La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. Astronomia, astrologia e geografia matematica
Astronomia, astrologia e geografia matematica
di John D. North
I progressi più rilevanti dell'astronomia matematica risalgono al XII sec., quando non erano ancora fiorite le grandi università europee dove più tardi questa materia sarebbe stata insegnata. Già prima del nuovo millennio gli studiosi occidentali erano a conoscenza del ricco patrimonio scientifico ereditato dalla Grecia e rielaborato dalla cultura musulmana, in particolare in Andalusia. Per tre secoli la Penisola Iberica fu considerata una fonte inesauribile di conoscenze nel campo dell'astronomia e dell'astrologia; infatti, fu visitata da studiosi di tutta Europa, che in alcuni casi vi si stabilirono per apprendere ciò che di meglio si poteva trovare nella tradizione culturale musulmana ed ebraica. Alcuni tradussero in latino un gran numero di testi, altri elaborarono riassunti dei classici. Buona parte del nuovo materiale proveniva dai paesi islamici orientali, ma arrivava in Europa passando soprattutto dalla Sicilia e dalla Spagna. La Spagna fu a lungo la fonte più autorevole di testi astronomici, anche se l'Almagesto di Tolomeo fu tradotto in latino per la prima volta in Sicilia e a Toledo nel XII sec. (la versione dal greco è del 1160 ca., mentre quella dall'arabo fu tradotta da Gherardo da Cremona nel 1175, con l'aiuto di un interprete spagnolo). Dall'VIII sec., la Spagna fu dominata dai Musulmani e lo rimase fino al XV secolo. Sebbene il paese vantasse un antico patrimonio culturale maturato già prima di questo periodo, riguardo all'astronomia matematica era più o meno al livello del resto d'Europa; l'unica pratica corrente era l'intervento sui cicli dei calendari solari e lunari.
Molte opere greche corredate da commenti in arabo e in ebraico arrivarono nella Spagna musulmana con un'affluenza sempre maggiore, proprio mentre l'Europa stava perdendo stabilità politica dopo Carlo Magno e i suoi immediati discendenti. L'emirato fondato a Cordova da ῾Abd al-Raḥmān III (che regnò dal 912 al 961) ebbe grande prestigio culturale, specialmente sotto il secondo emiro, che importò molti libri dai luoghi più rinomati per lo studio e l'erudizione (Baghdad, Damasco e Il Cairo). A Cordova, nella seconda metà del X sec., si aprirono scuole di matematica, astronomia e altre scienze, che confrontarono, commentarono e diffusero materiale proveniente dall'Oriente; sempre a Cordova operò al-Maǧrīṭī (m. 1007), che adattò le tavole di al-Ḫwārazmī al meridiano e al parallelo di Cordova e al calendario musulmano (le cui date partivano dall'Egira).
Gli allievi di al-Maǧrīṭī diffusero la scienza dell'astronomia in tutta l'Andalusia e anche altrove; i più famosi furono al-Kirmānī (1066), che lavorò a Saragozza, Ibn al-Ṣaffār (m. 1035), Abū Muslim ibn Ḫaldūn e Abū ῾Alī al-Ḥayyāṭ (n. 835 ca.). A Ibn al-Samḥ di Granada (1035), uno dei diversi autori identificati nei testi latini con il nome di Abulcasim, sono attribuiti tre lunghi trattati sui tre strumenti astronomici più importanti: la sfera, l'astrolabio e l'equatorium. Egli compilò per la propria città anche alcune tavole astronomiche sulla base di quelle realizzate da al-Ḫwārazmī; questo lavoro contribuì in qualche modo a lanciare una moda, tanto che anche i governanti arabi di Siviglia, Valencia, Saragozza e Toledo seguirono l'esempio di Cordova. A poco a poco questa moda si diffuse dagli stati cristiani del Nord della penisola a tutto il resto dell'Europa cristiana.
Le traduzioni furono di cruciale importanza per la diffusione del nuovo sapere (v. cap. XII). Già nel X sec., e molto prima che si diffondesse l'abitudine di tradurre materiale scientifico dall'arabo al latino, nel monastero benedettino di Santa Maria di Ripoll, ai piedi dei Pirenei, fu tradotta una raccolta di trattati sull'aritmetica, la geometria, l'astronomia e un manuale per calcolare il calendario. Questi testi si diffusero molto rapidamente in tutta Europa grazie ai contatti esistenti tra i monasteri cristiani e al lavoro degli studiosi che vi soggiornavano. Ermanno di Carinzia, per esempio, scrisse un trattato sulla costruzione e sull'uso dell'astrolabio dopo aver visionato la copia di uno dei testi di Ripoll, e all'opera di Gerberto di Aurillac, conoscitore dei testi di Ripoll, si deve la diffusione nell'Europa del X sec. della scienza araba, in particolare di quella relativa all'astrolabio. Ciò spiega il motivo per cui, riguardo all'astrolabio, l'Occidente adottò inizialmente elementi propri della terminologia scientifica araba, che col tempo furono sostituiti dagli equivalenti latini, sebbene in parole come azimut, zenit, almucantarat e in molti nomi di stelle (Aldebaran, Alnat, Deneb e altri) l'origine araba risulti ancora evidente. Anche il sistema di calcolo con i numeri indo-arabici fu introdotto in Europa attraverso l'astronomia, sebbene il cambiamento non sia stato affatto repentino; nelle attività commerciali si continuò a utilizzare la numerazione romana almeno fino al XVI sec., ma già alla fine del XIII sec. gli astronomi di maggior prestigio, soprattutto in Spagna, avevano iniziato ad adottare in modo consistente i nuovi numeri e le tecniche aritmetiche a essi associate (sulle quali l'astronomo al-Ḫwārazmī aveva scritto un trattato fondamentale).
Nella Spagna islamica i gruppi religiosi erano in stretto contatto tra loro; Ebrei e Mozarabi bilingui ‒ cioè cristiani la cui cultura era molto vicina a quella dei Musulmani ‒ erano numerosi; senza questi contatti, la circolazione delle traduzioni avrebbe certamente avuto una risonanza molto minore. Molti studiosi di altre parti d'Europa, interessati a conoscere meglio il materiale scientifico di recente traduzione, iniziarono a viaggiare nel paese da cui esso proveniva; la diffusione di questo sapere fu favorita in parte anche dai viaggi di quegli studiosi che si mossero nella direzione opposta. Pietro d'Alfonso, un ebreo spagnolo convertito alla fede cristiana, intorno al 1110 visitò la corte di Enrico I d'Inghilterra, dove trovò un forte interesse per l'astronomia, che egli contribuì a sviluppare ulteriormente. Qui conobbe, tra gli altri, lo studioso lorenese Walcher, allora priore di Malvern, autore di un testo sul calcolo delle eclissi ‒ tratto da uno scritto di Pietro ‒ che, sebbene non manchi di punti deboli, dimostra quanto l'autore desiderasse conoscere a fondo la nuova astronomia, al punto che, abbandonati i vecchi metodi di calcolo, utilizzò le nuove tecniche ideate da al-Ḫwārazmī, basate, contrariamente a quelle derivate dall'Almagesto di Tolomeo, su modelli planetari indù.
I compendi delle tavole astronomiche, conosciuti col termine arabo zīǧ, erano di diversi tipi; la maggior parte ebbe vita breve e pochi acquisirono una fama rilevante. Nell'XI sec. quello di Ibn Mū῾āḏ al-Ǧayyānī (1020 ca.) ‒ originario della città di Jaén, e conosciuto col nome latino di Abenmoat ‒ sebbene sia andato perduto, fu considerato di un certo valore; le sue tavole furono tradotte in latino dal più autorevole dei traduttori, Gherardo da Cremona (1114 ca.-1187), che operò per oltre quarant'anni a Toledo.
Nell'Andalusia dell'Alto Medioevo l'astronomia, considerata materia di grande prestigio, non costituì affatto la semplice riproduzione dell'antica scienza nata in Oriente, come testimonia la fondazione di diverse scuole per astronomi. Nella seconda metà dell'XI sec., età dell'oro per la cultura andalusa, Toledo divenne il centro di un importante gruppo di studiosi, tra i quali si ricordano Ibn Sa῾īd e soprattutto Ibn al-Zarqalī (m. 1110). Quest'ultimo fu uno dei più noti studiosi dell'Europa medievale; essendo un esperto artigiano, agli inizi lavorò col cadì di Toledo come fabbricatore di strumenti astronomici e orologi ad acqua; rimase in questa città fino al 1079 ca., quando alcune operazioni militari lo costrinsero a trasferirsi a Cordova, dove morì. Scrisse importanti documenti sull'equatorium ‒ lo strumento che consente di calcolare rapidamente le posizioni dei pianeti per qualsiasi data ‒ e progettò anche un astrolabio universale, strumento conosciuto in Occidente col nome di saphaea. Al contrario dell'astrolabio convenzionale ‒ dove sono tracciati due insiemi di circonferenze, uno fisso che corrisponde all'orizzonte, al meridiano, ai cerchi di altitudine costante (almucantarat) e ad altre entità fisse in rapporto all'osservatore, e l'altro mobile che comprende alcune stelle luminose, l'equatore celeste, i tropici, l'eclittica (il percorso del Sole attraverso le stelle), e altre entità che ruotano intorno ai poli seguendo il ciclo di rotazione quotidiano degli astri ‒ sulla saphaea tutte le circonferenze (o parti di esse) sono tracciate su una sola lastra di metallo e sono fisse. Le rotazioni delle stelle e le orbite dei pianeti sono in gran parte note all'osservatore, che lavora con una scala graduata periferica e un filo rotante (o ancor meglio un regolo) su cui sono segnate le distanze radiali con un tasto mobile. Poiché la sua fabbricazione, rispetto all'astrolabio convenzionale, richiedeva una minore quantità di metallo e una lavorazione più semplice, la costruzione della saphaea era certamente più facile del suo funzionamento, tanto che rimase uno strumento utile solamente agli esperti.
Il valore scientifico del lavoro compiuto da Ibn al-Zarqalī emerge anche da altri dati; sembra che sia stato lui a calcolare, sulla base di osservazioni durate 25 anni, che il movimento dell'apogeo solare era di 1° in 299 anni. Questo problema astronomico è legato strettamente a quello della precessione degli equinozi, ossia al movimento delle stelle dell'ottava sfera (la cosiddetta sfera delle stelle fisse). Oltre a un'opera perduta sull'argomento, Ibn al-Zarqalī scrisse anche un testo contenente la sua teoria della precessione; in esso è descritto un modello per il movimento oscillatorio dell'ottava sfera, ritenuto a lungo opera di Ṯābit ibn Qurra (836-901) ‒ sebbene nessuna fonte araba riconosca in lui l'autore ‒, la cui versione latina è citata ampiamente da Giovanni di Siviglia, che lo attribuisce invece a Ibn al-Zarqalī. Esso comprende due piccole circonferenze (con un raggio di 10,75°) ai lati opposti della sfera celeste e fissate sui punti medi equinoziali dell'equatore; intorno a ciascuna di esse si muove un punto; i due punti, diametralmente opposti, trascinano con sé un'eclittica in movimento; gli altri punti, nei quali l'eclittica incontra l'equatore, costituiscono gli equinozi per la data presa in esame.
Questo modello di 'accesso e recesso' ‒ come è chiamato in base al suo nome latino ‒ oggi è ritenuto generalmente esempio di un fenomeno del tutto illusorio, del quale gli astronomi avrebbero certamente compreso la natura qualora si fossero basati sui risultati delle loro osservazioni più che sulle fonti antiche. Questa però è una valutazione piuttosto semplicistica; poiché qualsiasi esame del movimento di precessione ha bisogno di dati lontani nel tempo, e a quell'epoca le prove raccolte dalle fonti più antiche sembravano indicare inequivocabilmente un moto variabile, il modello deve essere considerato assolutamente ingegnoso.
La teoria del 'movimento dell'ottava sfera' interessò soltanto una piccola parte delle tavole astronomiche attribuite a Ibn al-Zarqalī; conosciute come Tavole di Toledo e destinate a superare tutte le altre in Spagna e in Europa fino agli inizi del XIV sec., queste tavole furono corredate di canoni (brevi istruzioni per l'uso) scritti dall'autore stesso. Come la maggior parte degli zīǧ precedenti o successivi, esse erano costituite da un insieme eterogeneo di elementi provenienti dal lavoro di altri autori, come al-Ḫwārazmī e al-Battānī, a cui si aggiungevano le osservazioni più recenti, frutto delle verifiche compiute sul materiale antico. Sebbene le versioni arabe originali delle Tavole di Toledo e dei loro canoni siano andate smarrite, due versioni latine dei canoni sono giunte fino a noi, insieme a molte varianti delle tavole qui elencate. Quelle per le diseguaglianze del Sole, della Luna e dei pianeti (equazioni) sono tratte in gran parte da al-Battānī (una sola da al-Ḫwārazmī), mentre le tavole per la latitudine dei pianeti provengono principalmente da al-Ḫwārazmī, anche se alcuni manoscritti includono quelle di Tolomeo; anche quelle per la visibilità dei pianeti, le loro posizioni e le retrogradazioni sono attribuibili ad al-Battānī e a Tolomeo. Ovviamente, le coordinate delle stelle per la precessione furono aggiornate continuamente nelle successive revisioni latine. Le tavole dei moti dei pianeti avevano come punto di partenza l'Egira islamica; da quando fu usato il meridiano di Toledo, tutti i moti medi registrati in passato furono ricalcolati, data la differenza di tempo esistente tra tale meridiano e quello delle tavole originali.
Il riferimento alle Tavole di Toledo nell'Islam occidentale è evidente in almeno una delle tre compilazioni di Ibn al-Kammad (1130 ca.); molti anni dopo, un astronomo di Siviglia, Ibn al-Hā᾽im, elaborò uno zīǧ (1205 ca.) nel quale affermava di voler correggere gli errori di Ibn al-Kammad. Questo fu uno degli ultimi esempi di zīǧ compilati in Andalusia, ma a livello europeo non ebbe alcun peso; esso infatti fu superato dallo zīǧ più famoso prodotto in Spagna, realizzato intorno al 1270 grazie al sostegno del re cattolico Alfonso X di Castiglia e di León, le Tavole alfonsine di cui si dirà più avanti.
Spesso furono gli studiosi ebrei a diffondere nel mondo la cultura spagnola. Abrāhām ibn Ḥiyyā (noto come Savasorda, attivo nel 1110-1135), originario di Barcellona, compose tavole astronomiche, conosciute come Tavole del principe, riunendo materiale ebraico, islamico e tolemaico (ne rimane un manoscritto latino). Un altro studioso ebreo spagnolo, Abrāhām ibn ῾Ezrā di Tudela (1090 ca.-1167), scrisse sia in latino sia in ebraico e viaggiò molto in Italia, Francia e Inghilterra. Intorno al 1143 compilò le tavole per la città di Pisa, ispirandosi, come dice egli stesso, allo zīǧ di al-Ṣūfī. In Spagna e nel Sud della Francia i rapporti tra le comunità ebraiche erano molto stretti, ma la loro influenza si estese anche oltre; le due comunità rimasero in contatto fino all'espulsione dalla Spagna, e questo proficuo scambio di idee continuò per quasi tutto il Medioevo, annunciando un nuovo fermento culturale. Le versioni tratte dalle Tavole di Toledo dominarono per lungo tempo, tanto che oltre un centinaio di tavole manoscritte è giunto fino a noi, una quantità davvero notevole per un testo che, una volta superato, non fu più utilizzato. Questo trova una spiegazione nel fatto che molti studiosi di varie città adattarono queste tavole ai meridiani locali e al calendario cristiano.
Esistono almeno quaranta o cinquanta trattati sull'astrolabio tradizionale scritti prima della fine del XVI sec., originari della Spagna musulmana. Se infatti l'astronomia iniziò a espandersi dalla Catalogna verso nord e verso est alla fine del X sec., questo primo incontro con l'Europa monastica sembra essersi esaurito già alla metà del secolo successivo. Uno dei più antichi astrolabi occidentali, anche se non il più antico, porta la data del 417 dell'Egira (che equivale al 1026-1027 d.C.), e dal nome dell'autore si deduce che fu opera del fratello di Ibn al-Ṣaffār; un altro gruppo di testi deriva dalla scuola di autori in lingua castigliana presso la corte di Alfonso X, alla fine del XIII sec.; altri scritti furono attribuiti all'ebreo di Basra e Baghdad, Māšā᾽Allāh. Nel XIII e XIV sec. gli astronomi iniziarono a fondere i testi iberici sull'astrolabio con varianti locali. Tra i più noti autori europei di scritti in latino su questo strumento bisogna menzionare Raimondo di Marsiglia nel XII sec., Giovanni di Sacrobosco e Pietro di Maricourt (Pietro Peregrino) nel XIII sec.; nel XIV comparvero i primi equivalenti in vernacolo. Nel 1362 Pèlerin di Prussia scrisse in francese un breve saggio sull'astrolabio su richiesta del Delfino, il futuro Carlo V. Il poeta inglese Geoffrey Chaucer scrisse un saggio sull'astrolabio ‒ unico testo inglese di un certo interesse su questo strumento in epoca precedente all'era moderna ‒, che in un manoscritto aveva come sottotitolo Pane e latte per bambini.
Verso la fine del XIII sec. l'astrolabio universale rappresentò un'economica alternativa all'astrolabio normale; esso infatti sostituiva le circonferenze mobili degli astri con un insieme di circonferenze fisse, pur rimanendo di forma circolare. Successivamente fu ulteriormente perfezionato, avvolgendo il diagramma intorno a un asse centrale e poi avvolgendolo di nuovo intorno agli assi con gli angoli a 90°, generando così un'infinità di linee, punti e scale graduate, molte delle quali doppie; per misurare l'altezza sull'orizzonte di una stella, piccole bandierine segnaletiche forate erano inserite su un angolo del quadrante e questo continuava a girare fino a quando la stella (o qualunque altro elemento in osservazione) compariva tra i due buchi. La verticale era formata da un piombino appeso al filo e l'altezza era letta sulla scala graduata esterna. Questo 'astrolabio-quadrante' difficilmente poteva essere usato da chi non conoscesse già il funzionamento di quello normale, ma per gli astronomi più esperti esso ebbe una certa rilevanza non solamente per la sua precisione, paragonabile a quella di uno strumento con una superficie quattro volte maggiore, ma anche in quanto poteva essere utilizzato per l'osservazione.
La più antica descrizione di questo strumento fu fornita in ebraico tra il 1288 e il 1293 da Ya᾽qōb ben Machir ibn Tibbōn (Profazio Giudeo), che nacque a Marsiglia (1236 ca.) e morì a Montpellier (1305), ma la cui famiglia era originaria di Granada (sia suo padre sia suo nonno erano noti come traduttori dall'arabo all'ebraico). Sebbene alcuni ritengano che il cosiddetto 'nuovo quadrante' di Ibn Tibbōn s'ispirasse a un prototipo islamico, egli decise di chiamarlo 'quadrante d'Israele'; questo lavoro fu tradotto in latino nel 1299 da Armengaud, e la versione latina fu ampliata dall'astronomo danese Pietro di Dacia (Peter Nightingale), che in questo modo fece scoprire l'astrolabio universale agli astronomi latini. La popolarità di questo strumento fu dovuta al fatto che era possibile realizzarlo molto semplicemente disegnando le linee su pergamena o su carta incollata a un quadrante di legno. Dal XV sec. in poi divenne molto noto anche nell'Impero ottomano, e in Turchia è ancora usato, in particolare da coloro che organizzano la vita religiosa utilizzando metodi astronomici tradizionali.
L'istruzione occidentale nel Medioevo, basata sulle sette arti liberali, attribuiva all'astronomia (una delle quattro scienze del cosiddetto quadrivium, obbligatorie per la maggior parte degli studenti) un grande prestigio; persino la medicina richiedeva nozioni di astronomia, non soltanto perché i salassi erano collegati alle fasi lunari, ma perché le profezie astrologiche facevano parte del prontuario del medico. Con la nascita delle prime università, e specialmente dopo che queste ebbero assunto un importante ruolo sociale e intellettuale all'inizio del XIII sec., si creò la necessità di avere nuovi testi su cui studiare. Fu allora che Giovanni di Sacrobosco, docente dell'Università di Parigi, scrisse quello che era destinato a diventare il libro di astronomia più studiato di tutti i tempi, il De sphaera mundi. Per quanto elementare possa sembrare oggi, in realtà quest'opera, che forniva soltanto i fondamenti dell'astronomia sferica e della geografia, senza trattare della teoria dei pianeti, non era un testo semplice per lo studente medio dell'epoca, il quale apprezzava certamente il fatto che la trattazione scientifica fosse alleggerita da molte citazioni tratte dai poeti classici. Sebbene abbia scritto altri testi popolari sull'aritmetica, sul calcolo del calendario e sul quadrante normale, fino al XVII sec. il nome di questo studioso negli ambienti accademici rimase legato a quest'opera.
Altri scritti simili, tra cui quello di Roberto Grossatesta (1175-1253), rettore di Oxford e uno dei primi sostenitori della scienza aristotelica, cominciarono ben presto a circolare. Accanto a questi testi, che dovevano essere affiancati da libri sulla teoria dei pianeti, se ne diffuse un tipo chiamato genericamente Theorica planetarum. Un esempio di questo genere di libro, usato nelle scuole a partire dal XII sec., fu la traduzione del trattato di al-Farġānī compiuta da Giovanni di Siviglia. Il testo più diffuso in Occidente era opera, però, di un anonimo, cui ancora oggi, come nel Medioevo, ci si riferisce citandone l'incipit in latino: Circulus eccentricus vel egresse cuspidis… Quest'opera, che presenta diverse mancanze dal punto di vista tecnico e rivela scarso interesse per i parametri numerici, contribuì certamente a diffondere il vocabolario astronomico in Occidente; oltre a insegnare i fondamenti dei modelli planetari per mezzo di diagrammi, dal punto di vista didattico essa costituì un'importante aggiunta ai canoni e alle tavole, che stabilivano regole di funzionamento senza fornire alcuna giustificazione teorica. In realtà l'Almagesto di Tolomeo, all'origine di questo genere di scritti, avrebbe potuto ovviare a tale necessità, dato che nel XII sec. era stato tradotto due volte. Si trattava, però, di un testo molto lungo e complesso, per nulla indicato per un corso universitario della Facoltà di arti e, in effetti, sia in Occidente sia nei paesi islamici era stato sostituito da una serie di compendi astronomici, adatti anche per gli studi più avanzati.
L'impostazione dell'università medievale poteva sembrare poco adatta allo sviluppo dell'astronomia, intesa come scienza correlata alla realtà osservabile. L'approccio medievale al sapere era infatti molto condizionato dall'esegesi delle Sacre Scritture; esso era visto come un'eredità da purificare e, prima di essere trasmessa alle generazioni successive, da analizzare e criticare con attenzione. Fortunatamente, a mano a mano che gli studiosi perfezionarono le proprie conoscenze, la situazione iniziò a cambiare. I primi segni di un nuovo approccio empirico all'astronomia si devono rintracciare nell'opera di Guglielmo di Saint-Cloud, studioso legato alla corte di Francia, che godeva di grande fama verso la fine del XIII sec. e che nel 1285 osservò e descrisse una congiunzione tra Saturno e Giove. Egli compilò un dettagliato almanacco, fornendo le posizioni del Sole, della Luna e dei pianeti a intervalli regolari tra il 1292 e il 1312, e aggiunse la descrizione delle osservazioni e delle tavole planetarie (di Toledo e di Tolosa) su cui si basava l'almanacco, nonché le correzioni che ritenne necessario apportarvi. Oltre al lavoro sugli almanacchi e ai riferimenti alle eclissi solari e lunari, Guglielmo sperimentò, attraverso un piccolissimo foro, la proiezione dell'immagine del Sole su uno schermo, ritenendo che questo metodo avrebbe evitato danni agli occhi causati dalla visione diretta dell'eclissi, come si era verificato il 4 giugno 1285. Questa tecnica fu menzionata da Ruggero di Hereford nel XII sec. e, seguendo un'indicazione di Guglielmo, nel 1334 Lēwī ben Gēršōn (1280-1344) usò immagini ottenute attraverso piccolissimi fori per calcolare l'eccentricità dell'orbita solare. Egli osservò il Sole ai solstizi d'estate e d'inverno, abbinando il 'bastone di Giacobbe', uno strumento di sua invenzione, con la camera oscura (nel 1600 Kepler osservò un'eclissi solare quasi nella stessa maniera). Dopo la fine del XIII sec. l'aspetto empirico dell'astronomia si sviluppò rapidamente e continuò a svilupparsi in maniera costante.
Un altro astronomo di questa generazione, con un temperamento pratico e stretti legami con Parigi, fu Pietro di Dacia, che per un certo periodo fu canonico nella cattedrale di Roskilde in Danimarca. Aveva insegnato astronomia e astrologia a Bologna e nel 1292 si era trasferito a Parigi, dove rimase per circa un decennio prima di tornare a Roskilde. Pietro di Dacia è lo studioso che può meglio illustrare come furono inventati e perfezionati gli strumenti per il calcolo; egli infatti elaborò un semplice equatorium (datato 1293, Parigi) e altri congegni per calcolare le eclissi. Come nel caso dell'equatorium creato da Campano da Novara, un altro scienziato che aveva studiato a Parigi intorno al 1260, questi strumenti possono essere descritti come diagrammi tolemaici mobili di metallo, di legno o di pergamena.
In questo periodo Parigi era il centro europeo più importante per la ricerca astronomica; qui si cercava di rendere il calcolo più facile e più veloce grazie all'uso sia delle tavole sia degli strumenti preposti. Giovanni di Lignères, per esempio, scrisse su un nuovo tipo di armilla, sulla saphaea, sull'equatorium di Campano e sul directorium, uno strumento di calcolo collegato all'astrolabio, specificamente per uso astrologico. Poiché di norma il calcolo era fatto con le tavole, sia Giovanni di Lignères sia altri studiosi‒ in particolare Giovanni di Sicilia, Giovanni de Muris e Giovanni di Sassonia ‒ s'impegnarono con passione per perfezionare e riorganizzare le tavole astronomiche, soprattutto le diverse versioni delle Tavole alfonsine, l'importante realizzazione astronomica alla quale abbiamo accennato in precedenza.
