La siderurgia
La fabbricazione di ferro e acciaio, alla vigilia della rivoluzione industriale, è caratterizzata da profonde innovazioni che modificano processi, impianti e organizzazione del lavoro ancora basati su tradizioni e tecnologie antiche. L’altoforno per la produzione della ghisa, nato sul finire del Medioevo, si evolve in dimensioni e produttività, adottando il carbon coke al posto del carbone di legna e preriscaldando l’aria, soffiata da macchine a vapore e non più idrauliche. La ghisa viene convertita in ferro e in acciaio (allo stato pastoso e poi solido) in forni di puddellatura, basati sul riscaldamento a riverbero dei prodotti da lavorare e non sul contatto diretto con il carbone, affiancati da magli e laminatoi che richiedono nuove competenze professionali. I forni a crogiolo, sviluppati dall’orologiaio Benjamin Huntsman (1704-1776) negli anni Trenta del 18° sec., permettono di ottenere, per la prima volta nella storia della siderurgia, piccole quantità di acciaio allo stato liquido.
Per molti anni queste tecnologie convivono in Europa e nel mondo con aziende locali, basate su piccoli altiforni alimentati a carbone di legna, eventualmente accesi ad anni alterni, e su fucine e forge basate sui bassi fuochi, gestiti con un’organizzazione del lavoro di tipo patriarcale. Le vecchie tecnologie e i relativi sistemi di organizzazione della produzione, anche quando diventano economicamente non più convenienti, resistono a lungo, soprattutto se garantiti da politiche fortemente protezionistiche, e tornano d’attualità in occasione dei numerosi eventi bellici dell’Europa ottocentesca, che richiedono la riattivazione di tutti gli impianti in grado, comunque, di produrre.
Non si può, inoltre, dimenticare che le innovazioni in campo metallurgico sono legate all’esperienza del saper fare e a valutazioni fortemente empiriche, non ancora del tutto supportate dalle conoscenze scientifiche che risultano carenti all’inizio del 18° sec.: la definizione stessa di acciaio, come lega di ferro e carbonio viene condivisa e accettata solo nella seconda metà dell’Ottocento (Cavallini 2005).
La siderurgia italiana all’inizio del 19° secolo
All’inizio del 19° sec. la siderurgia italiana è frammentata in modeste attività legate a risorse minerali, idriche e boschive locali, ed è molto lontana dai processi innovativi e dai livelli organizzativi delle imprese europee d’avanguardia, nonché appesantita dalla presenza di dazi e di barriere doganali tra Stato e Stato. I forni di riduzione a canicchio sono alimentati con carbone di legna, hanno sezioni quadrate o rettangolari, sono soffiati con le trombe idroeoliche; l’affinazione è fatta con i bassifuochi alla contese o alla bergamasca; le lavorazioni meccaniche sono effettuate con magli oscillanti, mossi da ruote idrauliche. Un quadro della situazione tra fine Settecento e primo Ottocento si può ricavare dalle relazioni predisposte dalla Repubblica cisalpina (1797-1799/1800-1802), dalla successiva Repubblica italiana (1802-1805) e dal Regno d’Italia (1805-1814) in vista di un riassetto del settore (Frumento 1985 e 1991).
L’economista lombardo Melchiorre Gioia (1767-1829) riporta (Discussione economica sul Dipartimento del Lario, 1804) otto forni per la riduzione del minerale di ferro in attività nel dipartimento del Lario: Lecco, Introbio, Cortenova, Premana (2 forni), Valmenaggio e Valcavargna; Dongo è il più importante con una produzione di circa 250 t all’anno di ghisa. Ai forni sono associate le fucine grosse per la conversione della ghisa. La Valtellina, nei primi anni del 19° sec., vede la costruzione di un nuovo forno in Val Madre, oltre al forno già esistente di Vedello.
Il dipartimento del Serio, comprendente tra le altre la Val Brembana, la Val Seriana, la Val di Scalve e la Val Camonica, raccoglie regioni di antica tradizione mineraria e siderurgica. In Val Brembana i due forni di Carona e Branzi vengono accesi ad anni alterni, mentre l’altoforno di Lenna viene spento nel 1828; in Val Seriana i due forni della Torre e di Gavazzo colano in tutto circa 700 t all’anno di ghisa; in Val di Scalve, invece, sono attivi i forni di Schilpario, Barzesto, Lenia e Dezzo con produzioni comprese tra 300 e 400 t all’anno di ghisa ciascuno; la Val Camonica conta su altiforni a Malonno (468 t all’anno), Loveno (78 t all’anno), Paisco (234 t all’anno), Cemmo (488 t all’anno), Cerveno (98 t all’anno), Govine di Pisogne (due per un totale di 528 t all’anno). Un numero ancora maggiore di altiforni e di ferriere è ormai chiuso e in rovina (Frumento 1985 e 1991).
Per quanto riguarda il dipartimento del Mella (Valli Trompia e Sabbia), Giovanni Battista Brocchi (1772-1826) è autore di due successive relazioni. In Val Trompia i forni attivi, anche se non marcianti tutti gli anni, sono quelli di Collio, i due di Bovegno, i due di Pezzaze e quello di Tavernole. In Val Sabbia il numero si riduce a cinque: i due di Bagolino, quelli di Ono, Vestone e Livemmo (Frumento 1985 e 1991).
Il dipartimento del Piave, che nel 1806 raccoglie Cadore, Bellunese e Feltrino, può solo contare su numerose testimonianze di miniere, forni e ferriere della Serenissima, ormai spenti o con attività precarie (Frumento 1985 e 1991).
