La scienza bizantina e latina: la nascita di una scienza europea. La scienza della materia e della vita secondo la tradizione
La scienza della materia e della vita secondo la tradizione aristotelica
di Stefano Caroti
Dopo la diffusione degli scritti di filosofia della Natura di Aristotele nel mondo latino e la loro affermazione nel curriculum universitario delle Facoltà delle arti, la riflessione medievale sulle proprietà degli enti naturali e sui mutamenti a cui sono sottoposti fu sviluppata nei commenti a questi scritti, nell’ambito della dottrina aristotelica della composizione ilemorfica della sostanza. Attraverso le critiche mosse da Aristotele alle teorie dei presocratici, e soprattutto degli atomisti, il Medioevo entrò in contatto anche con ipotesi diverse da quelle difese dal filosofo greco, che trovarono una favorevole accoglienza in alcuni pensatori del XIV sec., come Nicola di Autrecourt (1295 ca.-1350) e John Wyclif (1330 ca.-1384 ca.). Il Timeo di Platone, di grande importanza nel pensiero cosmologico e fisico del XII sec., pur se non del tutto dimenticato, non fu più considerato l’auctoritas per quanto riguarda la filosofia naturale; l’affermazione dell’opera aristotelica in ambito universitario favorì un tipo più sistematico e articolato di indagine delle problematiche di argomento fisico, ben oltre le potenzialità espresse dalla vecchia distinzione tra discipline del trivio e del quadrivio. A partire dalle Introductiones del XIII sec. per giungere agli schemi premessi ai commenti degli scritti aristotelici del secolo seguente, la distinzione tra le varie parti della filosofia naturale fu operata sulla base dei diversi scritti di Aristotele.
Già nel programma di Alberto Magno (1193 ca.-1280), esposto all’inizio della sua parafrasi della Fisica, è evidente la consapevolezza della necessità di un’integrazione di quelle parti della filosofia naturale non trattate da Aristotele, o ritenute perdute o comunque non pervenute al mondo latino. Il successo del programma albertiano fu incontestabile e riconosciuto; nel suo commento al De generatione et corruptione, Marsilio di Inghen (1330 ca.-1396) distingue otto parti della filosofia naturale, tutte scandite sulle opere di Aristotele, a eccezione della quinta, dedicata allo studio dei minerali e alla generazione dei misti omogenei, per la quale il testo di riferimento è il De mineralibus di Alberto Magno. Di queste otto parti la prima riguarda il movimento in generale (Fisica), la seconda il movimento circolare (De caelo), la terza i movimenti di generazione, corruzione, alterazione, aumento e diminuzione (De generatione et corruptione); lo studio dei misti imperfetti è di pertinenza della quarta parte (Meteorologica); la sesta è dedicata alla forma più perfetta delle sostanze dotate di movimento, e cioè all’anima e alle sue operazioni (De anima); la settima affronta in particolare le operazioni delle sostanze animate (Parva naturalia); l’ottava e ultima la generazione e la corruzione nel mondo vegetale e animale (De vegetabilibus di Nicola di Damasco, ritenuto opera di Aristotele, e De animalibus).
Nel pensiero di Aristotele i due principî essenziali delle sostanze corporee, la materia e la forma, giocano un ruolo fondamentale nei processi di cambiamento: alla prima era attribuita la funzione di sostrato permanente, caratterizzato dalla potenzialità, che è alla base di ogni mutamento, mentre la seconda è ritenuta principio attivo di determinazione e attualizzazione delle potenzialità della materia. La diversa caratterizzazione dei movimenti, in cui si riassumono tutte le possibilità del mutamento fisico, è fondata sul diverso coinvolgimento del principio formale, a seconda della sua appartenenza a una delle quattro categorie aristoteliche: la sostanza (generazione e corruzione), la qualità (alterazione), la quantità (aumento e diminuzione), il luogo (moto locale). La generazione e la corruzione, per il loro carattere istantaneo, non sono considerate propriamente movimenti, bensì cambiamenti (mutationes). Seguendo una proposta di Averroè (1126-1198), i pensatori medievali distinsero due momenti all’interno della generazione: l’alterazione preparatoria (alteratio previa) – che avviene nel tempo e anticipa il mutamento sostanziale, preparando il sostrato materiale all’introduzione della forma – e la generazione vera e propria, che si verifica in modo istantaneo e comporta la corruzione della forma sostanziale precedente e l’introduzione della nuova.
All’interno di questo schema più generale si articolò la riflessione medievale sui cambiamenti fisici, con contributi originali sia per quanto riguarda un ripensamento complessivo dei quattro movimenti – in conseguenza della drastica riduzione delle categorie aristoteliche operata da Guglielmo di Ockham (1280 ca.-1347), per il quale le categorie erano solamente due: sostanza e qualità – sia per l’approfondimento delle problematiche relative ad alcuni dei tipi di movimento aristotelico, e in modo particolare quello di alterazione, grazie alla discussione sull’aumento e sulla diminuzione dell’intensità delle forme (intensio et remissio formarum). In questo contesto il principio materiale della sostanza, inteso come pura potenzialità, poneva serie difficoltà proprio per la sua indeterminatezza assoluta; tale difficoltà fu risolta attraverso la distinzione tra un sostrato primario e uno secondario. Il problema di una qualche determinazione della materia, prima che essa fosse attualizzata dalla forma, è legato a quello più generale e metafisico dell’unicità e della pluralità delle forme all’interno della sostanza; se i sostenitori della seconda ipotesi potevano concepire una forma del corpo (forma corporeitatis) che avrebbe determinato la materia – sostrato delle forme più complesse e del cambiamento – i fautori dell’unicità – dei quali uno dei più autorevoli fu Tommaso d’Aquino (1225/1226-1274) – ritenevano che tutte le qualificazioni della materia fossero determinate esclusivamente da un unico principio formale.
La discussione medievale, che non riguarda soltanto problemi di carattere fisico, ma anche teologico e più in generale filosofico, prese le mosse dal De substantia orbis di Averroè, nel quale il filosofo arabo sostiene che la materia è caratterizzata da dimensioni non determinate (dimensiones interminatae), che precedono qualsiasi tipo di attualizzazione dovuta al principio formale, in polemica esplicita con Avicenna (980- 1037), sostenitore della presenza di una forma sostanziale nella materia, prima di ulteriori qualificazioni, anche di tipo quantitativo. La proposta avanzata invece da Egidio Romano (1245-1316) di postulare, quale determinazione della materia prima di ogni intervento della forma, dimensioni indeterminate senza alcun riferimento all’estensione (che riguarda invece le dimensioni determinate ed è conseguente all’azione della forma sulla materia), ma piuttosto alla quantità della materia (multitudo, tantitas, quantitas materiae), ha permesso ad alcuni studiosi di attribuirgli in qualche modo l’intuizione del concetto di massa (Maier 1949).
Nonostante alla forma fosse unanimemente riconosciuto un ruolo attivo nell’attualizzazione delle potenzialità della materia, fu proprio la natura del principio che esprimeva questa potenzialità, cioè la privazione, ad alimentare il dibattito sul ruolo della materia nel divenire fisico. Bonaventura (1217 ca.-1274) distingue nel suo commento alle Sententiae quattro diverse posizioni circa le modalità di tale attualizzazione: (a) la prima riconosce la presenza completa della forma all’interno della materia, anche se in modo tale da risultare occulta (latitatio formarum, una posizione attribuita ad Anassagora); (b) la seconda prevede un ruolo meramente passivo del principio materiale, che riceve da un agente esterno e superiore, il Creatore, le forme che lo determinano; (c) la terza attribuisce alla materia una potenza ricettiva e in qualche modo attiva, di cooperazione con il principio formale nell’attuazione delle proprie potenzialità; (d) la quarta riconosce un ruolo ancora più determinante alla materia, nella quale sarebbe già contenuta, sia pure in modo parziale, la forma, che è attualizzata attraverso l’azione dell’agente. Bonaventura ritiene più probabile l’ultima posizione, che avvicina esplicitamente alla teoria agostiniana delle rationes seminales, in cui sono presenti echi di dottrine di origine stoica e neoplatonica.
Diversa è la posizione di Alberto Magno; egli ritiene che il sostrato del divenire fisico non sia costituito da una materia allo stato di pura potenzialità, ma già preparato dall’influsso dei corpi celesti e quindi predisposto all’azione degli agenti prossimi, che fanno passare dalla potenza all’atto forme già presenti nella materia (inchoatio formarum), sia pure in modo incompleto (Nardi 1960). Nel presentare la convinzione aristotelica secondo la quale le sostanze naturali al di sotto di un certo limite di grandezza non possono mantenere le proprie caratteristiche per l’impossibilità di resistere agli agenti esterni, Alberto Magno stabilisce in modo esplicito una stretta relazione tra questi minimi naturali (minima naturalia) e l’atomismo di Democrito. I minimi naturali sono tuttavia difficilmente assimilabili agli atomi, dal momento che mantengono una struttura basata sulla composizione di materia (divisibile all’infinito) e forma, e quindi non costituiscono tanto degli indivisibili, quanto piuttosto dei limiti per le sostanze naturali, al di sotto dei quali non è possibile operare oppure resistere agli agenti esterni. A partire dal XIV sec. il problema dei minimi naturali, discusso soprattutto nei commenti al primo libro della Fisica, fu affrontato nell’ambito delle problematiche fisiche (limiti delle potenze attive e passive), analizzate con l’ausilio degli strumenti logici più raffinati (maximum/minimum).
Aristotele riprende da Empedocle la teoria dei quattro elementi, le componenti più semplici delle sostanze al di sotto del cielo della Luna; quelle al di sopra sono costituite invece dall’etere o quinta essenza, in cui non è presente alcuna potenzialità se non quella nei confronti del moto circolare, il più perfetto e privo della contrarietà tipica del movimento rettilineo delle sostanze del mondo elementare. La distinzione dei quattro elementi è fondata sulla diversa composizione delle qualità elementari (fuoco=caldo-secco; aria=caldo-umido; acqua=umido-freddo; terra=secco-caldo), ciascuna delle quali caratterizzava in modo particolare uno di essi. Come ogni sostanza, i quattro elementi sono ritenuti dai pensatori medievali costituiti da un principio formale (la forma del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra) e da uno materiale (la materia prima, che nel caso degli elementi non ha bisogno di alcuna preparazione, come avviene in quello dei corpi misti). Ogni elemento è caratterizzato da una coppia di qualità la cui contrarietà assicura la possibilità dell’azione e della trasformazione reciproca; queste qualità erano ritenute, seguendo lo schema categoriale di Aristotele, forme accidentali che conseguono alla forma sostanziale, caratterizzandola nelle proprietà fisiche più rilevanti e operando quali suoi agenti strumentali.
Una distinzione ulteriore, di grande rilevanza nel Medioevo, era quella tra corpi omeomeri, cioè costituiti da parti omogenee, e corpi aneomeomeri, con una struttura più complessa che prevede una diversificazione delle funzioni nelle varie parti, tipica dei corpi viventi. La causa efficiente (generans) dei corpi misti è attribuita dalla maggior parte dei pensatori al movimento del Sole nell’eclittica, che assicura con il suo moto irregolare il diverso combinarsi dei principî elementari, permettendo così generazione, corruzione e alterazione, impossibili qualora gli elementi si fossero trovati nei loro luoghi naturali, nei quali ogni tipo di interazione viene meno. Proprio sul problema della composizione dei misti a partire dagli elementi, nel Medioevo si sviluppò una vivace discussione che, pur partendo da problematiche già presenti in Averroè e Avicenna, presenta aspetti originali soprattutto rispetto alla possibilità di variazione all’interno delle forme. La difficoltà da superare per quanto riguardava la natura della forma del corpo misto era quella della persistenza di operazioni tipiche delle qualità elementari, che non potevano essere spiegate con la presenza delle forme degli elementi, dal momento che la generazione del corpo misto prevedeva la corruzione delle forme da cui esso trae origine. Anche i misti, come gli elementi, non si sottraggono al principio della composizione ilemorfica, per cui sono caratterizzati da una forma speciale che non è quella degli elementi.
La discussione medievale relativa alla presenza delle forme elementari nel corpo misto (Maier 1952) si basa soprattutto sulla trattazione di Averroè contenuta nel commento 67 al Libro III del De caelo, a partire dalla quale è ricostruita anche la posizione di Avicenna. Secondo Avicenna, nel corpo misto si conservano immutate le forme degli elementi – che, come tali, non possono subire alcuna variazione –mentre le qualità associate a quelle forme sono sottoposte a una diminuzione della loro intensità, al fine di raggiungere quella tipica del corpo misto. Per Averroè il cambiamento interessa non soltanto le qualità elementari, ma anche le forme degli elementi, dalla cui variazione ha origine la forma del corpo misto; il permanere delle forme elementari nel misto è giustificato sulla base del fatto che la materia può essere attualizzata soltanto attraverso le forme degli elementi.
Nel De mixtione elementorum, Tommaso d’Aquino si esprime in favore della presenza delle qualità elementari nel corpo misto soltanto potenzialmente (virtualiter). Questa presenza è spiegata grazie ai due momenti in cui viene distinto il processo di generazione. In una prima fase l’interazione delle forme elementari porta a una variazione nell’intensità delle qualità; nel momento in cui questa variazione si effettua, la materia è predisposta all’accoglimento della forma del misto, la cui generazione comporta la corruzione delle forme elementari. La soluzione tomista fu fatta propria da numerosi pensatori medievali, al punto da essere ritenuta l’opinione comune.