A partire dal 1320 circa Parigi divenne il centro più importante per la diffusione delle Tavole alfonsine, al punto che alcuni, non essendo mai stata trovata una copia delle tavole originali, sostengono che si tratti di una creazione parigina. Le Tavole alfonsine sono soltanto una parte del grande lavoro di studio e ricerca svolto nel XII sec. dal sovrano Alfonso X di Castiglia e di León, chiamato 'Alfonso il Saggio'; esse fanno riferimento al mezzogiorno del 31 maggio 1252, la vigilia della sua incoronazione, sebbene, a quanto si legge nel prologo, siano state compilate tra il 1263 e il 1272. Alfonso cercò di favorire la traduzione di molti scritti filosofici e scientifici dall'arabo al castigliano, un lavoro che aveva iniziato in passato con il pieno sostegno del padre. Alla corte degli arcivescovi di Toledo, l'antica capitale visigota, la traduzione dall'arabo al latino era da tempo una consuetudine, e Alfonso X fondò una scuola che accoglieva studiosi cristiani ed ebrei, e anche musulmani convertiti al cristianesimo; il re, a capo dell'intero gruppo, revisionò il loro lavoro e scrisse alcune parti dell'introduzione. I nomi dei quindici collaboratori sono inclusi nella serie completa dei testi alfonsini, che comprendono trattati sul movimento dell'ottava sfera (precessione degli equinozi), l'astrolabio universale nei suoi vari aspetti, l'astrolabio sferico, un orologio ad acqua e un orologio a mercurio, un quadrante, alcune meridiane e diversi equatorium. Prevedendo possibili discrepanze tra le nuove osservazioni e ciò che era stato predetto in base alle antiche Tavole di Toledo, Alfonso X ordinò che la costruzione degli strumenti e tutte le osservazioni avessero luogo a Toledo. I compilatori delle nuove tavole furono due astronomi ebrei, Yehūdā ben Mōšē Kohēn e Isḥāq ben Sīd; a Toledo effettuarono osservazioni per oltre un anno, ma il re faceva spostare spesso la sua corte e quindi molto del loro lavoro di osservazione si svolse anche a Burgos e a Siviglia.
Non esistono testimonianze dirette del fatto che le Tavole alfonsine originali fossero conosciute a est dei Pirenei prima del 1321; supponendo anche che siano state portate a Parigi dalla Spagna, non si capisce come questo sia potuto accadere. Giovanni de Muris riferisce di qualcuno informato al riguardo, che però tenne per sé l'informazione; un autore parigino intorno al 1340 nomina la versione 'spagnola' del libro alfonsino delle stelle fisse, "tratta dalla biblioteca del re", e prosegue dicendo di aver visto un globo, fabbricato per Alfonso X, su cui erano state segnate tutte le stelle, ma non specifica se ciò si fosse verificato in Spagna o dopo il trasferimento a Parigi. A proposito della trasmissione delle tavole parigine che andavano sotto il nome di 'alfonsine', forse il documento più significativo è quello scritto nel 1321 da Giovanni de Muris, l'Esposizione del significato delle tavole di re Alfonso, un testo in cui, come in altri, l'autore dimostra notevole abilità nell'estrarre alcuni parametri dal materiale esaminato. Nel 1322 Giovanni di Lignères, il maestro di Giovanni de Muris e di Giovanni di Sassonia, scrisse un libro fortemente influenzato dalle regole delle Tavole di Toledo, ma con chiari cenni alle future Tavole alfonsine; utilizzò infatti l'eccentricità solare, inserì la precessione nelle posizioni degli apogei dei pianeti e menzionò 12 segni zodiacali di 30° (Ariete, Toro, Gemelli, ecc.) invece di sei di 60°, tutti elementi caratteristici delle Tavole alfonsine. In una data compresa tra il 1322 e il 1327, Giovanni di Lignères e i suoi allievi raccolsero gli elementi essenziali di quella che sarebbe diventata la versione ufficiale delle tavole, cioè un'edizione compilata da Giovanni di Sassonia nel 1327; in questo periodo Giovanni di Lignères scrisse i propri canoni per le tavole e le perfezionò in modo rilevante, aggiungendovi tavole di 'equazioni planetarie combinate' in modo tale che ogni pianeta avesse soltanto una di queste tavole combinate.
Le tavole parigine furono adottate in Inghilterra e in Scozia subito dopo essere state scritte. Intorno al 1340 William Rede, del Merton College di Oxford, ne convertì una versione con divisione temporale in sessantesimi in tavole ordinate secondo la vecchia maniera (di Toledo), basandosi sul meridiano di Oxford; il fatto che ne esistano altre versioni per altre città inglesi ‒ per Leicester e Northampton, risalenti al 1320 ca., e per Colchester, Cambridge, York e Londra ‒ dimostra che gran parte degli studi astronomici si svolgeva in istituzioni religiose, al di fuori delle università. Nel caso delle città appena nominate si trattava di adattamenti abbastanza semplici; due revisioni più radicali furono invece eseguite a Oxford, una da un anonimo (forse William Batecombe) intorno al 1348 e la seconda da John Killingworth nel secolo successivo. Le tavole del 1348 erano molto più elaborate delle Grandi tavole di facile consultazione compilate da Giovanni di Lignères, tavole a entrata doppia che davano una sola equazione. Esse consentivano di ottenere le longitudini dei pianeti quasi direttamente, a parte un piccolo adattamento per la precessione; erano inoltre molto dettagliate e potevano essere utilizzate per avere informazioni sui moti diretti, le posizioni, la retrogradazione dei pianeti e altri elementi rilevanti dal punto di vista astrologico. Nel 1348 a Oxford si diffuse un'epidemia di peste bubbonica, e fu allora che, come in altri luoghi d'Europa, iniziò il declino del sapere accademico. Le tavole del 1348 furono comunque utilizzate ampiamente negli anni a venire; alcuni antichi manoscritti provenienti dalla Slesia e da Praga ne riportano altre versioni; anche Enrico Arnaut di Zwolle le utilizzò (nel Nord dell'Olanda), chiamandole 'tavole inglesi'. Nel XV sec. esse furono tradotte in ebraico da Mordechai Finzi, aiutato da un certo Cristiano di Mantova. Giovanni Bianchini, il più noto astronomo italiano della metà del XIV sec., s'ispirò a esse per compilare un insieme di tavole molto simili, ampiamente utilizzate da suoi contemporanei di prestigio, come Purbach e Regiomontano. Questo testo e una versione proveniente dall'Europa orientale del XIV sec. nota come Tabulae resolutae, letta da Copernico quand'era studente a Cracovia, costituirono le basi per le tavole compilate da Johann Schöner (stampate nel 1536 e nel 1542), che furono utilizzate per molti anni, sebbene se ne fosse dimenticata l'origine.
Dopo le tavole del 1348, John Killingworth (1410 ca.-1445), astronomo del Merton College di Oxford, compilò un altro insieme di tavole 'alfonsine' di grande valore, destinate al calcolo di un intero almanacco planetario (effemeridi); Humphrey, duca di Gloucester, ne ricevette uno splendido esemplare, foderato con oro. Le Tavole di Toledo e i loro canoni avevano spinto gli studiosi stranieri a interessarsi alla trigonometria relativa all'astronomia sferica, e Riccardo di Wallingford (1292 ca.-1336), un monaco benedettino che aveva studiato a Oxford ‒ dove insegnò fino al 1327, quando tornò a fare l'abate al monastero di Saint Albans ‒ fu l'autore del Quadripartitum, il primo saggio esauriente sulla trigonometria sferica scritto nell'Europa cristiana, basato sull'Almagesto, sui canoni di Toledo e su un breve trattato forse di Campano da Novara. Questi testi fornivano soluzioni esatte ai problemi della geometria della sfera, ma il calcolo risultava comunque complesso. Lavorare con una vera sfera (o armilla) significava avere risposte approssimative, ma era difficile costruire con precisione strumenti di questo tipo. Per risolvere tali problemi Riccardo di Wallingford ideò un particolare strumento chiamato rectangulus, formato da un sistema di sette asticelle fissate con un perno. Gli strumenti più usati per l'astronomia sferica, però, furono, e lo rimasero per lungo tempo, l'astrolabio e la saphaea, che utilizzavano la proiezione su una superficie piana.
L'astronomo aveva bisogno di ulteriori ausili per il calcolo, soprattutto per individuare le posizioni dei pianeti, e a questo scopo fu ideato l'equatorium (parola che indica una grande varietà di strumenti); quello ideato da Campano da Novara e dai suoi precursori spagnoli riproduceva esattamente i moti tolemaici delle circonferenze dei pianeti, ciascuna con il suo disco (con graduazioni per inserire i moti angolari nelle circonferenze). A volte questo tipo di strumento così semplice e intuitivo fu realizzato con grande precisione, come nel caso di due astronomi che avevano studiato a Parigi, Guido de Marchia (1310 ca.) e Giovanni Simone di Zelanda (1418 ca.), i quali trasformarono una semplice costruzione eccentrica (priva di epicicloide) in una costruzione epicicloidale con una circonferenza concentrica deferente. Un altro strumento interessante (1428) fu quello del canonico agostiniano Rodolfo Medici, che usò un doppio epicicloide, come più tardi fece anche Copernico.
Un altro tipo di equatorium che funzionava in maniera meno intuitiva di questi, fu senza dubbio l'albion (da all by one, in inglese 'tutto in uno solo') di Riccardo di Wallingford, nel quale i dischi erano usati per calcolare le equazioni planetarie, poi aggiunte (o sottratte) ai moti medi, facendo ruotare i dischi secondo determinate angolazioni; questo metodo sembrava molto semplice a chi era abituato all'uso delle tavole, ma implicava la capacità di usare scale graduate in maniera non uniforme. Avendo abolito l'immediata connessione tra una scala e un'orbita circolare, e facendo diventare le scale, in quanto tali, fonti di dati matematici, spesso era necessario allungarle perché ne contenessero di più; per fare questo, Riccardo le trasformò a volte in spirali graduate con molte curve, anticipando così quelle dei regoli calcolatori logaritmici circolari dei secoli successivi. L'albion aveva infatti più di sessanta scale in tutto, tra cui alcune ovali, e nel complesso non esisteva problema di astronomia classica che non fosse risolubile per suo mezzo, poiché grazie ai suoi accessori poteva fornire parallassi, velocità, congiunzioni, opposizioni, eclissi solari e lunari. Adottato dapprima in Inghilterra e successivamente nell'Europa meridionale, lo strumento rimase in voga in diverse forme fino al XVI secolo. Il viennese Giovanni di Gmunden realizzò l'esemplare forse più riprodotto di tutti (1430 ca.); Regiomontano, che s'ispirò a esso, ne fece un'edizione non accurata e Johann Schöner ne riprodusse uno strumento per l'eclissi. L'opera più straordinaria in cui fu utilizzato l'albion fu l'Astronomicum Caesareum (1540) di Pietro Apiano di Ingolstadt, dedicato all'imperatore Carlo V e a suo fratello, uno dei testi scientifici più ricchi di immagini e di colori dei primi quattro secoli della stampa; contiene diversi equatorium, ciascuno con dischi mobili di carta, del tipo più semplice, che simulano i modelli planetari tolemaici.
Fra tutte le tradizioni ereditate dall'Occidente di cultura latina da parte della Spagna musulmana, ce ne fu una che ebbe grande risonanza poiché stabiliva uno stretto legame tra le teorie matematiche dell'astronomia e il calcolo meccanico del tempo, una tradizione le cui radici risalgono a tempi ancora più antichi di Erone di Alessandria e Archimede. Il problema della misurazione del tempo suscitava interesse costante e alcuni autori arabi menzionavano orologi azionati da acqua o da sabbia; in realtà non si trattava soltanto di far girare una ruota per calcolare il tempo in maniera astratta, l'obiettivo era anche di farla girare per ventiquattro ore in modo da rappresentare il firmamento. Simili congegni furono ideati in Spagna già nell'XI e nel XII sec.; uno di questi era costituito da un globo celeste messo in movimento dal moto giornaliero prodotto da un peso adagiato sulla sabbia, il cui livello si abbassava quando la sabbia fuoriusciva da un foro. Gli orologi ad acqua di Fez (Marocco) del XIV sec. avevano il quadrante dell'astrolabio, ma in quell'epoca l'orologio-astrolabio completamente meccanico di fabbricazione europea non era più una rarità.
Riccardo di Wallingford a Saint Albans, un monastero molto ricco, poteva disporre di ingenti quantità di denaro per la costruzione di un orologio meccanico. Da un cenno incluso nel commento al De sphaera mundi di Sacrobosco, scritto da Roberto Anglico nel 1271, si deduce che gli astronomi, a quel tempo, stavano cercando, ancora senza alcun successo, di controllare il movimento di una ruota in modo che riproducesse il moto quotidiano di rotazione della Terra. Dai numerosi riferimenti alla costruzione di costosi orologi da chiesa intorno al 1280 e oltre, emerge che l'invenzione chiave, lo scappamento meccanico, era stata portata a termine oltre quarant'anni prima che Riccardo iniziasse il suo lavoro; tra le pile di documenti che questi lasciò alla sua morte, insieme a diversi schizzi dell'oggetto, si trovano le descrizioni più antiche mai rinvenute di un orologio meccanico, il più sofisticato del Medioevo. Pur essendo andato perduto, sappiamo che esso mostrava i movimenti planetari e i flussi della marea; era di ferro (il padre di Riccardo era un fabbro), di ingenti proporzioni, con una struttura larga tre metri, ed era sistemato sulla parete del transetto meridionale dell'abbazia. Questo meccanismo, in grado di riprodurre l'Universo in movimento secondo le nozioni astronomiche medievali, in quasi ogni singolo dettaglio si rifaceva alle tecniche astronomiche, persino nel metodo per calcolare le proporzioni dell'ingranaggio e la classificazione degli spazi tra i denti dello stesso. Suonava fino a 24 rintocchi, aveva ingranaggi a spirale e una ruota ovale che forniva una velocità variabile attentamente calcolata per il moto della Luna intorno al quadrante dell'astrolabio.
L'orologio di Saint Albans era molto diverso per dimensioni e aspetto dall'orologio astronomico, o 'astrario', costruito da Giovanni Dondi (1318 ca.-1389) tra il 1348 e il 1364. Figlio di un astronomo e medico che aveva progettato un orologio per la città di Padova nel 1344, Dondi divenne il medico personale dell'imperatore Carlo IV; il suo astrario fu acquistato da un membro della famiglia Visconti nel 1381. Regiomontano lo vide nel 1463 ma nel 1530, quando l'imperatore Carlo V ne fece fare una copia, era ormai irrimediabilmente fuori uso. La maggior parte dei grandi orologi da chiesa d'Europa, se non erano semplici strumenti a soneria, avevano un solo quadrante che era spesso un grande astrolabio. Al contrario, il meccanismo di Dondi aveva una struttura con sette lati, con un quadrante diverso per ogni pianeta, il Sole e la Luna. Sia questo sia l'orologio di Saint Albans erano dotati di ingegnosi meccanismi accessori, quello italiano per un calendario e quello inglese per scandire le ore con la campana; ciascun meccanismo planetario era costituito essenzialmente da un diagramma tolemaico a ingranaggio. Se l'abilità meccanica di Dondi era inferiore a quella di Riccardo di Wallingford, il suo orologio senza dubbio era più elegante.
Nel 1380 in Europa esistevano circa trenta università, per la maggior parte piccole e di recente fondazione, ma in grande concorrenza tra loro; nel 1500 erano quasi triplicate. Questa diffusione del sapere provocò una nuova ondata di entusiasmo per l'astronomia, che si manifestò più apertamente nelle nuove università, come quelle di Vienna e di Praga, rispetto a quelle antiche. Uno dei più noti maestri trasferitisi da Parigi a Vienna durante i disordini religiosi del XIV sec. fu Enrico di Langenstein, celebre studioso di Tolomeo. Come molti altri astronomi occidentali del Basso Medioevo, egli seguì l'esempio dei suoi predecessori orientali che avevano usato motivazioni di ordine fisico per criticare gli schemi planetari descritti nell'Almagesto. In un saggio scritto a Parigi nel 1364, dove espresse il suo punto di vista in un dibattito accademico riguardante la Theorica planetarum, Enrico sostenne che le circonferenze dell'astronomia tolemaica non dovevano essere considerate come meccanismi realmente esistenti nel cielo, ma semplici costruzioni matematiche; inoltre, non trovava soddisfacente la spiegazione tolemaica delle distanze e delle dimensioni planetarie, non apprezzava l'equante, né le irregolarità introdotte nella teoria della longitudine planetaria dalla complessa teoria tolemaica della latitudine planetaria. Egli favorì planetari di tipo omocentrico, anche se era disposto ad abbandonare l'idea dei moti circolari uniformi.
Nel 1377 anche un certo magister Julmann scrisse con simili accenti, attingendo dal pensiero di Enrico, ma aggiungendo anche materiale di sua rielaborazione; in particolare, egli rivelò la difficoltà di accettare l'idea che un corpo potesse avere più moti. Questo problema emergeva in modo particolare quando si doveva visualizzare il complesso modello 'tolemaico' delle sfere ‒ sia per le longitudini planetarie sia per le latitudini ‒ come quello trovato nel-le Ipotesi sui pianeti di Tolomeo e nella Teoria dei pianeti di al-Farġānī. Un altro accademico e politico fu Niccolò Cusano (1400/1401-1464), oggi ricordato principalmente come religioso e filosofo platonico, ma che s'interessò anche di astronomia giungendo ad alcuni risultati degni di nota. Insieme al suo amico Paolo Toscanelli, famoso geografo, egli seguì le lezioni di astrologia che Prosdocimo de' Beldomandi tenne a Padova; ordinato sacerdote, conobbe l'umanista Alessandro Piccolomini. Fu autore di un atlante stellare semplice e, dopo aver svolto attività diplomatica per la corte papale, fu nominato cardinale (1446); ebbe così a disposizione una ricchezza tale da permettersi l'acquisto di strumenti astronomici molto sofisticati, oggi ancora perfettamente conservati.
Pur partendo dalla rappresentazione platonica del mondo come insieme matematico, Cusano riteneva che nulla nella nostra esperienza fosse matematicamente 'esatto' (nessun oggetto era veramente dritto, la Terra non era esattamente sferica, e così via), per cui diventava impossibile leggere la Natura in termini matematici. A questo proposito, interessanti furono le sue idee riguardo alla posizione e al moto terrestre. La sua visione della posizione della Terra nell'Universo acquisì più tardi un significato profetico; poiché un punto comprendeva (o rifletteva) l'intero Universo, non poteva esistere né un centro fisso né una zona esterna altrettanto fissa, e questo comportava che la Terra non potesse occupare il centro dell'Universo. Riguardo al moto terrestre, Cusano partiva dalla convinzione che la posizione di qualsiasi corpo cambiasse a seconda dell'osservatore, e da questo si deduceva il movimento della Terra; dopo averla spostata dal suo luogo tradizionale, egli ipotizzò anche che non fosse il solo pianeta su cui esistevano forme di vita.
Questi concetti non ebbero grande risonanza nell'astronomia ufficiale fino al periodo successivo a Copernico e persino a Giordano Bruno (1548-1600); soltanto allora Niccolò Cusano iniziò a essere citato come precursore di Copernico. Descartes lo ricordava perché aveva avanzato l'idea del mondo come infinito e la sua fama di esperto di cosmologia andò crescendo nel corso dei secoli; occorre notare, tuttavia, che quando scriveva di questioni astronomiche Cusano sosteneva la centralità della Terra e la tradizionale disposizione dei pianeti. Egli minimizzò l'inferiorità della Terra rispetto alla sfera celeste sminuendo la perfezione del Sole e arrivando a congetturare all'interno della fascia luminosa che lo circonda l'esistenza di uno strato di vapore acqueo e aria respirabile, che rendeva possibile l'ipotesi ‒ sostenuta fino al XIX sec. ‒ di una Terra situata al suo interno.
È convinzione diffusa che alla metà del XV sec. l'astronomia abbia conosciuto un nuovo momento di splendore grazie al ritrovamento di numerosi testi greci, molti dei quali di argomento astronomico; in realtà, poiché nel XV sec. i testi si moltiplicarono grazie all'invenzione della stampa, gli studiosi da allora in poi furono molto avvantaggiati rispetto ai loro predecessori. La fama di due personaggi offuscò rapidamente quella degli autori dei testi da essi riscritti, vale a dire Georg von Purbach (1423-1461) e Regiomontano, entrambi importanti nel movimento umanistico, ma i cui scritti di astronomia mantennero viva la tradizione medievale più che superarla.
Purbach era uno studioso austriaco, seguace di un altro autorevole astronomo, il docente più importante in materia presso l'Università di Vienna, Giovanni di Gmunden, che lasciò all'università numerosissimi manoscritti di valore e strumenti astronomici (aveva curato personalmente la pubblicazione dell'albion, di cui possedeva una copia). Purbach si laureò a Vienna nel 1453, ma sia prima sia dopo viaggiò molto in Francia, Germania e Italia. Divenne astrologo di corte prima per Ladislao V, re di Ungheria, e poi per lo zio del sovrano, l'imperatore Federico III. A Vienna insegnò i classici secondo la nuova impostazione umanistica, ma completò anche il suo famoso libro Nuova teoria dei pianeti (1454), che fu pubblicato postumo nel 1472 ca. e di cui furono stampate quasi sessanta edizioni, prima che fosse completamente dimenticato nel corso del XVII secolo. Fu questo libro a rendere note le sfere solide delle Ipotesi sui pianeti di Tolomeo, riscontrate nell'opera di al-Farġānī, Ibn al-Hayṯam e altri, e a conservare materiale relativo alle teorie della precessione attribuite a Ṯābit ibn Qurra. Esso rivela chiaramente come si continuasse a fare riferimento alle diverse versioni delle Tavole alfonsine (specialmente quelle del 1348 e di Bianchini), che facilitavano il calcolo delle posizioni planetarie, rendendo immediatamente evidenti le discrepanze rispetto ai risultati delle osservazioni. Intorno al 1450, Purbach completò il suo lavoro più impegnativo, le Tavole delle eclissi (stampate per la prima volta nel 1514), calcolate prima per il meridiano di Vienna e, in un'altra versione, per la città di Oradea in Ungheria (Tabulae Waradienses).
Johann Müller, più noto come Regiomontano (dal nome latino della sua nativa Königsberg, in Franconia), completò i suoi studi con Purbach a Vienna nel gennaio 1454, a soli quindici anni; due anni più tardi affiancò il maestro in un programma di osservazione dei pianeti, delle eclissi e delle comete. Come quasi tutti gli astronomi del tempo, entrambi scrivevano di astrologia. Nel 1460, con l'arrivo a Vienna del cardinale Bessarione, legato pontificio del Sacro Romano Impero, le loro carriere presero un'altra direzione; Bessarione, la cui missione ufficiale consisteva nel riconciliare l'imperatore e il fratello con cui era in disputa e trovare gli aiuti necessari per la riconquista di Costantinopoli, in mano ai Turchi, desiderava soprattutto che l'Occidente conoscesse a fondo i classici greci, e a questo scopo persuase Purbach, che non conosceva il greco, a scrivere un'edizione ridotta e migliorata dell'Almagesto. Giorgio da Trebisonda aveva tradotto quest'opera dal greco nel 1451, ma la sua versione era meno riuscita di quella di Gherardo da Cremona, tradotta dall'arabo nel XII sec.; Purbach si basò sulla seconda, che Regiomontano affermava di conoscere quasi a memoria, ma nel 1461, quando era arrivato a metà del lavoro, morì. Regiomontano completò l'opera in altri due anni, ma il testo finale, il Compendio dell'Almagesto, fu pubblicato solamente nel 1496, vent'anni dopo la sua morte prematura. Pur essendo in gran parte tratto da un Almagesto abbreviato molto usato nel Medioevo, esso fu il migliore testo critico in circolazione su Tolomeo e lo rimase fino all'era moderna.
Incoraggiato da Bessarione, che intanto era stato nominato legato pontificio per la Repubblica veneziana, Regiomontano lasciò Roma insieme a lui nel luglio del 1463 e si stabilì in una località situata tra Venezia e Padova, dove insegnò. Nel 1467 lavorò in Ungheria e, come professore dell'Università di Presburgo, fu incaricato di scegliere il momento più propizio dal punto di vista astrologico per fondare l'ateneo ‒ procedura allora molto comune. In Ungheria collaborò con l'astronomo di corte Martin Bylica e dedicò al re Mattia I Corvino, noto patrocinatore degli studi umanistici, un'opera di trigonometria. Nel 1471 Regiomontano decise di stabilirsi a Norimberga, uno dei centri commerciali più importanti d'Europa. Qui trovò ottimi strumenti astronomici e mise in funzione una macchina da stampa con cui pubblicò la Nuova teoria dei pianeti di Purbach, seguita dalle sue effemeridi planetarie (almanacco) per il periodo compreso tra il 1474 e il 1506, il primo testo stampato a sfruttare il crescente interesse per l'astrologia; si narra che Colombo l'abbia portato con sé nel suo quarto viaggio attraverso l'oceano e che l'abbia usato per stupire gli Indiani giamaicani, prevedendo l'eclissi lunare del 29 febbraio 1504.
Regiomontano morì durante una visita a Roma nel 1476. Il programma di osservazione astronomica da lui iniziato fu affidato a un suo abile collega, Bernhard Walther, tra il 1475 e il 1504, le cui osservazioni, prima che fossero pubblicate nel 1544, furono utilizzate da Copernico per calcolare l'orbita di Mercurio. Quando morì, Regiomontano era ormai molto conosciuto, non soltanto per la sua carriera di grande umanista, studioso e stampatore, ma soprattutto per l'esemplare esposizione delle conoscenze astronomiche del tempo, in particolare dei loro fondamenti matematici. Intorno al 1460 si era dedicato intensamente alla spiegazione della trigonometria sferica; nel De triangulis omnimodis, pubblicato per la prima volta nel 1533, utilizzò la 'legge del seno' e quella 'del coseno' per i triangoli sferici, per elaborare le quali, come sostenne anche Gerolamo Cardano, sembra che avesse attinto agli scrittori medievali. Il suo lavoro sulla trigonometria era poi corredato di un supplemento di enorme valore pratico, le tavole delle funzioni trigonometriche, in cui seguiva le tracce di Purbach. La precisione di queste tavole contribuì certamente a portare l'astronomia e il calcolo matematico verso il sistema decimale.
Le Tabulae directionum di Regiomontano, pubblicate nel 1467 quando viveva in Ungheria, non erano esclusivamente astronomiche, in quanto comprendevano anche tavole da utilizzare nell'astrologia, in particolare per calcolare le cuspidi delle dodici 'case'. Il termine 'casa' era usato generalmente per indicare i segni di 30° dello Zodiaco, cioè i luoghi dove secondo l'astrologo i pianeti avevano la loro casa. Generalmente, ma non sempre, la divisione partiva dall'ascendente, il punto dello Zodiaco (eclittica) incrociato dall'orizzonte orientale; le case erano poi numerate procedendo verso una longitudine sempre maggiore, ossia ponendo le prime sei sotto l'orizzonte. Esistevano circa otto diversi metodi per operare la divisione, la maggior parte dei quali aveva una difficile applicazione matematica, e il nome di Regiomontano rimase collegato a un metodo antico almeno quanto al-Ǧayyānī e al-Ġāfiqī; gli astronomi tedeschi lo chiamavano il metodo 'razionale' e Gerolamo Cardano lo riteneva un plagio nei confronti di Abrāhām ibn ῾Ezrā. Gli Italiani tendevano a privilegiare 'il metodo di Campano da Novara', in nome di un pregiudizio nazionalistico del tutto sconosciuto nei secoli precedenti; alla fine, tuttavia, s'impose la forza del libro stampato e il metodo di Regiomontano ottenne a poco a poco un grande seguito internazionale.