A seguito dell’annessione alla Francia, tra il 1796 e il 1801, le terre sabaude diventano un importante riferimento minerario e metallurgico. Sono soprattutto i dipartimenti della Dora, con le miniere e gli impianti di Brosso, Traversella e della Val d’Aosta, per il ferro, e quello del Sesia con Alagna per i giacimenti di rame a rappresentare il maggior interesse.
In Val d’Aosta, alla fine del Settecento, François-Balthazard Mongenet (1769-1854) promuove l’uso dell’altoforno a sezione circolare (detto norvegiano) in sostituzione dei vecchi forni a canicchio a sezione rettangolare. Il passaggio dalla sezione rettangolare a quella circolare è un primo passo per l’ammodernamento dei forni: richiede rinnovate abilità costruttive, e permette una maggiore efficienza di funzionamento. L’altoforno norvegiano di Postua viene descritto da Ermenegildo Pini nel 1778 (Frumento 1985 e 1991). Tra gli 80 impianti metallurgici della Dora si possono ricordare i forni a canicchio di Chatillon, La Salle e Pontboset e i forni moderni di Carema (2), Introd, Locana (2), Meugliano e Pontey (Marchis 1992).
Una relazione dettagliata sulla fabbricazione di ghisa in Toscana appare sugli «Annales des mines» del 1839 (Garella 1839): gli impianti sono alimentati dal minerale dell’isola d’Elba, passata solo dal 1815 al Granducato, e sono articolati sugli altiforni di Cecina, di Valpiana e sui due di Follonica (il forno tondo e il San Leopoldo). I forni sono a sezione circolare (con l’eccezione di Valpiana) con un’altezza interna di 7-8 m e sperimentano il riscaldamento del vento. La produzione media giornaliera è rispettivamente di circa 9, 9, 16 e 10 t di ghisa, per campagne di pochi mesi. La Garfagnana non può più contare sulle attività siderurgiche rinascimentali che l’avevano caratterizzata come centro particolarmente dinamico. Nei pressi del confine con lo Stato pontificio il forno privato di Pescia, in Maremma, viene sottoposto a trasformazione da sezione rettangolare a sezione tonda con preriscaldo dell’aria.
Più a Sud, nello Stato pontificio sono ancora in piedi sporadiche attività settecentesche, mentre nel Regno di Napoli si cerca di valorizzare il distretto di Stilo-Mongiana-Ferdinandea, comprendente la miniera di Pazzano, forni, ferriere, fabbriche d’armi e fonderie.
La gestione dei militari partenopei inizia nel 1808 e può contare su due altiforni; nel 1818 viene messo in funzione un laminatoio e vengono rinnovati gli altiforni che prendono il nome di Sant’Antonio (a Ferdinandea, attivo dal 1833 con 5000 cantaia di ghisa all’anno, corrispondenti a circa 450 t) e Santa Barbara a Mongiana (De Stefano Manno, Matacena 1979; P. Presti, Memoria di alcune riflessioni, 1846). Nel 1854 vengono integrati da due altiforni da 11 m di altezza interna, il San Ferdinando e il San Francesco, che verranno ribattezzati Cavour e Garibaldi (F. Giordano, Industria del ferro in Italia, 1864).
La figura italiana che emerge nel primo scorcio del secolo è quella del barnabita Ermenegildo Pini (1739-1825), membro dell’Accademia nazionale delle scienze fin dalla sua fondazione (1782), esperto di minerali e metallurgia che studia le miniere dell’Elba e fornisce assistenza ai vari governi milanesi impegnati nella modernizzazione del settore. Per ovviare allo stato di consapevole arretratezza tecnica si ricorre spesso al supporto di industrie e all’assistenza di professionisti stranieri; ad es., i Rubini, proprietari di una ferriera con altoforno a Dongo, si rivolgono nel 1833 all’ingegnere alsaziano Georges Henri Falck (1802-1885) per progettare e gestire impianti. Ha così inizio una collaborazione destinata a consolidarsi e a trasformarsi in significative attività imprenditoriali nelle generazioni successive.
Primi impianti nell’Italia unita
Con l’Unità d’Italia, pur in mancanza del Lazio, del Veneto, di Roma, Venezia, Trento e Trieste, s’impone una prima indagine conoscitiva sullo stato degli impianti minerari e metallurgici:
Nel 1861 il Ministro della Marina (Menabrea) penetrato dell’alta importanza dell’industria del ferro, con suo rapporto al Re del 28 luglio proponeva la nomina di una Commissione mista di ingegneri e d’ufficiali di varie armi la quale studiasse le condizioni delle nostre ferriere ed officine, ed i provvedimenti più giovevoli al loro svolgimento in relazione alle occorrenze del paese (F. Giordano, Industria del ferro in Italia, cit., p. XI).
Al momento dell’unificazione, l’Italia può contare su una siderurgia nazionale in grado di fornire ferro per non più di un quinto delle rinnovate esigenze industriali (ferrovie, navi, tubi, ponti ecc.) e militari (cannoni, proiettili, corazze). Con riferimento al 1863, la produzione ferrosa italiana si attesta su 30.000 t di ghisa a fronte di un’importazione di 115.000 t tra ghisa, ferro e acciaio. Gli impianti attivi nella produzione della ghisa sono quelli, già citati, delle valli lombarde, della Valle d’Aosta, della Toscana e delle Calabrie. La commissione delle ferriere, dopo aver affrontato i problemi forestali, minerari, dell’insegnamento tecnico, dei dazi, dei costi di trasporto e delle commesse del governo, pur nell’ottica limitata delle sue competenze, auspica la nascita di «grandi e speciali stabilimenti» capaci di sopperire alle esigenze nazionali.
