La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. La cosmologia
La cosmologia
I termini 'Cosmo' e 'cosmologia' derivano dai greci kósmos e kosmologikós ed entrarono nell'uso solamente nel XVII sec.; nel Medioevo non si utilizzava nessun termine latino affine a 'Cosmo' e a 'cosmologia', e i filosofi della Natura adoperavano mundus, caelum e universum. L'oggetto della cosmologia era lo studio della struttura e del funzionamento del mondo, o Universo; ma, poiché questo era anche un importante obiettivo della più generale e onnicomprensiva filosofia della Natura, la cosmologia può esserne considerata la branca più ampia. Come tale essa era indipendente dall'astronomia, che, pur includendo elementi di cosmologia, tuttavia era essenzialmente una scienza matematica ‒ o scientia media, come era chiamata nel Medioevo ‒ e utilizzava la geometria per predire le posizioni dei pianeti sia tra loro sia rispetto allo Zodiaco. Viceversa, benché la cosmologia incorporasse alcuni elementi di astronomia, il suo scopo principale era spiegare il come e il perché del funzionamento del Cosmo, compito per il quale non erano necessarie molte nozioni matematiche e astronomiche. Gli autori medievali dei trattati di cosmologia erano esperti di metafisica e di filosofia della Natura, discipline che fornivano tutti gli strumenti necessari per le loro indagini. L'astronomia e la cosmologia non s'integrarono in un insieme organico fino all'epoca di Niccolò Copernico (1473-1543) e, soprattutto, di Johannes Kepler (1571-1630).
La tradizione latina dell'Alto Medioevo era dominata dalla visione platonica del mondo derivata dalla traduzione del Timeo da parte di Calcidio (IV-V sec.) e sviluppatasi tra il VI e l'XI secolo. Le teorie di Platone erano integrate con le idee neoplatoniche e con frammenti e citazioni estratte dai compendi greci compilati durante il periodo ellenistico. Tutto questo materiale entrò a far parte di una serie di opere latine redatte tra il I e l'VIII sec. da un gruppo di autori noti collettivamente col nome di 'enciclopedisti latini', tra i quali si annoverano Plinio (23-79), Marziano Capella (prima metà del V sec.), Macrobio (IV-V sec.), Calcidio, Boezio (480 ca.-524/525), Cassiodoro (490 ca.-580 ca.), Isidoro di Siviglia (560-636 ca.) e il Venerabile Beda (672 ca.-735). La descrizione del mondo che questi autori delinearono nelle loro opere formò le basi dell'interpretazione di autori più tardi, come Adelardo di Bath (1070 ca.-1160), Bernardo Silvestre (attivo nel 1150 ca.), Guglielmo di Conches (1080-1154 ca.), Teodorico di Chartres (m. 1155 ca.) e altri ancora.
A questa tradizione se ne affiancò poi una seconda che la soppiantò quando in Spagna, in Sicilia e nell'Italia settentrionale altri studiosi europei, in gran parte cristiani, iniziarono una indefessa opera di traduzione in latino di un gran numero di opere scientifiche e di filosofia della Natura greche e arabe. Molte di queste trattavano di cosmologia e fino ad allora erano rimaste quasi completamente sconosciute all'Europa occidentale cristiana. Le opere di Aristotele ‒ soprattutto il De caelo, la Fisica, i Meteorologica, il De generatione et corruptione e la Metafisica ‒ furono integrate con l'Almagesto e la Tetrabiblos di Claudio Tolomeo e con quelle di numerosi autori e commentatori arabi, in particolar modo Averroè (1126-1198), Avicenna (980-1037), Alhazen (965 ca.-1039 ca.), Alfarabi (870 ca.-950), Ṯābit ibn Qurra (836-901), e quelle del filosofo ebreo Maimonide (1135-1204). Benché la letteratura tradizionale latina dell'Alto Medioevo fosse ancora presa in considerazione, la sua autorità fu soppiantata da quella di Aristotele, di Tolomeo e di un nutrito gruppo di autori islamici.
Nel corso del XII sec. e all'inizio del XIII, mentre proseguiva l'opera di traduzione, l'evoluzione del movimento universitario portò alla nascita delle prime tre grandi istituzioni di questo tipo: l'Università di Bologna, quella di Parigi e quella di Oxford. Accanto alla logica, la materia più importante del programma universitario era la filosofia della Natura, orientata prevalentemente verso la cosmologia, e la nostra conoscenza attuale della cosmologia medievale proviene proprio dalle università, dalle lezioni dei maestri di filosofia della Natura e di teologia, nonché dai trattati da essi compilati basandosi su quelle lezioni. Attraverso lo studio di questi testi traspare il modo in cui i filosofi della Natura e i teologi interpretarono il funzionamento e la struttura del Cosmo sulla base della cultura, della metafisica e della teologia del loro tempo.
I testi cosmologici medievali più significativi furono di gran lunga i numerosi commenti ai libri aristotelici sulla Natura, in particolare ai trattati (per es., i commenti di Tommaso d'Aquino alla Fisica e al De caelo). Questo metodo fu però largamente superato da quello cosiddetto della quaestio, che era il corrispondente letterario della tecnica espositiva del maestro medievale. Un trattato di questo tipo, su un testo di Aristotele, consisteva in una serie di domande (quaestiones) a ciascuna delle quali si rispondeva in una forma prestabilita. Nelle Quaestiones super De caelo Nicola Oresme (1320 ca.-1382) formulò un totale di 45 domande, tra le quali figuravano le seguenti: se il mondo fosse perfetto; se vi fosse materia nel cielo; se fosse possibile l'esistenza di numerosi mondi; se vi fosse, o potesse esserci, qualcosa al di fuori del cielo (o del mondo); se l'intera Terra fosse sempre in quiete, ecc.