Gran parte della ricerca che andava sotto il nome di astronomia era alimentata dall'astrologia. Se si esaminano le sintesi astrologiche di uomini come Pietro d'Abano, Cecco d'Ascoli e Andalò di Negro, o le loro fonti arabe, non si comprende chiaramente quale fosse la funzione attribuita alla matematica nella ricerca astrologica; ciò di cui invece l'astrologo aveva assoluto bisogno era la determinazione delle posizioni esatte dei pianeti, che era l'astronomia a fornire. Questi dati risultavano utili per l'astrologia meteorologica, per le previsioni del tempo, come pure per predire il futuro. Simili preoccupazioni empiriche emergevano chiaramente nello studio delle comete; sebbene oggi sia normale considerare le comete oggetto di studi astronomici, il punto di vista medievale era infatti ben diverso. Aristotele aveva spiegato che le comete si formavano quando la sfera di fuoco (un'esalazione calda, secca e infiammabile, che generalmente non era incendiata), trascinata dai pianeti più vicini, prendeva fuoco per un certo tempo; questo fenomeno produceva una stella dalla lunga chioma (cometa, da komḗtēs, in greco 'chiomato'), o con la barba. Data questa spiegazione, fu naturale inserirne lo studio nel suo libro di meteorologia, e molti altri, per esempio gli stoici, per quanto avessero modificato i principî di fondo della scienza aristotelica, continuarono a considerare la teoria delle comete parte di quella materia.
Roberto Grossatesta, Ruggero Bacone (1214 ca.-1294) e Alberto Magno (1193 ca.-1280) conoscevano in maniera abbastanza approfondita le teorie arabe sugli influssi delle comete, e tutti e tre erano convinti che le comete potessero far parte della catena degli eventi naturali. Per loro e per la maggior parte dei loro contemporanei cristiani esse costituivano un segno della divina provvidenza. Nel XIII sec. furono scritti ampi trattati sull'argomento, con citazioni da un gran numero di fonti arabe (e persino indiane) che posero le basi per il dibattito successivo. Gli interrogativi a cui dare risposta erano tanti: come si formano le comete, di quale colore sono, dove sono situate, quali dimensioni e quale forma hanno (a quell'epoca se ne conoscevano già nove tipi diversi); inoltre, quali sono le loro caratteristiche principali, in quale misura dipendono dalle condizioni meteorologiche e, infine, quale rapporto hanno con le vicende umane? La 'cometologia' era veramente una materia di confine, perché comprendeva la meteorologia, l'astrologia, la teologia e l'astronomia, anche se quest'ultima soltanto in modo marginale.
La periodicità delle comete non era oggetto di discussione; nel 1299 e poi nel 1301 Pietro di Limoges, canonico di Evreux, affermava che con l'aiuto di un torquetum (uno strumento con scale graduate circolari per misurare l'angolo orario, che forniva l'ascensione retta e la declinazione di un astro) aveva potuto misurare le diverse posizioni di due comete, sia nella longitudine che nella latitudine celesti, fornendo oltretutto una spiegazione dei movimenti delle comete dovuti, secondo lui, alla loro affinità con alcuni pianeti. Va dunque corretta l'opinione diffusa che le comete iniziarono a essere osservate con sistematicità nel XV sec., per esempio da Toscanelli (dal 1433), Regiomontano e Walther (intorno al 1470); fu Goffredo di Meaux, medico di Carlo IV, ad aver dato il via a questo tipo di osservazioni. Goffredo prese le coordinate della cometa del 1315 facendo riferimento alle stelle vicine e ripeté la procedura per la cometa del 1337, sperando di comprenderne il percorso e spiegandone i movimenti come eventi planetari. Jacopo Angelo di Ulm, medico del duca astronomo Leopoldo d'Austria, ricavò la longitudine della cometa del 1402 da quella della Luna, e descrisse la sua apparizione con la stessa precisione che avrebbe usato per descrivere la malattia di un paziente di corte. Questi medici altolocati conoscevano anche l'astrologia, come nel caso di Toscanelli, oltre a essere interessati alla fabbricazione di strumenti astronomici.
Chi tende ad anticipare il ruolo che le comete ebbero nell'attacco contro l'aristotelismo alla fine del XVI sec., cercherà invano scritti medievali relativi alla determinazione delle parallassi delle comete. Purbach fissò, a quanto sembra attraverso l'osservazione, un limite inferiore alla distanza della cometa del 1456. In seguito, Regiomontano scrisse un saggio sulle tecniche per determinare la posizione e la parallasse delle comete, e spiegò al contempo come costruire un 'bastone di Giacobbe', lo strumento portatile di Lēwī ben Gēršōn per misurare angoli tra visuali. Sebbene tutte le premesse per effettuare questo tipo di calcolo fossero note, la parallasse di una cometa non fu mai veramente trovata prima del XVI sec., probabilmente a causa dello scetticismo diffuso nei confronti dell'astrologia.
Il confine tra l'astronomia e l'astrologia fu sempre molto labile e in certi casi difficile da stabilire. L'epidemia di peste bubbonica che si diffuse in Europa intorno al 1340, le guerre interminabili tra Inghilterra e Francia, le paure mai sopite per l'arrivo dell'Anticristo, le eresie ussite, e più tardi la spaccatura della Chiesa con il protestantesimo contribuirono a spingere gli astronomi verso quell'astrologia capace di predire l'ascesa e il declino di regni e sette religiose, in base non soltanto alle comete ma anche alle grandi congiunzioni dei pianeti Saturno, Giove e Marte. Geoffrey Chaucer trattò questo tema nella sua opera più prestigiosa, Troilo e Criseide, che testimonia quanto tempo ed energia impiegasse il poeta per aggiungere un significato nascosto ai suoi versi, attraverso allusioni astronomiche e astrologiche basate su precisi calcoli matematici. Interpretare tali congiunzioni era relativamente facile, ma non lo era predirle con esattezza poiché gli astronomi a volte sbagliavano di diversi giorni o persino di settimane. Il valore attribuito all'astronomia dipendeva in gran parte dall'astrologia; sebbene l'astronomia fosse considerata una materia a sé, quando era unita all'astrologia ed era trasmessa attraverso l'arte e la letteratura, riusciva a toccare l'uomo medievale nel profondo. Furono molti i poeti che cercarono di imitare la metafora cosmica e le allusioni di Dante e Chaucer, ma ben pochi riuscirono a produrre qualcosa di memorabile, finché non si arrivò a poeti come Jacques Peletier e Pierre de Ronsard, nella Francia del XVI secolo.
L'astronomia svolse un ruolo determinante nel costruire la visione del mondo medievale, ma si scontrava con l'onnipresente cosmologia aristotelica. Rimaneva infatti ancora aperta la questione se gli influssi delle stelle esistessero davvero, se potessero costituire una scienza vera e propria con l'ausilio dell'astronomia e se una scienza simile sarebbe stata in sintonia con i valori dello spirito medievale. Alle prime due domande soltanto pochi autori non avrebbero risposto in senso affermativo. Chi invece espresse dubbi al riguardo fu Nicola Oresme (1320 ca.-1382), il cui atteggiamento indusse molti dei suoi lettori più eruditi a riflettere sulla natura del sapere astronomico (e non solamente astrologico). Normanno di nascita, ma educato a Parigi, divenne il confidente del futuro Carlo V, quando era ancora Delfino di Francia. Alla sua morte, Nicola era vescovo di Lisieux e il suo prestigio intellettuale era innegabile.
La sua visione del Cosmo era in un certo senso meccanicistica (usava spesso la metafora di un orologio meccanico) ma, fedele all'aristotelismo, egli continuava a pensare che le sfere celesti fossero mosse da entità intelligenti. Sebbene abbia scritto molto contro l'astrologia, in quanto materia incapace di spiegare gli eventi terreni ‒ che egli riteneva generati soltanto da cause immediate e naturali e non da influssi celesti ‒ era troppo impregnato della cultura del suo tempo per riuscire a fare critiche più taglienti; pensava infatti che in via di principio si potessero conoscere le qualità delle stelle, dei segni, dei gradi, e che le grandi congiunzioni celesti potessero determinare le profezie, anche se soltanto in termini generali. Fu proprio riflettendo sulla precisione astrologica che elaborò alcune delle sue tesi sulla natura dei moti.
Si legge spesso che nel Medioevo e anche prima, astrologia e astronomia costituirono un'unica disciplina. Oresme parlava invece di tre astrologie: una 'matematica', "che chiamiamo astronomia", una 'naturale', simile alla fisica, e una 'spirituale'. La sua opera più originale fu sulla fisica terrestre; egli credeva che la Terra potesse non essere al centro dell'Universo, anche se il suo centro di gravità tendeva in quella direzione. Oresme enfatizzò la relatività del moto; come avevano affermato altri prima di lui, i fenomeni osservati quotidianamente potevano essere spiegati altrettanto bene dalla rotazione quotidiana della Terra quanto da quella degli astri ma, alla fine, optò per la tesi più tradizionale, secondo cui erano gli astri a ruotare, concetto derivato più da una credenza generale che da una dimostrazione scientifica. Questo vago turbamento per l'idea della Terra al centro dell'Universo sembra essere più pertinente alla cosmologia che all'astronomia, nell'ottica della distinzione medievale tra le due materie; naturalmente però queste non possono essere totalmente separate una dall'altra, poiché al di fuori di un approccio astronomico matematico il problema della centralità della Terra non può essere neanche posto.
Per quasi tutto il Medioevo l'astronomia fu essenzialmente quella formulata da Tolomeo. Alcuni astronomi furono tentati di esplorare i sistemi alternativi ricavati dalle Ipotesi sui pianeti di Tolomeo grazie agli scritti di al-Biṭrūǧī. All'inizio del XVI sec. ci fu un certo recupero del sistema omocentrico, per esempio da parte di Amico e Fracastoro; molte delle loro teorie però erano derivate da Enrico di Langenstein, seguito a sua volta da alcune figure minori, come gli italiani Alessandro Achillini (1463-1512) e Celio Calcagnini di Ferrara (1479-1541). Per quanto i modelli omocentrici non fossero mai stati completamente dimenticati, e fossero spesso accompagnati da approfondite spiegazioni matematiche, quando si dovevano calcolare le posizioni dei pianeti essi non reggevano il confronto con i modelli di tipo tolemaico, alla base delle Tavole di Toledo e delle numerose versioni delle Tavole alfonsine, e fino a quando questa prevalenza fu netta, non poté esserci nessuna convergenza tra astronomia e cosmologia.
di Anne Tihon
A Bisanzio l'astronomia aveva due tipi di cultori: da una parte l'uomo di lettere colto, un erudito più o meno esperto di astronomia, dall'altra l'astrologo, spesso meno colto ma più legato alla pratica astronomica e più attento alla modernità delle tavole che utilizzava.
L'astronomia matematica bizantina si divideva essenzialmente in due correnti: da una parte la tradizione tolemaica, che non ha mai smesso di essere coltivata fino alla fine dell'Impero bizantino, dall'altra una tradizione più moderna, nata dall'adattamento di tavole astronomiche straniere, in particolare islamiche. Secondo quanto emerge dalla documentazione tramandata, l'osservazione era una pratica poco diffusa; infatti, sebbene alcuni imperatori offrissero il loro sostegno agli intellettuali o si circondassero di astrologi, il potere centrale a Bisanzio non garantì mai un sostegno ufficiale alla ricerca astronomica, come avveniva invece nel mondo islamico.
Le fonti relative a questa materia sono ancora oggi in gran parte inedite; oltre ai trattati, esistono numerosi documenti, come calcoli isolati, appunti, tavole non identificate, scolii anonimi e diagrammi, dei quali non è stato compilato alcun inventario; per questi motivi una valutazione della scienza dell'astronomia a Bisanzio non può che risultare del tutto provvisoria.
Da un punto di vista cronologico, si possono distinguere i seguenti periodi: (1) la fine dell'Antichità e gli inizi dell'Impero bizantino (V-VII sec.); (2) il periodo iconoclasta e il 'Primo Rinascimento' bizantino (VIII-X sec.); (3) l'XI sec. e l'Impero dei Comneni (XI-XIII sec.); (4) l'Impero latino (1204-1261), la Restaurazione e gli inizi del Rinascimento dei Paleologhi (1261 ca.-1350); (5) l'ultimo secolo dell'Impero (1350 ca.-1453).
La fine dell'Antichità e gli inizi dell'Impero bizantino
L'astronomia bizantina ebbe origine nelle scuole della fine dell'Antichità, in particolare in quelle di Alessandria d'Egitto, di Atene e della Siria, nelle quali si continuava a praticare l'insegnamento scientifico ereditato dall'epoca antica. Qui si commentavano gli antichi trattati scientifici, essenzialmente le opere di Tolomeo (principalmente la Syntaxis mathematica, o Almagesto, e le Tavole astronomiche manuali) o dei suoi commentatori, soprattutto Pappo, autore di un commentario all'Almagesto, e Teone di Alessandria, autore di un commento all'Almagesto e di due commenti alle Tavole astronomiche manuali (chiamati Grande commentario e Piccolo commentario). Numerosi erano i filosofi (Proclo, Marino, Ammonio di Alessandria, Eliodoro e altri) che insegnavano l'astronomia; Proclo, per esempio, scrisse un trattato intitolato Hypotyposis astronomicarum positionum in cui, oltre a descrivere numerosi strumenti scientifici, riassumeva il sistema astronomico di Tolomeo. Tuttavia, l'insegnamento si trasmise soprattutto attraverso un cospicuo corpus di scolii anonimi che accompagnavano le opere di Tolomeo nella tradizione manoscritta; tale materiale, trasmesso con cura religiosa dai copisti, fornì la base per gli studi astronomici degli eruditi bizantini.
Il regno di Giustiniano (527-565) non conobbe alcuna importante realizzazione in campo astronomico, salvo il Trattato sull'astrolabio (560 ca.) di Giovanni Filopono, redatto ad Alessandria d'Egitto. Dell'inizio del VII sec. è la prima opera astronomica bizantina, il Commentario alle Tavole astronomiche manuali di Stefano di Alessandria. Filosofo, medico, alchimista, astronomo e astrologo, egli fu uno degli ultimi sapienti della Scuola di Alessandria d'Egitto. Chiamato intorno all'anno 610 a Costantinopoli dall'imperatore Eraclio per dirigervi l''università', Stefano compose un piccolo manuale di astronomia sul modello del Piccolo commentario di Teone, dove forniva le istruzioni per l'uso delle Tavole astronomiche manuali di Tolomeo, e inseriva anche elementi più propriamente bizantini, come le tavole per il clima di Bisanzio e per il calcolo delle date della Pasqua. Sembra che alcuni capitoli di questo trattato, che figura in diversi manoscritti con il nome dell'imperatore Eraclio, siano stati composti dall'imperatore stesso. La fine del regno di Eraclio fu caratterizzata dalla conquista araba, con cui Bisanzio perse l'Egitto e la Siria, e fu seguita da un periodo di anarchia e guerra civile, poco favorevole al lavoro intellettuale.
Il periodo iconoclasta e il 'Primo Rinascimento' bizantino
Durante la crisi iconoclasta dell'VIII sec. non fu possibile la realizzazione di alcuna opera scientifica. Tuttavia, anche se a livello elementare, l'insegnamento scientifico continuò a sopravvivere, come testimonia l'opera di Giovanni Damasceno, che nel De fide orthodoxa offriva alcune nozioni di cosmologia e di astronomia. In questo periodo numerosi astrologi cristiani furono attivi in Oriente; tra questi, Stefano l'Astrologo (attivo nel 775 ca.), cui è attribuito un oroscopo della nascita dell'Islam, e Teofilo di Edessa (m. 785), astrologo al servizio del califfo al-Mahdī. Ciò significa che una certa pratica astronomica fu mantenuta, in particolare l'uso delle tavole per calcolare i temi astrali; non a caso, il più antico manoscritto delle Tavole astronomiche manuali di Tolomeo (Città del Vaticano, BAV, Vat. gr. 1291), in scrittura onciale, si daterebbe alla fine dell'VIII secolo.
Il IX sec. fu un periodo di rinascita artistica e intellettuale che si manifestò in particolare nella creazione di una nuova scrittura, la 'minuscola libraria', utilizzata per copiare le opere dell'Antichità in manoscritti di grande pregio; le opere scientifiche, come quelle di Tolomeo o Euclide, furono tra le prime a essere copiate. Durante i regni di Teofilo (829-842) e di Michele III (842-867) fu riorganizzato l'insegnamento superiore e furono istituite quattro cattedre: filosofia, geometria, astronomia, grammatica. Il più grande sapiente di questo periodo fu Leone il Matematico, detto anche Leone il Filosofo, la cui storia è stata oggetto di molti racconti più o meno leggendari; rinomato soprattutto per la sua abilità di astrologo, nonostante la fama risulta difficile dare un giudizio sul valore scientifico della sua opera basandosi esclusivamente sui documenti che ci sono pervenuti.
Il X sec. fu caratterizzato soprattutto dalle opere enciclopediche e dalla personalità dell'imperatore erudito Costantino VII Porfirogeneta (che regnò dal 913 al 959). I lavori astronomici prodotti furono pochi; non si è conservato nessun trattato astronomico risalente al IX o al X sec., con l'eccezione di una tavola stellare aggiornata all'anno 854 e alcuni calcoli di pianeti datati all'anno 906 e basati su metodi empirici tratti da Vezio Valente. È probabile che in questo periodo un'opera difficile come l'Almagesto non fosse né studiata né commentata.
L'XI sec. e l'Impero dei Comneni
Nell'XI sec. la vita intellettuale a Bisanzio conobbe un grande progresso, grazie soprattutto all'impulso offerto dal lavoro di Michele Psello (1018-1078) e dei suoi seguaci. Durante il regno di Costantino IX Monomaco (1042-1055) l'insegnamento superiore fu nuovamente riorganizzato e diviso in due scuole, quella di diritto e quella di filosofia; quest'ultima includeva tutte le materie scientifiche, tra le quali la geometria e l'astronomia, ed era posta sotto la direzione di un 'Console dei filosofi'.
Questo periodo fu particolarmente importante nella storia dell'astronomia bizantina; infatti, mentre la tradizione tolemaica fu rappresentata da una collezione di testi anonimi risalenti al 1007-1008, che offrivano istruzioni per l'uso delle Tavole astronomiche manuali, la tradizione islamica fece la sua prima comparsa nel mondo bizantino. Le testimonianze al riguardo sono numerose; alcuni scolii scritti in margine al manoscritto Vat. gr. 1594 dell'Almagesto, conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, menzionano osservazioni fatte all'epoca del califfo al-Ma᾽mūn grazie a un adattamento bizantino delle tavole di Alim, identificato con l'astronomo arabo Ibn al-A῾lam (m. 985). L'anonimo autore di questi scolii mostrava una buona conoscenza di Tolomeo e di Teone. Simone Set, astrologo e medico durante il regno di Alessio I Comneno (1081-1118), traduttore in greco delle favole arabe Kalīla wa Dimna, conosceva il valore arabo della precessione degli equinozi (1° in 66 anni) e mise a punto una piccola tavola stellare (BAV, Vat. gr. 1056), la cui fonte non è stata ancora identificata. Un manuale anonimo degli anni successivi al 1072, il cui manoscritto è conservato a Parigi (BN, gr. 2425), utilizzava trattati arabi importanti: il commento di Ibn al-Muṯannā ad al-Ḫwārazmī ‒ al quale si ispirava per i metodi di calcolo dell'eclissi solare ‒ e le tavole di Ḥabaš al-Ḥāsib al-Marwāzī, dalle quali riprendeva le funzioni trigonometriche seno e arcoseno. Infine, all'XI sec. risale l'unico astrolabio bizantino conservato, l'astrolabio di Brescia, datato 1062 ed eseguito per un certo Sergio, di origine persiana.
Durante il regno degli imperatori Comneni, Alessio, Giovanni e Manuele, si utilizzarono numerosi trattati islamici di astronomia e di astrologia, come testimoniano alcuni documenti scientifici di questo periodo, tra i quali, per esempio, un manoscritto (BAV, Vat. gr. 1056) contenente, fra numerosi testi astrologici di origine orientale, un trattato sull'astrolabio "di origine saracena" e alcune tavole stellari datate agli anni 1115-1116 e 1160-1161, tratte dallo Zīǧ al- Ḥākimī di Ibn Yūnus (m. 1009) e da Kūšyār ibn al-Labbān (attivo nel 1009 ca.). È evidente che in quest'epoca gli studiosi bizantini, grazie ai frequenti contatti con l'Egitto, avevano accesso ai trattati scientifici islamici più importanti; sebbene i documenti siano molto frammentari, il livello scientifico del materiale a disposizione doveva essere particolarmente elevato, come dimostra il fatto che in questi documenti si utilizzasse per Costantinopoli la latitudine esatta di 41°, mentre nei secc. XIV e XV si riprese a usare la latitudine inesatta di 43° indicata da Tolomeo.
L'Impero latino, la Restaurazione e gli inizi del Rinascimento dei Paleologhi
La corrente che s'ispirava alla scienza islamica s'interruppe in modo improvviso durante la quarta Crociata nel 1204 con la presa e il sacco di Costantinopoli da parte degli stessi Crociati. Il saccheggio della città provocò perdite irreparabili in campo artistico e intellettuale; l'Impero bizantino nel frattempo tentava di ricostituirsi a Nicea. Quando i Bizantini ripresero Costantinopoli nel 1261, l'enorme sforzo di restaurazione intellettuale che già aveva avuto inizio a Nicea s'intensificò; si ricominciò a copiare manoscritti servendosi di un supporto più economico della pergamena, vale a dire la carta, che iniziò a essere utilizzata su vasta scala; mentre i testi erano copiati, si cercava di correggerli collazionandoli su più manoscritti.
L'astronomia bizantina sembrava conoscere un periodo di nuovo sviluppo ma a Costantinopoli si erano persi del tutto i contatti con la scienza islamica; si disponeva ora solamente dell'opera di Tolomeo, del quale alcuni sapienti si sforzavano di ristabilire l'autorità. Alla fine del XIII sec. a Costantinopoli Teodoro Metochite (1270-1332) scrisse un'enorme Stoicheíõsis (Elementi), dove cercava di spiegare l'Almagesto e le Tavole astronomiche manuali in uno stile complesso, ridondante e privo di esempi pratici. A Salonicco Demetrio Triclinio scrisse un curioso trattato sulla Luna, le cui fasi e le cui macchie erano interpretate come lo specchio della geografia terrestre. Niceforo Gregora, allievo di Teodoro Metochite, per promuovere l'astronomia di Tolomeo introdusse l'usanza delle predizioni delle eclissi, che calcolava seguendo l'Almagesto e le Tavole astronomiche manuali (in particolare, l'eclisse di Sole del 16 luglio 1330, di cui ha lasciato il calcolo dettagliato, e le eclissi del 14 maggio 1333 e del 3 marzo 1337, che preannunciava nelle sue lettere). Egli arrivò a sfidare i suoi avversari a compiere le medesime predizioni; questa sfida fu raccolta dal rivale Barlaam Calabro di Seminara, che pubblicò i calcoli delle eclissi del 1333 e del 1337 effettuati in base all'Almagesto. Le predizioni di eclissi furono effettuate anche da Nicola Rhabdas, che annunciò un'eclisse di Luna nel 1334. Nel tempo, i manoscritti astronomici si moltiplicarono, accompagnati da numerosi scoli, note e calcoli.
L'invasione dei Mongoli provocò in Oriente enormi sconvolgimenti; il nipote di Genghiz Khān, Hūlāgū, si stabilì in Persia, dove fondò il famoso Osservatorio di Marāghā, diretto da Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī. Grazie all'impulso dato da questo grande astronomo, l'osservatorio conobbe un'intensa attività scientifica e la sua fama attirò sapienti provenienti da ogni parte, tra i quali Gregorio Chioniade, di cui conosciamo la storia grazie alla prefazione alla Syntaxis persiana di Giorgio Crisococce (1321?-prima del 1366):
Un tempo, quando io stesso, come tu ben sai, mio carissimo Giovanni, mi applicavo allo studio di quel manuale di tavole persiane, servendomi come maestro di un prete di nome Manuele originario della città di Trebisonda, tu, che eri spesso in mia compagnia, traevi piacere dai nostri discorsi. Non sopportando di restare estraneo alla comprensione di queste materie, tu ti sei applicato a questo studio e mi hai esortato a esporre metodicamente, con esempi, ciò che era detto. Ascoltami dunque illustrare i metodi semplici e ricordare, per quanto è possibile, le parole del maestro. Innanzi tutto si deve ricordare come dalla Persia questa Syntaxis sia stata portata e tradotta in lingua greca. Egli [Manuele] dunque diceva che un certo Chioniade, educato a Costantinopoli e giunto alla comprensione di ogni scienza, si appassionò anche al linguaggio di un'altra scienza, grazie alla quale avrebbe acquisito la saggezza e praticato in modo rigoroso la medicina. Siccome aveva sentito dire da alcuni che se non fosse andato in Persia non avrebbe realizzato il proprio desiderio, lasciando ogni cosa partì al più presto. Giunto, nel corso del suo viaggio, a Trebisonda, frequentò assiduamente il Grande Comneno [Alessio II, che regnò dal 1297 al 1330]; gli espose poi le sue intenzioni e fu ritenuto degno di grande interesse; ricevette quindi da lui una buona somma di denaro e se ne andò in Persia. In breve tempo apprese la lingua dei Persiani, fu ricevuto dal loro re e trovò benevolenza presso di lui. Quando volle studiare l'astronomia non trovò alcun insegnante, poiché la legge in Persia permetteva a chiunque lo volesse di imparare qualsiasi scienza, tranne l'astronomia, che poteva essere insegnata soltanto ai Persiani. Egli ne chiese la ragione e apprese che era ancora diffusa presso di loro una vecchia leggenda, secondo la quale il regno sarebbe stato distrutto dai Romani servendosi dell'arte dell'astronomia, se ne avessero prima ricevuto le basi dai Persiani stessi; egli quindi si domandava come avrebbe mai potuto condividere un tale bene. Alla fine, comunque, avendo molto penato e ben servito il re dei Persiani, ottenne faticosamente ciò che desiderava. Infatti, grazie a un decreto reale, ricevuto da alcuni maestri, Chioniade divenne importante in Persia e fu ritenuto degno di onori reali. Dopo aver accumulato ingenti ricchezze e acquistato numerosi servitori, ritornò a Trebisonda con molti libri di astronomia e, traducendoli in greco con il senso che più si addiceva, compì un lavoro degno di memoria. Egli, inoltre, tradusse in greco anche altri libri della Syntaxis dei Persiani, che recano all'inizio alcuni esempi metodici di posizioni (epochõn); però questa Syntaxis ‒ da lui trasmessa come la migliore e la più corretta di tutte, a quel che diceva il nostro maestro (e sembra che sia la verità) ‒ fu l'unica che tradusse senza spiegazioni, avendola ricevuta così dai Persiani, spiegata soltanto a voce. In tal modo dunque è stata portata questa Syntaxis, che è detta 'facile' (prócheiros). (BAV, Vat. gr. 210, f. 8)
Secondo il racconto, dunque, Chioniade, desideroso d'imparare l'astronomia, grazie all'appoggio del Grande Comneno di Trebisonda, si recò in Persia, per poi tornare a Trebisonda e a Costantinopoli con alcuni trattati persiani, che subito tradusse in greco. Tra i documenti risalenti a questo periodo, si è conservato un corpus di trattati tradotti in greco tra il 1293 e il 1302: lo Zīǧ al-Sanǧarī di al-Ḫāzinī (1120 ca.), lo Zīǧ al-῾Alā᾽ī di al-Fahhād (1176 ca.), traduzioni o adattamenti che provengono molto verosimilmente da Chioniade o dai suoi collaboratori. A questo corpus si deve ricollegare anche un trattato sull'astrolabio di 'Siamps il Persiano', conservato in un gran numero di manoscritti (BAV, Vat. gr. 210; Venezia, Biblioteca Marciana, gr. 309 e altri), che contiene una dedica all'imperatore Andronico Paleologo, probabilmente Andronico II (1258-1332). Essendo scritte in un greco con molti 'barbarismi' e con i termini tecnici arabi semplicemente traslitterati in caratteri greci e non tradotti, queste traduzioni risultarono però quasi inutilizzabili per un lettore bizantino non esperto, e di conseguenza ebbero poco successo.