In quei primi anni dell’Italia unita si avviano alcune iniziative, dimensionate sul nuovo mercato nazionale. Giuseppe Tardy (1817-1902) e Stefano Benech (1825-1877) costruiscono un grosso impianto a Savona per il rimpasto del rottame di ferro. A Piombino, di fronte all’isola d’Elba, nasce prima la Magona (1865), poi la ferriera Perseveranza che, con alterne vicende, testimoniano la vocazione siderurgica della zona, che si protrae fino a oggi. La Magona, fondata tra gli altri dall’italo-inglese Joseph Alfred Novello (1810-1896), resta in vita per due anni, ma torna in attività nel 1891, dedicandosi alla produzione di latta.
Nel 1887 la produzione nazionale di ghisa, che si basa su vecchi altiforni a carbone di legna, ammonta a circa 12.000 t ed è integrata da un’importazione che si avvicina a 100.000 t, mentre la lavorazione di ferro e acciaio degli impianti italiani, pari a 246.000 t, si avvicina alla quantità importata dall’estero, pari a 283.000 t. Il maggior consumo di prodotti siderurgici è coperto ancora in modo preponderante dalle importazioni, con una sproporzione tra acciaio e ghisa che non trova riscontro in altre siderurgie, dovuta al mancato aggiornamento degli altiforni. Vale la pena inoltre ricordare come il costo delle ghise lombarde non sia inferiore a 110 lire alla tonnellata, quasi il doppio di quelle importate dall’Inghilterra (Scagnetti 1923, p. 180).
In Lombardia sono attivi gli stabilimenti di Castro, Dongo, Vobarno, Tavernole, Carcina e Villa Cogozzo e sono in fase di completamento le acciaierie milanesi di Rogoredo e quella di Vanzetti; in Piemonte/Valle d’Aosta lavorano gli impianti di Pont-Saint-Martin, Villeneuve e altri minori. La Liguria assume un ruolo guida nel trattamento del rottame con il già citato impianto di Savona, e quelli di Sestri Ponente, Pra e Voltri; nel Veneto si inaugura la ferriera di Udine. In Toscana, oltre all’impianto di Piombino, ci sono le ferriere che lavorano il rottame di San Giovanni Valdarno, già dirette dall’ingegnere e sociologo Vilfredo Pareto (1848-1923), e di Colle Val d’Elsa.
Dall’Umbria viene la novità più importante: nel 1884, grazie soprattutto all’azione dell’ammiraglio Benedetto Brin (1833-1898), ministro della Marina, dell’ingegnere belga Cassian Bon (1842-1921) e dell’imprenditore Vincenzo Stefano Breda (1825-1903), le attività già esistenti nell’area di Terni evolvono nella costituzione il 10 marzo 1884 della Società degli alti forni, fonderie ed acciaierie di Terni (SAFFAT), fortemente supportata dalle commesse dello Stato, con l’obiettivo di garantire la fornitura di materiale navale (piastre per la corazzatura delle navi) e ferroviario. Per la nascita della Terni, Breda contribuisce con capitali propri e della Società veneta per imprese e costruzioni pubbliche, molto attiva nel campo delle costruzioni con finanziamenti pubblici, mentre lo Stato interviene pagando in anticipo la fornitura di materiale navale (Bonelli 1975, p. 16). La scelta della sistemazione geografica è dovuta a diverse ragioni, fra cui la lontananza dalle coste e la conseguente impossibilità di un attacco navale. Vanto dello stabilimento è il grande maglio da 100 t, tra i maggiori in Europa, indispensabile per le operazioni di fucinatura dei lingotti per le corazze navali. In Campania, infine, sta per nascere una ferriera a Torre Annunziata, mentre in Calabria i forni sono definitivamente spenti.
Nuovi processi di produzione
Nella seconda metà dell’Ottocento la siderurgia mondiale è rivoluzionata da una serie di nuovi processi in grado di fabbricare acciaio allo stato liquido in quantità e qualità adeguate alle crescenti richieste del mercato. I processi, che sono destinati a monopolizzare il settore per circa un secolo, prendono il nome degli inventori.
Il convertitore pneumatico acido di Henry Bessemer (1813-1898) risale al 1855 e permette di ottenere in poche decine di minuti la produzione di acciaio che prima richiedeva giornate di lavoro. Il primo convertitore Bessemer viene installato in Italia nello stabilimento di Piombino, pochi anni dopo la sua invenzione. Qualche anno dopo, una coppia di convertitori è installata negli stabilimenti di Terni.
Il convertitore pneumatico basico di Sidney Gilchrist Thomas (1850-1885) è brevettato nel 1879. I convertitori devono essere alimentati con carica liquida che, se non arriva direttamente dall’altoforno, deve essere fusa in un forno a parte. I convertitori implicano una costruzione molto complessa perché, a differenza degli altri impianti assolutamente statici, presuppongono il movimento rotatorio del forno stesso e la necessità di un’alimentazione di aria in pressione, con soffianti e tubazioni.
Il forno di Pierre Martin (1824-1915) con il recuperatore di calore di Karl Wilhelm Siemens (1823-1883) viene messo a punto nel corso dell’ultimo terzo di secolo, a partire dai primi esperimenti del 1864. È un forno a riverbero, che può essere alimentato sia a carica liquida sia con rottame e ghisa solidi. Il primo forno Martin-Siemens viene costruito in Italia attorno al 1878 per iniziativa dell’ingegnere Guido Dainelli (1845-1911) nello stabilimento di Piombino e sfrutta la lignite per produrre il gas di alimentazione.