All’interno della cosiddetta ‘corrente averroista’, l’accettazione della posizione del filosofo arabo è accompagnata spesso dal rifiuto della possibilità di una variazione all’interno delle forme, e dall’avvicinamento delle forme elementari a quelle accidentali più che a quelle sostanziali, come già aveva sostenuto Averroè. La posizione averroista fu col tempo sottoposta a revisione; Giovanni di Baconthorpe (1280 ca.-1348), pur accettando una variazione delle forme elementari, ritiene che essa abbia carattere istantaneo e costituisca solamente la predisposizione all’avvento della forma vera e propria del misto, che quindi è considerata una forma semplice e non un composto, risultante dalla presenza delle forme elementari. Anche tra i sostenitori della soluzione proposta da Tommaso non mancano posizioni originali, come quella di Giovanni Buridano (1290 ca.-1358 ca.), secondo il quale la presenza virtuale delle qualità elementari nel misto è da attribuirsi al fatto che le qualità elementari ineriscono direttamente alla materia prima e non alle forme degli elementi, che non permangono all’interno del misto.
Quella che Gregorio da Rimini (m. 1358) definiva terza opinione nel suo commento alle Sentenze (la quarta era quella di Tommaso d’Aquino) risale a Pietro Aureolo (m. 1322), il quale, pur negando la possibilità di una variazione all’interno delle forme sostanziali, riteneva che le forme degli elementi fossero presenti nel misto in una condizione intermedia tra l’atto e la potenza (in esse diminuto); solamente in questa speciale condizione, infatti, diverse forme sostanziali possono dar luogo alla forma del misto o spiegare la costituzione di una nuova forma a partire da due forme della stessa specie.
In effetti, la diversa soluzione data da Avicenna e da Averroè al problema della presenza delle forme elementari nel corpo misto si basava essenzialmente sul diverso modo di considerare il rapporto tra qualità e forme elementari; secondo Averroè un cambiamento nell’intensità della qualità poteva essere spiegato soltanto ricorrendo a una variazione della forma, mentre Avicenna ammetteva una possibilità di variazione (latitudo) all’interno dell’intensità delle qualità senza il verificarsi di un cambiamento a livello formale.
Il problema della possibilità o meno di una variazione interna alla forma non riguarda soltanto il dibattito sull’origine del corpo misto a partire dagli elementi, ma più in generale coinvolge tutte le specie di cambiamento qualitativo, non soltanto fisico; la distinzione 17 del primo libro delle Sententiae di Pietro Lombardo (fine XI sec.-1160) affronta, per esempio, il problema dell’aumento della carità. L’ampio dibattito su questa problematica costituisce uno degli aspetti più originali del pensiero medievale nei suoi esiti trecenteschi, e in modo particolare nella trattazione fattane da Nicola Oresme nel Tractatus de configurationibus qualitatum et motuum. Anche se nel dibattito fu costante il riferimento all’aumento quantitativo – il modello cui si atteneva il Liber sex principiorum, spesso citato come autorità riguardo all’immutabilità della forma – presto si affermò la distinzione tra l’aumento che concerne la categoria della quantità (extensio) e quello dell’intensità di una qualità (intensio), non di rado attraverso il richiamo alla distinzione agostiniana tra quantitas molis e quantitas virtutis. Nelle varie soluzioni proposte riguardo al soggetto e alle modalità dell’intensio e della remissio, determinanti furono le scelte di carattere metafisico alla base di ciascuna posizione; mentre i sostenitori della teoria dell’additio erano schierati in favore della pluralità delle forme all’interno della sostanza, i fautori dell’inerenza e della successione delle forme erano strenui difensori dell’unicità. Il motivo di maggiore contrasto all’interno del dibattito riguardava la concezione della natura della forma; i sostenitori dell’immutabilità del principio formale, anche se divisi per quanto riguarda la scelta del soggetto della variazione, sono concordi nel criticare qualsiasi tipo di variazione all’interno della forma, contrariamente a coloro i quali individuano la causa del variare dell’intensità nell’interagire di forme dotate di gradi diversi di perfezione all’interno della medesima specie.
Nel commento di Simplicio (VI sec. d.C.) alle Categoriae si registrano ben cinque diverse soluzioni al problema: quella attribuita ad Aristotele spiega il cambiamento sulla base della partecipazione alla qualità da parte del soggetto; ad Archita invece è ascritta la posizione secondo la quale la variazione dell’intensità è da spiegarsi con un cambiamento interno alla forma. Le soluzioni che maggiormente si affermarono nel dibattito medievale furono tre: (1) quella che individua il soggetto dell’aumento e della diminuzione dell’intensità nella sostanza, escludendo una variazione all’interno della forma e spiegando tale variazione a seconda della maggiore o minore inerenza della forma al soggetto stesso (secundum inhaerentiam, secundum participationem, secundum inesse); (2) quella che distingue all’interno della forma diverse gradazioni (gradus) di perfezione, per cui è possibile attribuirle l’aumento o la diminuzione dell’intensità che si verifica attraverso l’addizione di forme con gradi diversi di perfezione; (3) quella della successione delle forme (successio) che attribuisce alla forma il cambiamento nell’intensità attraverso la sostituzione successiva della forma più o meno intensa con la contestuale corruzione di quella precedente.
Fra i sostenitori della prima soluzione sono da annoverare Tommaso d’Aquino ed Egidio Romano. Tommaso d’Aquino è un convinto sostenitore dell’immutabilità della forma accidentale, principio necessariamente caratterizzato da una natura immutabile in quanto determinante dell’appartenenza della sostanza a specie diverse. Pur individuando la causa dell’intensio e della remissio nella maggiore o minore disposizione del soggetto a ricevere la forma, Tommaso d’Aquino è comunque disposto a riconoscere una variazione all’interno della forma nei casi in cui essa dipenda dal mutare di altre forme, come nel movimento. Egidio Romano, pur concordando con Tommaso d’Aquino nell’identificazione dell’essenza delle forme accidentali con il loro inesse al soggetto – cui è attribuita la variazione dell’intensità –, non ammette alcuna eccezione. Egli distingue tre tipi di cambiamento a seconda dei gradus coinvolti: (a) una qualsiasi variazione nei gradi dell’essenza provoca un cambiamento a livello specifico, a causa dell’immutabilità della forma; (b) i cambiamenti che riguardano i gradi della partecipazione delle forme al soggetto non provocano una variazione a livello di specie nella forma stessa bensì soltanto della sua intensità; (c) quando il cambiamento riguarda i gradus quantitatis si tratta di un processo che interessa la categoria della quantità e quindi di aumento o diminuzione (Egidio Romano, Commentarium in I. librum Sententiarum, ff. 95vb-96va).
Una delle critiche mosse alla soluzione egidiana è particolarmente interessante dal punto di vista della filosofia della Natura; attribuendo il cambiamento nell’intensità delle qualità alla loro partecipazione al soggetto, si rischia o di attribuire alla forma stessa il fondamento della variazione, o di cadere nell’analisi all’infinito delle disposizioni possibili della materia, che devono comunque essere ricondotte a un principio formale. Pur riproponendo la soluzione per cui intensio e remissio sono da spiegarsi con un cambiamento dei gradi secundum esse, Egidio salvaguarda l’immutabilità del principio formale attribuendo alle diverse disposizioni della materia l’origine delle variazioni a livello qualitativo. La rarità e la densità, per esempio, in quanto elementi costitutivi della materia stessa non ulteriormente riducibili a principî più generali, determinano, con il loro variare, cambiamenti a livello delle disposizioni del soggetto, permettendo così di evitare la ricerca all’infinito delle cause del cambiamento dell’intensità.
Il ruolo della rarità e della densità nella spiegazione delle proprietà e dell’azione delle sostanze naturali è costantemente richiamato nel Medioevo, anche al di fuori del dibattito relativo all’intensio e alla remissio. La dottrina preferita dai pensatori appartenenti all’ordine francescano, o comunque legati all’agostinismo, era quella che spiega il variare dell’intensità a partire dalla forma, attraverso l’aggiunta di qualità della stessa specie alla qualità di partenza, con gradi superiori o inferiori. Questa teoria presuppone una posizione favorevole alla pluralità delle forme e tradisce in modo evidente la propria dipendenza dal modello di cambiamento tipico della categoria della quantità. Già Bonaventura, nei Commentaria in IV libros Sententiarum, si schierava a favore di un aumento dell’intensità secundum essentiam; e nel suo commento alle Sententiae sono presenti alcuni elementi che saranno ulteriormente sviluppati da altri pensatori, come Enrico di Gand (1217 ca.-1293) e Giovanni Duns Scoto (1274 ca.-1308): (a) la convinzione secondo la quale la possibilità di una variazione all’interno della forma è giustificata sulla base di una sua imperfezione essenziale; (b) la possibilità che forme della medesima specie si uniscano (unibilitas) proprio per raggiungere uno stato di perfezione maggiore; (c) la polemica, sia pure qui soltanto accennata, contro la teoria della successio.
Enrico di Gand, che si ispira esplicitamente alla posizione attribuita da Simplicio ad Archita, giustifica la sua scelta sulla base dell’indeterminazione delle forme accidentali; la variazione all’interno delle forme accidentali è resa possibile dal fatto che alcune di esse possonomantenere l’appartenenza alla stessa specie con intensità diverse, entro limiti precisi: la latitudo è appunto l’ambito di variazione dell’intensità senza che si verifichi un cambiamento specifico.
Nel dibattito medievale sull’intensio Duns Scoto si distinse per le critiche formulate alla teoria della successio e in modo particolare alla posizione sostenuta da Goffredo di Fontaines (1250 ca.-1309 ca.). Alcune di queste critiche sono di notevole interesse perché ispirate esclusivamente alla filosofia della Natura, soprattutto ai problemi relativi all’azione degli agenti naturali e alla natura stessa del cambiamento di intensità, da non considerare un movimento in senso proprio a causa della sua istantaneità (Giovanni Duns Scoto, Ordinatio. Liber primus a dist. undecima ad vigesimam quintam).
Guglielmo di Ockham è un convinto assertore della variazione secundum essentiam. Tra le sue critiche alla teoria della successio, particolare interesse riveste quella relativa all’insostenibilità della possibilità di corruzione della forma precedente da parte di quella finale; questa, infatti, essendo della stessa specie, non può essere causa della corruzione, dal momento che la generazione e la corruzione interessano soltanto i contrari. Le risposte a queste critiche, contenute nel Tractatus de intensione et remissione formarum di Walter Burleigh (1275-1337), contribuiscono all’approfondimento di alcuni temi di primaria importanza proprio sui rapporti che intercorrono tra cambiamento continuo e trasformazione istantanea. Il problema più arduo da risolvere per i sostenitori della teoria della successio era proprio quello della possibilità per due forme della stessa specie di coesistere nello stesso soggetto al punto da rendere possibile l’additio. Guglielmo di Ockham, secondo cui le forme interessate all’additio sono realmente distinte – contro l’opinione di Enrico di Gand, ma soprattutto di Pietro Aureolo, che ritiene la forma che si aggiunge a quella preesistente ontologicamente diversa –, indica anche un criterio per determinare quali forme permettono una variazione nell’intensità e cioè quali possono unirsi a un’altra forma senza che vi sia un aumento di carattere quantitativo. Ancora, nel suo trattato Walter Burleigh tracciava una genealogia sommaria dei sostenitori della teoria della successio, ricordando, accanto al Liber sex principiorum, Alberto Magno e Goffredo di Fontaines.
La distinzione che Alberto Magno opera tra alterazione che precede la generazione (di natura continua) e la generazione stessa (istantanea) da un lato, e la divisione di Goffredo di Fontaines tra enti permanenti (res permanentes, la cui essenza è data in modo completo nell’istante) e successivi (res successivae, la cui identità è costituita da stati diversi entro un periodo determinato di tempo) dall’altro, possono essere ritenute due nozioni fondamentali a favore della teoria della successione delle forme, che descriveva il processo di aumento dell’intensità come il succedersi di forme diverse della stessa specie, senza che le precedenti permangano. Nonostante sia annoverata tra le soluzioni che prevedono un cambiamento a livello formale (secundum essentiam), la posizione di Burleigh presenta alcune somiglianze con quella di Tommaso; egli infatti non soltanto attribuisce esplicitamente al soggetto il cambiamento dell’intensità, ma aderisce pienamente alla teoria dell’unicità della forma e della sua più assoluta immutabilità.
Il modello cui si ispirava Burleigh è quello del movimento inteso come acquisizione continua di nuovi ubi; proprio il carattere istantaneo della generazione delle nuove qualità nel processo di intensio espone però la teoria della successio a critiche di fondo, quali la mancanza di continuità nel processo di alterazione (essendo ciascuna variazione caratterizzata dalla generazione, istantanea, di una nuova forma), e il numero infinito di enti ipotizzati nell’alterazione relativa all’intensità. Riguardo alla seconda obiezione Burleigh non aveva nessuna difficoltà ad ammettere l’esistenza di un’infinità di elementi, proprio per il carattere continuo del movimento con cui si attua il cambiamento nell’intensità. Rispetto invece alla prima critica egli è costretto a un’analisi delle componenti essenziali delmovimento di alterazione, nel quale individua un processo temporale continuo (il motus de genere passionis) e un cambiamento istantaneo (il motus de genere termini ad quem).