Secondo il racconto di Crisococce, Chioniade lasciò i suoi libri a un prete di Trebisonda chiamato Manuele, che è stato talvolta identificato, ma senza prove certe, con Manuele Briennio, insegnante di astronomia di Teodoro Metochite. Il prete Manuele potrebbe essere l'autore delle effemeridi composte a Trebisonda per l'anno 1336-1337, un documento, unico nel suo genere, contenente le posizioni del Sole, della Luna e dei pianeti ogni dieci giorni dal 1° marzo 1336 al 1° marzo 1337, calcolate in relazione a Trebisonda, probabilmente con l'aiuto di due raccolte di tavole astronomiche, lo Zīǧ -i īlḫânî di Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī e il prima citato Zīǧ al-῾Alā᾽ī. A fronte sono tracciati gli aspetti astrologici e ai margini si trovano alcune predizioni astrologiche molto pittoresche, che costituiscono una fonte unica di informazione per la storia e la vita economica e sociale di Trebisonda all'inizio del XIV secolo. Manuele ebbe come allievo Giorgio Crisococce, autore della Syntaxis persiana risalente agli anni successivi al 1347, un adattamento maldestro e pieno di errori dello Zīǧ -i īlḫânî di al-Ṭūsī, che tuttavia ebbe un successo enorme. Merito di Crisococce fu comunque l'aver spiegato chiaramente i metodi astronomici persiani utilizzando esempi e fornendo per i termini tecnici un equivalente greco intelligibile. Sebbene il suo trattato fosse fortemente caratterizzato dall'astrologia, tuttavia l'autore, alla fine della sua opera, si giustificava riaffermando la propria fede cristiana per cui gli astri non avevano potere in sé stessi ma derivavano la loro forza da Dio.
Il panorama delle attività astronomiche bizantine di questo periodo non è completo se non si tiene in considerazione anche l'isola di Cipro, benché essa non facesse propriamente parte dell'Impero bizantino. Nella prima metà del XIV sec. Cipro, sotto il regno dei Lusignano, divenne un crocevia fra l'Oriente e l'Occidente; qui infatti intorno al 1337 furono adattate in greco le Tavole di Toledo, forse per opera di Giorgio Lapita, un erudito che fu in corrispondenza con Niceforo Gregora. Queste sono conservate in un manoscritto (BAV, Vat. gr. 212) che contiene anche un lungo trattato sull'astrolabio, basato su alcune fonti occidentali. Intorno al 1347 anche un trattato di astronomia persiana, basato sulla Syntaxis di Crisococce, fu adattato appositamente per Cipro.
L'ultimo secolo dell'Impero
Durante la seconda metà del sec. XIV riemersero nell'astronomia bizantina due correnti: quella tolemaica e quella persiana, che in alcuni casi si contrapposero e in altri si completarono; gli orizzonti degli astronomi bizantini si allargarono grazie alla comparsa di adattamenti delle tavole latine e, soprattutto, di quelle ebraiche. Qualche anno dopo l'apparizione della Syntaxis persiana di Crisococce, intorno al 1352, Teodoro Meliteniota, direttore della scuola patriarcale, scrisse una grande opera, la Tribiblos astronomica. Il Libro I è dedicato alle operazioni aritmetiche, tradizionalmente considerate come un'introduzione all'astronomia (v. cap. XIX, par. 3), e all'astrolabio, di cui sono illustrate dettagliatamente la costruzione e le istruzioni per l'uso; il Libro II contiene le istruzioni per l'uso delle tavole dell'Almagesto e delle Tavole astronomiche manuali, con alcuni esempi riferiti al 25 dicembre 1352; il Libro III tratta dell'astronomia persiana. È chiaro che Meliteniota aveva accesso a fonti diverse da quelle di Crisococce, tanto che il suo adattamento segnò un certo progresso rispetto a quest'ultimo; mentre Crisococce aveva utilizzato la longitudine di Costantinopoli calcolata a partire dalle Isole Canarie (56°), Meliteniota corresse quest'errore usando la longitudine adeguata di 50°. Benché abbia utilizzato entrambi i tipi di tavole ‒ quelle di Tolomeo e quelle persiane ‒ per esempi riferiti alla stessa data, Meliteniota non stabilì alcuna comparazione esplicita fra esse; tuttavia, alla fine del Libro II, spiegava diffusamente che le tavole di Tolomeo erano da considerare superate per il tempo trascorso dalla loro compilazione, e che contenevano alcuni errori. Meliteniota, nell'introduzione al Libro I, tracciando brevemente la storia dell'astronomia, si lanciava in una violenta diatriba contro l'astrologia; in questo modo egli conferì pieno diritto di cittadinanza all'astronomia negli ambienti ecclesiastici, in particolare all'astronomia persiana (che in Crisococce era intimamente legata all'astrologia), al punto che l'astronomia matematica divenne, soprattutto nel XV sec., una scienza praticata da numerosi dignitari della Chiesa ortodossa.
Pur essendo considerate superate, le tavole di Tolomeo non furono abbandonate. Il perdurare del loro successo si spiega soprattutto in quanto esse erano molto più semplici da utilizzare, rispetto alle tavole persiane, per il calcolo delle sizigie, e quindi della data della Pasqua, che costituiva un interesse prioritario per gli astronomi bizantini. Seppure così antiche, le tavole di Tolomeo davano ancora buoni risultati per quanto concerneva l'ora di una sizigia (le longitudini, al contrario, erano inesatte), mentre le tavole persiane, a causa dei numerosi errori nelle istruzioni per l'uso diffuse da Crisococce, non sempre davano un risultato migliore. Per questo succedeva spesso che gli astronomi provassero entrambi i metodi o tentassero di combinarli. Continuatore di Tolomeo, Isacco Argiro adattò in relazione a Costantinopoli e al calendario giuliano le tavole delle sizigie dell'Almagesto e le Tavole astronomiche manuali del Sole e della Luna, a partire dall'anno 1367-1368. Queste tavole, dette 'nuove', o 'romane', non modificarono i parametri di Tolomeo ma evitarono fastidiose conversioni di calendario, e per questo conobbero una discreta diffusione. Isacco Argiro fu anche autore di altre brevi opere astronomiche: alcuni trattati sui cicli lunari e solari, uno sull'astrolabio e un altro sulla data della Pasqua.
Alla fine del XIV sec., subito dopo il 1380, un gruppo di astronomi-astrologi ‒ tra i quali Giovanni Abramio, Deme-trio Cloro, Eleuterio Elio e alcuni allievi di quest'ultimo ‒ svolse un'intensa attività astronomica a Costantinopoli e a Mitilene; conosciamo un insieme di testi tramandati anonimi, in cui l'autore, forse Giovanni Abramio, suggeriva alcuni metodi, poco chiari e inefficaci, per correggere le tavole di Tolomeo. Questa scuola ha lasciato alcune liste di eclissi, calcolate sia secondo le tavole tolemaiche sia secondo quelle persiane; dallo stesso gruppo potrebbe derivare un trattato su un astrolabio armillare di origine islamica. Tra gli anni 1409 e 1415 un prolifico copista, Giovanni Cortasmeno, riempì vari manoscritti di note, calcoli e trattati astronomici illustrati con nuovi esempi; fra i calcoli da lui lasciati figurano quelli di eclissi, i cui risultati sono di una precisione sorprendente (15 aprile 1409) e contrastano con i molti errori riscontrabili nelle operazioni. Cortasmeno utilizzò sia le tavole persiane sia quelle di Tolomeo (o di Isacco Argiro), ma spesso corresse i risultati ottenuti da Tolomeo usando le tavole persiane, o aggiungendo arbitrariamente 6° alle longitudini indicate da Tolomeo. Le tavole persiane, così come sono state trasmesse da Crisococce e Meliteniota, furono ampiamente usate fino alla fine dell'Impero bizantino; di esse si ritrovano vari adattamenti e molte copie nei manoscritti, in particolare quelle di Matteo Paleologo che seguivano il calendario romano, stabilite in relazione al 1° marzo 1436 e a una longitudine di 57°, e quelle latine di Demetrio Crisolora, adattamento delle Tavole alfonsine per Costantinopoli. Nel XV sec. a Costantinopoli tre opere astronomiche ebraiche furono oggetto di un adattamento bizantino: (1) Shesh Kenaphayim (Esapterigio; 1365 ca.) di Immanuel ben Jacob Bonfils di Tarascona, tradotto da Michele Crisococce (1434/1435 ca.); (2) Cicli (1361 ca.) di Bonjorn (Ya᾽aqōb ben Dāwīd Yōm ṭōb), adattati da Marco Eugenico (1448 ca.); (3) Orah Selulah (Sentiero spianato) di Isaac ben Salomon ben Zaddiq Alhadib (1370-1426 ca.), tradotto da Matteo Camariote prima del 1490. L'astronomia ebraica sembra avere esercitato un'influenza notevole anche su Giorgio Gemisto Pletone, autore di un manuale e di alcune tavole per l'anno 1433. L'astronomia di Pletone presentava caratteri particolarmente originali, in quanto era concepita per un calendario lunare che cominciava con il solstizio d'inverno, ossia un calendario che doveva restaurare la misura del tempo dell'Antichità greco-romana. Di conseguenza egli adoperava una terminologia arcaica e periodi di 497 anni. Il suo punto di partenza era il 13 dicembre 1433, data in cui il solstizio di inverno coincideva con una Luna nuova, e le sue tavole erano realizzate in base alla longitudine di Mistra (nel Peloponneso). La dottrina astronomica di Pletone, contenuta nel suo Manuale d'astronomia, portava l'impronta della sua personalità fuori dal comune; pur concepita in modo molto intelligente, essa mancava però di coerenza interna (vi figuravano contemporaneamente tavole ricavate da parametri differenti), fondendo insieme elementi vecchi e nuovi. Per quel che ne sappiamo, si tratta del solo trattato bizantino che rappresenti più di un semplice adattamento di Tolomeo o di tavole straniere.
Nel XV sec. molti furono gli appassionati di astronomia, fra i quali Bessarione e Isidoro di Russia, come testimoniano le note astronomiche e i calcoli sparsi nei manoscritti delle loro opere. Le attività astronomiche non si arrestarono con la caduta di Bisanzio nel 1453; esistono, per esempio, alcune effemeridi per l'anno 1481 (nel ms. gr. 2180 conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi), sul modello dell'Almanacco di Arzachel (al-Zarqalī). Nel mondo bizantino i trattati sulle tavole persiane o sulle tavole ebraiche continuarono a essere studiati nel XVI sec. e oltre. I trattati bizantini sugli strumenti, soprattutto sull'astrolabio piano, costituiscono poi una categoria a parte; sono stati già menzionati quelli di Giovanni Filopono, di Siamps il Persiano, di Niceforo Gregora, di Teodoro Meliteniota (nel Libro I della sua Tribiblos), di Isacco Argiro. Si devono ricordare ancora, in modo particolare, un trattato anonimo di origine arabo-latina, forse del XIII sec., una traduzione greca del trattato latino dello Pseudo-Māšā᾽Allāh datata 1309 (nel ms. Cromwell 12 conservato nella Bodleian Library di Oxford) e un trattato anonimo riferito a Rodi che s'ispira a Niceforo Gregora. Un astrolabio armillare costituisce l'oggetto di un trattato anonimo risalente agli anni intorno al 1380; esiste poi una versione greca del trattato sul quadrante, probabilmente di Giovanni di Montpellier, databile al XV sec., e un breve testo su un orologio persiano, conservato a Parigi (BN, gr. 985), forse della fine del XIV secolo.
di Graziella Federici Vescovini
Come già nell'epoca precedente, nel Medioevo i termini astrologia e astronomia furono usati indifferentemente e con una grande varietà di significati; soltanto molto tardi (diciamo nel XVII sec.) l'astronomia in quanto scienza teoretico-speculativa che studia il movimento e la natura dei corpi celesti, fu distinta dall'astrologia come disciplina pratica che si occupa di fare previsioni attraverso gli astri. Tra la fine del XIII e gli inizi del XIV sec., Pietro d'Abano elaborò una particolare concezione della scienza che comprendeva astrologia e medicina; in questo modo divenne possibile stabilire un nesso strettissimo tra l'astronomia e l'astrologia, in quanto scienze teorico-pratiche di matrice tolemaica, distinguendole sia dalla concezione aristotelica della scienza ‒ necessaria e contemplativa ‒ sia dal fatalismo cosmico degli Stoici.
Per parlare dell'astrologia medievale è necessario prendere in considerazione una serie di interpretazioni storiografiche influenzate, da un lato, dalla polemica sull'astrologia e, dall'altro, dal consolidarsi di una teoria della scienza intesa come 'scienza delle cause', propria della metafisica aristotelica. Generalmente si tratta di posizioni storiografiche fondate su una conoscenza generica o troppo settoriale dei testi, soprattutto di quelli di astrologia araba, latina ed ebraica. Una di queste interpretazioni (per es., la tesi di Carl Gustav Jung) è riconducibile all'opinione secondo la quale l'astrologia medievale ha rappresentato la summa di tutte le conoscenze psicologiche dell'Antichità e ha svolto la funzione storica di secolarizzare le antiche divinità pagane, trasformandole in semplici attributi umani (il marziale, il gioviale, il saturnino, il venusiano, il lunatico, ecc.). In base a un'altra interpretazione, invece, l'astrologia ha rappresentato un sapere cosmologico prelogico e irrazionale, e ha preparato il terreno all'astronomia come scienza razionale, così come l'alchimia è stata il prodromo della chimica.
In realtà, è necessario distinguere tra una storia esterna dell'astrologia medievale, che individua i nessi con la religione, la magia, la filosofia, la matematica e la medicina, e una storia interna, ricavata dai testi latini medievali, che prende in esame le procedure descritte nelle stesse opere, finora non sufficientemente ed esaurientemente studiate, ricostruendo il modo in cui esse si sono storicamente configurate nell'Occidente latino medievale anche in conseguenza della trasmissione cronologica delle opere arabe più importanti. In tal senso sarà possibile stabilire se l'astrologia fosse considerata una scienza o un'arte (o entrambe le cose), e in quale relazione fosse con le altre scienze, quelle 'liberali' (come la cosmologia, o anche l'astronomia, la matematica e la fisica) e quelle 'meccaniche' (la medicina, l'agronomia, la nautica, l'astrometeorologia e altre).
Finora la storia dell'astrologia è stata ricondotta entro i confini della storia delle idee e i motivi astrologici, desunti dalle teorie del cielo e dei pianeti, sono stati inseriti entro il contesto delle concezioni cosmologiche. Di volta in volta, questa disciplina è stata collegata alla cosmologia di Aristotele, a quella stoica fatalista (Posidonio, Alessandro di Afrodisia) o a quella animistica di Plotino. In questo modo, da un lato l'astrologia è stata intesa come sapere tecnico ben strutturato, con forti implicazioni matematiche e, dall'altro lato, le immagini che di essa si sono venute costruendo nell'arco della storia della filosofia e della scienza, sono divenute visioni del mondo. A tutto ciò bisogna aggiungere che, in quanto cosmologia, l'astrologia presupponeva anche una teologia ‒ o almeno una connessione tra ordine necessario, provvidenza divina e destino ‒ sulla cui base si sono sviluppate le diverse tecniche di divinazione.
Mentre la storia dell'astrologia antica, grazie agli studi condotti agli inizi del XX sec., è ormai abbastanza conosciuta nelle sue linee essenziali, soprattutto per la tradizione ellenistica ed ermetica, per quanto riguarda la storia dell'astrologia medievale il discorso si fa più difficile e complesso.
Le fonti greco-arabe
Un'analisi dei rapporti tra l'astrologia medievale e l'astronomia classica comporta innanzi tutto l'esame delle novità introdotte dalla traduzione dall'arabo dell'Almagesto e della Tetrabiblos di Tolomeo; un discorso a parte merita invece il Centiloquium, opera non interamente tolemaica, perché da essa si sviluppò la medicina astrologica. In realtà, a ben guardare, tutta l'astrologia medievale, sia araba sia latina o ebraica, non fu altro che un commento a queste due opere di Tolomeo, il più delle volte largamente reinterpretate secondo le diverse fedi religiose e le differenti concezioni cosmologiche, soprattutto per opera di compilatori e commentatori arabi o ebrei. Non a caso l'astrologia latina derivava essenzialmente dal sapere arabo medievale, unico veicolo della conoscenza di Tolomeo.
Tuttavia, anche tra i testi arabi occorre operare alcune distinzioni in base all'ispirazione religiosa su cui si basavano e alle fonti antiche alle quali si richiamavano. In alcuni prevaleva la tradizione orientale (persiana, egiziana, babilonese o ermetica) che accentuava l'importanza delle grandi rivoluzioni planetarie o cosmiche e l'influenza delle divinità decaniche, e si serviva di una particolare tecnica detta delle electiones e interrogationes, che consisteva in alcune procedure di invocazione degli spiriti dei pianeti tramite immagini e sigilli. Altri ponevano l'accento sull'astrologia planetaria oroscopica delle 'natività' individuali di Tolomeo, interpretate da Omar Tiberiade, Alì Rodoan (῾Alī ibn Riḍwān), al-Farġānī e altri. Una posizione a sé occupavano invece i testi di Māšā᾽Allāh e dei suoi seguaci, gli astrologi ebrei Savasorda e Abrāhām ibn ῾Ezrā, i quali avevano operato un sincretismo astrologico che nel mondo latino fu alla base di trattati sulle rivoluzioni mondiali o sull'astrologia universale, come quelli di Giovanni di Aschenden, di Pietro d'Ailly o di Biagio Pelacani da Parma.
Centrale per l'elaborazione dell'astrologia medievale fu anche l'opera di al-Kindī e di Abū Ma῾šar (sulla dottrina di Abū Ma῾šar e su quella di Māšā᾽Allāh e al-Kindī è ancora in atto una discussione tra gli studiosi). Sul piano generale, si può affermare che Abū Ma῾šar trasformò l'impianto originale della concezione astronomica e astrologica di Tolomeo immettendovi problematiche religiose islamiche, dottrine aristoteliche, neoplatoniche e stoiche; sul piano più strettamente tecnico, egli introdusse elementi babilonesi, egizi e persiani costruendo la cosiddetta sfera 'barbarica' medievale (una contaminazione tra la sfera greca di Tolomeo e quella proveniente dalla tradizione orientale). Le due traduzioni latine dell'opera di Abū Ma῾šar compiute nel XII sec., a opera di Giovanni di Siviglia e di Ermanno di Carinzia, influenzarono profondamente la cultura latina con la loro diversa terminologia; infatti, gli astronomi medievali cristiani contaminarono il genuino pensiero di Tolomeo con quello di Abū Ma῾šar e di Aristotele, attribuendo maggiore importanza alle grandi congiunzioni, vale a dire alle rivoluzioni mondiali, come voleva Abū Ma῾šar, rispetto agli aspetti dei pianeti veloci negli oroscopi individuali, cui invece si era dedicato Tolomeo.
La comprensione delle pagine della Tetrabiblos, unitamente a quelle del prologo dell'Almagesto, poneva una serie di problemi agli esegeti medievali. In queste pagine Tolomeo aveva classificato le scienze matematiche, fra le quali rientravano l'astronomia e l'astrologia, situandole tra le scienze speculative o teoretiche e conferendo loro un carattere di superiorità sia rispetto alla teologia sia rispetto alla fisica, in base al loro grado di certezza. Un valore di assoluta certezza era attribuito al carattere matematico delle procedure astrologiche, le quali fornivano il fondamento razionale su cui si costruiva l'oroscopo, dal quale derivava il significato e il valore di verità del pronostico. Una delle principali procedure dell'astrologia consiste nell'individuazione degli 'aspetti', ossia delle distanze angolari tra i pianeti (tenendo presente che lo Zodiaco è rappresentato da un cerchio, i pianeti collocati su questo cerchio sono separati l'uno dall'altro da un arco misurabile in gradi; quando l'arco corrisponde a un'ampiezza stabilita, si dice che i pianeti 'sono in aspetto'). Le distanze angolari da prendere in considerazione sono la congiunzione (distanza di 0°), il sestile (60°), il quadrato (90°), il trigono (120°) e l'opposizione (180°).
Quella che i medievali chiamavano 'astrologia', intesa come scienza dei 'giudizi', aveva nella Tetrabiblos di Tolomeo il carattere di una disciplina operativa, che rientrava nell'ambito dell'astronomia, capace di prevedere con probabilità, ma non con certezza, gli eventi terreni, ossia il contingente. Da qui le critiche lungo tutto il Medioevo, fino a Giovanni Pico della Mirandola, da parte di quanti ritenevano che si potesse avere scienza solamente del necessario e non del contingente. Se infatti l'astrologia era scienza probabile, in quanto aveva per subiectum la materia instabile dei quattro elementi nelle loro combinazioni qualitative, essa era da rifiutare come mendace e fallax; qualora invece essa fosse scienza necessaria, sarebbe stata egualmente da scartare in quanto negazione del libero arbitrio.
Gli spartiacque cronologici
Fra i testi astrologici arabi ed ebrei diffusi nelle traduzioni latine c'erano le opere di Tolomeo nei riassunti di al-Farġānī e al-Battānī, e nel commento di ῾Alī quando cominciarono a circolare la Theorica planetarum Gerardi e l'Epitome totius astrologiae di Giovanni di Siviglia. Da queste opere emerge un uso indistinto del termine astrologia o astronomia, senza alcuna distinzione tra scienza teorica e scienza pratica. In nessun manuale di astrologia latina si trova un esempio così rilevante di questa confusione terminologica come nell'opera di Michele Scoto Introductorium maius in astronomiam, che oscilla tra il modello dell'astronomia fabulosa e narrativa propria delle compilazioni del XII sec. e quello dell'astronomia razionale che si affermò in seguito. La stessa confusione terminologica tra astronomia e astrologia, tra scienza speculativa e scienza pratica, ancora nel XIII sec. caratterizzava i grandi manuali di introduzione all'astrologia medievale, come quello di Guido Bonatti e quello di Bartolomeo da Parma.
Nella seconda metà del XIII sec. e agli inizi del secolo successivo si ebbe tuttavia una svolta radicale nella confusa interpretazione dei testi di Tolomeo, l'Almagesto e la Tetrabiblos, grazie all'opera di Ruggero Bacone, al Conciliator differentiarum medicorum et philosophorum e al Lucidator dubitabilium astronomiae di Pietro d'Abano e allo Speculum astronomiae di Alberto Magno. Ruggero Bacone fu il primo a distinguere tra l'astronomia come scienza dei corpi celesti, o astrologia matematica, e le scienze divinatorie o mantiche, collegate invece alla magia. Con Pietro d'Abano nacque l'astrologia naturale grazie a un ritorno alle teorie di Tolomeo, espunto dalle interpretazioni magico-ermetiche della divinazione astrologica e della fatalità astrale. I termini astronomia, astrologia, matematica, fisica, furono ricondotti a una dottrina della classificazione delle artes 'liberali' e in particolare della scienza come teorico-pratica; seguendo le orme di Tolomeo, Pietro d'Abano cercò di giustificare l'astrologia non come una scienza necessaria, ma come una scienza de futuris contingentibus.
Alla fine del XIII e agli inizi del XIV sec. l'astrologia si configurava da un lato come scienza dei giudizi, mentre dall'altro lato, in quanto scienza della causalità del cielo e dei pianeti, era fatta rientrare nella cosmologia di Aristotele, in accordo con l'interpretazione di Averroè. Così fece tra i Latini l'averroista bolognese Taddeo da Parma, mentre fra i teologi Tommaso d'Aquino l'adattò a una visione cosmologica aristotelica di stampo cristiano; secondo Tommaso, infatti, l'astrologia come scienza divinatoria era superstiziosa e, in quanto tale, da condannare, mentre come dottrina della causalità strumentale e seconda dei cieli era ammessa fra le scienze fisico-naturali, in connessione con la medicina e la meteorologia.
In questo periodo furono riprese con più chiarezza anche le distinzioni operate da Isidoro di Siviglia, Ugo di San Vittore e Roberto Kilwardby. Ugo di San Vittore distingueva nettamente l'astronomia (astronomia lege astrorum nomen sumpsit, l'astronomia ha preso tale nome dalla legge degli astri) dall'astrologia naturale, che, diversamente da Isidoro, egli faceva coincidere in parte con la medicina, in parte con la superstizione. Questa distinzione non comparve fra gli astronomi arabi fino ad al-Bīrūnī, che fu il primo a distinguere tra l'astronomia come scienza matematica e l'astrologia come ars iudiciorum stellarum. Nel XIII sec. anche Roberto Kilwardby, nel suo De ortu scientiarum, operò una distinzione tra le scienze umane, tra le quali collocò anche l'astronomia, e le scienze divine.
