Latifondo
1. Ambivalenza di un termine
Col termine 'latifondo' si designa, nel suo significato generico, una proprietà terriera di grandi dimensioni. Un particolare rilievo viene quindi dato, con tale definizione, all'accentramento della proprietà giuridica della terra. E a questo primo e generale significato noi ci dovremo almeno parzialmente attenere per tentare di dar conto, a livello internazionale e per un lungo arco di tempo, di un fenomeno difficilmente racchiudibile in una tipologia unitaria. Tuttavia, benché alla dimensione del possesso sia legato per così dire il nucleo semantico del termine, essa non esaurisce la complessità dei meccanismi economici e dei rapporti sociali che l'espressione spesso evoca. Sin dal suo emergere nella cultura occidentale, vale a dire nel mondo romano, il lemma latifondo, infatti, ha sempre denotato non tanto una misura agraria o una semplice tipologia aziendale, quanto un insieme di condizioni economiche e sociali. Bisognerà perciò tener conto di una connotazione per così dire generica del termine latifondo, limitata più o meno esclusivamente all'ampiezza giuridica del possesso, e di un'altra che potremmo invece definire tipica: relativa a un modo di produzione o, se si vuole, a un sistema agrario (v. Bevilacqua, 1989, pp. 15 ss.) che si caratterizza per la presenza e ricorrenza di una serie di elementi e caratteristiche economiche, sociali e anche politiche.
Per convenzione più o meno implicita oggi si designa come latifondo una proprietà terriera superiore ai 250 ettari, e tale misura si applica in genere nel valutare come latifondistiche le proprietà terriere dei secoli passati. Tuttavia, proprio in virtù della sproporzione di tale misura rispetto alla dimensione media delle proprietà e delle aziende, il termine denuncia un primo, implicito criterio di valutazione e di giudizio. Si tratta infatti di un latifondo, e non semplicemente di una grande proprietà, proprio perché l'ampiezza della superficie in mano a un solo possessore limita di fatto la possibilità tecnica di utilizzarlo pienamente a scopi produttivi. È troppo grande per un completo e razionale sfruttamento secondo la media delle aziende tecnicamente evolute, e appare perciò caratterizzato, nella sua espressione più tipica, da monocolture agricole o da economie pastorali di tipo estensivo. I bassi rendimenti unitari, compensati dai grandi numeri dell'ampiezza aziendale, sono di norma una sua caratteristica costante. Il grano e i cereali in genere si sono prestati egregiamente a questo tipo di coltura perché non necessitano di cure particolari nel corso dell'anno, né richiedono onerosi compiti di custodia e di protezione contro i furti delle derrate.
È sufficiente la concentrazione momentanea delle masse contadine nei periodi decisivi dei lavori stagionali richiesti dalla semina, dal taglio e dalla trebbiatura, per assicurarne il completo ciclo economico. Tale coltura consente infatti di risparmiare sul ricorso all'opera e alla presenza costante dei braccianti, che così non possono mai accumulare, con il poco lavoro disponibile nel corso dell'anno, un monte salari superiore al livello della sopravvivenza, nonostante costituiscano una risorsa rara e disordinatamente accentrata nelle terre a latifondo. In questo modo, con lo spostamento delle popolazioni nelle fasi dei grandi lavori, i disagi tipici di quelle aree - in genere spopolate e prive di strade - ricadono sui lavoratori e non intaccano gli interessi dell'azienda. Spetta ai lavoratori stagionali spostarsi a proprie spese dai paesi di residenza nei luoghi dove sono in corso le attività agricole, mentre la produzione, il trasporto, l'immagazzinamento, la collocazione delle derrate cerealicole sul mercato risultano particolarmente adatti ai ritmi lenti che l'ampiezza degli spazi impone normalmente in quel contesto.