Benché il De caelo fosse la più importante opera di cosmologia in uso (tanto che le quaestiones su di esso costituiscono la migliore fonte di informazioni sulla cosmologia del periodo), alcune significative problematiche erano affrontate anche in alcuni trattati scolastici sulla Fisica, sui Meteorologica e sulla Metafisica, dove veniva espresso il modo in cui i filosofi della Natura scolastici consideravano l'attività del mondo fisico nelle due regioni ‒ quella celeste e quella terrestre ‒ nelle quali Aristotele aveva diviso l'Universo. La letteratura cosmologica medievale non si esauriva però qui; il Tractatus de sphaera di Giovanni di Sacrobosco (attivo nel 1230), che servì da testo universitario per circa quattro secoli, diede origine anch'esso a vari commenti, e i trattati enciclopedici di Vincenzo di Beauvais (1190 ca.-1264), di Bartolomeo Anglico (attivo tra il 1220 e il 1240), così come quelli di Gregor Reisch (1470 ca.-1525) alla fine del XV sec., contenevano molto materiale di argomento cosmologico.
Tuttavia, i trattati teologici erano di gran lunga i più importanti. Tra essi vi erano gli esameroni dei Padri della Chiesa, scritti nella Tarda Antichità, che, come suggerisce il nome, erano commenti ai sei giorni della Creazione narrati nel libro della Genesi. Questa tradizione, proseguita nel corso di tutto il Medioevo, fu sostanzialmente incorporata nei commenti alle Sententiae di Pietro Lombardo (fine XI sec.-1160), opera redatta intorno al 1155, e utilizzata come libro di testo nelle scuole di teologia per circa cinque secoli. Nel secondo dei quattro libri delle Sententiae ‒ dedicati rispettivamente a Dio, alla Creazione, all'Incarnazione e ai sacramenti ‒ l'autore introduceva una discussione sui sei giorni della Creazione, che doveva essere commentata dagli studenti di teologia; i commenti che ne derivarono, dal contenuto prevalentemente cosmologico, introdussero quindi nella cosmologia medievale una significativa componente cristiana. I teologi tentarono quindi di dare una risposta a diverse questioni quali l'eternità del mondo, il numero delle sfere celesti, la natura del cielo empireo, ecc. (v. cap. XXXI).
La teologia influì sulla cosmologia medievale non soltanto attraverso la narrazione biblica della Creazione, ma anche perché, come custodi dell'ortodossia, i teologi presero decisioni che ne influenzarono lo sviluppo. Nel 1277, per esempio, il vescovo di Parigi Stefano Tempier (m. 1279) condannò 219 proposizioni che da quel momento non poterono essere sostenute in pubblico o in privato senza incorrere nella scomunica. Uno degli obiettivi della condanna consisteva nel sostenere che azioni considerate impossibili nel mondo di Aristotele erano possibili nel mondo creato e controllato dal Dio cristiano; il potere assoluto di Dio e la libertà di agire a suo piacimento non dovevano essere messi in discussione. Il vescovo di Parigi, dunque, volle condannare la tesi, implicitamente sostenuta da Aristotele, secondo la quale neppure Dio avrebbe potuto creare più di un mondo o muovere il mondo con un moto rettilineo; in questo caso il mondo avrebbe lasciato dietro di sé un vuoto, la cui esistenza Aristotele considerava impossibile. Anche se ben pochi studiosi erano disposti a credere che Dio volesse compiere effettivamente simili azioni, era comunque necessario riconoscergli il potere di farlo; in questo modo la teologia e il dogma svolsero un ruolo nella formazione della cosmologia medievale.
La visione del Cosmo emersa nel Tardo Medioevo era dunque modellata sulle opere e sulle idee di Aristotele e di Tolomeo, con l'aggiunta di elementi cristiani. I filosofi della Natura medievali concepivano il mondo come una sfera materiale finita, un pieno nel quale non erano possibili spazi vuoti. Dalla circonferenza al suo centro geometrico, il mondo era considerato come una vasta gerarchia di sfere concentriche di perfezione decrescente. Sulle orme di Aristotele, i filosofi della Natura medievali sostenevano la divisione del mondo in due regioni rigidamente separate, ossia quella celeste e quella terrestre o sublunare, le cui proprietà differivano radicalmente. La regione celeste dei pianeti, delle stelle e delle sfere era composta da un particolare etere incorruttibile, o quinto elemento, che s'irradiava dalla superficie convessa della sfera lunare fino alla più lontana sfera celeste. Nel Tardo Medioevo quest'ultima fu estesa al di là della sfera delle stelle fisse, vale a dire al di là del limite del Cosmo di Aristotele, fino a comprendere il cielo empireo, ideato dal cristianesimo a dimora di Dio e degli eletti. Al contrario, la regione terrestre immediatamente al di sotto si estendeva dalla superficie concava della sfera lunare fino al centro della Terra; costituita da quattro elementi (fuoco, aria, acqua e terra) e dai loro composti, essa era il regno del mutamento incessante e della corruzione.