Alla fine del XIV e agli inizi del XV sec. l'astrologia, grazie al contributo offerto dalla fisica di Biagio Pelacani da Parma, divenne una scienza fisica di carattere matematico capace di prevedere il contingente e quelle trasformazioni della materia prima rette dai moti planetari del firmamento, spiegati matematicamente; così, l'astrologia fu ricondotta nell'ambito di una cosmologia materialista, in cui gli astri inclinavano, ma non necessitavano perché la materia con le sue disposizioni qualitative era "concausa" degli effetti terreni. Fu Biagio a elaborare l'idea di un materialismo astrologico che si ritroverà ancora chiaramente formulato negli scritti di Giulio Cesare Vanini, tra il XVI e il XVII sec., come dottrina della generazione spontanea della materia e delle forme superiori (come l'anima intellettiva umana).
All'interno della tradizione astrologica medievale è necessario indicare anche l'apporto offerto dall'astrologia magico-necromantica della tradizione ermetica grazie alla circolazione delle differenti compilazioni dei molteplici Liber imaginum: il Liber de 15 stellarum, lapidum herbarumque imaginibus; il Liber imaginum planetarum, ossia dei pianeti Mercurio, Marte, Giove, Saturno, Venere con i due pianeti luminari Luna e Sole, la cui tradizione risaliva al sabeo Ṯābit ibn Qurra (Liber imaginum septem planetarum); il Liber Hermetis sex principiorum; il Liber Hermetis dei trentasei decani, il Liber Hermetis delle trecentosessantasei immagini dei segni, il Centiloquium Hermetis. Poiché questa tradizione astrologico-ermetica riteneva che le costellazioni o i pianeti fossero entità divine, le cui immagini imprigionavano la forza superiore, la trasmettevano all'inferiore e avevano virtù terapeutiche, a essa fu connessa una concezione magico-astrologica della medicina. Nell'ambito dell'astrologia magica si collocavano anche le opere di alcuni medici-astrologi bolognesi degli inizi del XIV sec., in particolare Cecco d'Ascoli e Antonio da Montolmo, che per la radicalità delle loro dottrine magico-necromantiche costituirono un esempio a sé; a questi inoltre bisogna aggiungere l'opera di Arnaldo da Villanova e il Picatrix.
La trasmissione dell'opera di Tolomeo
Quando nel XII sec. comparvero le prime traduzioni toledane dei testi di astronomia di Tolomeo e dei suoi compilatori arabi, i dotti latini poterono leggere prima di tutto l'Almagesto e la Tetrabiblos nelle compilazioni di al-Battānī (834-901 ca.) e di al-Farġānī, oltre all'opera sul moto dell'ottava sfera di Ṯābit ibn Qurra (o almeno a lui attribuita dai Latini). Soltanto successivamente ebbero a disposizione il commento del misterioso ῾Alī, identificato da alcuni con ῾Alī ibn Riḍwān (m. 1068 ca.), da altri con Ametus Yūsuf.
L'opera di al-Battānī, tradotta da Platone di Tivoli con il titolo De scientia stellarum et motibus, ha costituito una prima esplorazione importante dell'Almagesto di Tolomeo. Tuttavia, i Latini hanno conosciuto e utilizzato largamente anche la compilazione di al-Farġānī intitolata Liber de aggregationibus stellarum et principiis celestium motuum, tradotta prima in latino ‒ da Gherardo da Cremona ‒ e poi in ebraico. Oltre a queste compilazioni, i Latini furono in possesso anche del De motu octavae sphaerae attribuito a Ṯābit ibn Qurra, di cui restarono tracce nelle opere di noti astronomi latini come Pietro d'Abano. Queste compilazioni dell'Almagesto, oltre a presentare una ricostruzione semplificata dell'eclittica, della sfera del firmamento (con la Terra al centro) e dello Zodiaco, con i segni, i pianeti e le costellazioni secondo il catalogo di Tolomeo rivisto da al-Battānī, introducevano anche le definizioni dei circoli eccentrici ed epiciclici con l'equante per la determinazione del moto medio dei pianeti, tutte nozioni necessarie per la ricostruzione del cielo di nascita da cui ricavare la previsione astrologica.
I dotti latini del XII sec. si trovarono smarriti di fronte alle difficoltà di questi testi; ebbero, così, largo successo, quali opere più agevoli, la Theorica planetarum Gerardi (metà o fine sec. XII) e l'Epitome totius astrologiae di Giovanni di Siviglia. Soltanto successivamente, agli inizi del XIII sec., Giovanni di Sacrobosco redasse una compilazione scolastica dell'astronomia di Tolomeo, dal titolo De sphaera mundi. Quest'opera, diversamente dalla Theorica planetarum Gerardi, non insegnava a equare i pianeti, cioè a determinare il loro moto medio, ma offriva le nozioni primarie per la rappresentazione delle sfere celeste e terrestre. Per questo motivo il De sphaera mundi e la Theorica planetarum Gerardi costituivano due opere complementari che diedero luogo a due differenti serie di commenti da parte dei dotti latini nei secc. XIII, XIV e XV. Come apprendiamo dalla testimonianza di Pietro d'Abano, per Tolomeo e al-Farġānī i cieli erano soltanto otto; l'introduzione del primo mobile o nona sfera è stata attribuita all'opera di Ibn al-Hayṯam, detto Alhazen, e ad altre compilazioni della fine del XII sec. e degli inizi del XIII, e questa nona sfera era presente anche nell'opera di Giovanni di Sacrobosco. La Theorica planetarum Gerardi, il Liber de aggregatione di al-Farġānī, il De sphaera mundi di Giovanni di Sacrobosco, unitamente al De motu octavae sphaerae di Ṯābit ibn Qurra, costituivano i manuali latino-arabi nei quali era letta l'astronomia dell'Almagesto di Tolomeo e che fornivano conoscenze indispensabili agli astrologi.
Dobbiamo a Thorndike l'edizione di alcuni commenti al De sphaera, tra cui un testo del XIII sec. che dimostra la circolazione della Tetrabiblos fra gli astronomi latini grazie alla mediazione delle traduzioni dell'Introductorium maius di Abū Ma῾šar e del commento di ῾Alī nella traduzione di Egidio de Tebaldi, nonché per merito della traduzione per opera di Platone di Tivoli (1138 ca.). La traduzione latina del commento di ῾Alī usava l'espressione, destinata ad accreditare una certa confusione terminologica, di astronomiae iudicium per intendere l'astrologia pratica, mentre usava il termine astrologia quadrivialis per intendere l'astronomia matematica (con riferimento al quadrivium delle arti liberali, che includeva la matematica). In questo modo, mentre il termine astrologia era usato per indicare una scienza teorica, ossia l'astronomia stricto sensu, il termine astronomia finiva per indicare una scienza pratica, cioè l'astrologia. Risulta chiaro da queste citazioni che la distinzione operata dagli esegeti cristiani tra astronomia come scienza dei moti celesti e astrologia come pretesa divinazione de iudiciis da espungere e condannare, non ha avuto un grande seguito tra gli scienziati latini dei secoli successivi, fino all'adattamento dello Speculum attribuito ad Alberto Magno e al De iudiciis di Tommaso d'Aquino.
Il commento di ῾Alī alla Tetrabiblos e il Liber de scientiis di al-Fārābī
Per quanto riguarda l'influenza della Tetrabiblos di Tolomeo nel Medioevo latino, occorre rilevare che quest'opera è sempre stata letta con il commento di ῾Alī, un autore, come sopra detto, di incerta identificazione. In questo commento erano messi in rilievo alcuni aspetti della dottrina di Tolomeo e in particolare il suo rifiuto del fatalismo astrologico e dell'astrologia magica della tradizione ermetica.
Nel corso del XII sec. e agli inizi del XIII, mentre la terminologia dell'Almagesto e quella delle sue compilazioni (De sphaera e Theorica planetarum) non si erano ancora consolidate, l'astrologia faceva ancora parte dell'astronomia matematica, mentre l'astronomia non era più distinta dall'astrologia come scientia de iudiciis. Nella tradizione delle enciclopedie delle scienze redatte dagli Arabi, come l'importante Liber de scientiis di al-Fārābī, l'astronomia (astrologia) era inclusa tra le sette scienze matematiche o doctrinales: l'aritmetica, la geometria, la scienza degli aspetti (scientia aspectuum) o perspectiva, la musica, la scienza de ponderibus (statica), la scientia ingegnorum e l'astronomia-astrologia definita come scienza delle stelle. Al-Fārābī dava una definizione di astronomia-astrologia concettualmente assai vicina a quella di Tolomeo e alla tradizione araba di Abū Ma῾šar, ma diversa da quella dei Latini; egli divideva la scienza delle stelle in due parti: la prima era la scienza di ciò che le stelle significano su quello che accadrà in futuro e la seconda era la scienza teorica delle stelle. La visione dell'astrologia espressa da questo testo era assai complessa e diversa da quella elaborata dalla tradizione cristiana secondo cui l'astrologia era sostanzialmente una scienza superstiziosa.
Con la circolazione delle opere di Abū Ma῾šar (l'Introductorium maius, il De magnis coniunctionibus, l'Isagoga minor, la raccolta dei Flores, nelle traduzioni di Giovanni di Siviglia e di Ermanno di Carinzia), l'astronomia tolemaica dell'Almagesto e soprattutto della Tetrabiblos fu modificata in base alle esigenze della cosmologia islamica. Naturalmente, l'astrologia arabo-latina medievale non corrispondeva a quella araba originaria, e ciò anche a causa dell'opera svolta dai traduttori, i quali introdussero una terminologia latina interpretando secondo le proprie particolari inclinazioni le opere da tradurre. Nell'astrologia araba si distinguono tre periodi. Il primo periodo va dall'VIII agli inizi del IX sec., con l'attività di Māšā᾽Allāh, Abū ῾Alī al-Ḥayyāṭ (nato nell'835 ca., conosciuto dai Latini come Abualì o Alboalì, la cui opera De nativitatibus è stata tradotta da Giovanni di Siviglia nel 1153 ca.), e Omar Tiberiade (῾Umar ibn al-Farruhān al-Ṭabarī); il secondo periodo abbraccia i secoli IX e X, ed è caratterizzato dalla grande sistemazione teorica e dottrinale compiuta da al-Kindī, Abū Ma῾šar, Sadan, Zahel (Sahl ben Bišr) e i Capitula Almansoris (attribuiti ad al-Rāzī), al-Farġānī, al-Battānī, Ṯābit ibn Qurra; il terzo periodo (X-XI sec.) è rappresentato dalle opere enciclopediche dei sincretisti come al-Qabīṣī e ῾Alī ibn Riḍwān, la cui notorietà fra i Latini fu grandissima (a questo gruppo apparteneva anche al-Bīrūnī). Questa scansione cronologica non riguarda però il mondo latino, perché le opere di questi autori furono conosciute in Occidente quasi contemporaneamente, a partire dal XII sec., grazie alle traduzioni toledane, che hanno dato luogo a notevoli sovrapposizioni e confusioni.
Abū Ma῾šar, Māšā᾽Allāh, Zahel, al-Kindī
Le opere più importanti di Abū Ma῾šar (m. 886) conosciute dai Latini in traduzione sono l'Introductorium maius in astronomiam, nelle due traduzioni di Ermanno di Carinzia e Giovanni di Siviglia, il De magnis coniunctionibus e l'opera più breve Isagoga minor Iapharis in astronomiam, nella traduzione di Adelardo di Bath. Di queste opere hanno circolato numerosi estratti, come il De revolutionibus annorum nella traduzione di Giovanni di Siviglia o il De significationibus planetarum, oltre a compilazioni anonime, come il De electionibus planetarum e numerose raccolte di Flores de electionibus dagli incipit diversi.
L'influenza di Abū Ma῾šar sul Medioevo cristiano è stata grandissima. Egli ha modificato l'impianto dei rapporti tra astronomia e astrologia come erano stati prospettati nell'Almagesto e nella Tetrabiblos di Tolomeo, sia in relazione alle specifiche tecniche matematiche dell'astrologia sia in rapporto alla cosmologia aristotelico-tolemaica. Sul piano fisico-naturale, usò concetti desunti dalla tradizione neoplatonica araba, contaminati con Aristotele; così i cieli, che nella fisica aristotelica erano considerati cause, furono definiti da lui neoplatonicamente 'forze' (vires o potentiae). Sul piano religioso, essendo credente ‒ diversamente da Tolomeo e da Aristotele ‒ Abū Ma῾šar riteneva che i cieli e le stelle erraticae, cioè i sette pianeti (i due luminari, Sole e Luna, erano ritenuti pianeti), creati da Dio, fossero costituiti da una quinta essenza e fossero mossi di moto circolare perfetto.
In questo modo Abū Ma῾šar ha inserito l'astronomia matematica e quella fisico-naturale della Tetrabiblos in una cosmologia nella quale non risultavano ben definiti i termini del rapporto tra la quintessenza del cielo eterno e perfetto e le qualità dei quattro elementi terrestri, le cui combinazioni costituivano le forme sublunari. Ciò costituì uno dei problemi interpretativi più rilevanti per i dotti latini cristiani. In effetti, l'astronomo arabo ‒ come, in una certa misura, Tolomeo nella Tetrabiblos ‒, ispirandosi alla tradizione della dottrina del Timeo platonico, introdusse un dualismo tra il divenire imperfetto della generazione delle forme contingenti sublunari e il moto perfetto circolare delle entità eterne superiori, senza chiarire quale natura fosse da attribuire alle stelle fisse e ai pianeti, situati tra il mondo divino necessario e il mondo naturale contingente: si trattava di sostanze oppure di qualità, di realtà divine oppure di realtà fisiche?
A questi interrogativi Abū Ma῾šar non riuscì a dare una risposta chiara, con tutte le conseguenze che ne derivarono per l'astronomia; infatti, se la scienza era scienza del necessario, l'astrologia non poteva essere considerata una scienza, essendo un sapere contingente. Tuttavia, nell'esprimersi a favore della contingenza degli eventi, Abū Ma῾šar presentava alcune interpretazioni, di ispirazione neoplatonica, sul carattere necessario o meramente possibile degli accadimenti, secondo cui, prima che accadesse, ogni fatto era in potenza in ducatu siderum; soltanto quando era accaduto, diventava necessario. In questa prospettiva l'astrologia diventò la scienza degli accadimenti 'possibili'.
La nozione di evento contingente, meramente possibile in quanto non impossibile, contenuta nell'Introductorium maius, costituì un momento fondamentale nella discussione sull'inevitabilità o meno dell'evento significato dal cielo, e sul carattere deterministico (o meno) dell'astrologia come scienza (essendo il futuro quel possibile che sta nel mezzo tra essere e non essere). Se per Abū Ma῾šar, come per Tolomeo, l'evento pronosticato secondo le regole della tecnica astrologica era meramente contingente, l'astrologia era da intendersi come una disciplina congetturale e non una scienza deterministica. Tale tema fu presente nelle maggiori opere di astrologia medievale, come lo Speculum astronomiae attribuito ad Alberto Magno e il Lucidator di Pietro d'Abano. Secondo Abū Ma῾šar, l'astrologia cercava nei movimenti e nelle figure del cielo e degli astri i significati degli eventi terreni; essa era quindi un sapere ermeneutico. I cieli creati da Dio erano dotati di forze che si 'contraevano' nelle 48 immagini da cui provenivano gli influssi sugli eventi contingenti del mondo terrestre.
Tale concetto di 'contrazione', di evidente origine neoplatonica, non era presente nell'opera di Tolomeo. Per quest'ultimo, infatti, gli eventi terreni dipendevano soprattutto dal movimento e dalla luce dei pianeti, più che dalle costellazioni, per cui la configurazione matematica dei transiti dei pianeti permetteva la comprensione delle caratteristiche di quanti erano nati sotto quell'aspetto. Abū Ma῾šar, invece, introdusse il concetto, più neoplatonico che aristotelico, di influenza come virtus e accentuò, rispetto a Tolomeo, l'importanza dell'astrologia universale rispetto a quella basata sull'oroscopo individuale collegato ai moti dei pianeti, sviluppando principalmente l'idea dell'influenza universale delle 48 immagini, ossia delle stelle fisse (le 48 costellazioni allora identificate, comprendenti le 12 dei segni zodiacali). Alla traduzione di Giovanni di Siviglia si deve l'introduzione della definizione di astrologia come scienza dei giudizi, destinata ad avere largo seguito, e come scienza virium stellarum motus (delle forze del moto delle stelle).
L'astrologia di Abū Ma῾šar fu anche fortemente contaminata dall'astrologia indiana, persiana ed egiziana, delle quali l'astronomo arabo conosceva le tecniche della rivoluzione mondiale e i modelli di 'elezioni' e di 'interrogazioni' grazie all'opera di Māšā᾽Allāh (attivo dal 762 all'815), il più giovane astrologo ebreo di lingua araba, e di Zahel (822 ca.-850 ca.). Anche Zahel, di poco più giovane di Māšā᾽Allāh, si richiamava a questa tradizione. Egli scrisse il De electionibus, il Liber temporum, una raccolta di Precepta che comprende un Capitulum de terminis egyptiorum qui dicuntur Hermetis, il De triplicitatibus et differentiis, i Fatidica o prognostica de revolutionibus, una compilazione la cui traduzione è stata attribuita a Ermanno di Carinzia, e il famoso Liber magnus sigillorum Zahel di magia astrologica. Māšā᾽Allāh, Zahel, Omar Tiberiade costituirono la prima generazione di astrologi arabi, la cui influenza sull'opera di Abū Ma῾šar fu molto rilevante.
Māšā᾽Allāh e Zahel modificarono il metodo matematico introdotto nella Tetrabiblos da Tolomeo per il calcolo del tempo, dando un grande rilievo all'astrologia universale (precessione degli equinozi, eclissi, comete) a scapito dell'oroscopica individuale, ancorata non soltanto al tempo (il giorno), ma anche al luogo (spazio). Essi attribuivano grande importanza alle eclissi, alle apparizioni delle comete, alle triplicità che scandiscono, come il Sole e la Luna (i cronocratores), il tempo, l'anno, il mese, il giorno, le ore. Mentre Tolomeo, come ebbe a rilevare il suo commentatore ῾Alī, non ha mai trattato esplicitamente la tecnica delle interrogazioni e delle elezioni ‒ ossia la tecnica che permetteva di scegliere il momento favorevole per 'iniziare' un'impresa ‒, essa fu grandemente sviluppata da questa prima generazione di astrologi arabi e poi accolta da quelli latini.
Queste tecniche di origine ermetica facevano parte del culto astrale della setta dei Sabei, costruttori di immagini che evocavano eventi magici, e sono state sviluppate in modo particolare da alcuni astronomi-astrologi arabi; il più celebre fra tutti fu Ṯābit ibn Qurra (836-901). A quest'ultimo era solitamente attribuito il De imaginibus planetarum, un testo fondamentale per la conoscenza dell'astrologia magica da parte dei Latini. Anche i libri di Ermete sulle immagini planetarie trattavano l'astrologia magica, ma furono ben presto condannati dai dotti cristiani come superstiziosi se non eretici. Trattando dell'astrologia universale nel Libro II della Tetrabiblos, Tolomeo volle distinguerla sia dalla cosmologia stoica basata sulla teoria dell'eterno ritorno ciclico sia dalle tendenze magiche, per legarla all'indagine scientifica della medicina, della meteorologia, della psicologia o fisiognomica e dell'etnografia, considerandola così una disciplina medico-psicologica che muoveva dallo studio del temperamento di ciascun uomo così come esso emergeva dal cielo al momento della nascita; una scienza fisico-fisiologica che studiava le disposizioni naturali, le attitudini originarie che specificavano il temperamento individuale, così come esse derivavano dal cielo di nascita. Solamente l'individuazione delle attitudini di partenza poteva consentire la previsione 'congetturale' di situazioni future, perché esse non erano altro che le forme in cui quelle disposizioni si manifestavano nei diversi momenti e nelle diverse circostanze della vita dell'individuo. Così, Tolomeo aveva cercato di sottrarre la previsione astrologica agli indovini, per ricondurla agli scienziati, agli astronomi e ai medici. In questo modo l'arte dell'astrologia poteva essere paragonata a quella del contadino, del marinaio e del meteorologo. Gli eventi celesti e i moti degli astri erano correlati a quelli terrestri, ma non identici; i primi necessariamente eterni, i secondi mutevoli e contingenti, in quanto dipendenti dalla loro materia soggetta.
Nella classificazione delle scienze, Tolomeo considerava l'astrologia una disciplina empirica fondata su un metodo matematico. Per questo motivo l'astrologia universale, fondata sull'osservazione, non rivestiva il ruolo fondamentale che invece le conferivano Abū Ma῾šar e Māšā᾽Allāh. La dottrina della scienza di Tolomeo, esposta non soltanto nell'Almagesto ma in tutte le sue numerose opere, sottolineava come la sola scienza certa e universale fosse la matematica, anche rispetto alla teologia e alla fisica, che si dovevano accontentare di congetture (la teologia a causa dell'inattingibilità del suo oggetto, Dio; la fisica per l'instabilità della materia). La matematica era il fondamento di tutte le altre scienze, dalla geografia, che si costruiva come rappresentazione geometrica delle parti conosciute della Terra, all'astronomia, che formulava in veste matematica le ipotesi volte a spiegare le 'apparenze' sensibili.
In realtà Tolomeo, contrario a tutte le forme di divinazione, volle giustificare l'utilità del pronostico astrologico interpretandolo come una forma di astronomia matematica applicata alla spiegazione dei cambiamenti causati dalle configurazioni celesti; come l'astronomia matematica con gli eccentrici e gli epicicli non esprimeva la 'realtà' dei cieli, così l'astronomia applicata non formulava giudizi infallibili. Questa epistemologia non fu affatto compresa dai dotti arabi e latini, fatta eccezione per Maimonide e Pietro d'Abano. Al contrario, la scienza astronomica matematica di Tolomeo o fu ricondotta nell'alveo della scienza aristotelica, basata sulla conoscenza della causa necessaria del cielo, o fu rifiutata come mendace, in quanto pretesa scienza del contingente. Gli astrologi arabi, seguendo la strada intrapresa da Māšā᾽Allāh e da Abū Ma῾šar, lasciarono aperto il problema del carattere necessario o contingente dell'astrologia, inclinando verso l'idea di una scienza del possibile, come l'aveva definita Abū Ma῾šar. Māšā᾽Allāh, Zahel e Abū Ma῾šar diedero quindi un grande sviluppo alle tecniche dell'astrologia universale, fondate sulle grandi congiunzioni, le triplicità, le eclissi e l'apparizione di comete. Zahel, in particolare, introdusse la tecnica della scelta del momento favorevole o delle 'elezioni', cioè dell'astrologia oraria per individuare la configurazione più adatta per avviare un'impresa, a cui si legò quella delle 'interrogazioni'.
Māšā᾽Allāh è stato uno degli astronomi-astrologi più conosciuti dai Latini, poiché insieme ad Abū Ma῾šar ha introdotto la nozione di astrologia universale, intesa come chiave di lettura degli eventi storici. La sua opera astronomica intitolata De sphaera mota riprendeva infatti la cosmologia aristotelica modificata in base a esigenze di carattere religioso. Secondo lui, Dio era la causa prima delle cose, la cui creazione si poteva conoscere solamente con lo studio del cielo, cioè con l'astrologia. Il suo modello planetario si fondava sulla cosmologia tolemaica, estendendo il numero delle sfere celesti da otto a dieci, come i dieci comandamenti. Māšā᾽Allāh riteneva che la storia fosse scandita dalle grandi congiunzioni ventennali di Giove e Saturno, la cui cronologia si ricavava dalle tavole e dai canoni stabiliti durante la dinastia sasanide in Iran. Ogni congiunzione tendeva a rimanere nella stessa triplicità, poiché i dodici segni zodiacali erano divisi in gruppi di tre per i quattro elementi (triplicità di fuoco: Ariete, Leone, Sagittario; di terra: Toro, Vergine, Capricorno; di acqua: Cancro, Scorpione, Pesci; di aria: Gemelli, Bilancia, Acquario). Più delle grandi congiunzioni, però, erano proprio i transiti delle triplicità a scandire la storia degli avventi dei regni, degli imperi e delle religioni.
La scienza astrologica araba dell'VIII e IX sec. produsse anche le opere di 'astrometeorologia' che rappresentano un genere a sé stante, a metà strada fra le trattazioni di meteorologia e quelle di astrologia. Si tratta di scritti non appartenenti alla tradizione dei Meteorologica di Aristotele, la cui dottrina rientrava nella cosmologia del De caelo e della Fisica, bensì collocati in una tradizione a parte, più prettamente araba. I Latini hanno conosciuto soprattutto le opere di Māšā᾽Allāh (De pluviis) e quelle del misterioso Gaphar (o Iafar) e di al-Kindī, tra tutti il più noto. Infatti il De pluviis, imbribus et ventis in aeris mutatione o il De mutatione temporum di al-Kindī nella traduzione di Dragone (forse Ugo di Santalla) è stato edito insieme al De pluviis di Gaphar a Venezia nel 1507 e a Parigi nel 1540. Sotto il nome di al-Kindī sono circolate anche altre operette, come il De impressionibus aeris, un riassunto degli altri scritti inserito nell'edizione della Compilatio de astrorum scientia di Leopoldo d'Austria o l'Alkindi de pluviis. Sia l'Epistula in pluviis et ventis di Māšā᾽Allāh sia il De mutatione temporum di al-Kindī riconducevano i fenomeni meteorologici ai transiti e agli aspetti dei pianeti, soprattutto alle "mansioni" della Luna, al transito del Sole, alle "stazioni" (arresti), "retrogradazioni" e direzioni dei pianeti.
La teoria di al-Kindī si fondava sul principio generale secondo il quale la natura del cielo era una sola, per cui le generazioni e le corruzioni non avvenivano secondo una parte del cielo, o secondo un pianeta, ma dipendevano dal moto del pianeta lungo il suo epiciclo ‒ in direzione, retrogradazione, stazione, elevazione e depressione ‒, mentre le mutazioni del tempo avvenivano a seconda della maggiore o minore distanza del pianeta dalla Terra. Al-Kindī fu uno degli autori più rilevanti dell'astrologia araba del Medioevo (a lui infatti è attribuito anche il De radiis, considerato il manuale più autorevole di magia medievale), e nella tradizione astrologica medievale egli figurava come uno dei giudici (iudices) della compilazione anonima, il Liber iudicum, redatta forse per Federico II su ordine del sultano di Babilonia (di questa compilazione esistono redazioni diverse). Importanti per gli sviluppi della medicina astrologica furono anche il De signis astronomiae, un piccolo trattato di incerta attribuzione in cui l'astrologia era applicata alla medicina, il De criticis diebus, il De iudiciis astrorum e il De dispositione planetarum. La figura di al-Kindī fu anche menzionata nel dialogo di Sadan con Abū Ma῾šar (gli Excerpta de secretis Albumasar) e nel De iudiciis di Albohazen Alì (o Albohalì), un testo tradotto in latino da Egidio de Tebaldi e Pietro da Reggio nel 1256 ed edito a Venezia per Ratdolt nel 1485.