Nei diversi argomenti sollevati contro la teoria della successio sono presenti alcuni dei grandi temi che caratterizzano i dibattiti di filosofia naturale del XIV sec.: il continuo, gli indivisibili, l’infinito. Di notevole interesse è la convinzione secondo la quale le forme accidentali possono essere causa della forma sostanziale, teoria basata sull’indipendenza dell’ente naturale da qualsiasi causa efficiente, una volta raggiunta l’esistenza; così, per esempio, una forma accidentale come il calore può agire in modo molto efficace, fino a raggiungere l’intensità tipica del fuoco, che, nel momento di giungere all’esistenza, non ha più bisogno di una causa efficiente, avendo raggiunto il primum instans sui esse.
L’importanza delle problematiche filosofiche, logiche e fisiche legate al dibattito sulla intensio e sulla remissio delle qualità, è attestata dalla presenza di queste tematiche nei commenti trecenteschi alla Fisica (Sylla 1997). Il risultato più originale e per molti aspetti più interessante di questo dibattito è da individuarsi nel Tractatus de configurationibus qualitatum et motuum di Nicola Oresme, che, attraverso la rappresentazione geometrica di qualità di natura permanente o successiva, si propone di introdurre un nuovo elemento nella spiegazione dei fenomeni naturali, accanto alle qualità elementari e alle complexiones, ossia la figuratio o configuratio, cioè la speciale distribuzione delle qualità nel soggetto e nel tempo (per le qualità successive o i movimenti), al variare delle quali muta sensibilmente anche l’azione fisica del soggetto o della qualità.
di Stefano Caroti
I quattro libri dei Meteorologica di Aristotele affrontano, secondo Alberto Magno, temi che rientrano nella seconda parte della filosofia naturale, che ha per oggetto il corpo mobile misto, dopo che nella Fisica, nel De caelo e nel De generatione et corruptione è stata condotta l’indagine rispettivamente sul corpo mobile in generale, su quello mobile rispetto al luogo e su quello mobile rispetto alla forma (prima parte della filosofia naturale); nella terza parte la ricerca diventa ancora più specialistica attraverso lo studio delle proprietà e delle operazioni che contraddistinguono rispettivamente i corpi misti minerali, vegetali e animali.
Giovanni Buridano propone una divisione più articolata della filosofia naturale; nel suo inedito commento ai Meteorologica è sviluppato uno schema in cui quella che Alberto considera la prima parte della filosofia naturale è ulteriormente divisa in tre, seguendo il numero e l’ordine degli scritti di Aristotele. Ai Meteorologica è riservata la quarta parte della filosofia naturale, relativa ai movimenti e alle operazioni dei corpi naturali conseguenti alle alterazioni delle qualità elementari che ne caratterizzano la natura di corpi misti. Alla quinta parte, definita da alcuni scientia de mineralibus (cui segue quella De animalibus), Buridano attribuisce un dominio più vasto comprendente tutti i misti imperfetti omogenei (omeomeri) come la carne e le ossa, seguendo quanto affermato da Aristotele in chiusura del quarto libro dei Meteorologica.
Sia Alberto Magno sia Buridano assegnano rispettivamente alla terza e alla quinta parte della filosofia naturale il compito di approfondire l’analisi sui minerali, per la quale il quarto libro dei Meteorologica era ritenuto insufficiente; l’inadeguatezza dell’analisi aristotelica relativa ai minerali è sottolineata anche nel primo capitolo del De mineralibus di Alberto Magno, dove l’autore dichiara di non conoscere il contributo specifico di Aristotele in questo settore particolare della scienza e, nel contempo, di ritenere insufficiente quello di Avicenna.
L’esigenza di completare in qualche modo il testo di Aristotele sulla scientia de mineralibus era già stata avvertita da Alfredo di Sareshel (XII-XIII sec.), la cui traduzione del De congelatione di Avicenna è inglobata nel testo di Aristotele della Vetus translatio – opera di Gherardo da Cremona (1114 ca.-1187) per quanto riguarda i primi tre libri dall’arabo e di Enrico Aristippo, per il quarto, dal greco. La Translatio nova è invece opera di Guglielmo di Moerbeke (1215 ca.- 1286), che nel 1260 tradusse a Nicea lo scritto di Aristotele dal greco. Lo stesso Alfredo avverte nel suo commento che il quarto libro è ritenuto introduttivo alla trattazione sui minerali.
Lo sforzo costante da parte di Alberto Magno di chiarire e integrare la dottrina aristotelica giunge talvolta ad assumere la forma di un vero e proprio commento per quaestiones; è il caso di alcune digressiones del trattato III della parafrasi del terzo libro dei Meteorologica, in cui si discute della natura del fulmine e del tuono. Il capitolo nono presenta invece una serie di sei quesiti (dubia) relativi al comportamento delle esalazioni – umida e secca – che sono all’origine dei due fenomeni; tale approfondimento, agli occhi di Alberto, si rendeva necessario dal momento che Aristotele non aveva trattato con sufficiente ampiezza il problema o forse non erano pervenuti al mondo latino i suoi scritti specifici. A proposito della corona solare, Alberto non esita a definire valde confusum il testo di Aristotele, mentre per quanto riguarda la natura della Via Lattea sembra che egli attribuisca ad Aristotele una dottrina desunta dall’Almagesto di Tolomeo (100 ca.-178 ca.), secondo la quale la Via Lattea sarebbe stata un insieme di stelle nel cielo delle stelle fisse, in netto ed evidente contrasto con quanto espressamente riconosciuto come il dominio di ricerca proprio dei Meteorologica (vale a dire i fenomeni che non oltrepassano le regioni più alte dell’atmosfera).
Dante Alighieri (1265-1321), che si ispira ad Alberto Magno per quanto riguarda la presunta concordanza tra le posizioni di Tolomeo, Avicenna e Aristotele, ritiene che, a causa dell’imperizia dei traduttori, il pensiero di Aristotele sia destinato a rimanere oscuro («quello che Aristotele si dicesse non si può bene sapere di ciò, però che la sua sentenza non si trova cotale ne l’una translazione come ne l’altra», Convivio, II, 14, 6-7). Al contrario di Dante,Giovanni Buridano ha colto la differenza di fondo tra la soluzione di Alberto e quella di Aristotele sulla natura della Via Lattea; nella prima quaestio sul primo libro, l’argomento con cui è difesa l’idea secondo la quale quanto studiato nei Meteorologica coincide con le tematiche del De caelo, si richiama proprio alla natura celeste e non elementare della Via Lattea. Nella risposta a questo argomento Buridano si limita a rilevare che alcuni ritenevano che la Via Lattea appartenesse ai fenomeni del mondo elementare e non di quello sopralunare; anche Temone l’Ebreo (1330 ca.-m. dopo il 1371) dedicava la quaestio 15 del commento al primo libro a determinare utrum galasia sit de natura coeli vel elementari.
I primi tre libri dei Meteorologica si distinguono in base alle regioni in cui si verificano i fenomeni fisici; la prima è la regione al di sotto della sfera del fuoco, la seconda è quella intermedia, la terza è quella contigua alla Terra (v. Scienza greco-romana. Epistemologia e teorie della Natura nell'eta ellenistica). Anche Alberto richiama questa divisione nel capitolo introduttivo alla sua parafrasi e alla sua posizione si mantennero fedeli i commenti successivi. Un sia pur sommario esame comparativo tra il commento di Alfredo di Sareshel e la parafrasi albertiana mostra il grande divario esistente tra i due scritti; mentre il primo – appartenente al periodo pionieristico delle traduzioni, che tanta importanza hanno avuto sulla storia del pensiero filosofico e scientifico medievale – si limita a presentare nozioni elementari circa alcuni temi affrontati nel testo aristotelico, nel secondo è già presente una sistemazione organica delle problematiche, con l’indicazione, nelle digressiones, di quelle meritevoli di ulteriori chiarimenti o approfondimenti.
A una buona parte di queste problematiche sono dedicate le quaestiones dei commenti successivi, e soprattutto di quelli del XIV sec., quando i Meteorologica conobbero una certa fortuna presso le Facoltà delle arti, prima di essere esclusi dalle letture richieste dal curriculum universitario (1366). Gli interventi di Giovanni Buridano, Temone l’Ebreo, Nicola Oresme, Alberto di Sassonia (1316-1390) e dell’anonimo autore del commento stampato sotto il nome di Duns Scoto, testimoniano in modo autorevole l’ampiezza di questo interesse; la tradizione di questi commenti – concentrati tutti in pochi decenni e tutti di origine universitaria – è ancora oggetto di indagine (Hugonnard-Roche 1973).
Lo sforzo compiuto da Alberto Magno nell’interpretare e integrare il testo aristotelico – ritenuto in alcuni contesti tradotto in modo del tutto insoddisfacente – risulta evidente dal cospicuo numero di autori citati nelle digressiones. Emblematica è la discussione sulla natura delle comete, nella quale, oltre alle ipotesi presentate e criticate da Aristotele, Alberto introduce (a conferma della soluzione aristotelica per cui la cometa era il risultato della combustione del vapore terrestre nella regione più alta dell’atmosfera) le posizioni sostenute da Avicenna,Tolomeo (nel Centiloquium, di cui sono ricordati anche tre commenti) e Abū Ma‛šar. Anche a proposito della produzione di calore da parte del lumen, Alberto critica la soluzione di Averroè, secondo il quale il calore sarebbe causato dal moto dei pianeti, cui egli oppone, oltre a due suoi argomenti originali (la maggiore vicinanza del Sole in inverno dovrebbe causare un aumento di calore; la regione intermedia dell’atmosfera, più vicina al Sole, dovrebbe essere più calda rispetto a quella più vicina alla Terra), l’autorità di alcuni testi che possiamo considerare come facenti parte della tradizione medievale della perspectiva.
I due esempi citati, che non esauriscono certo il ricco materiale presente nella parafrasi albertiana, sono particolarmente significativi in quanto permettono di richiamare l’attenzione su due aspetti molto rilevanti del pensiero filosofico e scientifico del Medioevo, che trovano proprio nel commento ai Meteorologica uno dei luoghi privilegiati di discussione e di approfondimento, cioè l’influenza dei corpi celesti sul mondo sublunare e l’utilizzazione delle leggi geometriche della perspectiva nella spiegazione dell’arcobaleno. Quest’ultima è stata oggetto di trattazione particolare da parte di Teodorico di Vriberg (1240 ca.-1311) nel De iride, opera che ha suscitato ampio interesse presso gli storici della scienza medievale. La presenza di questo tema all’interno dello scritto aristotelico consentì a Temone l’Ebreo di affermare, nella prima quaestio del suo commento ai Meteorologica, che alcune delle conclusioni della scienza de impressionibus methaurologicis hanno lo stesso grado di certezza della geometria e della perspectiva; in questo modo egli assicurava alla perspectiva uno statuto speciale, lo stesso di quelle scienze che, nonostante il ricorso alla matematica, avevano un ruolo preciso nell’interpretazione degli eventi di natura fisica.
Per quanto riguarda invece l’influenza dei corpi celesti, richiamata costantemente nella parafrasi di Alberto anche con rimandi a scritti di natura astrologica (come il Centiloquium di Tolomeo e il De magnis coniunctionibus di Abū Ma‛šar), si deve rilevare che un passo del primo libro dei Meteorologica (339a 21-23) è, insieme al secondo libro della Fisica (194b 13) e al secondo libro del De generatione et corruptione (336a 15 e segg.), uno dei luoghi più autorevoli a sostegno della causalità astrale sul mondo sublunare. Lo stretto legame che intercorre tra i fenomeni di pertinenza dei Meteorologica e la letteratura astrologica è esplicitamente affermato nello Speculum astronomiae, nel quale la terza sezione della pars de revolutionibus tratta de temporis mutatione, e cioè della causalità astrale super impressiones altas in aere superiori et inferiori.
A partire dal XII sec. l’astrometeorologia conobbe una certa fortuna, com’è autorevolmente attestato sia dalle traduzioni di testi arabi sia dal numero di manoscritti contenenti opere non soltanto di autori di cui non ci è pervenuto il nome, ma anche di pensatori della levatura di Roberto Grossatesta o di astronomi-astrologi come Giovanni di Aschenden, Firmino di Bellavalle e Guido Bonatti (Jenks 1983). Il richiamo all’azione astrale assume particolare importanza anche nel secondo libro dei Meteorologica, dove Aristotele arriva ad affermare che i fiumi e i mari possono essere soggetti a cambiamenti anche radicali, come l’inaridimento, che determinano condizioni tali da rendere assolutamente impossibile la sopravvivenza degli esseri viventi in intere regioni (Meteorologica, 352b 16-19).
Alberto individua la causa di tali cambiamenti soprattutto nelle grandi congiunzioni astrali e nel movimento del cielo delle stelle fisse; e in questo contesto richiama la sua parafrasi allo pseudoaristotelico De causis proprietatum elementorum e a un suo scritto di astronomia, da intendersi nell’accezione più larga, comprendente anche l’astrologia. Alberto rimanda inoltre alla scienza de locis habitabilibus che egli sviluppa in un trattato speciale, il De natura loci.
Questi due scritti possono essere considerati parte integrante del progetto albertiano di far conoscere al mondo latino la scienza degli Antichi, arricchita dalle interpretazioni dei pensatori arabi e completata in alcuni aspetti. Lo stretto legame tra il De natura loci e il De causis proprietatum elementorum, con le problematiche affrontate nei Meteorologica, risulta evidente sia dai frequenti richiami di Alberto allo scritto aristotelico sia dalle tematiche affrontate. Nel primo, pur all’interno di una prospettiva filosofica ispirata ad Aristotele, al luogo è attribuita un’importanza incomparabilmente maggiore di quella riconosciutagli nel quarto libro della Fisica; il luogo, infatti, assume quasi il ruolo di causa efficiente, tanto da essere equiparato alle stelle; al di fuori del luogo naturale i corpi fisici, pur conservando alcune proprietà accidentali, perdono le loro caratteristiche essenziali.