La questione dell'origine del mondo rivestiva molta importanza per il cristianesimo; il mondo era stato creato, quindi aveva avuto un principio e presumibilmente doveva avere una fine, oppure non aveva né principio né fine, e quindi era eterno? Le Sacre Scritture (Genesi, Apocalisse) spiegavano che il mondo era stato creato in modo soprannaturale e che alla fine sarebbe stato distrutto sempre per cause soprannaturali; Aristotele, invece, era portatore di un messaggio opposto, ossia il mondo non poteva aver avuto un principio e non avrebbe mai potuto avere una fine. Nel corso del XIII sec., la questione dell'eternità del mondo si impose dunque come importante argomento di discussione all'Università di Parigi, come dimostra la già citata condanna del 1277. Benché fosse proibito sostenere l'idea dell'eternità del mondo e alcuni scolastici, come Bonaventura da Bagnoregio (1217 ca.-1274), tentassero di dimostrare l'assurdità di questa opinione, altri filosofi dimostrarono che il concetto di un ente dotato di un'esistenza eterna non era in sé contraddittorio. Alla fine sembrò avere il sopravvento una significativa posizione intermedia proposta da Tommaso d'Aquino e da altri, che sostenevano che Dio potesse aver creato il mondo rendendolo tuttavia eterno. Essi consideravano l'eternità del mondo come un problema neutrum, cioè credevano che fosse impossibile dimostrare con argomenti logici l'esistenza o l'assenza di un inizio temporale.
Nel De aeternitate mundi Tommaso insisteva sul fatto che l'affermazione secondo la quale qualcosa sia stato creato da Dio, e ciò nonostante non sia mai stato privo di esistenza, non conteneva nessuna contraddizione logica. In questo modo egli era in grado di sostenere che Dio poteva aver voluto l'esistenza del mondo, senza tuttavia averne causato l'inizio temporale. Sebbene questa fosse un'opinione popolare, i cristiani sapevano di essere tenuti a credere, come atto di fede, che il mondo fosse stato creato dal nulla in modo soprannaturale. Infatti, benché su questo punto non vi fosse nessuna esplicita affermazione né nei testi sacri ebraici né in quelli cristiani o musulmani, l'idea della Creazione ex nihilo era stata largamente accettata sin dal XII sec., molto tempo prima di diventare un elemento costitutivo della dottrina cristiana e di essere inserita nel 1215 nel quarto canone del IV Concilio del Laterano. L'attrazione che esercitava questa idea è evidente, in quanto un Dio che può creare un mondo dal nulla sembrava, prima facie, molto più potente di una divinità che, come il demiurgo del Timeo platonico, ne è incapace (Grant 1994).
Anche ammesso che Dio avesse creato il mondo, dove lo aveva creato? Molti, con Aristotele, sostenevano che il Cosmo fosse tutta la realtà esistente e che quindi occupasse tutti i luoghi e tutti gli spazi. Nel De caelo si affermava che il nostro mondo è unico, e che non c'è spazio o vuoto al di fuori di esso (279a 11). Nel XIV sec. Tommaso Bradwardine (1290-1349), Nicola Oresme e probabilmente Giovanni di Ripa (attivo nel 1354 ca.) affermarono che, al di là del nostro mondo, esisteva realmente uno spazio vuoto infinito che essi identificavano con l'immensità infinita di Dio, identificazione questa che ebbe un seguito fino al XVII secolo. Poiché Dio era immutabile e indivisibile, e dunque non poteva essere un'entità corporea, la sua immensità era priva di dimensioni corporee; ne conseguiva che lo spazio vuoto infinito che costituiva la sua immensità era anch'esso senza dimensioni. Bradwardine sosteneva nel De causa Dei contra Pelagium et de virtute causarum che il vuoto poteva esistere senza corpo, ma in nessun caso senza Dio; laddove alcuni antichi filosofi greci, in particolar modo gli stoici, collocavano uno spazio vuoto extracosmico infinito e tridimensionale, gli scolastici medievali presumevano uno spazio vuoto infinito ma senza dimensioni.
Riguardo all'esistenza di qualsiasi altra cosa al di là del nostro mondo, Aristotele ne negava la possibilità. Su questo punto, sembra che il filosofo greco e il cristianesimo concordassero: non vi era che un solo mondo. Ciò che Aristotele considerava impossibile, era però ritenuto possibile in un contesto cristiano che voleva mettere in evidenza il potere assoluto di Dio di fare tutto ciò che voleva, indipendentemente da ogni contraddizione logica. La condanna della prop. 34, una delle 219 prese di mira nel 1277, sancì dunque come offesa degna della scomunica la tesi secondo cui Dio non avrebbe potuto creare un altro mondo se lo avesse desiderato. Anche se nessuno credeva che Dio avesse realmente creato altri mondi, il suo potere non doveva essere messo in discussione.
Asserendo la possibilità di ipotetici altri mondi gli aristotelici medievali ‒ che li immaginavano come sistemi autonomi chiusi, ciascuno con la sua circonferenza e il suo centro ‒ contraddicevano la tesi di Aristotele secondo cui era possibile l'esistenza di una sola circonferenza e di un solo centro, quindi di un solo mondo; la possibilità di una pluralità di mondi contrastava con l'idea aristotelica che i quattro elementi avessero un luogo rigidamente fisso e determinato.