Michele Scoto, Bartolomeo da Parma e Guido Bonatti
A Michele Scoto, famoso astrologo alla corte di Federico II (pare dal 1227 al 1236) e traduttore altrettanto celebre di al-Fārābī (De ortu scientiarum) e di al-Biṭrūǧī (De motibus caelorum), si deve una delle prime grandi introduzioni all'astronomia (astrologia) secondo i modelli enciclopedici del tempo, con forti influenze ebraiche e arabe. Il suo Liber introductorius in astronomiam, indirizzato ai novizi che volevano apprendere l'arte dell'astronomia, affrontava molti aspetti del mondo celeste e di quello terrestre, che rappresentavano i segreti dei filosofi e riguardavano l'arte dell'astronomia. Il Liber introductorius comprendeva due sezioni: la prima era il Liber particularis (che includeva il De mirabilibus mundi) e la seconda era la Physiognomica. L'opera, di carattere sincretistico cristiano, arabo, ebraico, si riallacciava alla tradizione delle traduzioni toledane del XII secolo.
Secondo Michele, l'astrologia rappresentava il sapere operativo del filosofo, che per questo era accomunato al mago. Essa infatti era quell'arte o scienza che offriva gli strumenti più sicuri per impossessarsi delle forze celesti che governavano il mondo; era una conoscenza che avveniva per influenza del Sole e della Luna, i due corpi che illuminavano le anime degli uomini di ragione e li dirigevano nel sentiero della verità. Così, i principî della scienza e della dottrina della sapienza provenivano dalla rivelazione dello spirito immutabile ricevuto dal Sole e rappresentavano la sapienza di Dio; grazie al Sole si comprendeva la sapienza infallibile, e grazie alla Luna la virtù della sapienza o scienza del bene e del male. In questo contesto l'astronomia e l'astrologia divenivano le scienze filosofiche per eccellenza, che permettevano di attingere la mirabile sapienza divina dispiegata nel creato.
In un passo dell'Introductorium maius Michele si riferiva a esse come a due scienze filosofico-sapienziali che fornivano il subiectum commune, ossia l'ens di tutte le altre scienze. Il passo ricorda quelle pagine della Metafisica di Avicenna in cui si presentava una classificazione delle scienze speculative, che assegnava all'astronomia, per il suo aspetto pratico e astrologico, un posto privilegiato in quanto scienza universale del movimento celeste, fonte di tutte le influenze. Tuttavia, a ben guardare, Michele Scoto non presentava alcuna giustificazione di particolare rilevanza filosofica e teorica del legame tra astronomia e astrologia, come invece, per esempio, fece un secolo dopo Pietro d'Abano nel suo Lucidator dubitabilium astronomiae.
Sia le definizioni di filosofia sia quelle di astronomia fornite da Michele sembrano rinviare alle varie formulazioni contenute nei florilegi e nelle raccolte dei secoli anteriori. In particolare, sono evidenti i riferimenti alla tradizione 'narrativa' dell'astrologia di Ermanno di Carinzia, Daniele di Morley, del Liber Hermetis sex principiorum e di tutta la tradizione risalente a Calcidio, Macrobio e Isidoro di Siviglia. In base a queste definizioni, l'astronomia e l'astrologia risultano essere la medesima disciplina; infatti il termine astronomia, derivato dai termini greci ástron, ossia 'stella' o 'astro', e nómos, ossia 'scienza', 'legge' e 'regola', indica la legge degli astri (lex astrorum) o anche la scienza de astris, mentre il termine astrologia, derivato da 'astro', e da lógos, 'discorso' o 'sermone', è il discorso (sermo) sugli astri o anche una sermocinatio de astris. Pertanto da 'astronomia' derivano due termini: astronomus (idest homo sciens artem, l'uomo che conosce l'arte) e astronomista (idest homo imitans artem astronomiae, l'uomo che imita l'arte dell'astronomia). Anche da 'astrologia' derivano due termini: astrologus (homo utens haberi artem, l'uomo capace di usare quest'arte) e astrologista (hic astrologista, idest imitans vestigia ipsius artis suo posse, colui che imita le vestigia di quell'arte). Nell'astronomia Michele includeva anche la necromanzia, ovvero l'invocazione degli spiriti dei demoni racchiusi nella gerarchia delle 48 immagini celesti, cioè i 12 segni dello Zodiaco e le 36 costellazioni dell'emisfero settentrionale e meridionale. Tuttavia, essendo credente, distingueva la moltitudine degli spiriti residenti nelle 48 immagini, separando la sfera divina, soprasensibile, incorporea e immobile, da quella sensibile, corporea e terrestre, governata dal Sole e dalla Luna.
Per questa concezione della sapientia in homine che discendeva per processione dallo spirito celeste, attraverso le gerarchie intermedie, il Liber introductorius, e in particolare il Liber particularis, con la loro articolata demonologia e angelologia, possono essere considerati a buon titolo un'enciclopedia magico-astrologica e demonologica, influenzata da Agostino e da fonti ermetiche, arabe ed ebraiche. Contro queste fonti reagirono i filosofi e i teologi della seconda metà del XIII sec., in particolare l'autore dello Speculum astronomiae (attribuito ad Alberto Magno) e successivamente Pietro d'Abano nel suo Lucidator dubitabilium astronomiae, elaborando un diverso adattamento dell'astrologia alla filosofia e alla teologia. Questi ultimi espunsero dai cieli tutti gli angeli e i demoni dei pianeti, che potevano costituire un'astrolatria pericolosissima, e respinsero tutta la magia cerimoniale e necromantica che Michele Scoto aveva in qualche modo connesso all'astronomia e all'astrologia. Data la sua carica di astrologo ufficiale di Federico II, non è casuale che i primi studiosi di Michele Scoto si siano interessati più al suo pensiero magico-astrologico che a quello astronomico-filosofico, prestando poca attenzione alle sezioni più scientifiche della sua opera.
L'Introductorius di Michele Scoto apparteneva per cultura più al XII che al XIII sec., epoca in cui cominciò ad affermarsi la cosmologia di Aristotele. Un'opera altrettanto famosa, il Breviloquium de fructu totius astronomiae di Bartolomeo da Parma, un commento al De sphaera mundi di Giovanni di Sacrobosco redatto nel 1286, per quanto riguarda la definizione dell'astronomia e dell'astrologia rimaneva nel solco tracciato dall'Introductorius: l'astronomia era la scienza naturale degli astri, mentre l'astrologia era la scienza sugli astri. La confusione terminologica era evidente, benché le due discipline fossero considerate una sola scienza. Seguendo la classificazione di Michele, Bartolomeo da Parma distingueva l'astronomia in fabulosa (quella che insegnava le favole inventate dai poeti), superstitiosa (quella che insegnava a creare immagini di metalli e liquidi con invocazione di spiriti e sacrifici) e imaginativa (quella che insegnava a conoscere con l'intelletto la quantità del cielo in ogni sua parte).
Questa stessa confusione terminologica era presente anche in un altro manuale di astrologia del XIII sec., il Liber introductorius sive Decem tractatus astronomiae, opera di Guido Bonatti da Forlì. Rispetto a Bartolomeo da Parma, Bonatti mostrava di conoscere in maniera più approfondita i commenti di ῾Alī, Māšā᾽Allāh, Abū Ma῾šar, Ṯābit ibn Qurra, Omar Tiberiade, e al-Qabīṣī alla Tetrabiblos, da cui traeva l'equivalenza tra i due termini astrologia e astronomia; tuttavia, se per Tolomeo l'astronomia inglobava l'astrologia, secondo Bonatti l'astrologia, in quanto scienza attiva, escludeva l'astronomia come scienza contemplativa. Per avere un chiarimento concettuale nella relazione tra le due discipline si dovettero attendere le opere della fine del XIII sec. e degli inizi del XIV, soprattutto la sistemazione dottrinale del Lucidator dubitabilium astronomiae di Pietro d'Abano redatto tra il 1303 e il 1310.
Al-Qabīṣī, Cecco d'Ascoli e Antonio da Montolmo
Nel XIII sec. si diffuse ampiamente l'Introductorius (o Isagoga) minor di al-Qabīṣī (fine X sec.) tradotto da Giovanni di Siviglia; la traduzione presentava il testo semplificato dell'introduzione teorica generale all'astronomia, redatto da al-Qabīṣī, a cui immediatamente seguiva la spiegazione tecnica delle procedure astrologiche. Si trattava di un'opera sincretistica facile ed elementare, che spiegava l'astrologia della Tetrabiblos di Tolomeo estesa alle tecniche persiane ed egiziane di Abū Ma῾šar, Māšā᾽Allāh, Doroteo di Sidone ed Ermete. Al-Qabīṣī sistemava la dottrina delle triplicitates (cioè la divisione dei segni zodiacali in quattro gruppi di tre, rappresentati da triangoli equilateri), delle facies decanum (ossia le immagini dei pianeti divise per i tre decani, dieci gradi per ciascun segno di trenta gradi) e soprattutto dei termini (oría) secondo il metodo egiziano (fondato sui domicili) e quello caldeo (fondato sulle triplicità), esponendo anche la dottrina dei domicilia (oĩkoi, tópoi) dei sette pianeti nei 12 segni zodiacali e delle esaltazioni (exaltationes, sublimitates, ypsomata, electiones, dignitates, gloria).
L'Introductorius minor divenne il manuale ufficiale per l'insegnamento dell'astrologia in tutta l'Europa medievale; a Bologna, quando l'astrologia fu riconosciuta materia di insegnamento, questo manuale fu prescritto come lettura al terzo anno della Facoltà delle arti, filosofia e medicina, insieme al terzo libro degli Elementi di Euclide, a un trattato sul quadrante e al Centiloquium attribuito a Tolomeo con il commento di ῾Alī. Per il quarto anno agli studenti spettava la lettura di altri tre testi: la Tetrabiblos di Tolomeo, una sezione dell'Almagesto e un testo di medicina astrologica, il De urinis di Guglielmo d'Inghilterra. In quest'opera al-Qabīṣī spiegava, tra l'altro, il significato di alcuni termini astrologici arabi (animodar, cioè il grado dell'ascendente della natività; hyleg, cioè il luogo o la durata della vita nella natività; alcochoden, ossia il segno ascendente dell'ora di nascita) e il modo di procedere tecnicamente per ritrovare alcuni gradi dello Zodiaco. Proprio la determinazione dell'ascendente, e di conseguenza dell'ora di nascita, fu uno dei temi più importanti dell'astrologia araba, che ha spinto i dotti non soltanto a ricercare il 'passo' dei pianeti a ore determinate (mezzanotte o mezzogiorno), ma anche a studiare la costruzione di orologi sempre più perfezionati e di astrolabi sempre più accurati per determinare il transito dei diversi pianeti nelle differenti ore del giorno, secondo le coordinate della longitudine e della latitudine.
L'Isagoga minor di al-Qabīṣī è stata oggetto di alcuni celebri commenti in tutta Europa, come quello di Giovanni di Sassonia redatto intorno al 1331. Fra tutti i commenti all'opera di al-Qabīṣī è celebre quello di Cecco d'Ascoli (Francesco Stabili), docente all'Università di Bologna, che introdusse nell'insegnamento dell'astronomia una dottrina magico-necromantica ritenuta superstiziosa e illecita. La sua dottrina, in base alla quale esisteva una sorta d'identificazione tra il filosofo e l'astrologo, visto come un mago, dominatore e signore delle forze celesti e infernali, era vicina a quella di Michele Scoto, ma con infiltrazioni molto più evidenti della dottrina magico-dualistica di Zoroastro. Il commento al De sphaera di Giovanni di Sacrobosco procurò a Cecco la condanna dell'Inquisizione che lo portò alla morte sul rogo a Firenze nel 1327. Egli era arrivato ad avvicinare la nascita di Cristo a quella del mago Merlino che sarebbe avvenuta anche grazie all'intervento degli spiriti Incubi e Succubi.
Sulle orme dell'insegnamento di astrologia magica di Cecco d'Ascoli, fondato sulle invocazioni di spiriti o di angeli racchiusi nelle immagini e negli amuleti, qualche anno dopo si sviluppò quello di Antonio da Montolmo (o da Monte Ulmo). Questi (attivo a Bologna dal 1387 al 1392) scrisse un'opera di astrologia necromantica dal titolo De occultis, nella quale distingueva una fascia celeste superiore (lo Zodiaco), in cui erano collocate le costellazioni nelle quali dimoravano le intelligenze e le anime, e una fascia terrestre inferiore, in cui risiedevano gli uomini. Egli individuava anche quattro ordini di intelligenze, tanti quanti sono i punti cardinali, e divideva gli angeli in 12 altitudini, una per ogni segno dello Zodiaco, affermando che l'intelligenza, principe del segno zodiacale, determinava la maggiore o minore virtù di un neonato. Il Montolmo si sforzò anche di conciliare la sua magia astrologica con le credenze del cristianesimo. La parte centrale della sua opera era dedicata a un'ampia e particolareggiata esposizione delle cerimonie per invocare gli spiriti e alla descrizione di anelli e figure, suggerendo i luoghi e le situazioni più adatte per poter avere rapporti con gli spiriti.
Gli insegnamenti di astrologia magica nelle università del Nord Italia, quali quelli di Cecco d'Ascoli o di Antonio da Montolmo, non erano molto diffusi. Al contrario, con il consolidarsi dell'insegnamento istituzionalizzato di astrologia a Padova, grazie anche all'insegnamento di astrologia razionale di Pietro d'Abano e di Biagio Pelacani da Parma, ogni tipo d'interpretazione magico-necromantica dello Zodiaco fu rigorosamente esclusa.
Pietro d'Abano e Biagio Pelacani da Parma
Negli anni 1303-1310 l'insegnamento astrologico-medico della Scuola padovana vide affermarsi l'opera di Pietro d'Abano (1250 ca.-1315). Egli lasciò un'impronta profonda grazie ai suoi scritti di medicina astrologica razionale, il Conciliator differentiarum medicorum et philosophorum, la Physiognomica, il Lucidator dubitabilium astronomiae e il De motu octavae sphaerae; in questi testi egli capovolse completamente il modello concettuale proprio della scienza aristotelica ‒ basato sulla separazione fra scienza speculativa e pratica ‒ individuando un nesso strettissimo tra scienza teorica e scienza pratica all'interno di tutte le discipline, dall'astronomia alla medicina. Interpretando fedelmente Tolomeo, Pietro d'Abano riteneva infatti che l'unica scienza certa fosse la matematica, intesa come geometria e astrologia. Quest'ultima, che rappresentava l'aspetto operativo delle conoscenze geometriche dei moti celesti, era una teoria dei significati delle influenze fisiche dei cieli. In questo contesto la previsione astrologica si configurava anche come prognosi medica, perché la complessione fisica degli individui, la salute e le malattie, dipendevano dalla complessione dei pianeti del giorno di nascita, stabilita secondo lo iudicium (il pronostico astrologico). Così l'astrologia diventò una dottrina generale delle cause sufficienti del cielo volte a spiegare le cause dell'ens fore o futurum, mentre la medicina era la scienza dell'ens in facto perfecto, ossia dell'essere 'sanabile' o guaribile grazie alla previsione (prognosi) medica, sulla cui base si fonda la cura.
L'astrologia era dunque scienza matematico-fisica, prima, certa (perché aveva la certezza della matematica), una, nobile, utile, lecita, subiecto determinata (il suo subiectum era infatti il corpo celeste considerato 'sufficientemente' nella sua proprietà di essere 'applicato' nel mondo terreno o di applicarsi, ossia esercitare la sua influenza). In questo Pietro d'Abano seguiva le indicazioni fornite dall'autore dello Speculum astronomiae (attribuito ad Alberto Magno), che aveva negato l'uso delle tecniche necromantiche di invocazione degli spiriti delle figure e delle immagini dei pianeti, tipiche della tradizione ermetica e degli altri esegeti della dottrina magica delle electiones e delle interrogationes. L'autore dello Speculum, infatti, riteneva lecito soltanto lo studio delle immagini astronomiche dei cieli, in quanto astronomico-fisiche e non animistiche.
D'altra parte, sulle orme di Tolomeo, sia l'autore dello Speculum sia Pietro d'Abano salvaguardavano la libertà dell'individuo, asserendo che la scienza della previsione astrologica era fondata su cause non necessitanti in modo assoluto, ma solamente inclinanti. Secondo Pietro, la causalità naturale del cielo infatti non escludeva, anzi presupponeva la causalità soprannaturale di Dio che regge il mondo con la sua volontà. Dio, agens supernaturalis, agisce absque motu et transmutatione, la sua azione è immediata e quindi miracolosa. Al di sotto della causalità divina c'era la causalità naturale del cielo, che si esplicava in modo triplice. Il primo modo era quello dell'azione universale, che avveniva soltanto per il movimento e la luce, ed era proprio dell'ottava sfera delle stelle fisse; l'azione universale era inafferrabile e indeterminata, come il numero delle stelle. Il modo medio era sia quello che seguiva dalle complessioni dei pianeti e dai loro aspetti sia quello che seguiva dalla virtù contratta delle 48 immagini celesti. Il terzo modo era quello particolare e individuale: l'influxus stellaris particularis che dipendeva dalla posizione dei pianeti nelle 'case' (domus) celesti alla 'natività', legata alla rivoluzione dei pianeti nell'ora, nel giorno, nel luogo esatto di nascita.
L'insegnamento istituzionalizzato dell'astrologia non si affermò solamente in Italia (a Bologna, Padova, Ferrara), ma anche al Collège de Maître Gervaise di Parigi e al Merton College di Oxford, dove furono redatte le opere di astrologia universale di Giovanni di Ashenden (o Eshenden, attivo tra il 1340 e il 1370), ossia la Summa astrologiae de accidentibus mundi e le Pronosticationes. Quest'ultima opera ha dato il via al grande successo dei pronostici 'universali', fondati sull'apparizione di eclissi o sul verificarsi delle grandi congiunzioni dei pianeti.
A Bologna, tra il 1380 e il 1388, Biagio Pelacani (1354 ca.-1416) compilò un pronostico dell'anno 1386 nel cui prologo definiva l'astrologia-astronomia regina delle sette arti liberali, reintroducendo, nel suo commento al De sphaera mundi di Giovanni di Sacrobosco, l'astrologia nel quadro rigorosamente razionale, matematico e fisico in cui l'aveva collocata l'insegnamento di Tolomeo. Egli difese l'astronomia tolemaica degli eccentrici e degli epicicli contro la ricostruzione compiuta da al-Biṭrūǧī nella sua opera Theorica planetarum, rifiutandone il modello astronomico basato su sfere concentriche secondo un moto a spirale, che a suo avviso non era in grado di spiegare le irregolarità del moto dei pianeti. Nel commento al De sphaera Biagio Pelacani escludeva l'interpretazione animistica dello Zodiaco, riprendendo la dottrina di Pietro d'Abano secondo cui le nature dei segni zodiacali e delle stelle non agivano formaliter, cioè come forme sostanziali, ma soltanto effective, ossia secondo i loro effetti contingenti; ciò significava che lo Zodiaco andava considerato matematicamente, per cui le sue influenze si dovevano misurare in termini di gradi e di distanze e non in termini di spiriti o di entità. Come per Tolomeo, anche per Biagio la previsione era fallibile, poiché tutta la conoscenza razionale umana era contingente e non necessaria e, in quanto tale, continuamente perfettibile; pertanto la verità della previsione de futuris contingentibus era, come tutte le altre verità, sufficiente e condizionata. In questo modo la teoria di Aristotele, secondo cui il cielo era una causa necessaria dalla quale seguiva una previsione infallibile e necessaria del suo effetto, fu fortemente criticata.
Anche l'oroscopo delle religioni di cui Biagio fu sostenitore, non aveva quel significato deterministico attribuitogli dalle autorità religiose di tradizione aristotelica. Infatti, poiché la causalità del cielo non era di per sé condizione necessaria, ma sufficiente a produrre le attività inferiori dell'Universo, la materia soggetta era semplicemente concausa delle disposizioni naturali a essa connesse. L'astrologia di Biagio Pelacani si riconnetteva alla più genuina tradizione tolemaica dell'astronomia-astrologia come scienza del contingente; per Biagio, infatti, la materia prima era l'unica realtà.
Da Abū Ma῾šar a Pietro d'Ailly. L'oroscopo delle religioni
L'astrologia universale del Medioevo arabo, ebraico, latino si sviluppò anche a partire dall'interpretazione di questa frase presente nel Centiloquium attribuito a Tolomeo (ma in realtà di compilazione più tarda): "L'astronomo non deve parlare in termini particolari, ma universali". In realtà Tolomeo non si era mai interessato all'astrologia universale, cui aveva preferito le tecniche de nativitate individuale. Nel Medioevo cristiano questa dottrina fu avversata e condannata, e lo stesso accadde nel mondo religioso ebraico e musulmano. Ciò non toglie che alcuni credenti di religione ebraica e cristiana abbiano ripreso in modo sistematico la dottrina dell'astrologia universale legata alle grandi congiunzioni e agli aspetti delle triplicità dei segni zodiacali.
Nel mondo latino, il tentativo di giustificare l'astrologia universale fu operato da Ruggero Bacone, con grande dovizia di argomenti, nella parte quarta dell'Opus maius (de iudiciis astronomiae). In questa sezione, come nel commento al Secretum, egli cercò di salvare l'astronomia (astrologia) del quadrivium boeziano, ossia delle matematiche, contro la máthēsis, la mantica, o la matematica proibita della divinazione magica del paganesimo greco-romano. L'importanza che Bacone attribuiva all'astrologia universale delle grandi congiunzioni di Abū Ma῾šar e di Māšā᾽Allāh, era collegata alla sua esigenza di rinnovamento e soprattutto di difesa della Chiesa dagli infedeli e dall'avvento dell'Anticristo, legato, secondo la tradizione, a una grande congiunzione di Giove, Saturno e Luna. Secondo Bacone, determinare il momento in cui avviene una tale congiunzione doveva aiutare i cristiani a prevedere, e quindi a combattere in anticipo, la venuta dell'Anticristo. Questa teoria, da sempre avversata dalla Chiesa, fu difesa da Ruggero Bacone con argomenti analoghi a quelli dello Speculum astronomiae dello Pseudo-Alberto Magno, per il quale soltanto la materia instabile era soggetta all'influenza degli astri, che non erano cause ma segni, mentre l'anima razionale ne era immune.
Il grande sviluppo dell'astrologia universale di Māšā᾽Allāh e di Abū Ma῾šar fu dovuto anche alla diffusione tra i Latini dell'ampia trattazione del filosofo ebraico Abrāhām ibn ῾Ezrā, vissuto nella prima metà del XII sec. a Toledo. La sua opera ebbe una straordinaria fortuna grazie alla traduzione latina eseguita da Pietro d'Abano e da Enrico Bate di Malines. I testi di ῾Ezrā tradotti da Pietro sono il Principium sapientiae o Introductorium, il Liber de rationibus, il De nativitatibus et revolutionibus, il De electionibus, il De interrogationibus, il Liber de revolutionibus annorum mundi seu de seculo. L'astrologia universale di Abrāhām ibn ῾Ezrā si fondava su una visione neoplatonica dell'Universo secondo cui l'anima, discendendo dal cielo, desiderava ritornarvi purificata dal corpo e, per fare questo, doveva conoscere le sfere celesti e il loro ordine. Pertanto Abrāhām ibn ῾Ezrā, seguendo gli Antichi, divise i suoi libri in base alla descrizione della figura e dell'ordine delle sfere celesti; così, nel Liber sapientiae o Liber introductorius erano descritti i significati delle immagini partendo dalle più universali, come le costellazioni, fino alle più particolari.
Una grande importanza nell'ambito della scienza medievale ha avuto anche Abrāhām ibn Ḥiyyā detto il Savasorda, la cui opera è stata spesso confusa con quella di Abrāhām ibn ῾Ezrā, vissuto nello stesso periodo. Un suo trattatello di escatologia astrologica universale, il Megillat-ha-megalleh, tradotto dal francese in latino dal frate domenicano Teodorico di Northen con il titolo De redemptione Israel, è stato largamente utilizzato da alcuni astrologi latini cristiani, come il cardinale Pietro d'Ailly. Interpretando il versetto del Salmo 19 (18), 2 "I cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annuncia l'opera delle sue mani", Abrāhām ibn Ḥiyyā cercava una conferma scientifica per la determinazione temporale della redenzione di Israele nel calcolo delle grandi congiunzioni e in quello delle triplicità. Il Liber revelator de redemptione Israel fu redatto tra il 1120 e il 1129. I calcoli astrologici, messi in relazione con versetti della Genesi e, soprattutto, con la profezia di Daniele, riguardavano il calcolo dell'età del mondo. L'autore si richiamava al De magnis coniunctionibus di Abū Ma῾šar, ma i suoi calcoli mostravano discordanze rispetto a quelli di quest'ultimo; a suo parere le grandi congiunzioni accadevano ogni 238 anni, mentre per Abū Ma῾šar avvenivano ogni 240 anni. Ciò confermerebbe l'ipotesi che Abrāhām ibn Ḥiyyā abbia conosciuto non tanto l'opera di Abū Ma῾šar, quanto quella del suo maestro, Māšā᾽Allāh.
La dottrina delle grandi congiunzioni era fondata sulla successione delle congiunzioni di Saturno e Giove, che percorrono i differenti segni della medesima triplicità in ragione di 12 congiunzioni per ciascuna triplicità; ciò condurrebbe i due pianeti, dopo quattro cicli di 12 congiunzioni, al punto di origine di rivoluzione, fissato a 0° del segno dell'Ariete. Māšā᾽Allāh aveva definito cosa s'intende per congiunzione grande, media e piccola, nonché la nozione di triplicità, senza tuttavia collegare l'una nozione con l'altra. Fu Abū Ma῾šar che arricchì queste teorie con l'affermare che due pianeti sono in congiunzione quando hanno la medesima longitudine, qualunque sia la latitudine. Per triplicità (triplicitas) si deve intendere la locuzione tradotta dal greco in latino, trigona vel triquetra, termini con cui s'indicava l'aspetto armonico tra i tre segni zodiacali del medesimo elemento; ripetendo quanto già detto in precedenza, erano i segni suddivisi secondo i quattro elementi, ossia fuoco, aria, acqua e terra, in ragione di tre, vale a dire triplicità di fuoco (Ariete, Leone, Sagittario), triplicità di aria (Gemelli, Bilancia, Acquario), triplicità di acqua (Cancro, Scorpione, Pesci), triplicità di terra (Toro, Vergine, Capricorno). I 12 segni, quindi, erano divisi in quattro triangoli equilateri, e a ciascun triangolo presiedevano come signori (domini) due pianeti, ai quali se ne aggiungeva, in qualità di socius, un terzo più veloce secondo le teorie dell'esaltazione, del domicilio e della caduta dei pianeti.