Nel primo libro del De natura loci Alberto Magno discute le cause che sono all’origine dell’abitabilità delle diverse parti della Terra, soffermandosi sugli aspetti non soltanto di natura climatica ma anche geologica. Il terzo libro è costituito da una cosmografia, riprendente ampiamente lo Pseudo-Aethicus, che svolge la stessa funzione dell’erbario che chiude il De vegetabilibus, del lapidario inserito all’interno del De mineralibus e dell’elenco alfabetico che conclude il De animalibus. Anche il De proprietatibus elementorum discute problematiche di pertinenza dei Meteorologica, a partire dai fondamenti, quali la natura e le proprietà degli elementi e dei corpi misti, fino a giungere alle cause dei grandi rivolgimenti di carattere geologico, delle maree (soprattutto nelle digressiones del secondo trattato del primo libro), delle acque termali, dei fenomeni vulcanici, della formazione dei monti (individuata soprattutto nei terremoti in una digressio nella quale è ricordata anche l’azione erosiva delle acque e dei venti). Alberto ritiene che la vicinanza del mare o comunque di grandi quantità di acqua favorisce la formazione di montagne di notevole altezza proprio per l’azione dell’acqua che, chiudendo i pori della terra, impedisce la fuoriuscita dei vapori conseguenti ai fenomeni tettonici; e adduce come argomento a sostegno di questa tesi il ritrovamento di fossili marini (menzionando fossili ritrovati in lapidibus Parisiensibus).
Nella quaestio 5 sul primo libro dei Meteorologica, Temone l’Ebreo sostiene la possibilità dell’azione dei corpi celesti anche sull’inclinazione umana, e ricorda l’effetto delle grandi congiunzioni sulla formazione delle sette e dei culti religiosi (inceptio sectarum et religionum), sulla nascita dei profeti e degli eresiarchi, sulle scienze pratiche e meccaniche circa leges et politicas regendas et maxime circa artes mechanicas. Temone menziona tra le cause particolari dei rivolgimenti storici anche le pestilenze, i diluvi di acqua e di fuoco e le guerre. Nicola Oresme, nelle tre quaestiones che chiudono il suo commento sul primo libro dei Meteorologica, non insiste invece sulle cause di natura astrologica, preferendo quelle di carattere astronomico (vicinanza o lontananza del Sole), geologico (fenomeni di inaridimento) e sociale (guerre).
Anche quando vengono meno i riferimenti alla causalità astrale, come nel caso del commento ai Meteorologica di Giovanni Buridano, la discussione sulle grandi mutazioni di carattere geologico offre comunque spunti di notevole interesse. Contrariamente ad altri scritti in cui si mostra attento a non suscitare il sospetto dei teologi, Buridano sostiene l’impossibilità sul piano fisico di un diluvio universale, di cui accetta l’esistenza solamente sulla base di un’azione divina, che si pone al di là delle leggi della Natura. Un diluvio totale è ritenuto impossibile in quanto comporterebbe la conversione di un’enorme quantità di un elemento, l’aria, in un altro, l’acqua, nonché l’annullamento di ogni forma vivente sulla Terra, venendosi a interrompere la propagazione delle specie viventi ex semine.
Nel De causis proprietatum elementorum Alberto Magno, mettendo a confronto le opposte tesi di Avicenna – per il quale la generazione di esseri viventi complessi può prescindere dalla generazione ex coitu – e Averroè – difensore della propagazione ex semine –, ritiene che la generazione ex putrefactione sia possibile, anche se limitatamente a certe specie di animali che non hanno una struttura complessa (e ricorda al riguardo serpenti, vermi e pesci). Anche Boezio di Dacia dedica un numero rilevante di quaestiones del suo commento al quarto libro dei Meteorologica alla putrefactio.
Tra gli argomenti contrari all’azione degli astri sui grandi mutamenti geologici, Buridano ne presenta uno di carattere storico: se la causa di tali rivolgimenti fosse da attribuire al movimento dell’ottava sfera, dovrebbero verificarsi cambiamenti sensibili ogni 4000 anni, fatto che non sembra essere avvenuto; a conferma di questo, egli rileva che, sebbene Aristotele sia vissuto almeno 2000 anni prima, nelle sue opere non vi sono riferimenti a eventi straordinari a lui molto precedenti. Un altro argomento, relativo alla difficoltà del ripetersi di identiche situazioni astrali, sembra riecheggiare l’idea oresmiana dell’incommensurabilità del moto dei corpi celesti (Grant 1971). Nell’ultima quaestio sul primo libro Buridano estende poi il quesito sui mutamenti geologici, normalmente limitato ai mari e ai fiumi, anche alle formazioni montuose; se per quanto riguarda i processi di formazione delle montagne si allinea alla posizione di Alberto Magno – citato esplicitamente – che preferiva attribuire la causa di tali fenomeni all’azione dei terremoti piuttosto che a quella dei fiumi e del vento, tale spiegazione, secondo lui, non può comunque dare conto dell’origine di formazioni montuose di una certa altezza, dal momento che nessuna exalatio potrebbe dare luogo a terremoti così forti.
Buridano si mostra più possibilista verso mutamenti di carattere geologico, ammettendo sia l’eventualità che alcune città abbiano mutato la loro posizione relativamente alle coste, sia che siano stati modificati i contorni delle isole a causa dell’erosione dei fiumi, fino al cambiamento di un’intera area (plaga habitabilis) dovuta a processi di inaridimento. Le variazioni provocate dai fenomeni atmosferici sulla superficie terrestre sono responsabili della non completa coincidenza tra centro di gravità e centro di grandezza della Terra, per cui essa viene definita excentra; ciò permette a Buridano di ipotizzare il continuo movimento della Terra per poter riacquisire la sua posizione naturale, in cui il centro di gravità e di grandezza coincidono. Questa relativa instabilità terrestre può spiegare, a suo avviso, la presenza di giacimenti minerali vicino alla crosta terrestre, luogo inadatto, perché troppo caldo, alla formazione dei metalli.
Giovanni Buridano dedica una quaestio specifica del suo commento anche all’antiperístasis, una nozione che viene utilizzata nel Medioevo per spiegare il movimento dei proietti e che nei Meteorologica interessa fenomeni, come la formazione della grandine, le cui proprietà presentano caratteristiche fisiche contrarie a quelle dell’ambiente in cui si verificano. Dopo aver ricordato la teoria medica secondo la quale negli esseri viventi il freddo circostante, non avendo un’azione penetrativa nei corpi vicini per la chiusura dei pori della carne, provoca un aumento di calore nel corpo, egli presenta due diverse spiegazioni di questo fenomeno: la prima, basata sugli effetti che una qualità elementare può indurre in quella contraria quando non si verifichi una mixtio o la corruzione di quella di intensità minore (la condensazione e la fuga verso un luogo diverso con l’aumento conseguente della virtus della qualità stessa); la seconda, invece, volta a spiegare, anche con l’ausilio della perspectiva, l’aumento del calore in inverno nei luoghi sotterranei attraverso la riflessione dei raggi solari da parte dei corpi freddi.
I cinque libri del De mineralibus di Alberto Magno sono senza dubbio uno dei risultati più significativi del suo impegno nel completare l’enciclopedia delle scienze, pervenuta al mondo latino non senza lacune. Il trattato II del secondo libro – un lapidario ordinato alfabeticamente, in cui sono anche ricordate le virtù terapeutiche delle diverse pietre – costituisce la parte più tradizionale dell’opera e permette di valutare appieno l’atteggiamento innovativo dell’autore; egli, infatti, tenta una classificazione dei corpi misti appartenenti al mondo minerale sulla base dei principî aristotelici, tenendo conto anche delle dottrine alchemiche e delle esperienze personali. I minerali sono distinti in tre diverse classi – le pietre (lapides), i metalli e i corpi medi – alle quali sono dedicati rispettivamente i Libri I-II, III-IV e V del De mineralibus. La trattazione albertiana segue un procedimento espositivo tipico anche delle parafrasi dei testi aristotelici che prevede, con l’eccezione dei mineralia media, l’esame dettagliato delle caratteristiche comuni alle tre classi (Libri I e III rispettivamente per pietre e metalli), distinto da quello delle singole pietre e metalli (Libri II e IV). Fin dal primo capitolo del primo libro, in cui l’autore espone le linee del proprio programma di ricerca, è possibile cogliere una netta presa di posizione sulla specificità della scientia de mineralibus rispetto all’alchimia. Alberto ritiene infatti che i fondamenti della prima siano da individuare nelle tre cause dei minerali – materiale, efficiente e formale – nonché nelle proprietà fisiche come il calore, la durezza, la malleabilità, la porosità, il peso.
L’esplicito rifiuto di affrontare nello scritto il problema della trasmutazione dei metalli – con riferimenti precisi ad alcune nozioni alchemiche come l’elisir e con un evidente uso del linguaggio tecnico dell’alchimia – non deve essere inteso né come una critica né come l’esclusione dell’alchimia dal novero delle scienze. Al contrario, nel terzo libro Alberto riconosce esplicitamente i meriti dell’alchimia nell’ambito della trasmutazione dei metalli (la definisce ars, e in un altro contesto afferma che le è subalterna l’ars vitraria), e la ricerca dei metalli preziosi – inventio thesaurorum – è considerata una scienza in parte naturale e in parte magica; per Alberto l’alchimia è la scienza che inter omnes artes maxime naturam imitatur.
La natura delle pietre (non fanno eccezione quelle che generantur in renibus et vesicis animalium) è caratterizzata dal predominio della terra e dell’acqua: la prima assicura la solidità, la seconda la continuatio tra le parti solide – favorita dal particolare tipo di umidità che è viscosa e unctuosa – e, per alcuni tipi di pietra, la trasparenza. Nella spiegazione del processo di formazione delle pietre caratterizzate da trasparenza, in cui l’umidità viscosa e unctuosa predominante subisce l’azione di un principio secco senza essere comunque trasformata in terra, Alberto tenta l’interpretazione di un passo di un’opera alchemica attribuita a Hermes che utilizza un linguaggio esclusivamente metaforico, considerato inadeguato alla scienza.
Traendo ispirazione da Avicenna, la causa formale delle pietre e dei metalli è individuata nella virtus mineralis, che Alberto menziona solamente a proposito delle pietre, con la specificazione lapidis formativa. Per quanto riguarda i metalli, la causa efficiente si trova nel calore che agisce quale strumento dell’influenza celeste per introdurre la forma del metallo nella materia così preparata. Tale materia si distingue da quella delle pietre per una maggiore presenza di umidità unctuosa, associata a un principio terrestre sottile, caratteristiche che causano la diversa consistenza dei metalli e la loro proprietà di fondere sotto l’azione del calore (e anche in questo contesto Alberto tenta di identificare i principî materiali da lui proposti con il mercurio e lo zolfo degli alchimisti). Sia per le pietre che per i metalli si ricorre, a proposito della causalità efficiente, all’analogia con i processi che preparano il seme nelle specie animali più complesse, com’è attestato sul piano linguistico dall’uso dell’espressione virtus formativa e dai costanti richiami all’influenza degli astri.
Per quanto riguarda invece i luoghi e la formazione dei metalli, pur non escludendo la causalità astrale Alberto insiste soprattutto sulla diversità dei processi di formazione in base ai diversi tipi di giacimenti a lui noti (per l’oro indica quelli primari, distinti a seconda della commistione, e quelli secondari, causati da depositi alluvionali, come i giacimenti dell’Elba e del Reno). La formazione dei giacimenti primari è dovuta all’azione di vapori che producono porosità nella terra o nelle pietre soprastanti; nei pori avviene successivamente il congelamento dei vapori, che danno origine, a seconda della rapidità del raffreddamento dovuta alla maggiore o minore purezza del metallo, a metalli di diversa specie. I giacimenti secondari di natura alluvionale sono spiegati invece con il raffreddamento dei vapori in superficie, dove la loro fuoriuscita è impedita dall’acqua che ostruisce i pori della terra.
Nel capitolo che chiude il terzo libro Alberto ricorda esplicitamente di aver osservato la presenza di vene di diversi metalli (oro e argento) in uno stesso giacimento, a seguito delle indicazioni dei fossores e depuratores, confermando il suo interesse e la sua apertura nei confronti non soltanto delle competenze strettamente scientifiche,ma anche di quelle più propriamente professionali.
di Stefano Caroti
Il De anima di Aristotele è senza dubbio l’opera più letta, citata e commentata tra quelle del corpus aristotelico dedicate alle scienze della vita. Fin dagli esordi della sua fortuna nelle Facoltà delle arti, essa è ritenuta parte integrante di un programma più ampio, comprendente anche gli altri scritti che hanno per oggetto l’analisi dei corpi misti viventi. L’appartenenza delle problematiche affrontate nel De anima al novero delle scienze naturali non poteva non suscitare perplessità per la natura particolare dell’anima, che, sebbene ritenuta aristotelicamente forma del corpo fisico avente la vita in potenza, era tuttavia considerata provvista di un’autonomia ontologica tipica della sostanza e comunque non dipendente dal corpo per le sue funzioni superiori. Questo tipo di difficoltà, cui si aggiungono altre non meno rilevanti di carattere teologico, è affrontato nelle quaestiones che aprono i commenti al De anima, dedicate alla determinazione dell’oggetto della scientia de anima.