L'arretratezza del latifondo costituisce uno dei dati caratteristici della sua razionalità economica. Una razionalità pienamente capitalistica, che mal si adatta tuttavia agli idealtipi per essa elaborati dalla scienza economica e sociologica. La scelta degli investimenti minimi e del risparmio sulle innovazioni è infatti una fondamentale regola di comportamento delle aziende latifondistiche tipiche, che possono contare così su più alti profitti netti e contenere gli effetti della concorrenza interna e internazionale. L'esiguità degli immobilizzi in manufatti, macchine, scorte, miglioramenti fondiari, ecc. si presta egregiamente alla flessibilità economica dell'azienda, che così può spostare le proprie produzioni o i propri investimenti a seconda dell'andamento dei prezzi nei mercati internazionali: dal grano al pascolo, ai semi oleaginosi, alle colture legnose. È questo indubbiamente - insieme all'adattamento elementare dei meccanismi produttivi ai caratteri naturali dell'habitat locale - uno dei segreti della tenuta delle economie latifondistiche in età contemporanea e nel nostro tempo. E non a caso esse hanno conosciuto, come avremo modo di vedere, la maggiore e più significativa concentrazione in paesi che avevano o hanno una posizione periferica nel mercato internazionale. Nazioni che hanno ospitato più a lungo agricolture latifondistiche tipiche, in età contemporanea, o che ne sono a tutt'oggi segnate, sono state infatti l'Italia centromeridionale, la Spagna e il Portogallo nel continente europeo, il Messico, l'Argentina, il Perù e altri paesi del continente americano. Per non dire, ovviamente, della sterminata periferia costituita dalle varie nazionalità asiatiche e del Medio Oriente.
Il latifondo, tuttavia, implica al tempo stesso, nella sua configurazione peculiare, un insieme di caratteri sociali che finiscono per farne un vero e proprio 'sistema' o modo di produzione. L'ampiezza del possesso, ad esempio, non costituisce di norma un'eccezione o un accidente nel contesto in cui esso si colloca. È raro che la grandissima proprietà terriera sia isolata e circondata da altre forme e dimensioni proprietarie. Essa è calata in un vero e proprio 'ambiente latifondistico', dove cioè non si danno che grandi estensioni, interrotte solo di tanto in tanto dai microfondi contadini, intrinsecamente indispensabili alla sopravvivenza stessa della grande azienda per la fornitura di manodopera. La sua presenza dunque accompagna o coincide con un vero e proprio monopolio terriero, che esclude altri piccoli o medi possessori nel proprio raggio di estensione. Si tratta in questo caso di un accentramento più o meno completo delle possibilità locali di reddito, che determina una condizione di radicale subalternità dei ceti contadini insediati all'interno delle sue economie (v. Sevilla-Guzmán, 1980). Poiché mancano, nelle zone di latifondo, alternative di lavoro, l'accentramento terriero si traduce in una dipendenza costante e pressoché totale delle famiglie dei braccianti e dei contadini poveri. Rapporti di tipo autoritario e patriarcale dominano perciò le relazioni sociali all'interno di tali realtà, che tendono a organizzarsi in forme rigidamente gerarchiche. Essendo di norma (e per definizione) il proprietario assente, lontano dai luoghi spesso inospitali delle campagne latifondistiche, impegnato a consumare la propria rendita nei grandi centri urbani e nelle capitali, il governo dell'azienda è in altre mani. Sono gli amministratori, infatti, fattori e agenti, che controllano con i loro corpi di guardie, secondo una distribuzione gerarchica dei compiti e del potere, l'organizzazione del lavoro e l'incameramento della rendita, la condotta dei sottoposti o le relazioni dell'azienda con il mercato esterno. Un potere di controllo che di norma finisce coll'estendersi a tutta la comunità del villaggio o del municipio grazie alla più o meno completa subordinazione dell'amministrazione locale agli interessi padronali dominanti. Il latifondo si configura così come un universo di ruoli rigidamente prestabiliti, senza mobilità interna o passaggi di status, alla cui base stanno i contadini e i giornalieri, costretti dai bassi salari, dall'indebitamento finanziario, dalla mancanza di terra e di mercato fondiario - oltre che di altre opportunità di reddito - a riprodursi di generazione in generazione nella stessa condizione sociale.
Per la verità la nozione di latifondo ha anche altre connotazioni di natura più squisitamente politico-istituzionale. La concentrazione in poche mani di tanta ricchezza fondiaria non è mai stata ininfluente sul terreno del potere politico e statale. Un così vasto monopolio fondiario e finanziario detenuto da poche famiglie, spesso determinante per gli equilibri delle varie economie nazionali, si è dunque accompagnato a una più o meno grande capacità di condizionamento delle scelte degli Stati centrali, dei loro stessi assetti interni di potere, delle loro strategie politiche. È questo sicuramente il caso di diversi paesi latinoamericani nel corso del Novecento o dei paesi in via di sviluppo in questo dopoguerra.