Nel mondo unico descritto da Aristotele l'etere celeste, che si estendeva dalla Luna fino alla più lontana superficie dell'Universo, era considerato la regione più nobile del mondo, in quanto era incorruttibile e ipoteticamente uniforme. Questa nobiltà era dimostrata dalla sua incorruttibilità, come pure dalla sua sottigliezza e rarefazione, e prova di incorruttibilità era l'assenza di mutamenti, osservati o registrati, nella regione celeste; questa differiva radicalmente da quella terrestre che, al contrario, era soggetta a un incessante mutamento. Aristotele e i suoi seguaci medievali sostenevano che le qualità opposte, o contrarie, provocassero generazione e corruzione succedendosi l'una all'altra; nella regione celeste le coppie dei contrari erano assenti perché, eccettuato il cambiamento di posizione che si determinava quando i corpi celesti erano trasportati attorno ai cieli, nessun mutamento era possibile. Ciononostante, di solito i filosofi della Natura e gli astrologi descrivevano i pianeti come se possedessero qualità simili a quelle terrestri (per es., consideravano Saturno freddo e asciutto, Marte caldo e asciutto, la Luna fredda e umida, e così via per gli altri pianeti). Essi non ritenevano però che queste fossero proprietà reali ed effettive dei pianeti; erano infatti considerate proprietà virtuali (virtualis) piuttosto che formali (formalis): per esempio, il Sole non era realmente caldo, ma possedeva la capacità di provocare calore negli oggetti terrestri.
Generalmente si riteneva che l'etere celeste fosse trasparente e invisibile. Gli aristotelici medievali ‒ tra cui Ruggero Bacone (1214 ca.-1294), Alberto Magno (1193 ca.-1280), Giovanni Buridano (1290 ca.-1358 ca.) e Alberto di Sassonia (1316-1390) ‒ spiegavano però la visibilità dei pianeti e delle stelle, che di questo etere erano composti, sostenendo che una stella o un pianeta era la parte più densa della sfera che lo trasportava; questo ammasso più denso di etere era visibile perché rifletteva la luce verso di noi.
Per fornire una spiegazione della visibilità dei corpi celesti bisognava supporre che nei cieli fossero possibili (anzi necessari) differenti gradi di rarefazione e di densità, e che fosse la luce del Sole a rendere visibili i corpi celesti. Coloro che consideravano i corpi celesti tanto densi da essere opachi sostenevano che essi riflettevano la luce del Sole verso di noi; coloro che ritenevano invece i corpi celesti meno densi, o persino trasparenti, sostenevano che la luce del Sole penetrando nell'etere del pianeta lo rendesse luminoso in sé e perciò visibile. Quest'ultima opinione era probabilmente più diffusa della prima.
L'opinione che la forma dei pianeti e delle stelle fisse fosse sferica era basata in parte sull'osservazione. Come prova di sfericità, Aristotele, nel De caelo, aveva osservato che la Luna era evidentemente sferica, perché nessun'altra ipotesi poteva spiegare la forma a semicerchio dell'eclissi di Sole; dalla sfericità della Luna egli aveva poi dedotto che anche tutti gli altri pianeti e le altre stelle dovevano essere sferici. Inoltre, la sfericità era considerata la forma più perfetta e la più nobile.
Ma come erano disposti nel Cosmo questi pianeti sferici e luminosi? Tolomeo nell'Almagesto ne aveva determinato l'ordine basandosi sulla simmetria: tre pianeti al di sopra del Sole (Saturno, Giove e Marte) e tre al di sotto (Venere, Mercurio, Luna). I primi tre erano disposti in ordine discendente sulla base del loro periodo siderale, che era rispettivamente di 30, 12 e 2 anni. Per la sua posizione centrale di quarto pianeta ‒ sia contando dal pianeta più esterno, Saturno, sia da quello più interno, la Luna ‒ e a causa delle sue funzioni di dispensatore di luce e di generatore di vita, il Sole era spesso considerato il pianeta più importante del Cosmo. Alberto di Sassonia nelle Quaestiones in libros de caelo et mundo considerava ragionevole che il Sole si trovasse al centro ‒ con tre pianeti al di sopra e tre al di sotto ‒ come un re nel suo regno, per esercitare ugualmente la sua influenza e illuminare in alto e in basso.
Alcuni anni prima, Oresme aveva reso esplicito nel suo Le livre du ciel et du monde ciò che Alberto di Sassonia affermava soltanto implicitamente, e cioè che il Sole era il più nobile corpo dei cieli, più perfetto di Saturno, Giove o Marte, che si trovavano più in alto. A dire il vero, egli considerava Giove più nobile di Saturno e la Luna più nobile di Mercurio e concludeva affermando che la perfezione delle sfere celesti non dipendeva dall'ordine della loro posizione relativa, cioè dalla circostanza che una si trovasse più in alto dell'altra. Se Oresme negava il concetto di nobiltà ascendente, Buridano però lo difendeva e lo razionalizzava utilizzando argomenti tratti da Averroè. Nel trattato In Metaphysicen Aristotelis egli argomentava che come un uomo era assolutamente più perfetto di un cavallo, benché un cavallo gli fosse superiore in grandezza, in velocità e in forza, così, benché i tre pianeti superiori fossero assolutamente più nobili del Sole, non era assurdo che il Sole fosse loro superiore in alcune virtù.