Nella digressio premessa alla sua parafrasi del De anima Alberto Magno, pur riconoscendo che l’anima e le sue operazioni non sono in senso proprio di pertinenza della filosofia naturale – il cui oggetto è il corpus mobile –, difende il carattere naturale di questo settore della ricerca asserendo che l’anima è la perfectio del corpo umano. Roberto Kilwardby (m. 1279) propone nel suo De ortu scientiarum un’indagine diversificata; il fisico si interessa dell’anima razionale in quanto principio motore e vitale del corpo, mentre al metafisico spetta la ricerca sull’anima considerata come sostanza separata dalla materia; egli opera inoltre una distinzione all’interno dei libri di filosofia della Natura di Aristotele sulla base della differenza tra corpi animati e inanimati.
Questo schema bipartito – adottato anche da Marsilio di Inghen nella seconda metà del XIV sec. – sostituì quello attestato nella Facoltà delle arti di Parigi fino alla metà del XIII sec., in cui prevaleva una divisione tripartita fondata sulle diverse funzioni del principio vitale: vegetativa, sensitiva e intellettiva. Relativamente all’anima vegetativa il testo di riferimento era il De plantis di Nicola di Damasco, ritenuto a lungo opera di Aristotele; per quanto riguarda quella sensitiva il De animalibus.
L’importanza della riflessione sull’ordine e la consistenza del corpus di scritti relativi alle scienze della vita per quanto riguarda le concezioni filosofiche generali, e quindi per lo sviluppo del pensiero scientifico, risulta immediatamente evidente dal diverso peso attribuito alle differenti discipline coinvolte, cui è strettamente legata la loro fortuna all’interno del curriculum dell’insegnamento universitario. Così il successo dello schema difeso da Kilwardby e Alberto Magno determinò la scomparsa della medicina dal novero delle discipline dedicate alla biologia; essa vi era invece ancora presente fino alla metà del XIII secolo. In un commento anonimo al De anima del 1245-1250 si attribuisce infatti la trattazione relativa all’anima razionale a una non meglio precisata Medicina Aristotelis, disponibile ai Greci, ma non ancora pervenuta al mondo latino (Gauthier 1984).
Nel Medioevo la lettura e il commento del De anima ha subito il condizionamento delle diverse interpretazioni circa la natura e le funzioni dell’anima, presenti non solamente nei commenti dei pensatori arabi, ma anche in opere di autori latini, come il De spiritu et anima di Alchiero di Chiaravalle (XII sec.), ritenuto opera di Agostino, o in compilazioni come il De anima di Domenico Gundisalvi (m. 1181). I testi che hanno influenzato maggiormente la riflessione medievale su questo tema sono il Liber sextus naturalium seu De anima di Avicenna e il commento di Averroè al De anima. Nel primo l’intelletto agente è considerato l’ultima delle intelligenze separate, il dator formarum con funzioni di tipo non soltanto noetico ma anche di causalità efficiente sul mondo inferiore. Il secondo scritto invece ha alimentato numerosi dibattiti sul problema della molteplicità degli intelletti possibile e agente, facendo conoscere al mondo latino le posizioni di pensatori greci e arabi come Teofrasto (m. 287 a.C.), Alessandro di Afrodisia (II-III sec. d.C.), Temistio (IV sec. d.C., delle cui opere negli anni Sessanta del XIII sec. era possibile avere una conoscenza diretta grazie alla traduzione di Guglielmo di Moerbeke) e Avempace (m. 1139). Non minore importanza ha in questo contesto la riflessione di Agostino – come attesta Giovanni Peckham (1240 ca.-1292) – il quale nelle sue Quaestiones de anima, identificando l’intelletto agente con Dio, distingue nell’anima umana due aspetti che insieme formano l’intelletto possibile, ossia una ratio inferior totalmente passiva e una superior dotata di una certa attività.
Nonostante nel De anima e nei Parva naturalia si affrontasse un ampio spettro di problemi legati alle diverse operazioni che vedono coinvolti l’anima e il corpo, la discussione medievale privilegiò in realtà l’indagine relativa alla funzione più alta dell’anima, quella noetica, affrontando tematiche di carattere ontologico, gnoseologico, fisiologico. Una delle fonti più note e usate in difesa dell’assoluta semplicità dell’anima, pur nella diversità delle sue funzioni, era il De spiritu et anima di Alchiero di Chiaravalle, in cui si sostiene che la pluralità dei nomi con cui ci si riferisce all’anima (anima, spiritus, sensus, animus, mens, ratio, memoria, voluntas) ha come unica denotazione un’essenza semplice. Alla teoria della semplicità dell’anima si opponevano però la diversificazione delle sue funzioni e l’individuazione all’interno dei corpi viventi di tre facoltà a seconda delle operazioni svolte dal principio vitale (e la distinzione aristotelica tra vegetativa, sensitiva e intellettiva si imponeva su quella platonica tra vis concupiscibilis, irascibilis e ratio).
Non minori difficoltà derivavano dall’accettazione del principio aristotelico della sostanza intesa come sinolo di materia e di forma; considerare l’anima forma del corpo equivale a una sua assimilazione alle forme inferiori, legate alla mutevolezza della materia, e quindi a ritenerla a un tempo sottoposta a generazione e corruzione e del tutto inadeguata ad assolvere al suo compito più importante, quello della conoscenza. L’attribuzione all’anima di un’autonomia tipica della sostanza, a prescindere dall’elemento materiale, era posizione difficilmente conciliabile con lametafisica di Aristotele, allo stesso modo della teoria dell’‘ilemorfismo universale’, secondo la quale l’anima era costituita da un principio formale e da uno materiale (materia spirituale); tale soluzione, infatti, pur garantendo all’anima lo statuto di sostanza indipendente, ne precludeva qualsiasi rapporto immediato con il corpo. Strettamente legata all’ilemorfismo universale è la dottrina della pluralità delle forme, secondo la quale ogni sostanza è caratterizzata da una serie di principî formali in ordine crescente di perfezione. Per spiegare il rapporto tra forme inferiori e superiori si proponevano soluzioni diverse: da quella più semplice, per cui la forma più perfetta riassumeva in sé le funzioni di quelle inferiori, a quella più complessa secondo la quale la forma più perfetta mantiene in sé la presenza di quelle inferiori, per cui, nel caso dell’anima, si ha un raddoppiamento delle funzioni vegetativa e sensitiva.
Il tentativo di impostare l’indagine su principî diversi dall’ilemorfismo e dalla pluralità delle forme fu all’origine dei dibattiti più accesi (tra i quali rientra anche l’averroismo parigino degli anni Sessanta-Ottanta del XIII sec.). I temi maggiormente discussi riguardavano la gnoseologia, l’ontologia e l’etica, ma assunse un particolare rilievo anche la riflessione sull’embriologia, strettamente legata alle diverse concezioni dell’anima e influenzata da teorie di origine teologica come il ‘traducianesimo’ (introdotto per spiegare la trasmissione del peccato originale, ma funzionale anche a una concezione dello sviluppo dell’embrione rispettosa della distinzione tra le diverse funzioni del principio vitale). Queste problematiche, così strettamente collegate tra loro, ebbero grande importanza nell’elaborazione dei sistemi filosofici e conseguentemente delle prospettive di carattere scientifico; nella discussione erano via via privilegiati singoli aspetti, a seconda dell’enfasi accordata alle diverse tematiche. Riguardo alla natura dell’anima e ai suoi rapporti con il corpo, maggiore attenzione era rivolta a problemi di carattere ontologico ed embriologico, mentre nell’indagine sulle parti costitutive dell’intelletto e sui loro rapporti, sia reciproci che con il corpo, prevalevano interessi di tipo gnoseologico e fisiologico.
Per quanto riguarda la natura dell’anima, oltre all’influenza di Agostino risultò determinante quella di Avicenna, per il quale l’anima era a un tempo sostanza autonoma (considerata in sé stessa) e forma del corpo, in quanto ne dirige le funzioni vitali, senza comunque perdere la propria indipendenza dalla materia. Avicenna considerava secondario e accidentale il rapporto dell’anima con il corpo; Bonaventura, convinto assertore dell’autonomia sostanziale dell’anima, la riteneva invece anche forma del corpo grazie alla distinzione all’interno del principio formale tra forme che realizzano o meno (tra queste è compresa l’anima) la loro potenzialità attraverso l’unione con la materia. Il rapporto tra le diverse funzioni vitali era risolto prevalentemente ricorrendo allo schema forma/atto e materia/potenza (talvolta anche attraverso la distinzione boeziana tra quod est e quo est, come nel caso di Alberto Magno); le funzioni inferiori erano considerate preparatorie rispetto a quelle superiori, per cui le prime si comportavano nei confronti delle seconde allo stesso modo della materia rispetto alla forma. A tale soluzione ricorsero sia i fautori della pluralità delle forme sia quelli dell’unicità, per i quali all’avvento della forma più perfetta, che riassumeva in sé le potenzialità delle altre, si corrompeva quella precedente (è questa la posizione di Guglielmo di Alvernia [1180 ca.-1249 ca.] e di Tommaso d’Aquino).
Il dibattito sulla natura dell’intelletto possibile e di quello agente, sui loro rapporti reciproci e su quelli con il corpo, ha una particolare rilevanza nella storia del pensiero filosofico per l’attenzione di cui è stato oggetto a partire dalla Tarda Antichità fino al Rinascimento. Per quel che riguarda la storia della scienza, la storiografia ha richiamato l’attenzione su due elementi: il primo è l’atteggiamento di indipendenza della ricerca dall’autorità religiosa (atteggiamento denominato in modo improprio ‘teoria della doppia verità’ e ritenuto a lungo uno dei caratteri peculiari dell’averroismo, a partire dalla sua prima manifestazione parigina nella seconda metà del XIII sec.), il secondo è costituito dall’individuazione nell’averroismo bolognese del XIV sec. del trait d’union tra l’averroismo parigino e quello padovano, in una prospettiva che privilegia la continuità nella storia del pensiero scientifico (Maier 1964-77). Anche a prescindere da queste valutazioni storiografiche, è comunque innegabile che le discussioni sulla natura e sulle funzioni dell’intelletto permisero, non senza resistenze, l’affermazione di un tipo di gnoseologia – quella aristotelico-tomista – più aperta, almeno sul piano teorico, al riconoscimento dell’importanza dell’esperienza sensibile rispetto all’illuminazionismo agostiniano.
La distinzione tra intelletto agente e intelletto passivo si basa sull’interpretazione del noto passo del capitolo 5 del Libro III del De anima, in cui Aristotele afferma l’esistenza di un intelletto che diventa tutte le cose e di uno che le produce tutte (430a 10-17); in altri passi del De anima e del De generatione animalium Aristotele sembra però sostenere il carattere separato dalla materia dell’intelletto agente (De anima, 403a 10; 408b 19; 413b 25-27; 429b 5; 430a 17-23; De generatione animalium, 736b 27-29).
Prima della cosiddetta crisi averroista degli anni Sessanta- Ottanta del XIII sec., durante la quale Alberto Magno, Bonaventura e Tommaso d’Aquino misero in guardia contro i pericoli conseguenti all’interpretazione del filosofo arabo, secondo il quale non soltanto l’intelletto agente ma anche quello possibile erano unici per tutta la specie umana, Averroè era considerato fautore di una soluzione per la quale entrambi gli intelletti erano parte integrante dell’anima umana. L’anonimo maestro parigino delle arti, autore del De anima et potenciis eius (1225 ca.), rimproverava apertamente Avicenna per aver sostenuto l’unicità e la separatezza dell’intelletto agente, traendo ispirazione proprio da Averroè; e nel commento al De causis Ruggero Bacone indicava in Averroè il solo tra i filosofi a sostenere la molteplicità di entrambi gli intelletti. In effetti, per assicurare le funzioni noetiche dell’intelletto e l’universalità della scienza, Averroè sosteneva l’immaterialità e quindi l’unicità non soltanto dell’intelletto agente, ma anche di quello possibile, contro Alessandro di Afrodisia e Avempace, che lo ritenevano una disposizione materiale il primo, una facoltà immaginativa il secondo.
La soggettività del conoscere è garantita, secondo Averroè, dalle specie intelligibili – in potenza in quelle sensibili – come risultato dell’azione del mondo esterno sui sensi; essi infatti passano in atto per l’azione dell’intelletto agente, che permette così anche a quello possibile di passare all’atto. Questa posizione era difesa nel commento al Libro III del De anima di Sigieri di Brabante (1240 ca.-1284 ca.), uno dei rari documenti del primo averroismo parigino; nel De unitate intellectus contra Averroistas, redatto per combattere questa interpretazione di Aristotele (Averroè vi è accusato di essere depravator della dottrina aristotelica), Tommaso d’Aquino ritiene invece che la soluzione averroista non permetta di spiegare la conoscenza del singolo, e soprattutto riproponga una prospettiva filosofica di tipo platonico, per cui tutte le forme erano nell’intelletto, unico per la specie umana ed eterno.