Unica innovazione tecnologica destinata a vivere più di un secolo, per arrivare fino a oggi, è l’applicazione dell’energia elettrica all’industria metallurgica, in forni utilizzabili sia per l’estrazione del metallo dal minerale, sia per la fusione del rottame di ferro e per la fabbricazione delle ferro-leghe. La fonte di calore non viene più da reazioni chimiche di combustione e può essere modulata con facilità in base alle esigenze. Le sperimentazioni avvengono verso la fine del secolo da parte di Paul Héroult (1863-1914), Fredrik Kjellin (1872-1910) e Paul Girod (1878-1951); in Italia sono condotte soprattutto per merito del capitano del Regio esercito Ernesto Stassano (1859-1922) che mette a punto un forno per la rifusione del rottame basato sull’arco elettrico innescato tra due elettrodi posti sopra la carica metallica. Alcuni forni Stassano vengono costruiti all’inizio del nuovo secolo, ma sono progressivamente sostituiti dai più efficienti forni Héroult che utilizzano ugualmente l’arco elettrico, fatto però scoccare direttamente tra elettrodi e carica metallica (Cavallini 2005, p. 129).
La nascita dell’industria siderurgica italiana
Sul finire del secolo appaiono i primi tentativi di razionalizzazione del comparto siderurgico, con la ridefinizione delle concessioni di sfruttamento del minerale elbano, unica fonte significativa di materia prima minerale. Le risorse elbane, che prendono spesso la via dell’estero, non forniscono in quel periodo più di 200.000 t all’anno, appena sufficienti al fabbisogno di un’industria in fase d’incipiente sviluppo. Risultano troppo costose le antiche risorse minerarie dell’arco alpino e di quello appenninico, utilizzabili solo se sostenute da forti politiche autarchiche e doganali. Altri temi ricorrenti e molto dibattuti sono quello dell’utilizzazione delle piriti elbane e quello dello sfruttamento delle ligniti, reperibili soprattutto in area centro-appenninica, in parziale sostituzione del carbone da coke, tutto di importazione. Le ligniti (e più ancora le torbe) sono combustibili fossili poveri, spesso con alti tenori sia di umidità sia di ceneri, da sottoporre a trattamenti onerosi prima di un eventuale utilizzo industriale.
Le vicende che vedono la difficile nascita di un’industria siderurgica italiana sono investite da scontri sulle scelte tecniche e impiantistiche, sono terreno di conflitti finanziari tra banche e soci privati nazionali ed europei e soffrono di una dicotomia tra imprese ‘padane’, spesso molto frammentate, strettamente connesse con il tessuto industriale che si sta sviluppando localmente, e società ‘tirreniche’, più legate a capitali pubblici e nate nell’attesa di avviare grandi stabilimenti moderni a ciclo integrale.
La filiera minerale-ghisa-acciaio del ciclo integrale permette di ottenere delle economie di scala, come ormai documentato nel resto del mondo, a fronte di una più impegnativa organizzazione del lavoro e della produzione. Lo stabilimento a ciclo integrale ha bisogno principalmente di flussi continui e ben congegnati di minerali di ferro da preparare in pezzatura e composizione per la carica, di carbone da trasformare localmente in coke, di energia termica ed elettrica per muovere le macchine a servizio della produzione. L’impianto si articola su uno o più altiforni che alimentano le acciaierie, basate su convertitori pneumatici e/o su forni Martin-Siemens.
Il progetto iniziale della Terni prevede, appunto, l’utilizzo del minerale elbano in altiforni a coke da costruire (e mai realizzati) a Civitavecchia e la conversione della ghisa, trasportata negli stabilimenti umbri, avviene con forni Martin-Siemens alimentati a lignite e convertitori Bessemer. Le difficoltà tecniche ed economiche nella costruzione e nell’avviamento degli impianti, nonostante l’apporto finanziario dello Stato e le politiche protezionistiche su ghisa e acciaio, causano una profonda crisi finanziaria, prima di poter dimostrare la redditività attesa dalla produzione. Personaggio di rilievo nella gestione della crisi e nel salvataggio del 1887 è l’ingegnere Alessandro Casalini (1839-1921) che riesce a ottenere nuovi crediti a fronte di un ulteriore impegno di grosse forniture di materiale navale (Bonelli 1975).
Nel 1891 la Terni acquisisce gli impianti di Savona, ampliando l’offerta sul mercato dei prodotti più commerciali. Il fallito avviamento degli altiforni di Civitavecchia per ragioni finanziarie e per la mancata concessione per lo sfruttamento del minerale elbano evidenzia l’esigenza di una politica mineraria da non affidare a un unico gestore. Nel 1899, sotto il patronato del Credito italiano e in alternativa al progetto originario della Terni, viene costituita la società Elba, che si propone di costruire altiforni direttamente sull’isola. A Portoferraio, nel 1902, viene inaugurato il primo altoforno italiano funzionante a coke, in grado di produrre 150 t al giorno di ghisa, in linea con gli impianti più moderni ormai attivi da almeno mezzo secolo nel resto d’Europa, dieci volte più produttivi degli obsoleti altiforni a carbone di legna. Per avere un quadro dell’impatto sui problemi organizzativi, si ricorda che un singolo altoforno a coke è in grado di coprire tutta la produzione nazionale annuale di ghisa di pochi anni prima. Il minerale elbano viene richiesto anche per gli altiforni di Piombino e dell’Ilva, società omogenea alla Terni, nata nel 1905 per realizzare un impianto nell’area di Bagnoli, utilizzando le agevolazioni previste dalla legge per Napoli. Nel complesso, gli impianti a ciclo integrale nascono con un difetto di sovradimensionamento rispetto alle possibilità di utilizzo del solo minerale nazionale.