Per quanto riguarda le stelle fisse, nell'Almagesto Tolomeo ne aveva contate 1022, un numero riproposto più volte nel Medioevo. Vi era però una certa ambivalenza riguardo alla definitività di questo numero. Alcuni ritenevano infatti che 1022 fossero le stelle visibili, asserendo in tal modo la possibilità dell'esistenza di altre stelle invisibili dato che numerosi brani biblici contraddicevano l'idea che vi fosse un numero definito di stelle fisse. Anche Agostino di Ippona aveva richiamato l'attenzione sull'esistenza di stelle nascoste alla nostra vista, e già il trattato pseudoaristotelico De mundo aveva sostenuto che la moltitudine delle stelle fisse era innumerabile per gli uomini.
Vi era un accordo pressoché generale nel ritenere che le stelle fisse fossero i corpi celesti più lontani dalla Terra; quindi, i raggi visivi, che si pensava fossero emessi dai nostri occhi e giungessero fino alle stelle, dovevano percorrere una distanza così grande da perdere il loro vigore prima di averle raggiunte. Di conseguenza, gli osservatori terrestri vedevano sempre le stelle scintillare, fenomeno che non si verificava con i pianeti perché, come aveva sostenuto Aristotele nel De caelo (290a 16-24), i raggi che li raggiungevano erano troppo forti per produrre la sensazione di tremito. Inoltre, nello stesso modo in cui si assumevano le diversità esistenti tra i pianeti, si riconosceva una differenza fondamentale anche tra le stelle fisse e cioè la luminosità. Basandosi sull'opinione di Tolomeo, confermata dagli astronomi arabi, si supponeva che le stelle fisse fossero equidistanti dalla Terra benché la loro luminosità apparisse differente a chi le osservava; si dedusse che questa dovesse quindi essere proporzionale alla dimensione. Vennero distinti sei diversi gradi di luminosità, o di dimensioni (magnitudine), che condussero alla classificazione delle 1022 stelle fisse secondo sei diverse magnitudini.
Benché a occhio nudo potesse sembrare che i pianeti e le stelle si muovessero, nell'Antichità e nel Medioevo questa credenza fu poco diffusa. Aristotele e Tolomeo avevano spiegato che ciascun pianeta era fissato a una sfera individuale, trasparente, invisibile ed eterea che lo trasportava attorno al cielo; ogni sfera che trasportava un pianeta era a sua volta fissata a un insieme di sfere concentriche che corrispondevano alle caratteristiche di questo pianeta. Non soltanto era assegnata una singola sfera a ciascun pianeta, ma anche a ogni suo movimento, sia che questo fosse giornaliero oppure di altro periodo; inoltre, la sfera che trasportava il pianeta si trovava al centro del suo insieme di sfere e quindi l'ordinamento dei pianeti che ne risultava era una gigantesca combinazione di sfere concentriche. Nel delineare la sua configurazione, Aristotele aveva avuto bisogno di non meno di 55 sfere, mentre Tolomeo ne calcolò 41; un'unica sfera, sulla quale si supponeva fossero disposte alla stessa distanza dalla Terra tutte le stelle fisse, circondava e racchiudeva le sfere planetarie.
Quando, tra il 1160 e il 1250, il sistema aristotelico e quello tolemaico fecero il loro ingresso nell'Europa occidentale grazie alle traduzioni latine, i filosofi della Natura si trovarono di fronte al dilemma di scegliere fra il sistema di Aristotele e quello di Tolomeo. Il primo comprendeva esclusivamente orbite concentriche, presumendo che la Terra rimanesse immobile al centro geometrico dell'Universo e che tutti i corpi celesti le ruotassero attorno, ma era un sistema che non spiegava le variazioni delle distanze dei pianeti dalla Terra; il secondo contemplava invece orbite eccentriche e, pur situando la Terra al centro dell'Universo, spiegava le variazioni delle distanze dei pianeti sostenendo che le loro orbite ruotavano attorno a centri diversi dalla Terra. La soluzione a questo dilemma si trovò grazie all'ipotesi di un Cosmo nel quale il centro della Terra coincideva col centro geometrico del mondo; tale compromesso salvava tanto la concentricità quanto l'eccentricità.
Questa soluzione era già stata prospettata dallo stesso Tolomeo in un trattato intitolato Hypotheses planetarum, che, sebbene non fosse stato tradotto in latino, era pervenuto in Occidente probabilmente attraverso fonti arabe. La riconciliazione tra i due sistemi era basata sulla distinzione tra due tipi di sfere, una sfera totale (orbis totalis) o 'sfera concentrica', il cui centro coincideva col centro geometrico del mondo, e una sfera parziale (orbis partialis) o 'sfera eccentrica', il cui centro era un punto geometrico che giaceva al di fuori del centro del mondo. La superficie concava e quella convessa della sfera totale contenevano almeno tre sfere parziali su una delle quali, il deferente eccentrico, si trovava un epiciclo al quale era fissato il pianeta stesso. Grazie a questa configurazione di sfere, i filosofi della Natura medievali riuscivano a conservare la concentricità, fondamentale nella fisica aristotelica, includendo l'eccentricità, necessaria a mantenere almeno l'apparenza che fossero prese in considerazione le variazioni delle distanze dei pianeti. Questo sistema ‒ definito da Ruggero Bacone nel suo Opus tertium 'una certa concezione dei Moderni' ‒ potrebbe essere denominato il 'sistema delle tre sfere', poiché la superficie convessa e quella concava di ogni configurazione planetaria contenevano almeno tre sfere eccentriche (Tav. I). Non essendo astronomi nel senso tecnico del termine, e quindi non essendo interessati al problema della posizione precisa dei corpi celesti, i filosofi della Natura medievali si ritenevano soddisfatti da questo compromesso.