La funzione noetica dell’intelletto e l’universalità della scienza, secondo Tommaso, possono essere garantite tenendo conto del modo di procedere dell’intelletto, che, pur essendo forma del corpo, si serve di esso per le proprie operazioni non come di un proprio organo. Nel De unitate Tommaso d’Aquino non limita la sua polemica ai seguaci del commentatore, e attacca esplicitamente sia le posizioni dell’illuminazionismo che si ispirano ad Agostino, sia la teoria secondo la quale l’anima era una forma sostanziale completa e autonoma (in rapporto con il corpo allo stesso modo in cui il nocchiero lo è con la nave). Questa teoria, cui aderiva lo stesso Sigieri nel De anima intellectiva, era abbastanza diffusa tra i difensori della pluralità delle forme e fu ripresa anche da Giovanni di Jandun, il maggiore esponente dell’averroismo parigino del XIV secolo.
Le diverse soluzioni proposte circa lo sviluppo dell’embrione risentono sia delle scelte relative alla natura dell’anima e ai suoi rapporti con il corpo, sia di quelle di carattere metafisico sulla pluralità o unicità della forma sostanziale. Il problema di più difficile soluzione è senz’altro quello dell’embrione umano, nel quale l’anima intellettiva non poteva essere considerata, al pari della vegetativa e della sensitiva, originata a partire dal principio materiale. Per i sostenitori della pluralità delle forme le possibili opzioni vanno da un realismo estremo, che prevedeva l’esistenza di un doppio principio vegetativo e sensitivo – uno di carattere materiale e l’altro immateriale in quanto parte dell’anima razionale, o addirittura tre anime incorporee, la vegetativa proveniente dal seme paterno, la sensitiva dipendente dall’azione astrale e l’intellettiva creata da Dio –, a uno sviluppo nel quale la forma meno perfetta ha con la più perfetta un rapporto simile a quello esistente tra materia e forma.
Alberto Magno nel De natura et origine animae difende la teoria dell’unità dell’anima umana, nella quale la componente razionale costituisce un’unica sostanza con quelle vegetativa e sensitiva, che sono a loro volta una preparazione (inchoatio), la prima della sensitiva e la seconda della razionale. Contrariamente a Tommaso, Alberto ritiene che il passaggio dalla forma inferiore a quella superiore sia un processo continuo, soluzione che secondo Tommaso d’Aquino era in aperto contrasto con la nozione aristotelica di generazione. Nel pensiero di Tommaso il principio attivo del seme paterno opera sulla parte materiale del feto, fornita dalla madre, nella quale è presente l’anima vegetativa in potenza, che per l’azione della virtù attiva del seme maschile passa all’atto; all’azione del seme paterno si deve anche la parte sensitiva, che inizia subito a espletare le funzioni della nutrizione e dell’accrescimento. Ispirandosi a una massima di Aristotele, per cui la generazione di una cosa segue alla corruzione di un’altra, Tommaso d’Aquino afferma che al sopraggiungere di una forma più perfetta si corrompe quella precedente. In questo contesto egli critica coloro che sostengono che l’anima sensitiva degli animali sia creata da Dio; tale posizione, che fa dell’anima sensitiva un principio dotato di una propria autonomia ontologica rispetto alla materia, era inadeguata a spiegare la corruzione del principio vitale animale al momento della morte.
Gli stessi problemi si riproponevano al momento di spiegare il contributo del corpo nell’espletare alcune funzioni vitali, a partire da quelle della nutrizione, dell’accrescimento, della locomozione e della sensazione, fino a giungere a quelle superiori della conoscenza; in questo contesto la discussione si arricchì di elementi provenienti dalla tradizione medica (Galeno, Avicenna). Già Qusṭā ibn Lūqā nel suo De differentia animae et spiritus distingue tra uno spirito vitale con sede nel cuore e uno animale con sede nel cervello, responsabile non solo dei processi sensitivi attraverso i nervi, ma anche della memoria e della cogitatio, providentia e cognitio. Secondo Roberto Grossatesta, il medium con cui l’anima opera sul corpo era costituito dalla luce, più vicina alla natura spirituale dell’anima; Alberto Magno riteneva invece che la luce e il suo modo di operare costituissero solamente un’analogia e confutava la teoria per la quale spiritus naturales vel vitales vel animales esse luces vel lumina, definendola mendacium apertum. Alberto polemizzava anche contro chi sosteneva che nel corpo umano fosse presente la quintessenza, proprio in funzione di medium, richiamando l’attenzione sulle peculiarità del quinto elemento, costituito da una materia diversa da quella elementare e non dotato di un movimento istantaneo, ritenuto necessario per meglio spiegare l’immediatezza caratteristica dell’operare degli spiritus.
Egidio Romano, che nella formazione dell’embrione non riconosceva all’elemento femminile un ruolo attivo, distingueva due tipi di spiritus, entrambi nel seme paterno; uno di tipo inorganico, con funzione di principio agente nella formazione dell’embrione, e uno organico, nel quale si distinguevano gli spiriti naturali, vitali e animali, presenti in quello inorganico soltanto in uno stato indistinto e potenziale (Hewson 1975). Alberto Magno riteneva lo spirito il primum instrumentum animae, e, pur negandogli il ruolo di medium tra anima e corpo, gli riconosceva una funzione più generale all’interno degli enti dotati di vita; nelmondo vegetale opera lo spirito naturale, deputato al nutrimento, che riassume in sé anche le funzioni di quello vitale; nel mondo animale agisce lo spirito animale, che sovrintende alle operazioni dei sensi, e, in quanto più perfetto, assomma in sé le virtù di quello vitale e naturale. Alberto rilevava tuttavia che la diversa struttura delle piante e degli animali esigeva un’analisi differenziata della natura e delle funzioni dello spiritus (nelle piante, per es., lo spirito e il nutrimento procedono per easdem vias). Ancora al seme paterno Alberto Magno attribuiva il calidum e l’humidum originale, presente anche nel seme materno, ma con un ruolo subordinato e considerato pabulum del calore; dal loro diverso interagire dipendeva la lunghezza della vita. Egli non si limitava ad affrontare il problema circoscrivendolo all’uomo, ma prendeva in considerazione tutto il dominio degli esseri dotati di vita.
Nel Libro II del De anima Aristotele tratta anche dei sensi esterni e di quelli interni, sulla cui natura, operazioni e rapporti reciproci si basa una parte cospicua della discussione originata dall’interpretazione monopsichista di Aristotele compiuta da Averroè. Nel dibattito medievale particolare attenzione era rivolta alla funzione del mezzo (medium) nel processo sensitivo, soprattutto per quanto concerne i sensi esterni, nei quali aria e acqua costituiscono lo strumento di trasmissione delle species dall’oggetto esterno all’organo di senso. Diverse sono le posizioni circa la natura del sensibile in medio (species intentionales, intentiones), che per alcuni era di natura spirituale, per altri materiale, anche se di una materia molto sottile, mentre per altri ancora si trattava di una nozione superflua, senza un denotato reale, escogitata solamente per spiegare una modificazione a livello sensoriale o intellettivo (la posizione di Guglielmo di Ockham; Tachau 1988). La particolare natura delle species in medio è utilizzata dai pensatori medievali non soltanto per spiegare il meccanismo della sensazione o, a un livello diverso (quello delle species intelligibiles), dell’intellezione, ma anche per rendere ragione dell’azione dei corpi naturali secondo il modello di diffusione della luce (multiplicatio specierum). Tale modello permette una spiegazione dell’azione naturale sulla base sia delle qualità elementari aristoteliche sia della perspectiva; il ricorso alla perspectiva e alle leggi geometriche della diffusione della luce non fu limitato a Roberto Grossatesta e Ruggero Bacone, ma continuò ad avere una notevole fortuna durante il XIV sec., anche se non riuscì a costituire mai una vera e propria alternativa alla teoria delle qualità aristoteliche (Lindberg 1996).
Il sensibile proprio della vista – secondo la distinzione aristotelica tra sensibili propri, sui quali non è possibile l’errore se non in presenza di un’alterazione fisiologica, e sensibili comuni – è il corpo colorato, e proprio la natura dei colori è stata oggetto della riflessione di molti pensatori medievali, non soltanto nel commento al De anima, ma anche in quello al De sensu et sensibili, soprattutto relativamente alla composizione dei colori medi. La necessità dell’azione della luce per la percezione del colore era all’origine della distinzione tra due elementi costitutivi della natura dei colori: uno materiale, derivante da una particolare commistione degli elementi, e uno formale, la luce. Il principio materiale non si riferiva, come precisa Alberto Magno nella Summa de creaturis, alla materia ex qua, ma a quella in qua, cioè la materia del corpo non trasparente, operando sulla cui superficie la luce rende visibile il colore.
Nel commento al De sensu et sensibili di Buridano e in quello attribuito a Nicola Oresme e Alberto di Sassonia, nella quaestio sulla natura dei colori intermedi (se essi provengano da una commistione dei colori estremi, il bianco e il nero), si definiscono i colori, al pari dei sapori e degli odori, come qualità seconde risultanti dalla mixtio delle qualità elementari. Teodorico di Vriberg nel suo De coloribus dedica un capitolo ai diversi tipi di mixtio e afferma che i colori differiscono tra loro non soltanto in base all’intensità ma anche alla specie; tale distinzione dipende non direttamente dalla forma mixti, ma dalla mixtio complexionalis, caratterizzata da proprietà diverse da quelle dei semplici corpi misti. Nella Summa de creaturis Alberto Magno, dopo aver attribuito all’azione delle due qualità attive – il caldo e il freddo – la generazione dei colori estremi, ricorre invece, per spiegare l’origine dei colori intermedi, a una serie di proporzioni sulla distanza dei medesimi dal bianco e dal nero.
Il De vegetabilibus e il De animalibus hanno conosciuto una fortuna molto limitata e non certo comparabile con quella del De anima e dei Parva naturalia. Per quanto riguarda il De animalibus, il commento per quaestiones di Pietro Ispano precede quelli di Alberto Magno e di Gerardo di Brolio, che tuttavia mantengono una loro originalità, Alberto per l’importanza accordata all’esperienza, Gerardo per il maggior rilievo attribuito agli aspetti teorici. All’anima vegetativa sono attribuite le funzioni essenziali della nutrizione, e nonostante la dichiarata difficoltà di procedere nell’indagine avvalendosi dell’esperienza rispetto a quanto avviene nell’indagine relativa al corpo animale, quest’ultimo rimane il modello di spiegazione anche nell’analisi delle operazioni delle funzioni vegetative.
Alberto Magno denuncia in più occasioni l’incompletezza e l’oscurità di quanto è pervenuto al mondo latino di questa parte della scienza, attribuendone la responsabilità ai traduttori piuttosto che all’autore del De vegetabilibus, che egli riteneva essere Aristotele. Proprio per questo abbandona la tecnica, usuale nelle sue parafrasi degli scritti aristotelici, di alternare la parafrasi vera e propria alle digressiones, che contengono gli approfondimenti ritenuti necessari. Nel De vegetabilibus ben tre libri sono costituti interamente da digressiones, ossia il secondo e il terzo, dedicati alle cause delle diversità delle parti delle piante, e il quinto in cui si affrontano problemi di fisiologia e soprattutto quelli della propagazione. Questo scritto albertiano è stato apprezzato soprattutto per l’accuratezza delle descrizioni, che permettono in taluni casi di identificare, con una certa precisione, le piante menzionate; il contributo più significativo è tuttavia da ricercarsi nel tentativo di presentare una sistemazione organica di questo ambito della ricerca, che non poteva contare su una tradizione di scritti paragonabile a quella disponibile per gli altri settori delle scienze della vita. È del resto lo stesso Alberto ad attribuire alla parte descrittiva dell’opera – il Libro VI, che costituisce un vero e proprio erbario ordinato alfabeticamente – un’importanza minore rispetto a quella teorica, confessando che la redazione di questa parte è stata determinata esclusivamente dall’esigenza di soddisfare la curiosità dei propri studenti. Oltre all’accuratezza e all’ampiezza dei dati, compresi quelli sull’habitat delle piante, Alberto ricorre spesso a un esame comparativo tra le diverse parti delle specie descritte, sia per mettere in rilievo somiglianze e diversità, sia per fornire elementi utili a una più facile identificazione delle specie meno note. La parafrasi albertiana del De animalibus, fedele a uno schema di trattazione che antepone all’analisi delle peculiarità delle singole specie quella dei caratteri comuni, si chiude con un elenco ordinato alfabeticamente e distinto in quadrupedi (Libro XXII), uccelli (Libro XXIII), animali acquatici (Libro XXIV), serpenti (Libro XXV) e vermes (Libro XXVI). Anche in quest’opera, insieme a fonti scritte di diversa natura – talvolta anche non confessate, come nel caso degli ultimi cinque libri, in cui viene ampiamente usato il De natura rerum di Tommaso di Cantimpré – numerosi sono i riferimenti a esperienze personali.