Anche la siderurgia padana, localizzata prevalentemente nella fascia alpina e prealpina, subisce una metamorfosi, abbandonando progressivamente lo sfruttamento delle insufficienti risorse minerarie di montagna, come accadeva fin dal Medioevo, e si sposta in pianura privilegiando l’utilizzazione del rottame di ferro, la cosiddetta carica solida, con forni del tipo Martin-Siemens e, successivamente, forni elettrici alimentati da centrali idroelettriche, eventualmente di proprietà dello stesso imprenditore. La concorrenza della Terni è molto sentita: dai suoi impianti esce circa il 62% dell’acciaio grezzo prodotto in Italia tra il 1887 e il 1901, con una quota di mercato di 80% delle rotaie (Bonelli 1975, p. 55).
Non è soltanto la progressiva evoluzione dei consumi, ma anche l’influenza delle tariffe doganali a favorire gli aumenti di produzione. La nuova tariffa doganale del 1887 inasprisce sensibilmente i dazi all’entrata sul ferro e sull’acciaio, già introdotti nel 1878, mentre gli alti premi concessi agli armatori danno un impulso alla cantieristica navale, forte consumatrice di acciaio (Scagnetti 1923, p. 178). I moderni stabilimenti siderurgici richiedono elevate disponibilità di capitali d’impianto e di esercizio che spesso mancano ai vecchi proprietari; la piccola proprietà scompare ed è sostituita da società fortemente capitalizzate, spalleggiate dai più importanti banchieri.
Se il bilancio di fine secolo delle attività siderurgiche non è quello di una nazione al passo con i Paesi più industrializzati, si può comunque ritenere che i primi quarant’anni dell’Italia unita, con la presenza crescente di capitali nazionali ed esteri interessati a investire, con l’unificazione delle politiche doganali rivolte anche a limitare la concorrenza estera e l’ammodernamento delle reti di trasporto, creano gli elementi indispensabili per lo sviluppo della grande industria. In tale periodo gli operatori del settore, dagli imprenditori ai tecnici agli operai, si devono confrontare con radicali innovazioni degli impianti e dell’organizzazione del lavoro, gravati dal pesante onere di insufficienti risorse di materie prime e, talvolta, di insufficienti conoscenze sia teoriche sia pratiche. La formazione metallurgica inizia a trovare spazio nelle Università e nei Regi istituti tecnici, come quelli di Torino e di Terni e quello superiore di Milano. Compaiono i primi testi scritti in italiano che trattano di scienza e tecnologia dei materiali ferrosi (A. Sobrero, Manuale di chimica applicata alle arti , 3° vol., 1856; V. Zoppetti, Disegni di forni, macchine ed apparecchi per la siderurgia, 1874; V. Zoppetti, Arte siderurgica, 1883).
Risale al 1896 un primo tentativo di accordo tra le varie imprese siderurgiche nazionali per costituire un sindacato in grado di tutelare le attività commerciali, senza intaccare la fisionomia giuridica ed economica della società. È del 1910 il tentativo di raccogliere gli stabilimenti ‘tirrenici’ di Piombino, Savona, Portoferraio, Bagnoli e quelli di alcune ferriere italiane (San Giovanni Valdarno, Torre Annunziata e Genova Bolzaneto) in un consorzio a guida Ilva, per la gestione delle attività industriali e commerciali, che evolve nel 1911 nella società Ferro e acciaio che assume la rappresentanza del settore, non solo per la parte commerciale, ma anche per la ripartizione degli ordini per quote determinate a ciascun stabilimento (Scagnetti 1923, p. 203).
Nel 1900 gli industriali metallurgici italiani si erano riuniti in un sodalizio denominato Associazione fra gli industriali metallurgici italiani (Assometal) sotto la presidenza di Giorgio Enrico Falck (1866-1947), nipote dell’omonimo ingegnere alsaziano; il sodalizio aveva lo scopo di studiare, patrocinare e promuovere tutto quanto può riuscire d’interesse e di utilità per l’industria e il commercio dei minerali, dei ferri, degli acciai e degli altri metalli. Nel 1909 viene pubblicata «La metallurgia italiana», prima rivista del settore, a cadenza mensile che, oltre a fare da portavoce e a pubblicare gli atti dell’Associazione, dedica ampi spazi ad argomenti tecnici e a memorie scientifiche. Come riconoscimento del prestigio di cui gode in campo siderurgico, Falck viene designato vicepresidente del British iron and steel institute.
Da parte operaia, nel 1898 nasce il giornale «Il metallurgico» e, nel 1901, viene fondata a Livorno la Federazione italiana operai metallurgici (FIOM), il più antico sindacato italiano, che nel 1906 partecipa alla fondazione della Confederazione generale del lavoro. La FIOM firma nel 1919 il primo accordo nazionale con i rappresentanti degli industriali, che prevede un orario di lavoro di 8 ore giornaliere pari a 48 ore settimanali.
I nuovi protagonisti e la Prima guerra mondiale
Evento di particolare innovazione tra le industrie ‘padane’ è la creazione, nel 1906, della società Acciaierie e ferriere lombarde (AFL), destinata a diventare protagonista della siderurgia italiana, sotto la guida di Giorgio Enrico Falck. Il nuovo stabilimento è costruito a Sesto San Giovanni, localizzato non più in area prealpina, ma in pianura e vicino a Milano, a contatto con la nascente industria meccanica, utilizzatrice dei prodotti delle ferriere e fornitrice di prezioso rottame per i forni di rifusione e in comunicazione ferroviaria con il resto d’Europa. La scelta impiantistica è indirizzata sui forni Martin-Siemens che possono essere alimentati con rottame o con ghisa proveniente da Bagnoli e su laminatoi per la lavorazione di prodotti commerciali.