Alcune di queste idee sulle sfere celesti erano strettamente collegate alla teologia cristiana; i commenti al secondo giorno della Creazione avevano infatti dato origine a due sfere principali dal carattere sostanzialmente teologico, la prima delle quali era il firmamento, che aveva diviso le acque al di sopra e al di sotto di esso. Alcuni filosofi vedevano nel firmamento biblico un singolo cielo che comprendeva tutti i pianeti e le stelle fisse, mentre altri lo identificavano soltanto con l'ottava sfera delle stelle fisse. Le acque al di sopra del firmamento furono chiamate 'cristalline', un termine che era applicato sia alle acque fluide sia a quelle congelate, come il ghiaccio e il cristallo; la sfera cristallina, la seconda delle sfere principali, era tradizionalmente collocata al di sopra del firmamento ed era identificata con la nona o con la decima sfera celeste, trasparente e incorporea, e talvolta con entrambe. Si riteneva che tutte le sfere precedentemente descritte si muovessero con un moto circolare uniforme e che avessero una funzione astronomica.
Il cielo empireo era l'unica eccezione degna di nota, poiché non soltanto esso era immobile, ma non aveva neppure una finalità astronomica. Benché il cielo creato nel primo giorno fosse talvolta definito 'l'empireo', in realtà quest'ultimo termine non trovava nella Bibbia alcuna conferma; esso era un prodotto della fede, non della scienza, ed emerse, come sfera celeste distinta, solamente nel XII sec., quando teologi come Anselmo di Laon (1030-1117), Pietro Lombardo e Ugo di San Vittore (m. 1141) lo descrissero come un luogo di abbagliante luminosità. Si riteneva che fosse la dimora di Dio e degli angeli, o la residenza dei beati; come le altre sfere, esso era trasparente, invisibile e incorruttibile. Nonostante il suo continuo splendore, il cielo empireo non trasmetteva affatto la sua luce; niente esisteva al di là della sua superficie convessa. Come affermò nel XIII sec. Campano da Novara (1210 ca.-1296) nella sua Theorica planetarum, l'empireo era il 'luogo' comune e più generale per tutte le cose che avevano una posizione: esso conteneva ogni cosa e non era contenuto da nulla. L'incertezza circa lo stato di solidità o di fluidità della sfera cristallina si estese a tutte le altre sfere celesti e durò fino al XIII sec., quando iniziò ad affermarsi gradualmente la tendenza a definirle solide. Questa propensione si rafforzò poi alla fine del XIV sec. ‒ per es., Temone l'Ebreo (1330 ca.-m. dopo il 1371) dichiarava che un cielo, cioè una sfera, era un corpo solido (durum) che non aveva la capacità di fluire ‒ e fu definitivamente abbandonata soltanto fra il XVI e il XVII secolo.
I filosofi della Natura medievali ‒ unanimi nel ritenere, come si è detto, che i pianeti non si muovessero autonomamente, ma fossero trasportati dalle sfere alle quali erano fissati ‒ trovarono una risposta anche al problema delle cause che determinavano il moto uniforme, perpetuo e circolare dei corpi celesti negli scritti di Aristotele, che ne indicava due: una interna e l'altra esterna. L'etere celeste, la sostanza della quale erano composte tutte le sfere e tutti i pianeti, per sua intima natura si muoveva con un moto circolare; ogni sfera però aveva il suo motore (o intelligenza) esterno, immateriale e spirituale, distinto e separato dalla sfera alla quale era associato: il 'motore immobile'. Il primo di questi motori immobili, identificato con Dio, era associato alla sfera mobile più lontana, o sfera delle stelle fisse, che Aristotele riteneva circondasse il mondo.
Le spiegazioni delle cause del moto celeste offerte dalla Scolastica medievale erano dunque variazioni sulle tesi espresse da Aristotele. L'interpretazione più popolare del moto celeste ipotizzava che Dio avesse scelto un motore esterno sotto forma di un'intelligenza o angelo (termini non sempre usati come sinonimi) da associare a ciascuna sfera. Tale motore muoveva la sfera grazie a tre virtù: l'intelletto, la volontà e una terza entità spirituale che attuava le disposizioni dell'intelletto e della volontà, vale a dire una forza motrice finita (virtus motiva finita), o, come era anche definita, una potenza esecutiva (potentia executiva). Questa terza forza era necessaria affinché l'intelletto potesse comandare alla volontà, ma né l'intelletto né la volontà potevano mettere in atto ciò che desideravano, cosicché per eseguire un comando era necessario il ricorso a un potere esecutivo, a una terza forza.
Un'intelligenza, o angelo, aveva un potere limitato e non poteva imporre a distanza i suoi ordini; doveva tenersi a contatto diretto con la propria sfera, e, poiché l'intelletto e la volontà erano associati agli atti volontari, anche i moti celesti erano concepiti come azioni volontarie. Presumibilmente, ogni intelligenza ordinava volontariamente alla propria sfera di muoversi con un moto uniforme e circolare, e possedeva una forza inesauribile (virtus infatigabilis) conferitale dal primo motore.