La 'piccola' congiunzione si riferisce a un transito della medesima triplicità, con esclusione della prima congiunzione, la quale ha il nome di 'media', perché segna il passaggio in una nuova triplicità, rispetto alla 'grande' precedente. Questa fu una delle principali variazioni introdotte da Abū Ma῾šar nella teoria più semplice di Māšā᾽Allāh, che non aveva strettamente connesso la teoria delle triplicità con quella delle rivoluzioni e congiunzioni planetarie. Quando i transiti delle grandi congiunzioni di tutte e quattro le triplicità si sono compiuti e i pianeti ritornano alla longitudine 0° del segno dell'Ariete nella triplicità di fuoco, avviene la congiunzione massima, o 'forte' (fortis), come la chiamava Abrāhām ibn Ḥiyyā. Dando per scontato che tra due piccole congiunzioni successive passano venti anni, si dava una base astronomica al millennio, inteso come l'intervallo compreso tra due 'grandi' congiunzioni.
Partendo dal presupposto che la storia di Israele fosse stata scritta da Dio nei cieli e che tutti gli avvenimenti più importanti fossero stati scanditi dalle congiunzioni 'forti' (ossia millenarie), aventi tutte, sia le buone sia le cattive, come fine ultimo la redenzione dei figli di Israele, l'inizio del regno di Israele era fatto coincidere con la nascita di Mosè (a cui presiedeva una grande congiunzione di Giove e di Saturno nel segno d'acqua dei Pesci con il Sole in Ariete) e il suo riscatto con la realizzazione di una profezia di Daniele. Così il Savasorda, scandendo i tempi delle vicende della storia di Israele sulla base delle profezie messe in corrispondenza con le rivoluzioni planetarie, narrava anche della congiunzione che aveva presieduto alla nascita di Cristo e alla predicazione dei suoi discepoli, come pure di quella che aveva significato la venuta di Maometto e le guerre tra i Saraceni e i cristiani fino al prevalere di questi ultimi. Dopo tutte le vicende relative ai cristiani e ai Saraceni e la caduta di questi per mano dei cristiani, si doveva avverare la profezia di Daniele per cui alla fine dell'ultima congiunzione nel segno d'aria dell'Acquario, quando si sarebbe tornati alla congiunzione che aveva presieduto alla nascita di Israele nel segno dei Pesci, il regno di Israele sarebbe rinato (nell'anno del mondo 5118).
Le osservazioni di Savasorda sul calcolo delle congiunzioni tornavano anche nell'opera del teologo e astrologo cristiano Pietro d'Ailly (1350-1420), il quale nel suo Elucidarium sulla concordia dell'astronomia con la teologia e la narrazione storica, redatto intorno al 1414, dedicava alcune pagine assai interessanti all'esposizione del contenuto del Liber de redemptione Israel. Questo testo era considerato come un esempio positivo dell'assimilazione della teoria congiunzionista e dell'idea che ne costituiva il fondamento, ossia l'accordo tra verità storica, narrazione biblica e dati astronomici. Pietro d'Ailly criticava l'oroscopo di Cristo e quello di Maometto, presentati dal Savasorda, per ragioni non dottrinali religiose ma puramente astronomiche, in quanto li riteneva basati su calcoli inesatti (Savasorda infatti non poteva conoscere le Tavole alfonsine, redatte successivamente e utilizzate da Pietro d'Ailly).
Tutti i successivi trattati di astrologia mondiale derivarono da questo genere letterario astrologico basato sulle grandi congiunzioni, che rimase in auge fino al 1711, quando Henri de Boulanvilliers redasse ancora un'opera di astrologia mondiale, l'Histoire de l'apogée du Soleil, ou pratique des règles d'astrologie pour juger des événements généraux. Al tempo della Riforma luterana, in particolare, i pronostici dell'anno fondati sul calcolo delle congiunzioni furono utilizzati in ambito propagandistico sia religioso sia politico e l'astrologia assunse un ruolo di carattere sociale, come strumento di manipolazione delle opinioni.
di John D. North
Il calendario dell'Europa occidentale medievale è un insieme eterogeneo, come appare evidente da un esame sommario delle sue festività e ricorrenze. La commistione di antichi elementi pagani e di altri più recenti legati al cristianesimo traspare sorprendentemente in festività come i dodici giorni di Natale, le tradizioni legate alla primavera degli ultimi tre giorni di Carnevale e della Pasqua, le ricorrenze dell'inizio di maggio e di mezza estate, quelle della fine dell'anno, quelle legate al raccolto, quelle di Ognissanti e del solstizio d'inverno. Per tutto il Medioevo il calendario fu sotto il severo controllo della Chiesa, ma il peso delle antiche tradizioni era tale che occorrevano spesso grande tatto e diplomazia per tenere a bada l'influenza dei costumi pagani. In una certa misura questi potevano prendere la forma di riti cristiani, poiché le antiche ricorrenze ebraiche, alla base dell'anno cristiano, si riferivano agli stessi cicli naturali (i solstizi) celebrati dai riti pagani. Nonostante le possibili corrispondenze, per tutti i cristiani due erano gli eventi chiave della storia dell'umanità, che dovevano essere celebrati ogni anno nel momento 'giusto': la morte e la risurrezione di Cristo. Questa esigenza, nata all'inizio da un problema puramente teologico, metteva gli astronomi (e i religiosi che si occupavano di astronomia) in seria difficoltà quando cercavano di operare con le regole liturgiche e il calendario tradizionali in modo da farli coincidere col reale movimento del Sole e della Luna, al quale in realtà le antiche regole si adattavano in maniera molto difficile.
Il problema cruciale della Pasqua, che spinse la Chiesa a occuparsi per la prima volta in modo rilevante di scienze esatte, rimandava ai diversi sistemi astronomici per il calcolo del tempo del calendario, il cosiddetto 'computo' per antonomasia (v. cap. VII, par. 2). L'introduzione di elementi dell'astronomia islamica in Europa, specialmente dopo il XII sec., determinò un certo numero di piccole trasformazioni nel calendario, e per comprenderle occorre richiamare lo schema che esse andavano a modificare. L'anno medio tropico (composto da circa 365,2422 giorni medi solari) corrisponde alla durata media della rivoluzione del Sole sulla sfera celeste lungo la fascia delle costellazioni dello Zodiaco, avendo come riferimento l'equinozio di primavera, e questo parametro è collegato alle stagioni. Il mese medio sinodico (di circa 29,53059 giorni solari medi) corrisponde in media al tempo che la Luna impiega tra una fase e l'altra di congiunzione col Sole (Luna nuova o novilunio). Nelle antiche religioni tutti i rituali erano collegati ai movimenti della Luna in base alla sua prima comparsa in cielo (normalmente dopo il tramonto) e non al momento della congiunzione astronomica, e ciò valeva anche per l'Islam. Era importante dal punto di vista pratico, specialmente per la vita dei campi, fare concordare in qualche modo il periodo della rivoluzione solare apparente, cioè l'anno solare tropico dianzi ricordato, con il periodo della rivoluzione della Luna intorno alla Terra concordata con la congiunzione col Sole, vale a dire il mese lunare sinodico; sfortunatamente, il rapporto tra questi due periodi, pari a circa 12,367, è ben lontano da un numero intero, per cui nelle varie civiltà sono stati messi in atto diversi meccanismi di computo del tempo dell'anno in modo da raggiungere la detta concordanza, meccanismi in genere consistenti nello scegliere una certa suddivisione dei giorni dell'anno in un determinato numero di mesi, per poi aggiungere in modo oppotuno un certo numero di giorni nell'anno.
A prescindere dai diversi valori a essi attribuiti e al di là delle convenzioni relative al calendario, nessuno studioso serio dava credito all'ipotesi che l'anno e il mese corrispondessero a un numero intero di giorni, e proprio questo dato è all'origine del problema maggiore incontrato da tutti coloro che volevano inserire il Sole e la Luna in un qualsiasi sistema unico di calcolo del tempo, un tentativo che risale a tempi molto antichi. L'antica Chiesa cristiana aveva ereditato il calendario lunare del Vecchio Testamento, sviluppato nel Talmūd e in altri scritti (per questo calendario, si veda Il Vicino Oriente antico, cap. XII, Tav. II). La Pasqua ebraica, in un periodo tardo nella sua storia, fu fissata la notte del quattordicesimo giorno del mese di Nisan, cioè al momento della Luna piena. Trattandosi essenzialmente di una festa di primavera (originariamente ispirata alla spigatura del granoturco e quindi collegata alle stagioni, come dire all'anno solare), il mese di Nisan (il primo mese dell'anno) fu lasciato al suo posto e ogni tre anni circa fu stabilito un anno di tredici mesi, inserendo mesi detti 'intercalari'.
Il calendario cristiano, molto influenzato da queste regole complesse, dovette a sua volta conciliarsi con altri due importanti cicli annuali. Il primo fu la settimana ebraica di sette giorni (circa un quarto di mese sinodico lunare); le prime comunità di convertiti al cristianesimo adottarono la settimana ebraica, ma scelsero il primo giorno (non il Sabbat) come giorno della preghiera, chiamandolo 'giorno del Signore' (dies dominica). Nell'epoca tardo-antica e nel Medioevo la settimana di sette giorni s'integrò con l'astrologia (per la quale ogni giorno della settimana, e anche ogni ora di ciascun giorno, erano governati dal Sole, dalla Luna o da un pianeta, donde per i giorni i nomi lunedì, martedì, ecc.). I teologi medievali cercarono di scoraggiare questa pratica, ma essa era troppo radicata nella cultura popolare per esserne estirpata, e traspare ancora oggi nei nomi dei giorni della maggior parte delle lingue europee e non soltanto.
L'altro ciclo importante del calendario fu l'anno di 365 giorni, il cosiddetto 'anno egizio'. Questo però, essendo più breve dell'anno tropico di circa un quarto di giorno, in breve tempo non risulta più in linea con le stagioni. Quando Giulio Cesare assunse il potere, il calendario romano era sfalsato di una novantina di giorni rispetto alla stagione in corso, in parte anche per questo motivo. Nel 46 a.C. gli astronomi di Cesare, guidati dall'alessandrino Sosigene, optarono per il ciclo di quattro anni, oggi di uso corrente, basato su tre anni di 365 giorni (in seguito conosciuto come 'anno giuliano'), e il quarto, il nostro 'bisestile', di 366 giorni con l'equinozio primaverile corrispondente al 25 marzo (si veda La scienza greco-romana, cap. XXI, Tav. II). Gradualmente, la vita di Cristo e gli eventi a essa collegati furono inseriti in uno schema cronologico collegato al calendario giuliano che avrebbe dovuto conferire loro validità storica. Inizialmente vi erano forti discrepanze tra le tradizioni delle diverse comunità; il giorno di Natale, per esempio, poteva cadere a novembre o a dicembre. Nel 354 d.C. il calendario romano stabilì che fosse il 25 dicembre, collegandolo così direttamente all'Annunciazione, che cadeva nell'equinozio di primavera, il 25 marzo (tra le date intercorrono i canonici nove mesi della gravidanza); in questo modo il Natale risultava collegato all'equinozio primaverile.
Per quanto riguarda la celebrazione della morte di Cristo, Eusebio di Cesarea è una fonte indispensabile di informazioni. Egli dice che i vescovi di tutta l'Asia preferivano il giorno 14 del (loro) Nisan, ponendo la Risurrezione tre giorni dopo, senza preoccuparsi del giorno della settimana in cui cadeva. Coloro che si adeguarono a questa consuetudine orientale furono poi chiamati quartodecimani, perché partivano sempre dal quattordicesimo giorno (di Nisan). In Occidente questa pratica non era accettata (soprattutto ad Alessandria d'Egitto e a Roma); infatti, la Chiesa occidentale continuò a celebrare la Risurrezione di domenica, giorno della preghiera, e la Passione e la Crocifissione di Gesù il venerdì precedente. Per motivi legati alle Sacre Scritture, si riteneva opportuno mantenere un legame, seppur debole, con la Pasqua ebraica. Sebbene inizialmente vi fosse una certa dipendenza dalla competenza ebraica in materia di calendari, esistono prove certe del fatto che già anticamente ci si basava sui calcoli compiuti dai cristiani ad Alessandria d'Egitto, e ciò non sorprende se si considera il grande prestigio intellettuale di quella città. Comunque, è certo che per tutto il Medioevo non furono utilizzati i metodi per stabilire la posizione della Luna contenuti nell'Almagesto di Tolomeo, continuando a essere imprecisi a questo riguardo.
Nel corso della storia liturgica, le regole per determinare la data del giorno della Pasqua divennero sempre più rigide. Un elemento importante del canone pasquale fu quello sostenuto dal vescovo Dionigi di Alessandria (m. 265 ca.), secondo cui la Pasqua doveva essere celebrata dopo l'equinozio di primavera. La regola (occidentale) che ne risultò fu la seguente: "La Pasqua deve essere celebrata la domenica successiva al quattordicesimo giorno ‒ e non in quello ‒ della Luna della Pasqua ebraica, calcolato a partire dal giorno della Luna nuova, questo compreso. La Luna della Pasqua ebraica è la Luna del calendario il cui quattordicesimo giorno cade nell'equinozio primaverile, o quella immediatamente successiva"; l'equinozio primaverile inizialmente cadeva il 25 marzo, data più gradita a Roma, ma alla fine prevalse l'opinione diffusa ad Alessandria d'Egitto, che indicava il 21 marzo. Nel III sec. la maggior parte dei cristiani riteneva questa data immutabile.
I primi che praticarono un calcolo formalizzato della Pasqua usarono un'astronomia molto ingenua, fatta di semplici 'corrispondenze periodiche' tra i moti del Sole e della Luna, per correlare le fasi della Luna con l'anno solare. In realtà, qualunque sia il tipo di corrispondenza basilare scelta e inserita nella regola pasquale (nel corso dei secoli ne sono state proclamate molte), non avendo mai a disposizione l'esatta posizione del Sole e della Luna, bisogna sempre distinguere tra Sole o Luna 'medi' (o relativi al calendario) e Sole o Luna 'veri'. Tuttavia, molti tra coloro che credettero di essere in grado di migliorare i calcoli convenzionali per la Pasqua, persero di vista il carattere puramente convenzionale di tale procedimento, divenuto la pura applicazione di regole aritmetiche, senza alcun riguardo verso le leggi astronomiche.
Il passo più significativo verso una maggiore uniformità si ebbe al Concilio di Nicea nel 325. Nel tentativo, che ebbe un discreto successo, di stabilire una pratica unica per tutta la Chiesa, in Occidente come in Oriente, fu proposto che per collegare l'anno al mese si usasse un preciso rapporto periodico, il cosiddetto 'ciclo metonico' di 19 anni giuliani e contenente un numero intero di mesi lunari, per cui esso era anche il periodo di ritorno della Pasqua nel medesimo giorno dell'anno; a Nicea si scelse come data di riferimento l'equinozio del 21 marzo. In entrambi i casi ci si conformò alla pratica alessandrina (Anatolio di Alessandria, più tardi vescovo di Laodicea, intorno al 277 stabilì che il ciclo metonico era alla base del calcolo della Pasqua e decise che l'equinozio cadeva il 19 marzo, ma altri alessandrini sostituirono la data con il 21 marzo). Durante il Medioevo, tuttavia, furono molti gli studiosi che non vollero adeguarsi a questa convenzione. Corrado di Strasburgo, che scriveva nel 1200, sostenne che l'equinozio era dieci giorni prima rispetto al vecchio 25 marzo; molti altri seguirono questo calcolo dei dieci giorni, ma partendo erroneamente dal 21 marzo. Per la determinazione della Pasqua la data dell'equinozio al 21 marzo rimase però sacrosanta, qualcosa di immune dalla razionalità astronomica.
In termini generali, il ciclo metonico (in origine un metodo babilonese, nonostante il suo uso da parte di Metone, astronomo ateniese del V sec.) considerava 19 anni come esattamente equivalenti a 235 mesi sinodici. Dato che 235 mesi sinodici comprendono circa 6939,69 giorni, a quale genere di anno ci si riferiva? 19 anni tropici equivalgono a circa 6939,60 giorni, ma 19 anni del calendario civile giuliano sono in media 6939,75 giorni (l'esatta durata di un singolo periodo di 19 anni giuliani dipende, naturalmente, da quando, all'interno del ciclo dei quattro anni, si cominciano a calcolare i 19 anni). Per quanto le cifre siano molto vicine tra loro, dopo un certo arco di tempo la differenza arriva a equivalere a un giorno; se si accettano la corrispondenza metonica e l'anno del calendario giuliano come corretti, dopo circa 309 anni lo sfasamento ammonterà a un giorno intero.
È stata già discussa (v. cap. VII, par. 2) la profusione di manuali di calcolo europei nel VII sec.; gli scritti di Beda (672 ca.-735), in particolare, stabilirono le norme per quelle scuole monastiche che si svilupparono presso le cattedrali e più tardi per le università. La svolta più significativa dell'Alto Medioevo si verificò tuttavia quando gli studiosi, avendo scoperto l'inestimabile patrimonio dell'astronomia greca e islamica, non accettarono più il calcolo della Pasqua fondato su dati e teorie astronomiche inesatte. Anche Beda aveva capito che la Luna piena cadeva prima delle date stabilite secondo le regole convenzionali; più tardi si scoprì che anche le eclissi di Sole erano spesso in disaccordo con le Lune nuove indicate nelle tabelle. Roberto Grossatesta (1175-1253) calcolò l'entità dell'errore che si accumulava nel tempo: in 304 anni la Luna accumulava un giorno, 6 minuti e 40 secondi di più di quanto stabiliva il calendario. Sebbene questo calcolo fosse basato su antichi dati astronomici, la scoperta dell'errore portò Grossatesta a premere risolutamente perché si riformasse il calendario, impresa in cui fu sostenuto anche da altri studiosi di prestigio, come Campano da Novara, Giovanni di Sacrobosco e Ruggero Bacone.
L'altro problema cruciale posto dal calendario era dovuto alla discrepanza, di cui si è detto precedentemente, tra l'anno tropico (365,2423 giorni all'inizio dell'Era cristiana, con una diminuzione leggera nel tempo) e l'intervallo (365,25 giorni) implicito nel calendario giuliano. Alla fine del millennio, l'intero calendario slittava di un giorno in poco più di 130 anni. I commentatori medievali del calendario attribuirono diverse durate all'anno, riferendosi soprattutto a scritti islamici o spagnoli, tra cui quelli di al-Battānī, Ṯābit ibn Qurra, al-Zarqalī e le Tavole alfonsine. I corrispondenti parametri da questi derivati sarebbero stati di circa 106, 130, 136 e 134,2 anni (l'ultimo dei quali si rivela essere la fonte ultima del calendario che sarà adottato con la riforma gregoriana del 1582).
L'esempio più importante di calendario ecclesiastico aggiunse i giorni dei santi e altre festività religiose alla struttura originaria dell'antico calendario romano, in cui ciascun mese aveva tre giorni centrali, Kalendae, Nonae e Idus; le calende erano sempre il primo giorno del mese, le none normalmente il quinto, le idi il tredicesimo, ma per quattro mesi all'anno (marzo, maggio, luglio, ottobre) le none indicavano il settimo giorno e le idi il quindicesimo. Questi tre giorni erano presi come riferimento per calcolare gli altri procedendo a ritroso e comprendendo anche i giorni da cui si iniziava a contare; quindi, per esempio, il nostro 30 maggio era il loro ante diem tertium Kalendas Iunias (si veda La scienza greco-romana, cap. XXI, Tav. II). Questo sistema così macchinoso iniziò a perdere popolarità già prima della fine del millennio e il passaggio a quello oggi ancora in uso fu reso più veloce dall'utilizzazione delle tavole astronomiche, in cui la numerazione continua dei giorni rendeva il calcolo più semplice. Tuttavia, esistevano anche alcuni calendari astronomici tecnicamente avanzati che combinavano i due sistemi, e qualche strano ibrido, come l'uso bolognese (consuetudo bononiensis), che contava la prima metà del mese procedendo in avanti e l'altra metà all'indietro.
Le pagine dei calendari nei 'libri delle ore' erano accuratamente miniate; l'esempio più famoso, anche se poco fedele alla tradizione, è il Très riches heures di Giovanni di Francia, duca di Berry (m. 1416). Le finezze della miniatura s'intonano al ricco vocabolario di calcolo che le accompagna, comprendente regolarità solari, corrispondenze, lettere domenicali, numeri dorati, lettere lunari, lettere della Pasqua ebraica, numeri feriali, e così via. Questo codice era un'appendice pressoché indispensabile per un sistema di calcolo volto a un uso generalizzato, in un'epoca in cui metodi analitici algebrici (o di altro genere) non erano disponibili. Per 'numeri aurei', per esempio, s'intendevano i numeri del calendario che indicavano i 19 anni del ciclo metonico; nei calendari medievali questi si trovavano, in genere, nella prima colonna, vicina ai giorni in cui occorreva la Luna nuova in ogni anno del ciclo (nella pratica moderna a volte essi sono posti accanto alle Lune piene, e soltanto entro i limiti della Pasqua, tra il 22 marzo e il 25 aprile compreso).
Conoscere a quale giorno della settimana corrispondesse una precisa data dell'anno poteva essere utile in relazione ai giorni intitolati ad alcuni santi, ma serviva anche per calcolare la Pasqua, ossia per la ricerca di una domenica giusta. I primi cristiani adattarono alla settimana il vecchio sistema romano che suddivideva i giorni in gruppi di otto (nundinae), nominandoli con le lettere da A ad H; ai primi sette giorni dell'anno assegnarono le lettere da A a G. Per gli anni bisestili vi era una regola speciale; nell'anno bisestile, infatti, secondo l'antica pratica romana il 24 e il 25 febbraio erano chiamati nella stessa maniera, ante diem VI Kal. Mart., da cui il nome dies bissextus, e la designazione annus bissextus; a questi giorni fu quindi assegnata la stessa lettera F, senza alterare il resto dell'anno. Con questa distribuzione delle lettere, i giorni con la stessa lettera erano dunque gli stessi giorni della settimana (con qualche modifica nell'anno bisestile). La 'lettera domenicale' era quella che indicava le domeniche dell'anno preso in esame (erano necessarie due lettere per gli anni bisestili); essa seguiva uno schema (GF, E, D, ecc.) che si ripeteva secondo un ciclo di 28 anni. Anche in questo caso tali corrispondenze avrebbero potuto essere espresse in termini algebrici, ma di fatto si utilizzavano molto le tavole cicliche (era necessario conoscere l'inizio del ciclo solare di 28 anni; si credeva che corrispondesse al 9 a.C., un anno bisestile che cominciava con un lunedì).
Nei primi secoli dell'Era cristiana, poiché si utilizzava il calendario giuliano dell'Impero romano, le ere cronologiche erano calcolate in base a eventi pagani (in particolare, l'annus urbis conditae o ab Urbe condita, AUC, nell'Era dalla fondazione di Roma). Intorno al 525, a Dionigi il Piccolo fu chiesto di formulare nuove tavole della Pasqua per sostituire quelle di Vittorio d'Aquitania. Egli adottò la tradizione alessandrina, ma propose di contare gli anni a partire dalla nascita di Cristo; egli mantenne al 25 dicembre la data della nascita di Cristo, pur facendo iniziare l'Era cristiana dal seguente 1° gennaio, quello che è definito anno primo dell'Era cristiana (AD 1, cioè Anno Domini, 'nell'anno del Signore', 1). Dionigi fece corrispondere tale anno con l'anno 753 AUC (oggi si ritiene che l'anno della nascita di Cristo fosse calcolato con tre o quattro anni di ritardo, ma la questione è ancora aperta e comunque non ha più rilevanza cronologica, dato che la detta corrispondenza dell'anno 1 dell'Era cristiana con l'anno 753 dell'era AUC ha ormai carattere di convenzione immodificabile).
Sebbene il sistema cronologico dell'Era cristiana, oggi seguito in tutto il mondo per ogni uso civile, sia stato ampiamente utilizzato nel corso di tutto il Medioevo fino a diventare prevalente, in questo periodo erano usati anche altri sistemi. Quasi tutti i paesi calcolavano gli anni a partire dall'inizio del mandato del regnante in carica, o dall'avvento di una dinastia, ma con il diffondersi delle tavole astronomiche, provenienti soprattutto dalla Spagna, ci si rese conto che esistevano più possibilità, tra cui le Ere di Roma (AUC), di Alessandria d'Egitto, della Persia, dell'Islam, degli Ebrei, e persino l'Era spagnola. Anche coloro che conoscevano tutta questa varietà di sistemi attribuivano grande importanza alle proprietà numerologiche delle date dell'Era cristiana, tra cui quella del millennio era certamente la più rilevante; il fatto che tutto questo dipendesse interamente dai calcoli di Dionigi sembrava non rappresentare affatto un problema. Naturalmente, la numerologia era soltanto uno dei vari modi attraverso i quali erano profetizzati eventi epocali, come la venuta dell'Anticristo preconizzata nell'Apocalisse dell'apostolo Giovanni.
Nel Tardo Medioevo le autorità ecclesiastiche furono spesso sollecitate riguardo alla necessità di riformare il calendario. Grazie ai suoi rapporti con Guglielmo di Foulques, più tardi papa Clemente IV, Ruggero Bacone esercitò forti pressioni in questa direzione; egli mise in evidenza come la Chiesa avesse sbagliato di una settimana nel calcolare la Pasqua del 1267; secondo lui, il calendario era "insopportabile per qualsiasi uomo di cultura, orribile per gli astronomi e degno dello scherno di qualsiasi esperto nel calcolo" (Opus maius, IV, p. 285). Egli propose anche di togliere un giorno dal calendario ogni 125 anni e di adottare il calendario lunare-solare dei paesi orientali, oppure un approccio strettamente astronomico al calcolo della Pasqua, continuando però a usare le tavole ebraiche. Dopo Bacone si ebbero alcuni tentativi di definizione degli equinozi, come il trattato "che mostra le falsità del nostro calendario", scritto da un certo frate Giovanni di S. (non si tratta di Giovanni di Sacrobosco) intorno al 1273; alla fine, però, non fu operata nessuna riforma del calendario.