A cavallo del nuovo secolo si affacciano nuovi attori nel panorama nazionale, protagonisti già affermati in altri settori industriali, come Ansaldo, Breda e Fiat, forti consumatori di prodotti ferrosi, che sviluppano impianti propri, nell’ottica di una completa autonomia verticale. La genovese Ansaldo, società nata a metà del secolo, su interessamento dello stesso Camillo Benso conte di Cavour, per la costruzione di materiale ferroviario, prende il nome dal professore Giovanni Ansaldo (1815-1859) che la dirige fin dall’inizio delle sue attività. Trova progressivamente sbocco nella cantieristica e negli armamenti e, sotto la gestione di Ferdinando Maria Perrone (1847-1908) e dei suoi eredi, sviluppa anche il settore delle attività siderurgiche a Cornigliano (Genova) e in Val d’Aosta, con le miniere di Cogne che forniscono il minerale di ferro all’altoforno elettrico giù nella valle.
Prima del conflitto, l’Ansaldo è in grado di produrre 8000-9000 t di corazze all’anno, spezzando il monopolio della Terni (Degli Esposti 2004, p. 334). Nella stessa Terni acquistano sempre maggiore importanza Attilio Odero (1854-1945) e Giuseppe Orlando (1855-1926), portatori degli interessi della cantieristica ligure e livornese.
Anche la Società italiana Ernesto Breda per costruzioni meccaniche avvia una sezione siderurgica con la costruzione di un’acciaieria a Sesto San Giovanni, di qualche anno anteriore a quella della AFL, e di un Istituto scientifico-tecnico per lo studio dei problemi metallurgici e per le inerenti ricerche scientifiche, che porta il nome del fondatore Ernesto Breda (1852-1918).
Terni e Ansaldo sono particolarmente specializzate nella produzione di materiale bellico (corazze, cannoni, proiettili), nel periodo del riarmamento e in quello successivo del conflitto. La Fiat assorbe, durante la Prima guerra mondiale, le Ferriere piemontesi, con stabilimenti a Torino, Avigliana e Buttigliera Alta. Prima della guerra la società tedesca Mannesmann, titolare dei brevetti per la fabbricazione dei tubi senza saldatura, crea un tubificio a Dalmine, in provincia di Bergamo, che comprende un’acciaieria. Durante la guerra, la Banca commerciale italiana rileva le quote in mano ai tedeschi.
Alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento avvengono ulteriori rivoluzioni in campo scientifico dalle quali la siderurgia trae vantaggio e riesce a razionalizzare processi e prodotti. Si è già detto delle applicazioni dell’energia elettrica nei processi di fabbricazione di ghise e acciai, ma è grazie alla spettroscopia, alla tabella periodica degli elementi, alla microscopia metallografica e, poi, alle applicazioni dei raggi X che si iniziano a studiare le caratteristiche dei materiali metallici con criteri scientifici, così da poter intervenire con efficacia per modificare le proprietà in fase di produzione.
Nel campo della ricerca e della formazione universitaria risalta la figura di Federico Giolitti (1880-1946), figlio dello statista Giovanni, professore presso il Regio Politecnico di Torino e collaboratore dell’Ansaldo, autore di studi sulla cementazione e sui trattamenti termici degli acciai. In riconoscimento dei suoi meriti scientifici internazionali venne insignito della medaglia Bessemer nel 1919.
I maggiori esponenti del mondo siderurgico sono presenti in prima persona nella politica e nei governi nazionali, anche a supporto di scelte finanziarie e strategiche di grande impegno. Tra i personaggi sinora citati, molti vengono nominati senatori del Regno, come Baldassarre Mongenet (1811-1885), Luigi e Salvatore Orlando, Giovanni Bombrini (1838-1924) dell’Ansaldo, o vengono eletti alla camera dei deputati, come lo stesso Mongenet, Vincenzo Stefano Breda, Alessandro Casalini, Giulio Rubini (1844-1917), più volte ministro del Tesoro e dei Lavori pubblici, e Salvatore Orlando.
Nel 1913, alla vigilia della Prima guerra mondiale, la produzione nazionale di ghisa supera le 426.000 t, per la maggior parte ottenute con altiforni a coke, a fronte di 235.000 t di ghisa importata. Nello stesso anno la produzione di ferro e di acciaio, ottenuta principalmente con forni Martin-Siemens e con forni elettrici, raggiunge il milione di tonnellate, al quale si deve aggiungere una quota di importazione di circa 250.000 t (Scagnetti 1923).
La Prima guerra mondiale costituisce un punto di svolta per le attività siderurgiche, impegnate a sostenere in ogni modo l’incremento della domanda per lo sforzo bellico. La crescita è disordinata, sostenuta dalla necessità di produrre e da una buona disponibilità economica, che fa perdere di vista i costi di produzione e la razionale utilizzazione degli impianti. Durante il conflitto, la produzione di ghisa non si discosta molto dal valore prebellico a causa dell’insufficiente disponibilità di minerale, anche se le miniere elbane toccano un massimo di 839.000 t nel 1917, mentre l’importazione raggiunge un picco di 320.000 t nel 1917. La produzione di acciaio, pur impennandosi a oltre 1,3 milioni di t nel 1917, non riesce a fare fronte alle esigenze interne, compensate da un corrispondente aumento dell’importazione di circa 800.000 t di ferro e acciaio. L’ampliamento della produzione legata al rottame richiede una forte importazione di questa materia prima dall’estero. Le fonti principali di rifornimento d’anteguerra, come Francia, Svizzera, Germania, Inghilterra e Belgio, riducono i flussi non solo durante il conflitto, ma anche nel primo dopoguerra, per alimentare i mercati interni, vista la difficoltà nel reperimento del minerale (Scagnetti 1923, p. 298).