Benché l'ipotesi delle intelligenze spirituali fosse la più popolare spiegazione causale del moto dei pianeti (alle intelligenze si continuò ad attribuire il ruolo di motori celesti fino al XVII sec.; anche quando la tesi delle sfere solide fu abbandonata, queste sfere furono semplicemente attribuite ai pianeti), tuttavia l'idea dei motori interni ebbe molti importanti sostenitori. Già nel XIII sec., John Blund e Roberto Kilwardby avevano sostenuto che ogni sfera celeste possedeva la capacità naturale e intrinseca di muoversi autonomamente; alla vaga capacità innata postulata da Blund e Kilwardby, Buridano contrappose una forza perfettamente misurata e definita, l'impetus, per spiegare i moti celesti. Poiché le Sacre Scritture non parlavano delle intelligenze come motori celesti, Buridano sostenne che al momento della Creazione Dio avesse impresso gli 'impeti', o forze, a ciascuna sfera; in assenza di resistenze esterne e di tendenze contrastanti, l'impeto impresso a ogni sfera sarebbe rimasto costante nel tempo e avrebbe fatto muovere per sempre la sfera con un moto circolare uniforme.
La convinzione che ogni potere naturale di questo mondo inferiore e sensibile fosse governato dal cielo si basava non soltanto su Aristotele ma anche sul palese ruolo del Sole e della Luna, il primo dei quali era essenziale alla vita stessa, mentre la seconda era collegata all'azione delle maree e all'equilibrio dei fluidi corporei. Dal momento che la regione celeste era considerata più nobile e perfetta di quella terrestre, e poiché si credeva che la cosa più nobile agisse su quella meno nobile e mai viceversa, i filosofi della Natura ritenevano che le influenze celesti fossero unidirezionali, che emanassero cioè dalla regione celeste verso quella terrestre. Si pensava che i corpi celesti esercitassero un'azione sulla regione terrestre attraverso tre differenti agenti: il moto (motus), la luce (lumen) e l'influenza (influentia). Tuttavia, nessuno di coloro che accettavano il sistema delle tre sfere e che credevano nella trasmissione meccanica degli effetti attraverso il moto celeste riuscì mai a escogitare un soddisfacente modello di descrizione di tale trasmissione (poiché ogni sfera si muoveva senza attrito, essa non poteva comunicare alcun effetto alla sfera vicina). La propagazione della luce dal Sole alla Terra attraverso sfere trasparenti e invisibili era invece facilmente concepibile; poiché si riteneva che ricevessero la loro luce dal Sole, era possibile che, a loro volta, anche tutti gli altri pianeti trasmettessero la luce alla Terra. Ruggero Bacone considerò la luce del Sole essenziale alla produzione di ogni fenomeno di generazione presente sulla Terra; le sfere trasparenti non opponevano resistenza ai raggi di luce che le penetravano, rimanendo inalterate al loro passaggio.
Per tutti gli innumerevoli effetti terrestri che non potevano essere attribuiti alla luce, si supponeva l'esistenza di una influentia che si adattava a ogni circostanza. Temone l'Ebreo nelle Questiones in quatuor libros metheororum (I, quaest. 1) la descrisse come una certa qualità, o virtù, diffusa attraverso tutto il mondo, che si moltiplicava proprio come le specie di calore e di luce. Gli influssi celesti erano evocati per spiegare gli effetti del magnetismo e delle maree e, poiché potevano passare attraverso gli oggetti opachi, erano chiamati in causa anche per spiegare la generazione dei metalli nelle viscere della Terra. Per rendere conto di come il mondo fosse preservato sotto forma di insieme armonico era poi evocata una Natura 'universale', definita anche forza celeste o agente universale; essa proveniva dalla regione celeste e si diffondeva in ogni parte del mondo sublunare.
La Natura universale contrastava la natura propria dei corpi terrestri, in virtù della quale ogni corpo si muoveva verso il suo luogo naturale (se era pesante cadeva, mentre se era leggero saliva); si riteneva quindi che il comportamento dei corpi terrestri fosse regolato dalla loro natura propria. Lo scopo fondamentale della Natura universale era di preservare la continuità della pienezza materiale dell'intero Universo, vale a dire d'impedire che nel mondo si formassero dei vuoti; e per conseguire quest'obiettivo, la onnipresente Natura universale avrebbe potuto, se necessario, indurre i corpi ad agire anche in modo contrario alla loro propria natura. Solamente la volontà e l'intelletto dell'uomo erano immuni dalle influenze celesti.