Com’è stato rilevato a proposito del De vegetabilibus, il maggior contributo albertiano alla zoologia medievale non è da ricercarsi nella componente descrittiva ed empirica, talvolta debitrice di fonti scritte anche coeve, bensì in quella filosofico- sistematica. Essa infatti permette di cogliere il senso sia della preferenza accordata alle posizioni di Aristotele rispetto ad autori come Galeno per quanto riguarda l’embriologia, sia della presenza di alcune tematiche zoologiche anche in scritti di carattere teologico. Il costante impegno nel completamento e nell’approfondimento della scienza tramandata da Aristotele – arricchita dai commentatori arabi e latini – attraverso le numerose digressiones del De animalibus e i quesiti proposti nelle Quaestiones sullo stesso scritto, rispondeva infatti a un’esigenza di natura non soltanto descrittiva o enciclopedica, ma anche, e soprattutto, filosoficosistematica, come è autorevolmente attestato dai capitoli introduttivi alle singole trattazioni.
di Baudouin van den Abeele
I trattati di Aristotele sugli animali, scritti intorno alla metà del IV sec. a.C., costituiscono nell’insieme l’opera più importante della letteratura zoologica dell’Antichità, con la quale le conoscenze relative al mondo animale furono ordinate e sviluppate. Ai tre trattati maggiori su questa materia, l’Historia animalium in dieci libri, il De partibus animalium in quattro libri e il De generatione animalium in cinque libri, si aggiungono due testi minori, il De motu animalium e il De incessu animalium. Poiché nessuna delle opere appartenenti a questo corpus zoologico fu tradotta in latino durante l’Antichità o l’Alto Medioevo, esse rimasero inaccessibili al mondo latino fino all’inizio del XIII sec., così come tutti gli altri testi scientifici e filosofici greci dovettero compiere un lungo percorso attraverso il Medio Oriente siriaco e arabo e la Spagna musulmana prima di essere tradotti dall’arabo al latino. Nonostante ciò, questo sapere non rimase del tutto inaccessibile; molte conoscenze sugli animali erano passate in maniera frammentaria nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio (23-79) e furono riprese in seguito nelle Etymologiae di Isidoro di Siviglia (560-636 ca.), ricevendo così una larghissima diffusione.
Si dovettero attendere gli anni tra il 1210 e il 1220 per una traduzione dei testi originali, quando Michele Scoto (1175 ca.-1236) portò a termine, a Toledo, le versioni latine delle tre maggiori opere zoologiche, trasmesse dagli Arabi in una sequenza di diciannove libri: il De animalibus latino riuniva infatti l’Historia animalium (Libri I-X), il De partibus animalium (Libri XI-XIV) e il De generatione animalium (Libri XV-XIX). Le due opere minori presero invece la via italiana e furono tradotte direttamente dal greco dal domenicano Guglielmo di Moerbeke (1215 ca.-1286), che intorno al 1260 intraprese anche una nuova traduzione, sempre dal greco, dei tre grandi trattati zoologici. Da quel momento quindi l’Occidente dispose di due versioni latine delle più importanti opere di Aristotele sugli animali. Nonostante la sua superiorità critica, la traduzione di Guglielmo di Moerbeke non sembra aver avuto lo stesso successo di quella di Michele Scoto, se si considera il numero dei manoscritti conservati del testo e la quantità dei commenti; la storia della ricezione del De animalibus latino comunque è ancora in parte sconosciuta e solamente negli ultimi anni si è risvegliato un interesse su questo argomento.
Rispetto ai testi sugli animali che circolavano nell’Occidente latino, il De animalibus aristotelico presentava un approccio al mondo animale del tutto nuovo; al posto dei cataloghi di animali e delle sequenze di notizie specifiche sulle singole specie, l’opera offriva esposizioni sistematiche sulla morfologia, sul comportamento e sulla riproduzione animale, suddividendo le varie specie in otto grandi generi raggruppati in due serie, cioè gli animali provvisti di sangue e quelli che ne sono privi. I primi erano suddivisi in quattro generi, ossia quadrupedi vivipari e affini, uccelli, quadrupedi ovipari e serpenti, pesci; tra i secondi Aristotele distingueva gli animali molli (cioè i cefalopodi), a guscio morbido (crostacei), a guscio corneo (testacei e affini) e a segmenti (insetti e affini). Nell’esposizione il filosofo procedeva dai casi particolari a quelli più generali, formulando precise osservazioni nella ricerca continua delle cause dei fenomeni studiati.
Non è possibile determinare in quale misura la comparsa della zoologia aristotelica in Occidente abbia originato una frattura nella concezione medievale del mondo animale;mancano infatti studi specifici sui testi successivi al De animalibus, per la gran parte inediti, e non si riescono a tracciare le vie percorse nel processo di assimilazione e comprensione dei nuovi testi zoologici. È necessario anche osservare che i grandi trattati sugli animali non risultavano completamente chiari; il passaggio attraverso l’arabo rendeva più difficile il lavoro dei traduttori, che spesso dovevano confrontarsi con termini oscuri, versioni arabizzate di nomi greci, o nomi di animali arabi sconosciuti ai latini. Il testo di Michele Scoto, per esempio, è disseminato di termini arabi latinizzati, come si nota soprattutto nei libri dell’Historia animalium, in cui sono più numerose le specie animali prese in esame. Anche l’Aristotele greco-latino presentava delle difficoltà, non soltanto lessicali. Non era facile, per esempio, introdurre tra gli studiosi latini, abituati alle categorie empiriche di Isidoro di Siviglia, il principio della suddivisione degli animali in otto grandi generi (in particolare, i quattro generi di animali privi di sangue non avevano alcun corrispondente nella tradizione naturalistica occidentale); e anche la fauna descritta da Aristotele, essendo in buona parte tipica delle regioni mediterranee e orientali, includeva elementi del tutto sconosciuti all’Occidente.
Il De animalibus arabo-latino non entrò comunque in scena da solo. Durante la sua movimentata carriera, infatti, Michele Scoto aveva vissuto per numerosi anni in Italia, prima a Bologna, alla corte pontificia, e poi nella cerchia di Federico II di Svevia (1194-1250), e nel periodo trascorso alla corte imperiale egli tradusse dall’arabo il compendio dei diciannove libri sugli animali scritto da Avicenna (980-1037), l’Abbreviatio Avicenne de animalibus.
Così, muniti di questo imprimatur imperiale, il De animalibus e il suo compendio circolarono insieme per lungo tempo, tanto da comparire insieme in molti manoscritti. Così come era accaduto per altri testi aristotelici, l’Occidente produsse propri compendi, florilegi, commenti e tavole come strumenti della pratica universitaria. A Parigi, testi sugli animali sono menzionati a partire dal 1255 nel programma della Facoltà delle arti, e da allora il De animalibus fu accompagnato da una letteratura che ne facilitava la comprensione. Si conoscono, per esempio, una decina di manoscritti di un florilegio del XIII sec., intitolato Auctoritates extracte de libro Aristotelis de naturis animalium, redatto probabilmente in Francia sulla base della traduzione di Michele Scoto. Piuttosto sorprendenti sono invece tre manoscritti del XIV e XV sec., di provenienza inglese, che tramandano un breve De animalibus in versione moralizzata, nel quale sono combinati, libro per libro, un commento allegorico ed estratti del testo aristotelico nella traduzione di Michele Scoto. Sebbene si tratti di una curiosità letteraria, essa dimostra che la comparsa della zoologia aristotelica non segnò la fine della visione allegorica del mondo animale.
Anche la pratica della disputatio universitaria ha prodotto numerose raccolte di questioni relative ai libri sugli animali. Alcune di esse, di cui si ha notizia attraverso citazioni medievali, sono andate perdute, ed è il caso delle Quaestiones super XIX libros de animalibus di Ruggero Bacone e delle Quaestiones di Boezio di Dacia; altre testimoniano chiaramente della vivacità e dell’interesse delle dispute universitarie in materia. Due fra queste, conservate in manoscritti che si trovano nelle Biblioteche Nazionali di Madrid (ms. 1877) e di Firenze (ms. Conv. soppr. G. 4853), sono state attribuite a Pietro Ispano (1210-1277), il futuro papa Giovanni XXI, ma la loro autenticità è dibattuta. Le questioni di Alberto Magno (datate 1258), raccolte per iscritto da un uditore, Corrado d’Austria, hanno conosciuto un discreto successo. È anche il caso della raccolta di Gerardo di Brolio, canonico di Clermont, riprodotta in almeno quattro manoscritti, che occupa non meno di 192 fogli nel codice conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi (ms. Paris. lat. 16166); diversamente dagli scritti precedenti, che utilizzano tutti la traduzione di Michele Scoto, questo testo è basato sulla traduzione dal greco. Ciò vale anche per le Quaestiones super librum De generatione animalium di Giovanni Vath – datate circa al 1290 – in cui, attraverso 59 questioni accompagnate da argomentazioni e discussioni, sono affrontati principalmente problemi di genetica e di embriologia. Tra tutti questi testi generati da letture e discussioni intorno al De animalibus, l’opera di maggior valore per quantità e qualità è certamente quella scritta da Alberto Magno, De animalibus libri XXVI, ultimata tra il 1260 e il 1270. Nei Libri dal I al XIX Alberto svolge un approfondito commento dei diciannove libri del De animalibus arabo-latino; i due libri successivi contengono un’esposizione sulla natura dei corpi e sul grado di perfezione degli animali; gli ultimi cinque, infine, presentano un catalogo delle specie ordinate per grandi categorie, ossia homo et quadrupedia, aves, aquatica, serpentes, vermes (uomo e animali quadrupedi, uccelli, animali acquatici, serpenti, vermi), secondo un’esposizione di tipo enciclopedico. Per questi ultimi, in realtà, la maggiore fonte di informazioni di Alberto fu il De natura rerum di Tommaso di Cantimpré, sebbene quest’opera e il suo autore non siano mai nominati. Per i Libri I-XIX l’editore del De animalibus, H. Stadler, ha operato una distinzione fra i passi di Aristotele commentati e le aggiunte proprie di Alberto, rendendo così comprensibile il metodo di lavoro del domenicano; egli rifletteva sui nomi di specie oscure, riportava passi chiarificatori tratti dall’Abbreviatio di Avicenna o da altre fonti – tra le quali alcune mediche – e aggiungeva osservazioni personali, elemento che conferisce al testo un interesse tutto particolare.
L’opera di Alberto è stata considerata, a giusto titolo, come fondamentale fra gli scritti medievali di storia naturale; mancano tuttavia studi sistematici sul commento vero e proprio del testo aristotelico, costituito dai primi diciannove libri, poiché l’interesse degli studiosi si è concentrato soprattutto sui cinque libri finali nei quali Alberto passa in rassegna le conoscenze zoologiche trasmesse da Tommaso di Cantimpré, eliminandone le contraddizioni. È qui che compare il maggior numero di osservazioni personali, raccolte durante i suoi numerosi viaggi in Germania, Francia e Italia, o annotate nel corso dei lunghi soggiorni a Colonia. Nell’insieme, i ventisei libri del De animalibus testimoniano le difficoltà nella ricezione medievale dell’opera zoologica di Aristotele; infatti, per il loro carattere analitico ed esplicativo, le trattazioni aristoteliche sul comportamento, la morfologia e la riproduzione degli animali non corrispondevano alle aspettative degli studiosi latini, abituati all’inventario del mondo animale costruito per mezzo dei cataloghi. Aggiungendo alle trattazioni aristoteliche una versione riveduta e corretta dei cataloghi delle specie animali derivati dall’opera di Tommaso di Cantimpré, Alberto Magno realizzò dunque un’opera dal duplice merito offrendo insieme l’analisi e l’inventario del mondo animale.
Lo studio dell’influenza dei trattati zoologici aristotelici sulla cultura medievale tocca anche un genere correlato, quello enciclopedico, nel quale le conoscenze aristoteliche penetrarono con grande rapidità. Presenti solamente in piccola parte nelle opere di Alessandro Neckam e Bartolomeo Anglico (decenni 1220-1240), gli estratti dai grandi trattati di Aristotele sugli animali figurano invece ampiamente nell’opera di Tommaso di Cantimpré; nel prologo al suo De natura rerum (terminato nel 1240) Aristotele occupa la prima posizione fra le auctoritates nominate dall’autore come garanti delle informazioni fornite. Anche nei libri sul mondo animale contenuti nello Speculum naturale (XVIXXII) di Vincenzo di Beauvais (1190 ca.-1264) Aristotele è largamente utilizzato, al punto che le citazioni del filosofo greco costituiscono circa un ottavo del totale; tuttavia, le più ‘aristoteliche’ fra le enciclopedie del XIII sec. sono il De floribus rerum naturalium (1230 ca.) di Arnaldo di Sassonia e l’anonimo Compendium philosophiae dove le citazioni dai grandi trattati ricorrono in modo sistematico.
L’introduzione del materiale aristotelico non influì in modo profondo sulla visione del mondo animale degli enciclopedisti medievali; nessuno di essi, infatti, riprese la classificazione in otto generi principali, né fornì una descrizione del mondo animale secondo le tre grandi linee tracciate da Aristotele nel De animalibus (storia, parti, riproduzione). Tommaso, Bartolomeo, Vincenzo e altri ancora si dedicarono piuttosto a un lavoro di raccolta di estratti, cosicché le loro notizie sugli animali conosciuti furono arricchite da passi attinti dal De animalibus, mentre i cataloghi delle specie furono ampliati con animali dai nomi esotici. Nel testo di Tommaso, per esempio, compaiono uccelli chiamati agothilez, amraham, carcates, dariata, fatator, fetix, iboz, kym, karkolaz, komor, kyches, linachos, magnales, le cui notizie derivano direttamente dal De animalibus arabo-latino; gli stessi nomi si ritrovano in seguito nell’opera di Vincenzo di Beauvais e in autori di trattati morali, ed è interessante seguirne la curiosa fortuna fino a certi zoologi del Rinascimento.