La rapida espansione e il forte indebitamento sono alla base della crisi degli anni Venti che colpisce soprattutto gli impianti ‘costieri’, non più solo ‘tirrenici’, per l’ingresso dello stabilimento a ciclo integrale di Servola (Trieste), nato sotto l’impero asburgico. La diminuita richiesta di prodotti ferrosi, l’esuberante capacità produttiva e la limitata importazione di carbone e rottame europei impongono lo spegnimento della maggior parte degli altiforni, con gravi sussulti agli equilibri finanziari delle società. Nel 1918 il consorzio creatosi attorno all’Ilva porta alla fusione nella società Ilva altiforni e acciaierie d’Italia, che si trova a possedere otto grandi stabilimenti siderurgici, ma anche società minerarie, manifatture per la produzione di refrattari, stabilimenti elettrosiderurgici, due cantieri navali e una grande compagnia di navigazione.
L’Ansaldo ha una storia di sviluppo interno, opposta a quello dell’Ilva: alla fine della guerra si trova a gestire impianti a forte integrazione verticale che, dalla estrazione del minerale di ferro e di lignite, arrivano fino alla fabbricazione di locomotive, aerei e navi. Anche la Fiat e la Breda sono protagoniste del mondo siderurgico nazionale e non si limitano alla produzione di veicoli, di materiale ferroviario e di meccanica in generale.
Nel complesso, la siderurgia italiana, alla fine del conflitto, può contare su otto altiforni alimentati a coke, localizzati in impianti costieri, sulla rimessa in funzione di un gran numero di piccoli altiforni a carbone di legna, localizzati in aree prealpine e destinati allo spegnimento, su un numero elevato di forni Martin-Siemens e di forni elettrici (rispettivamente 83 e 79 nel 1918), che risultano la scelta tecnologica vincente rispetto ai convertitori e ai forni a crogiolo.
Nel 1921, al culmine della crisi, si producono in Italia solo 61.000 t di ghisa, se ne importano 76.000 t, si lavorano, tra ferro e acciaio, 700.000 t, e si importano 224.000 t, valori inferiori a quelli di prima del conflitto (Scagnetti 1923). Le industrie più colpite risultano l’Ilva, la Terni e l’Ansaldo, che devono far fronte a gravi situazioni debitorie. Le prime due sono affidate alle cure dell’ingegnere Arturo Bocciardo (1876-1959), impegnato fino allora in attività ministeriali sugli approvvigionamenti di materiali in tempo di guerra e sulla riconversione delle industrie nel periodo postbellico. Ilva e Terni, controllate dalla Banca commerciale italiana, vengono risanate con pesanti interventi di razionalizzazione sulle consistenze patrimoniali, con lo scorporo, per l’Ilva, delle attività non siderurgiche e con l’ingresso, per la Terni, nel settore idroelettrico a seguito del salvataggio della Carburo di Calcio, titolare di impianti chimici, elettrochimici e idroelettrici. L’Ansaldo, travolta dal crollo della Banca italiana di sconto, passa sotto il controllo della Banca nazionale di credito. Gli impianti minerari e metallurgici della Valle d’Aosta vengono separati dalle altre attività e costituiscono un’entità a sé nella prospettiva di sfruttare i forni elettrici di Girod, il minerale di Cogne e l’antracite di La Thuile.
Gli stabilimenti ‘padani’ sopravvivono più facilmente alla riconversione postbellica, adeguandosi (anche per merito della maggiore duttilità degli impianti a carica solida che possono essere accesi in base alle esigenze del momento senza pregiudizio per il corretto funzionamento) alla disponibilità locale di rottame e al cambio di cliente, non più lo Stato in armi, ma un rinnovato mondo industriale in fase espansiva. Le industrie piemontesi e, soprattutto, quelle lombarde aumentano progressivamente in valore assoluto e in percentuale la loro produzione di acciaio, coprendo da poco più del 40% nel 1919 a circa il 50% nel 1933 (Degli Esposti 2004, p. 336). L’impianto di Sesto San Giovanni di AFL risulta all’avanguardia nella produttività, mentre la siderurgia lombarda conquista la leadership nella produzione di acciaio, sostenuta anche dalle politiche autarchiche e dalle commesse militari, fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale.
Dal fascismo al secondo dopoguerra
Con l’avvento del fascismo, la rappresentanza politica del mondo siderurgico non viene meno: sono nominati senatori a vita Odero, Bocciardo, Falck, Paolo Orlando (1858-1943), mentre fa parte della Camera dei fasci e delle corporazioni Agostino Rocca (1895-1978).
La grande depressione, con la caduta della produzione industriale, l’elevata disoccupazione, la scarsa liquidità bancaria, viene affrontata con la creazione dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) da parte del governo fascista. A partire dal 1933, l’IRI acquisisce una serie di imprese in difficoltà e controlla, in campo siderurgico, Ansaldo, Ilva, Terni, con gli impianti a ciclo integrale di Portoferraio, Piombino, Bagnoli e Servola (Trieste). Il loro rilancio è legato alle capacità organizzative di Oscar Sinigaglia (1877-1953) e di Rocca, fautori, nell’ambito dell’Ilva e dell’IRI, della necessità strategica di sviluppare una siderurgia pubblica con impianti a ciclo integrale, basati sull’importazione via mare di minerali e carbone in stabilimenti costieri, in contrasto con le politiche dei privati, orientati al ciclo del rottame con impianti elettrosiderurgici o con i forni Martin-Siemens.
Nel contrasto tra pubblico e privato interviene Benito Mussolini che inserisce l’azione della siderurgia di proprietà statale nella linea dell’autarchia, anche se di autarchico poteva vantare solo la parziale utilizzazione del minerale nazionale. Nel 1934, con l’obiettivo di sviluppare le attività dell’Ansaldo, viene costituita la Società italiana acciaierie Cornigliano che, nel settembre del 1938, con il pacchetto azionario in mano alla neonata Finsider (1937) finanziaria dell’IRI per la siderurgia, dà inizio alla costruzione dello stabilimento di Cornigliano. L’impianto, ultimato nel 1942, non entra in produzione: dopo l’armistizio del 1943 viene smontato dalle truppe di occupazione e inviato in Germania, per essere poi ricostruito nell’ambito dell’imponente piano di ricostruzione della siderurgia italiana del secondo dopoguerra.