La maggior parte dei filosofi della Natura medievali ‒ inclusi Egidio Romano (1245-1316), Riccardo di Middleton (1249 ca.-1308 ca.) e Nicola Oresme ‒ negava fermamente che i corpi celesti possedessero una qualche forma di vita, pur sostenendo che le intelligenze che causavano il moto celeste fossero vive. Inoltre, com'è noto, essi sostenevano che la Terra fosse immobile; soltanto pochi, tra i quali Buridano, attribuivano alla Terra un moto reale, benché minimo. Buridano supponeva che, a causa dell'influsso dei cambiamenti geologici provocati principalmente dal calore solare, la densità della Terra fosse perennemente alterata, determinando così continui spostamenti del suo centro di gravità. Poiché la Terra tendeva a rimanere sempre nel suo luogo naturale, cioè al centro geometrico dell'Universo, essa modificava la sua posizione fino al raggiungimento della coincidenza del suo centro di gravità con questo centro cosmico. Quando la coincidenza veniva meno a causa del successivo spostamento del suo centro di gravità, la Terra si muoveva gradualmente per riportarlo di nuovo in coincidenza col centro geometrico del mondo. Buridano e, pochi anni più tardi, Oresme, immaginarono un modello di moto terrestre ben più audace, nel momento in cui presero in considerazione l'eventualità che la rotazione giornaliera dei cieli derivasse da una reale rotazione quotidiana della Terra intorno al suo asse. Dopo aver avanzato convincenti argomentazioni a favore di questa tesi assiale, entrambi finirono però per respingerla.
Poiché si pensava che le sfere celesti fossero inserite l'una nell'altra, divenne anche abituale supporre che la distanza della superficie convessa di una sfera planetaria, di Marte per esempio, fosse esattamente uguale alla distanza della superficie concava di Giove, che era la successiva sfera planetaria superiore. In questo modo era esclusa l'esistenza tra i pianeti sia di spazi vuoti sia di materia estranea. Le misure medievali delle distanze e delle dimensioni dei pianeti ovviamente differivano radicalmente dai valori moderni, come dimostra un rapido sguardo alla Tav. II, ricavata dalla Theorica planetarum di Campano da Novara, testo che all'epoca era ampiamente consultato.
La superficie concava del Sole, che rappresentava il suo perigeo, era calcolata in circa 3,9 milioni di miglia; la superficie convessa, che rappresentava il suo apogeo, era invece di circa 4,2 milioni di miglia (la misurazione moderna è di circa 93 milioni di miglia). La lunghezza del diametro del Sole era valutata intorno alle 35.000 miglia (quella moderna è di 864.000 miglia). La Tav. II riporta inoltre misure anomale, che rappresentavano un Cosmo stravagante piuttosto che la Creazione meravigliosamente realizzata da parte di un Creatore onnipotente. Per esempio, lo spessore delle sfere planetarie sembra essere al di là di ogni comprensione. La sfera di Venere è circa 9 volte più spessa di quella del Sole e della Luna, cioè dei corpi celesti collocati immediatamente al di sopra e al di sotto; per quanto concerne le sfere dei pianeti superiori, poi, vi è un enorme divario tra quelli posti al di sopra del Sole e quelli posti al di sotto. In confronto alle dimensioni moderne del nostro Universo, il Cosmo medievale era minuscolo, sebbene probabilmente non apparisse tale a coloro che vi vivevano, ed era anche chiaramente limitato.
La conoscenza della regione celeste si formò grazie ai filosofi della Natura presenti nelle università; a questa conoscenza contribuirono molti commenti alle Sacre Scritture (Tav. III) e l'influsso di essa si esercitò ben al di là delle chiese, dei conventi e delle sale di lettura universitarie, raggiungendo la letteratura.
I maggiori letterati dell'epoca, come Dante Alighieri (1265-1321) e Geoffrey Chaucer (1343 ca.-1400), mostrarono un vivo interesse per le teorie sulla struttura del Cosmo; tuttavia, essi utilizzarono le loro conoscenze cosmologiche in maniera radicalmente differente. Dante fece della cosmologia una parte integrante della Divina Commedia e più di qualsiasi altro scrittore rese popolare la rappresentazione schematica dell'Universo medievale; il termine 'stelle' è la parola finale di ciascuna delle tre cantiche (Cornish 1993). Il Cosmo da lui attraversato, con la guida di Beatrice, era basato su una delle varianti del sistema aristotelico che abbiamo descritto: la Terra giaceva immobile al centro delle sette sfere planetarie, disposte nell'ordine ascendente che Tolomeo aveva conferito loro (Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno). Queste sfere solide e trasparenti erano circondate da un'ottava sfera, quella delle stelle fisse, che si muoveva da ovest a est secondo il moto della precessione degli equinozi, la cui velocità era di 1 grado ogni 100 anni. La nona sfera, il primum mobile o sfera cristallina, priva di stelle, si trovava più in alto e causava il moto giornaliero dei pianeti da est a ovest. Questo Cosmo di nove sfere era poi circondato da un'ultima sfera spirituale, il cielo empireo, che Dante considerava infinito e che identificava con la mente di Dio.
Chaucer, al contrario, fece un uso estensivo delle allusioni astronomiche e cosmologiche, anche se il più delle volte le utilizzava in forma di digressione (North 1993). Diversamente da qualsiasi altro scrittore medievale, egli era così ben informato sulla tecnica astronomica e cosmologica che riuscì a comporre opere come il Treatise on the astrolabe (1391) e l'Equatorie of the planetis (1392). Le sue immagini cosmologiche rivelavano un mondo aristotelico desunto fondamentalmente dalle università; la sua poesia era permeata di complicate allusioni astronomiche che in gran parte sarebbero potute sfuggire ai suoi lettori, poiché utilizzava allegorie cosmiche molto più complicate di quelle di Dante. Entrambi i poeti, tuttavia, sono una dimostrazione di come la poesia medievale tendesse a incorporare dettagliate nozioni cosmologiche nella struttura dei poemi, anche nel caso in cui i lettori avrebbero potuto avere difficoltà a comprenderle.
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