella nostra infanzia portati ad immaginare che queste qualità sensibili siano enti reali negli oggetti che esse denominano, e che abbiano la facoltà o il potere di operare determinate cose [...] mentre in verità, non c’è nel corpo a cui queste qualità sensibili sono attribuite nient’altro di reale e di fisico che la dimensione, la figura e il moto o la quiete delle sue particelle componenti, insieme con quella struttura del tutto, che deriva dal fatto che esse sono disposte e connesse come sono; né è necessario che esse abbiano in sé nient’altro di simile alle idee che originano in noi, poiché quelle idee sono gli effetti dei nostri pregiudizi o della nostra irriflessione, o sono altrimenti da ricercarsi nella relazione che si stabilisce tra quegli accidenti primari dell’oggetto sensibile e la particolare struttura dell’organo che esso colpisce: come quando uno spillo, conficcato nel mio dito, causa dolore, non c’è una qualità distinta nello spillo che corrisponda a ciò che io sono portato a immaginare che sia il dolore, se non che lo spillo in sé stesso è solo sottile, rigido e pungente, e con quelle qualità viene ad operare una soluzione di continuità nel mio organo del tatto, dal che, a causa della struttura del corpo e dell’intima unione dell’anima con esso, nasce quel molesto tipo di percezione che chiamiamo dolore» (Opere, pp. 318-319).
Anche per Locke «solidity, extension, motion or rest, number and figure» sono le qualità primarie della realtà corporea, completamente inseparabili dal corpo. I colori, i suoni, i gusti ecc. sono sensazioni prodotte in noi dagli oggetti per mezzo delle loro qualità primarie e Locke le definisce perciò ‘qualità secondarie’.
Nel Settecento George Berkeley (1685-1753) avrebbe portato alle estreme conseguenze la riflessione lockiana, sostenendo che non esiste alcun fondamento per postulare l’esistenza di un mondo materiale cui ineriscano le cosiddette ‘qualità primarie’ e che sia queste qualità sia quelle secondarie devono essere ricondotte, senza distinzione, alle idee della mente.
Si veda anche La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. Corpi, materia e spazio