Alla vigilia del conflitto bellico, l’Italia può contare sugli impianti di produzione della ghisa basati sugli altiforni di Piombino, Portoferraio, Bagnoli e Servola, ai quali si aggiunge l’altoforno in Valle d’Aosta per il trattamento del minerale di Cogne e sulla produzione da rottame, articolata in impianti con Martin-Siemens, impianti con forni elettrici e impianti nei quali coesistono entrambe le tecniche. La produzione siderurgica nazionale, già impegnata con le campagne in Etiopia e in Spagna, raggiunge un picco nel 1938 con 863.000 t di ghisa e 2,3 milioni di t di acciaio ottenuto soprattutto con forni Martin-Siemens. Nel triennio 1939-41 aumenta la produzione di ghisa, mentre diminuisce quella di acciaio a causa della carenza di rottame. Le difficoltà di approvvigionamento dall’estero di minerali e carbone porterebbero a privilegiare, durante la guerra, la linea di produzione più autarchica, quella del rottame trattato al forno elettrico, ma la carenza di rottame e i danni agli impianti fanno calare la produzione di acciaio fino a 400.000 t nel 1945 (Pirro 2004, p. 383).
I danni dei bombardamenti aerei sono particolarmente gravi negli stabilimenti tirrenici a ciclo integrale e nelle acciaierie specializzate in produzioni belliche, come quella di Terni. La capacità produttiva degli altiforni della Finsider era quasi azzerata, con danni pari all’87% per le acciaierie e all’80% per gli impianti di laminazione (Pirro 2004, p. 386). Meno grave la situazione per la siderurgia padana, articolata in impianti più piccoli e distribuiti, che sono in grado di riprendere rapidamente la produzione e avviare anche una linea del tutto originale di fabbricazione del tondo da cemento armato, localizzata in piccole acciaierie elettriche nella provincia bresciana.
Alla caduta del fascismo epurazioni e riabilitazioni coinvolgono la maggior parte dei protagonisti della siderurgia del ventennio, che vengono sottoposti a indagini dall’Alta corte di giustizia per le sanzioni contro il fascismo.
A conflitto terminato, la politica da adottare per la ricostruzione dell’industria siderurgica vede una contrapposizione netta tra le posizioni dei privati, riconducibili al senatore Falck e figli, e quelle dei pubblici, capitanate dal nuovo presidente della Finsider Sinigaglia. Per soddisfare la richiesta di grandi quantitativi di acciaio prevista nel modello dello sviluppo di una meccanica di massa in un regime di liberalizzazione degli scambi, Sinigaglia ribadisce la necessità di costruire moderni centri costieri a ciclo integrale, i cui oneri finanziari possono essere assunti solo dallo Stato, in contrapposizione a una proposta di ammodernamento degli impianti esistenti, basati sul trattamento del rottame, della capacità produttiva di non più di 300.000 t annue. Il piano di Sinigaglia punta sullo stabilimento di Cornigliano per la produzione di massa di laminati piani, ribadendo le decisioni già prese prima della guerra e specializzando gli altri impianti su prodotti specifici, come i profilati e le rotaie a Piombino, i profilati, la vergella e il tondo a Bagnoli, mentre gli altri stabilimenti del gruppo mantenevano produzioni settoriali, quali i tubi, le lamiere grosse, i prodotti ferroviari.
Nell’arco di 150 anni l’Italia siderurgica, partendo da una situazione del tutto marginale, riesce a entrare, con le scelte strategiche della ricostruzione, tra i Paesi più dinamici, in grado non solo di produrre quanto necessario per lo sviluppo delle industrie nazionali, ma anche pronta ad adeguarsi alle profonde innovazioni tecnologiche del periodo postbellico.
Opere
M. Gioia, Discussione economica sul Dipartimento del Lario, Milano 1804.
P. Presti, Memoria di alcune riflessioni per migliorare il processo di trattamento all’alto-forno della Mongiana del minerale di ferro che si esporta dalle miniere del monte Stella in Pazzano, Napoli 1846.
A. Sobrero, Manuale di chimica applicata alle arti , 3° vol., Torino 1856.
F. Giordano, Industria del ferro in Italia. Relazione dell’ingegnere Felice Giordano per la commissione delle ferriere istituita dal Ministero di Marina, Torino 1864.
V. Zoppetti, Disegni di forni, macchine ed apparecchi per la siderurgia, Milano 1874.
V. Zoppetti, Arte siderurgica: nozioni sulla produzione della ghisa, del ferro e dell’acciaio desunte dal corso annuale di metallurgia tenuto nel r. istituto tecnico superiore di Milano, 2 voll., Milano 1883.
Bibliografia
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F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Torino 1975.
B. De Stefano Manno, G. Matacena, Le reali ferriere ed officine di Mongiana. Una scoperta della archeologia industriale, Napoli 1979.
A. Frumento, Le Repubbliche cisalpina e italiana con particolare riguardo a siderurgia, armamenti, economia ed agli antichi luoghi lombardi del ferro. 1796-1805, Milano 1985.
A. Frumento, Il Regno d’Italia napoleonico. Siderurgia, combustibili, armamenti ed economia, 1805-1814, Milano 1991.
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F. Pirro, 1948-1953: affermazione della siderurgia a ciclo integrale con il Piano Sinigaglia durante la ricostruzione in Italia, in La civiltà del ferro. Dalla preistoria al III millennio, a cura di W. Nicodemi, Milano 2004, pp. 383-98.
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