Il genere sul quale la zoologia aristotelica ha inaspettatamente esercitato un’influenza innegabile è quello della letteratura sulla caccia; il trattato sulla falconeria di Federico II di Svevia, De arte venandi cum avibus ne è testimonianza. L’imperatore, uomo di lettere e di scienza, aveva chiamato alla sua corte Michele Scoto, il traduttore del De animalibus e dell’Abbreviatio Avicenne; in questo modo, quando cominciò a redigere la sua opera monumentale sulla falconeria, questi testi gli si presentavano in tutta la loro originalità. Il primo dei sei libri del De arte venandi è quello maggiormente contrassegnato da un approccio aristotelico; interamente dedicato alla descrizione ragionata del mondo degli uccelli, esso suddivide i volatili in base all’habitat e al modo di nutrirsi, per poi trattare della migrazione, della riproduzione, della morfologia, del piumaggio, del volo, delle reazioni di difesa e della muta. Ciascun tema è affrontato da un punto di vista generale e illustrato con casi particolari, con una costante attenzione per le cause dei fenomeni osservati.
In realtà, l’opera di Federico II completa quella di Aristotele, che aveva dedicato agli uccelli un’attenzione molto minore rispetto ai pesci e agli animali acquatici. Anzi, Aristotele non si era soffermato affatto sul piumaggio, le forme del becco, il volo degli uccelli acquatici, mentre Federico ne dà descrizioni dettagliate. Oltretutto, in ragione della propria experientia della caccia e della conoscenza profonda del mondo degli uccelli, Federico si trovò a correggere in numerosi punti le affermazioni del filosofo greco, com’è spiegato chiaramente nel prologo: «Abbiamo seguito Aristotele, quando conveniva. In molti casi infatti egli sembra allontanarsi dalla verità, secondo quanto abbiamo appreso dall’esperienza, soprattutto riguardo alla natura di certi uccelli. È per questo che non seguiremo in tutto il principe dei filosofi, poiché egli raramente o mai ha praticato la caccia al volo, mentre noi l’abbiamo sempre amata e praticata» (De arte venandi, ed.Willemsen). Tuttavia, nonostante le critiche più o meno esplicite, nell’insieme l’imperatore non mancò di dichiarare il proprio debito di riconoscenza verso il filosofo greco: «Tutto ciò di cui non parliamo in materia di uccelli, lo si troverà nel libro di Aristotele sugli animali» (ibidem); così, per esempio, egli non si preoccupò di soffermarsi sullo sviluppo dell’uovo e dell’embrione, in quanto già chiaramente descritto nell’Historia animalium e nel De generatione animalium.
Federico II realizzò una delle prime e più creative assimilazioni della nuova scienza degli animali in Occidente; egli applicò al mondo degli uccelli i metodi analitici e interpretativi della storia naturale di Aristotele, offrendo al contempo una trattazione dal contenuto ampiamente originale.
di Graziella Federici Vescovini
L’influenza dell’ermetismo nel Medioevo si ebbe soprattutto attraverso le opere dell’ermetismo astrologico e alchemico arabo-orientale, noto ai Latini in traduzioni dall’arabo o dall’ebraico. La letteratura ermetica medievale in lingua araba è assai diversa da quella in lingua greca, come emerge dal contenuto di uno dei testi magici ermetici più importanti, il De imaginibus planetarum di Ṯābit ibn Qurra (836-901); quest’opera si ricollega alla trattatistica che si vuole composta in Egitto e redatta nel IV sec. da una figura mitica, Ermete appunto o Thoth, nella quale si sviluppa una filosofia religiosa monoteista con vaste ramificazioni scientifiche.
Nella tradizione astrologica medievale, Ermete è citato per lo più come colui che ha inaugurato una tradizione di rappresentazione delle immagini celesti: «i primi come Ermete e quelli che li seguirono come i costruttori di immagini » (Pietro d’Abano, Lucidator dubitabilium astronomiae). Secondo una certa tradizione letteraria qui è contenuta un’allusione agli antichi Caldei i quali, osservando le stelle, ne costruirono la raffigurazione sulla scia delle indicazioni di Ermete. Gli ermetici furono quindi, come i Caldei, coloro che per primi, osservando la volta celeste, la videro popolata di immagini e di figure. La tradizione dell’Ermete arabo è infatti associata anche alla tradizione dell’Ermete ebraico, ossia di Enoch secondo fonti latine risalenti spesso a testi arabi, per lo più all’opera di Abū Ma‛šar (m. 886); secondo la leggenda, Ermete, detto anche Enoch o Noè, era uno dei figli di Noè-Ermete, Cham, che alcuni identificano con Zoroastro, l’inventore delle arti magiche. Che la sapienza e tutte le scienze derivino da Ermete-Noè – e quindi da Mosè e dai Caldei che da lui discesero – è una leggenda che si fa risalire a due fonti arabe di primaria importanza, l’Introductorium maius in astronomiam di Abū Ma‛šar e gli Excerpta de secretis Albumasar, del suo discepolo Sadan, un persiano vissuto tra il IX e il X secolo.
Tra gli autori della tradizione ermetica magica medievale si devono ricordare Ermete Balino (o Belino, Beleno, Bellenuz), un seguace di Apollonio di Tiana, autore di un’opera di magia in cui è sviluppata la teoria dell’influenza magica delle immagini astrologiche attraverso invocazioni di demoni, suffumigi e incisioni di segni e di caratteri, e l’autore del Liber Arthephii o Alfidii, probabilmente la Clavis sapientiae di un seguace di Belino, redatto nel IX secolo. I principî basilari del pensiero ermetico circolarono nel Medioevo attraverso questi testi, ma in particolare grazie alla traduzione latina passata nella recensione araba dellaTabula smaragdina Hermetis, una compilazione anonima presente nel Secretum commentato da Ruggero Bacone. Primo fra tutti era il principio della corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, secondo il quale il piccolo riproduce il grande, l’alto è come il basso, il sinistro come il destro, l’inferiore come il superiore; questa idea presupponeva un interscambio tra le essenze e le forme, la materia e lo spirito, il divino e il materiale, che era anche alla base dei principî dell’alchimia.
Una elaborazione di questa dottrina si trova sviluppata in alcuni testi poco conosciuti, le cui idee confluiscono nel De quinque essentiis attribuito generalmente ad al-Kindī (ma in alcuni manoscritti ad al-Ġazālī), nel De radiis sive Theorica artium magicarum, sempre dello stesso autore e, soprattutto, nel Picatrix, manuale di magia ermetico-persiana arabo-andalusa.
La paternità di tale dottrina viene ricondotta a un misterioso Pseudo-Empedocle, autore di un trattatello sulle cinque essenze, a cui avrebbe attinto anche Ibn Gabīrōl per comporre il suo Fons vitae; infatti, nel prologo di Ibn Falaquera agli estratti del Fons vitae l’autore afferma che nel pensiero di Ibn Gabīrōl sopravvive il sistema di un filosofo antico simile a quello svolto da Empedocle nell’opera sulla quintessenza. In realtà, le cinque sostanze di cui parla Falaquera a proposito di Ibn Gabīrōl non coincidono né con le cinque essenze di al-Kindī, né con i cinque principî indicati da Ǧābir ibn Ḥayyān (sostanza, qualità, quantità, spazio e tempo). Ibn Gabīrōl ha elaborato una sua dottrina ilemorfica secondo la quale tutte le cose sono una sola materia universale che ha le proprietà di essere, di sussistere in sé, di essere una sola essenza, di portare la diversità, di dare al tutto la sua essenza e il suo nome. Un principio che segue tale teoria – e che ebbe applicazione presso i medici e gli astrologi medievali, come Pietro d’Abano – è che se è impossibile conoscere la natura della sostanza divina, è sempre possibile attingerla attraverso gli effetti che produce con la sua azione nella materia. Nel sistema neoplatonico di Ibn Gabīrōl questa materia si specifica in quattro specie, ossia la forma, la materia particolare artificiale o naturale, la materia generale naturale sublunare – che porta in sé la generazione – e la materia delle sfere (Fons vitae, V).
In realtà, gli Antichi hanno spesso confuso questa dottrina dello Pseudo-Empedocle con altre a essa simili, come quella sviluppata da al-Rāzī (per il quale i cinque principî sono il Demiurgo, l’anima, la materia, lo spazio e il tempo), o quella presente nel Corpus Hermeticum (dove sono menzionati Dio, l’eternità, ilmondo, il tempo, il divenire; Poimandro XI, II). Un’esposizione chiara della teoria delle cinque essenze, diversa dalla fonte ebraica di Ibn Falaquera, si trova anche nel testo arabo – conosciuto soltanto nella versione latina tradotta forse da Domenico Gundisalvi – del De quinque essentiis, attribuito ad al-Kindī. In quest’opera la realtà è concepita come una sostanza materiale dotata di attività o capacità di differenziazione e di specificazione, cui si deve la costituzione delle forme. Cinque sono le essenze o i principî della realtà, ossia la materia, la forma, il luogo, il moto e il tempo; gli ultimi tre sono riducibili ai primi due, per cui si può dire che i principî primi della realtà sono propriamente la materia e la forma. La materia, tuttavia, viene prima della forma ed è anteriore a tutti i generi e a tutte le definizioni. Da essa deriva ogni cosa; è la prima essenza, la natura o il principio a cui sono riconducibili le altre quattro essenze.
Questa visione unitaria della realtà universale, concepita attivamente come differenziazione di forme da una materia prima, si ritrova anche in un’altra opera di al-Kindī, il De radiis sive Theorica artium magicarum, che ha costituito il manifesto filosofico delle dottrine magiche del Medioevo, condannato nell’elenco degli Errores philosophorum (in particolare negli Errores Alkindi) da Egidio Romano per le sue implicazioni materialistiche e immanentistiche. L’idea sviluppata da al-Kindī nel De radiis – che sarà centrale anche nel Picatrix – è che tutta la realtà è costituita da raggi, definiti impressiones, i quali sono i segni o gli effetti provocati da una forza sull’altra. Ciò significa che tutte le cose, sia celesti che terrestri, interagiscono tramite radiazioni; compito del sapiente è quello di indagare sulle res e le loro operazioni che talvolta sono manifeste, talora occulte. Tutta la realtà è quindi attiva e agisce; agiscono i cieli con la loro celeste armonia, ma agiscono e vi corrispondono anche gli elementi terrestri secondo le loro predisposizioni virtuali innate. Agiscono anche le voces e le incantationes, che operano sugli uomini mediante l’immaginazione, la volontà e il desiderio. Se quindi tutta la realtà è proiezione di raggi, tutto rientra nell’armonia universale, tutto agisce e lascia segni in modo diverso a seconda della natura dell’agente e del paziente in un’armoniosa corrispondenza. Poiché i raggi si diffondono geometricamente, al-Kindī sviluppa anche matematicamente la dottrina della diffusione radiale della luce nel suo De aspectibus; alcune delle sue concezioni sulla luce saranno riprese da Ruggero Bacone nella sua Perspectiva.
La dottrina della realtà materiale attiva, secondo cui la materia è spirituale, pneumatica, soffio etereo che promana dal Sole e pervade tutto l’Universo, è sviluppata anche in un’opera pseudoepigrafica redatta in arabo tra la fine del X e gli inizi dell’XI sec., il Ġāyat al-ḥakīm (Fine del saggio). Mentre è stata definitivamente esclusa la sua attribuzione ad al-Maǧrīṭī, ne è stata evidenziata la stretta relazione con gli scritti di Ǧābir ibn Ḥayyān; tradotta in latino per conto del re Alfonso X di Castiglia verso il 1256, è conosciuta soprattutto con il titolo di Picatrix. Alla base delle teorie esposte in quest’opera vi è l’idea che Dio, che è la Verità unica, diede agli uomini il desiderio di conoscere le cause di tutto, cause che in realtà si riconducono a una sola. Egli è la filosofia e la conoscenza perfetta; il suo spirito è luce nobile e alta; lo spirito dell’uomo da lui discende e a lui risale. Questa scienza è detta nigromantica in quanto è un sapere oscuro ai sensi e allo spirito e difficile per l’intelletto; nel Picatrix, dunque, la nigromanzia non è la divinazione mediante l’invocazione degli spiriti dei morti (nekrós) – come era stata definita da Isidoro di Siviglia secondo la tradizione greco-romana-cristiana – ma è scienza dell’oscuro (occulto). Essa si distingue in pratica e teorica; la prima è l’azione di uno spirito su un altro per rendere simili a sé le cose diverse e comporle attraverso le immagini, la seconda è la scienza astrologica, cioè quella dei luoghi delle stelle fisse e dei pianeti da cui si compongono le figure celesti e le forme del cielo.
La materia si divide in spirituale e corporale. La vera materia prima è quella spirituale; essa è una luce che, come il Sole, tutto illumina e alla quale è attribuita un’azione di generazione e di trasformazione. Come il Sole fisico illumina e riscalda l’Universo, così esiste nel corpo umano un arcano solare da cui sgorgano, come nel cielo, il calore e la vita. Questa luce ha un vero potere alchemico, perché contiene in sé tutti gli elementi semplici, come il cielo e i corpi celesti, da cui spiritualmente tutto si genera o si rigenera. Nell’uomo ‘illuminato’ o uomo di luce essa può generare l’oro dell’alchimia spirituale; è l’uomo dalla natura perfetta o completa, descritto in un celebre passo di Picatrix, che esprime la ricchezza spirituale dell’anima dell’operatore, filosofo, mago, scienziato in cui si trova nascosta la sapienza originaria che va estratta con travaglio e fatica dalle tenebre della condizione umana. Analoghi concetti, tratti da questa visione ermetica di Picatrix, si ritroveranno nel pensiero magico-ermetico sia di Marsilio Ficino che di Giordano Bruno e in molti altri filosofi-maghi del Rinascimento.