Un nuovo testo sul calcolo della Pasqua, che acquisì grande autorevolezza, fu l'ultimo degli otto libri del Rationale divinorum officiorum (1280 ca.) di Guglielmo Durante, opera fondamentale nella storia della liturgia occidentale (si tratta del primo testo non biblico a essere stampato nel 1459). Altri testi sul calcolo apparvero intorno al 1292, tra cui quelli di Pietro di Dacia e Guglielmo di Saint-Cloud. Guglielmo, che scriveva per Maria di Brabante, regina di Francia, contribuì a diffondere la consapevolezza dell'importanza fondamentale dell'astronomia in materia di calendari. Nella sua opera inserì molti elementi di tipo tecnico da lui stesso elaborati, come l'altezza del Sole a mezzogiorno, le ore della Luna nuova, gli archi diurni e notturni, e una tavola che permetteva al calcolatore scrupoloso di correggere la tavola di base (che comprendeva solamente quattro anni) dell'entrata del Sole nei segni zodiacali, evidenziando così gli errori empirici contenuti nei calendari del tempo, e alimentando quell'insoddisfazione necessaria per arrivare alla riforma.
La riforma del calendario era tuttavia ancora lontana. Nel 1344, quando Clemente VI si rivolse a Giovanni de Muris e Firmino di Bellavalle per avere consigli sull'argomento, questi gli proposero la vecchia idea di Giovanni di Sacrobosco, vale a dire di determinare l'equinozio di primavera eliminando l'aggiustamento dell'anno bisestile per 40 anni e uniformando il calendario lunare alla Luna reale. Peraltro, se si fossero realizzate queste riforme, cosa sarebbe accaduto con la determinazione delle festività nelle sette scismatiche, e come si sarebbe potuto sperare nell'unità della Chiesa? Di fatto, Clemente aveva così tanti problemi politici da affrontare che alla sua morte, nel 1352, le proposte di riforma erano già state dimenticate. Quando la questione fu nuovamente sollevata nella curia papale, essa rappresentò soltanto uno tra i tanti provvedimenti necessari ad arginare l'anarchia religiosa che seguì al grande scisma d'Oriente. Lo scisma si concluse nel 1417, dopo una celebre serie di incontri e concili iniziata nel 1409. Al Concilio di Roma del 1412, fu il cardinale e studioso Pietro d'Ailly a sensibilizzare l'antipapa Giovanni XXIII riguardo alla riforma del calendario; il decreto del 1412 non ebbe però alcun seguito, e il tema fu riproposto invano al Concilio di Costanza nel 1415 e ancora nel 1417.
Un significativo passo in avanti in questa direzione fu compiuto nell'ambito del Concilio di Basilea, quando il problema fu posto con forza da uno studioso di più alto livello, Niccolò Cusano, autore di un'opera su questo argomento, il De reparatione calendarii, del 1436. Nel 1437 Cusano fu designato per giudicare una relazione sulla riforma del calendario, scritta da una commissione scelta dal cardinale di Bologna. La commissione aveva effettivamente il potere d'indire la riforma, ma ancora un volta forti dissidi all'interno della Chiesa (in relazione alla tentata sospensione di papa Eugenio IV) impedirono che si proseguisse.
Nel corso del XV sec. emersero ulteriori problemi; gli studiosi cominciarono a chiedersi se, per esempio, il meridiano per il calcolo esatto della Pasqua fosse quello di Gerusalemme o quello di Roma, e cominciarono a pensare seriamente di abbandonare le vecchie convenzioni per adottare le esatte posizioni del Sole e della Luna. Così fecero Giovanni di Gmunden a Vienna e il grande astronomo umanista Regiomontano (1436-1476). Quest'ultimo fu invitato a Roma da papa Sisto IV allo scopo di riformare il calendario, ma morì poco dopo il suo arrivo. Altri tentativi si ebbero nei secoli successivi, alcuni dei quali per opera dell'astronomo e astrologo Paolo di Middelburg. Né il V Concilio del Laterano né il Concilio di Trento riuscirono a portare a compimento la riforma, e soltanto con la riforma gregoriana del 1582, molto tempo dopo la divisione delle chiese protestanti, i molteplici sforzi di un ristretto gruppo di astronomi finalmente ebbero un risultato.
Nel complesso, nel Medioevo l'interesse di tipo non religioso per il calendario ebbe poco peso; gli astronomi soltanto in rari casi osarono metterne in discussione la struttura di base. In tutto questo periodo, infatti, nell'Europa occidentale il problema del calendario, sebbene fondato su un'astronomia elementare, era sentito soprattutto come un problema di carattere ecclesiastico, e lo rimase ancora per lungo tempo.
di Uta Lindgren
L'orizzonte geografico
Mentre i viaggi in Terra Santa erano ancora in corso, l'attenzione, soprattutto nel periodo che va dal XIII al XV sec., fu rivolta più a oriente, dove le dominazioni mongole avevano reso possibili i viaggi e in qualche modo li avevano persino facilitati. La famiglia Polo e diversi missionari consegnarono le loro esperienze di viaggio a resoconti il cui contenuto geografico, tuttavia, divenne significativo soltanto a partire dagli inizi del XV secolo.
Intanto, nel XIV sec., i navigatori europei si erano anche diretti con maggiore enfasi verso ovest (Schmitt 1986). Mentre i Vichinghi non erano riusciti a conservare i contatti stabiliti intorno all'anno 1000 con la parte nord dell'America Settentrionale e, anzi, si erano ridotti alla Groenlandia e all'Islanda, alla fine del XIII sec. i Genovesi avevano cominciato a navigare nell'Atlantico; in direzione ovest, avevano esplorato l'aliseo di nord-est e la corrente nord-equatoriale, mentre per il ritorno avevano sperimentato la corrente del Golfo e la zona dei venti occidentali. In questo modo nel 1335 erano riusciti a stabilire un contatto permanente con le Isole Canarie e, prima del 1348, con le Azzorre. Il loro esempio era stato poi seguito dai Portoghesi e dagli Spagnoli. L'Africa non era ancora entrata nell'orizzonte delle esperienze degli Europei, poiché il commercio era stato sviluppato soltanto in un paio di località portuali.
Tipi di scrittura geografica
I generi letterari geografici degli inizi del Medioevo hanno mantenuto la loro attualità anche nel Basso Medioevo, come dimostra l'elevato numero di copie in circolazione. Aumentarono i resoconti di viaggio, anche se non ancora di contenuto geografico; la diversificazione dei tipi di scrittura subì un incremento, e diventarono numerosi soprattutto gli scritti geografici specialistici, dedicati a determinati fenomeni della geografia fisica o a singole regioni. Nel fenomeno della diversificazione dei tipi di scrittura rientra anche il fatto che nell'opera di Alberto Magno (1193 ca.-1280) si trovassero molti trattati di contenuto geografico, l'orientamento dei quali era in parte ispirato da Aristotele, ma che comunque rielaboravano l'intero corpus di informazioni del tempo.
In Alberto Magno era presente anche una nuova teoria della posizione geografica, che coincideva con grande precisione con la cartografia matematico-astronomica del suo tempo. Questa cartografia, costituita soprattutto dai portolani, era assai originale, e la sua esattezza ha affascinato sia i contemporanei sia gli storici. Un ulteriore progresso verso una nuova epoca furono le enciclopedie geografiche strutturate in ordine alfabetico (Giovanni Boccaccio, Corrado di Mure), nate contemporaneamente alla disposizione in ordine alfabetico delle enciclopedie generali che includevano voci geografiche (Juan Gil de Zamora). Il legame tra geografia e biologia, evidente già nelle opere di Giraldus e Alessandro Neckham, diventò ancora più forte in quelle di Alberto Magno e dei suoi discepoli e successori, rispettivamente Tommaso di Cantimpré (1201 ca.-1270 ca.) e Corrado di Megenberg (1309-1374). In questi casi la geografia divenne un'appendice della biologia.
Singole opere geografiche
Il prodotto più importante della geografia medievale furono i portolani (da portus), cioè carte marittime del Mediterraneo e del Mar Nero con una precisione media minore di 10´; ne abbiamo testimonianze a partire dalla seconda metà del XIII sec., ma potrebbero essere più vecchi di alcune decine di anni (Lindgren 1993). I portolani non ricorrevano ai modelli elaborati dagli scienziati musulmani, ma probabilmente si basavano sia sulla tecnica di osservazione astronomica che questi avevano perfezionato, sia sui corrispondenti strumenti; presumibilmente, ebbero origine nel Mediterraneo occidentale.
Storicamente, i portolani non avevano alcun modello antecedente a cui riferirsi, sebbene si possa ricostruire comunque un certo sviluppo nella determinazione delle coordinate. Il Medioevo aveva ripreso dall'Antichità il principio delle 'zone climatiche', ossia zone geografiche latitudinali che servivano a una suddivisione approssimativa delle regioni nelle zone della Terra a nord dell'equatore (Lindgren 1985). Per queste zone climatiche ‒ per lo più sette ‒ vi erano diverse determinazioni che potevano cominciare con la zona nella quale il giorno più lungo durava 12 ore, cioè all'equatore, o più a nord ‒ beninteso al solstizio d'estate ‒ con quella in cui durava 12 ore e 30 minuti o perfino 13 ore, anche perché gli stessi tropici suscitavano ancora scarso interesse. Anche il calcolo in gradi di latitudine, o numeri gnomonici, era variabile. Quando Gerberto di Aurillac (940/950-1003) insegnò ai suoi discepoli a osservare la Stella Polare, ciò rappresentò un passo importante verso la diffusione delle conoscenze pratiche necessarie per determinare le singole latitudini di un gran numero di luoghi. Il trattato sull'astrolabio di Gerberto di Aurillac conteneva liste di luoghi ordinate secondo le zone climatiche perché, per una determinata latitudine, le parti dell'astrolabio erano valide soltanto di volta in volta e durante i viaggi dovevano eventualmente essere sostituite.
Nei manoscritti medievali erano ampiamente diffuse le cosiddette 'carte zonali', in realtà schizzi di zone, che si presentavano in due forme; la prima con le 7 zone climatiche a nord dell'equatore e la seconda, risalente a Macrobio, con una suddivisione molto più approssimativa della Terra in 5 zone, secondo la loro abitabilità: due zone polari, due zone temperate e i tropici nel mezzo che, a causa della calura che vi dominava, erano immaginati come una terra bruciata, terra perrusta.
Nell'Antichità si era a conoscenza del fatto che la differenza oraria (ora locale) con cui due osservatori che non si trovano sullo stesso meridiano constatano un'eclissi lunare, poteva servire per calcolare la differenza delle longitudini dei loro luoghi di osservazione. Tuttavia non si hanno testimonianze che provino l'esistenza in quell'epoca di simili determinazioni, mentre non è molto probabile ottenere con queste procedure una precisione dell'ordine di un grado, senza considerare il fatto che le eclissi lunari si verificano raramente.
Nell'Occidente latino, soltanto nel XII sec. si trovano accenni al fatto che, senza dover far ricorso ai rari casi di queste eclissi, per il calcolo delle differenze di longitudine si poteva adoperare sempre (di fatto molto spesso) il metodo delle distanze lunari, cioè il calcolo delle distanze tra la Luna e una stella in prossimità dell'eclittica. A questo scopo era necessario disporre di tabelle con le posizioni delle stelle fisse (che esistevano già nell'Antichità) e si doveva poter determinare l'ora locale, cosa che, a partire dal XII sec., fu molto facilitata dall'invenzione e dalla diffusione del nocturlabium od orologio lunare. Con tavole lunari sufficientemente precise (effemeridi), un singolo osservatore poteva determinare la sua longitudine geografica relativamente al meridiano delle effemeridi. Per il XIII sec., epoca della nascita dei portolani, non sono state effettuate ricerche sulla precisione delle tavole lunari; senza queste tavole dovevano mettersi d'accordo due o più osservatori ed era raggiunta una maggiore esattezza se i punti di osservazione erano situati sullo stesso parallelo.
I profili costieri rappresentati nei portolani mostrano una grande somiglianza con quelli delle carte odierne; verticalmente alle coste erano riportati i nomi dei luoghi e dei punti litoranei, rafforzando così, otticamente, l'impressione dell'esattezza. L'interno delle varie regioni rimase in un primo momento inosservato, e anche successivamente, soltanto le carte di stile catalano-baleare lo inserirono, benché con finalità più pittoriche che di precisione geografica. I portolani più antichi (a partire dalla seconda metà del XV sec. sono note forme miste di portolani e carte tolemaiche) non avevano reticolo geografico (o reticolo dei gradi), bensì erano ricoperti da un reticolo regolare di corde su una o più circonferenze. Spesso le distanze potevano essere rilevate da scale o regoli in miglia, e per la posizione di questi reticoli di tipo particolare non esisteva una standardizzazione. Presumibilmente essi svolsero un ruolo nella produzione dei portolani; sicuramente lo hanno avuto nella loro utilizzazione poiché consentivano la determinazione delle distanze con l'aiuto del righello e del compasso.
Nei portolani non era indicata la direzione nord. Quando questa era segnata con l'aiuto della bussola o della rosa dei venti, allora la freccia del nord indicava esattamente verso l'alto; ciò corrispondeva alla direzione magnetica del nord, importante per la navigazione con la bussola. Su alcune carte, con la curvatura degli assi si teneva conto del fatto che la declinazione magnetica ‒ ossia lo scostamento angolare tra la direzione al nord geografico e quella indicata dall'ago della bussola ‒ variava sull'intera latitudine del Mediterraneo e del Mar Nero; era anche preso in considerazione il fatto che la declinazione magnetica in un certo luogo subiva variazioni nel tempo. Le direzioni nord dei portolani ancora conservati divergono tra 7° e 12° rispetto al nord reale del polo celeste e forniscono così la testimonianza di un'osservazione della declinazione magnetica e della sua versatilità nel tempo.
Per la maggior parte, i portolani tradizionali erano considerati prodotti piuttosto preziosi, non erano infatti destinati all'uso sulle navi e non erano esposti all'azione usurante del vento e dell'acqua del mare. La maggior parte degli esemplari medievali ricopre l'intera regione del Mediterraneo e del Mar Nero, ma ci sono anche carte dettagliate, come nel cosiddetto atlante di Pietro Vesconte (del quale sono conservate le carte elaborate tra il 1311 e il 1327). Nessun portolano è stato tramandato con la descrizione della sua produzione, ma quando, all'inizio del XV sec., gli scienziati della Germania meridionale cominciarono a elaborare anche carte regionali di qualità corrispondente, essi trasmisero un'indicazione che non soltanto non era adatta a nessun altro tipo di carta, ma concordava anche con i risultati delle ricerche moderne, secondo le quali i portolani non si basavano su una proiezione matematica (Mesenburg 1987). Le coordinate spaziali erano dapprima riportate su un globo con reticolo tolemaico e in un secondo momento, mediante il compasso, i punti passavano sui portolani per mezzo di un altro reticolo, che poteva servire a strutturare le superfici. Per i portolani successivi, i quali erano ancora riprodotti da un semplice originale, si è potuto constatare che solamente in un secondo momento il reticolo era posto sulle carte già pronte. A partire dagli inizi del XIV sec. qualche volta era prescritto ai capitani di tenere a bordo delle navi più portolani (Gautier Dalché 1992).
Alberto Magno vedeva una stretta connessione tra la precisione delle carte e l'astrologia, dal momento che il presupposto di entrambe era rappresentato dalla determinazione precisa, ossia astronomica, delle coordinate geografiche (scientia locorum, cioè 'conoscenza dei luoghi'). Egli, addirittura, voleva che tale determinazione venisse concepita alla stregua di una scienza naturale autonoma, e perciò la poneva al centro del suo scritto di geografia intitolato De natura locorum, in cui spiegava perché fosse di importanza vitale conoscere con precisione il luogo naturale degli esseri viventi e perfino delle pietre. Questa scientia locorum conteneva capitoli di cosmografia tradizionale; seguivano capitoli geografici relativamente semplici, tratti dallo Pseudo-Aethicus, che dimostravano come Alberto Magno non fosse molto interessato alla descrizione delle parti geografiche e forse non potesse neppure disporre degli scritti di Isidoro di Siviglia (560-636 ca.) o di Plinio (23-79).
Temi di cosmografia tradizionale e di geografia fisica erano presenti negli scritti astronomici di Alberto, come nel trattato De causis proprietatum elementorum. L'antica dottrina degli elementi, utilizzata anche da Plinio ma in modo subordinato al suo sistema geografico, fu posta in primo piano nel De causis appena citato, come anche in alcuni lavori suoi contemporanei, e questo tentativo di sistematizzazione era accompagnato da schizzi e illustrazioni, per lo più colorate, molto diffuse, nelle quali si vedeva la Terra rotonda al centro con intorno strisce orizzontali di acqua, aria e fuoco. In analogia con uno scritto di Aristotele (384/383-322), Alberto Magno redasse anche un'opera dal titolo Meteorum libri V che, in verità, comprendeva anche la regione sublunare e dimostrava ancora una volta la presenza nel pensiero dell'autore di forti riferimenti astrologici. Né in Aristotele né in Alberto Magno la meteorologia era intesa nel senso di scienza delle condizioni atmosferiche; uno sguardo agli scritti di quest'ultimo mostra come egli, a differenza di Aristotele, si occupasse della geografia in tutta la sua ampiezza, senza tuttavia dedicarle un'esposizione coerente.
Nell'Opus maius di Ruggero Bacone il capitolo riguardante la geografia mostrava alcuni parallelismi con le concezioni di Alberto Magno, anche se tutto il pensiero di Bacone era molto meno pervaso da considerazioni di tipo geografico. Anche Bacone prendeva le mosse dalla determinazione delle coordinate, la cui importanza per l'umanità egli propagandava enfaticamente, e vi collegava una geografia regionale della Terra. Ancora prima che in Alberto Magno e in Bacone, tuttavia, il legame concettuale fra astrologia e geografia era già presente nel pensiero di Michele Scoto (1175 ca.-1236), anche se in questo autore mancavano riferimenti alla determinazione delle coordinate geografiche e l'esposizione delle pratiche astrologiche era molto più dettagliata.
La versatilità di Scoto era testimoniata anche dal suo commento al De sphaera mundi di Giovanni di Sacrobosco. Il piccolo scritto dello scienziato parigino, divenuto straordinariamente popolare, trattava principalmente della sfera terrestre e della sua posizione nel Cosmo, seguendo le rappresentazioni cosmologiche di Plinio (Libro II), ma escludeva qualsiasi approccio di geografia fisica, come anche, naturalmente, di geografia regionale. La zona equatoriale era trattata con maggiore attenzione, citando, oltre a Luciano, anche Alfragano (al-Farġānī), grazie alle notizie più precise che i commercianti musulmani portavano dai tropici e che mettevano in crisi l'antica immagine dei tropici come terra perrusta.
Mentre il De sphaera mundi di Giovanni di Sacrobosco faceva praticamente a meno della tradizione astronomica araba, questa fu ampiamente citata dai suoi innumerevoli commentatori, tra i quali Roberto Anglico (1271), Michele Scoto, Bernardo di Trilia (o di Triglia; 1292), Bartolomeo da Parma (1297), Andalò di Negro (dopo il 1323), Ugo de Castello (1337), Enrico di Simberg (1346) e Corrado di Megenberg (1346). Il De sphaera di Giovanni di Sacrobosco fu anche tradotto (in tedesco, per es., da Corrado di Megenberg) e ristampato fino in epoca moderna; è di gran lunga l'opera che ha avuto il maggiore successo nel genere ampiamente diffuso degli scritti cosmografici. Indipendentemente da Giovanni di Sacrobosco, anche Roberto Grossatesta, Giovanni Peckham (prima del 1250) e Campano da Novara (intorno al 1292) redassero piccoli scritti sul tema de sphaera.
Con la separazione dalle altre parti della geografia, gli scritti de sphaera diventarono specialistici. Il tema della forma sferica della Terra e quello della distribuzione delle acque su di essa erano oggetto di un trattato del 1297 attribuito a Dante Alighieri (1265-1321), il De situ et forma aque et terre, una originale spiegazione scolastica di luoghi aristotelici e tolemaici; fra questi scritti specialistici si devono anche annoverare le copie di opere geometriche tratte dal Corpus agrimensorum.
Dalla prassi della certificazione legale del Basso e Alto Medioevo si sa soltanto che per le transazioni fondiarie erano nominati i rispettivi vicini, senza pensare a misurazioni geometriche o geodetiche; per i portolani non si teneva conto, per via della loro scarsa esattezza, delle posizioni di base ottenute geodeticamente. Ciononostante, già dall'epoca di Gerberto di Aurillac ci è stato tramandato lo scritto prevalentemente geodetico Geometria incerti auctoris, con la descrizione di uno strumento a tre barre per la misurazione degli angoli, il triquetum, facilmente riproducibile. Su un caso in cui, nel giudizio di giuristi medievali, fu necessario applicare in modo significativo metodi geodetici, riferiva Bartolo di Sassoferrato (1314-1357) nel suo scritto Tyberiades, in cui narrava che dopo una piena il Tevere aveva spostato così durevolmente il suo letto che si dovette ridistribuire nuovamente il territorio emerso e che i proprietari, il cui terreno era stato spazzato via, ne furono danneggiati (Hellwig 1992). Questa trattazione (ristampata fino in epoca moderna, in parte con illustrazioni esplicative) usava una geometria corrispondente alle semplici regole degli agrimensori, che consistevano soprattutto nel trasferire le effettive forme territoriali, per la cui misurazione le conoscenze matematiche non erano sufficienti, in figure rettangolari facilmente determinabili, la cui dimensione, poi, doveva soltanto essere sommata.
A un primo esame, il dizionario geografico di Giovanni Boccaccio (1313-1375), composto negli anni 1335-1364, è sorprendente; esso contiene diverse rubriche ‒ montagne, foreste, laghi, fiumi e così via ‒ ognuna delle quali ordinata alfabeticamente. L'intenzione di Boccaccio era quella di aiutare gli studenti e gli eruditi non soltanto a identificare regioni sconosciute, ma anche a capirne la posizione e le caratteristiche; probabilmente egli aveva come modello l'opera ‒ andata perduta ‒ di Corrado di Mure (1210-1281), Libellus de propriis nominibus fluvium et moncium, e quella di Riccobaldo di Ferrara (m. dopo il 1318), Liber de locis orbis et insularum et marium. Tra i dizionari e le enciclopedie, che in questo stesso periodo nascevano in numero incalcolabile, occorre ricordare inoltre la Historia naturalis di Juan Gil de Zamora (1250 ca.-prima del 1318), in cui le voci geografiche e cosmografiche erano trattate piuttosto dettagliatamente pur senza essere al centro dell'opera, che aveva invece un orientamento biologico (l'autore però non andò oltre la pur ricchissima lettera 'A'). Proprio come appendice di opere enciclopediche di contenuto principalmente biologico, si trovano capitoli con elementi di cosmografia e di geografia fisica anche nel Libro della natura di Corrado di Megenberg e nel De natura rerum di Tommaso di Cantimpré, nonché nella maggior parte delle numerose rielaborazioni di quest'opera.
Se Alberto Magno aveva dedicato a temi geografici già molte opere di diverso tipo, nella letteratura geografica comparve un'ulteriore diversificazione quando alcuni fenomeni di geografia fisica furono oggetto di trattati specialistici di altre scienze, in parte completamente nuove. Così l'arcobaleno, in precedenza argomento di studio delle proprietà e dei fenomeni dell'aria, divenne un problema centrale dell'ottica, disciplina che aveva avuto appena inizio. Un altro problema ‒ la fluttuazione delle maree ‒ sembra aver interessato molti studiosi, senza però che su questo argomento si siano acquisite conoscenze essenzialmente nuove; in generale, il mare costituiva ormai un tema che non affascinava più soltanto i geografi.
Nello straordinario numero dei divulgatori che scrivevano in versi, e che godevano di grande popolarità, è da citare Restoro d'Arezzo (seconda metà del XIII sec.), il cui scritto La composizione del mondo colle sue cascioni presentava la struttura di un'opera di scienze naturali; dietro il titolo si nascondeva però un testo dal linguaggio molto fiorito con poche informazioni oggettive, meno che nello Pseudo-Aethicus e in Giovanni di Mandeville. Nella geografia regionale furono poi gradualmente assorbite anche le nuove conoscenze dei viaggiatori, come, per esempio, la scoperta e la presa di possesso delle isole atlantiche nel catalano Libro del conocimiento del 1348, l'unico testo che abbia reso possibile la datazione della scoperta; ciò vale soprattutto per la descrizione dell'Atlantico del Nord presente nelle saghe. Sempre alla geografia regionale sono poi riconducibili anche singole descrizioni di luoghi che comparvero per la prima volta in Italia: Mirabilia urbis Romae (XII sec.), De laudibus Papiae (1130 ca.), De laudibus Bergomae di Moses del Brolo (ossia di Bergamo, prima del 1100-dopo il 1156/1157), come anche una descrizione spagnola di Roncisvalle (XIII sec.).
Nel genere, sempre più diffuso in quest'epoca, della descriptio Terrae Sanctae si deve ricordare la carta della Palestina di Marino Sanudo, in assoluto la prima carta specialistica di una regione. Essa fu disegnata su una griglia geometrica costituita da parallele disposte perpendicolarmente le une rispetto alle altre, la quale però non aveva niente a che vedere con il reticolo geografico dei gradi.
Resoconti di viaggio
I viaggiatori delle missioni e del commercio nell'Estremo Oriente si trovarono a contatto con terre inesplorate, diventate accessibili grazie alla liberalizzazione dei traffici attraverso il dominio mongolo in seguito alle invasioni di Genghiz Kāhn. Fra essi ebbero particolare importanza Giovanni dal Piano dei Carpini (1190-1252), Guglielmo di Rubruk (1215/1220-1270 ca.), Giovanni da Marignolle (attivo tra il 1338 e il 1353), Giovanni da Monte Corvino (1247-1328 ca.) e Odorico da Pordenone (1268 ca.-1331). In questa fase di liberalizzazione si svolsero anche i viaggi dei Polo da Venezia verso la Cina, che ‒ attraverso il racconto di Marco Polo (1254-1324) dettato nella prigione genovese ‒ raggiunsero una grande celebrità. Tuttavia, nel periodo antecedente al 1400, il contenuto geografico di queste descrizioni e resoconti di viaggio era ancora scarso, mentre lo era di gran lunga superiore in altre impressioni di viaggio. Nel XIII sec. il numero dei viaggiatori-scrittori crebbe però considerevolmente rispetto al periodo precedente, anche se solamente nel XV sec. cominciò a diventare evidente nelle loro opere anche un'intenzione geografico-descrittiva.
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