Varie fonti attestano la presenza e la diffusione del latifondo nel mondo romano soprattutto a partire dal II e I secolo a.C. È allora che il processo di concentrazione della terra in poche mani acquista rilievo e viene largamente notato dai contemporanei. I latifondi di quell'epoca erano estesi almeno 250 ettari, vi si utilizzava manodopera schiavile, ma non in maniera esclusiva - come accadeva nelle villae specializzate nelle monocolture di viti e ulivi per una produzione destinata alla vendita -, perché si faceva ricorso anche a coloni liberi. Si trattava quindi di aziende che erano dirette da una forte amministrazione centrale, ampiamente autosufficienti, e che inviavano al mercato il surplus delle produzioni (v. Kuziščin, 1976). Questo tipo di proprietà si era venuto formando alle porte di Roma, sulla base di un processo di accaparramento delle terre che si rendevano disponibili, attraverso l'acquisizione, da parte di singoli magnati, dei possessi sequestrati ai cittadini gravati di debiti, e dei fondi lasciati liberi dai proprietari inviati nelle colonie. Ma il suo sviluppo più significativo si ebbe nel resto della penisola italica, per mezzo delle usurpazioni compiute dai proprietari privati sull'agro pubblico: le terre confiscate nelle provincie e sottoposte a canoni riscossi da appaltatori. Le stesse colonie, specie quelle militari con cui Roma aveva cercato di colonizzare i nuovi territori conquistati, spesso venivano abbandonate per mancanza di coltivazioni ed erano perciò incamerate dai grandi proprietari, che così aggiungevano pascoli, boschi e immense superfici di incolto ai propri dominî. Ma, come ogni latifondo che si rispetti, queste terre avevano bisogno di coltivatori o di guardiani di mandrie per produrre rendite. Da ciò la necessità di ricorrere alla forza lavoro coatta, rastrellando schiavi nei villaggi italici e nelle altre colonie, per concentrarli nelle grandi proprietà.
È stato per l'appunto questo modello di azienda, sperimentato nella penisola italica, che si è venuto diffondendo e radicando nelle provincie dell'Impero: così in Spagna come nel Mezzogiorno della Francia, nei territori dell'Africa settentrionale o nelle provincie dell'Asia Minore, dove già esistevano tenute e interi villaggi appartenenti a singoli templi (v. Rostovzev, 1926). Esso ha costituito dunque uno degli elementi fondamentali dell'evoluzione successiva della grande proprietà nelle campagne europee.
3. L'espansione medievale
Il latifondo, inteso nel suo significato minimo e generico di vasto accentramento terriero, conosce i suoi maggiori sviluppi, e diventa anzi elemento caratterizzante dell'agricoltura europea, soprattutto nel corso del Medioevo. I grandi rivolgimenti che sconvolgono l'economia imperiale, il declino delle città, i ripetuti conflitti militari, l'assenza di un forte controllo statale, la dispersione della popolazione portano a forme di aggregazioni economiche e sociali che favoriscono la concentrazione terriera. Spopolate e insicure, le campagne tendono ad aggregarsi intorno a centri di vita economica autosufficiente in cui si concentra la fondamentale risorsa del tempo: la terra. È il trionfo dell'economia curtense, che protegge e sfrutta il lavoro dei contadini, tanto liberi che servi, i quali hanno a disposizione per sé la pars massericia della curtis, mentre devono lavorare in forme obbligate la pars dominica, o del proprietario, quasi sempre di vaste dimensioni. Si tratta, com'è noto, di un'organizzazione agraria che costituisce un piccolo mondo autosufficiente, il quale ha conosciuto tipologie varie ma sostanzialmente unitarie nelle campagne europee. Intorno al castello o all'abbazia o convento (se la proprietà non era laica) si raccoglievano le dimore contadine, le stalle, le scuderie, il forno, ecc. In prossimità si stendevano gli orti e la vigna, parte delle terre arabili su cui gravitava la quotidiana presenza dei contadini, e poi tutto intorno gli immensi seminativi, i pascoli, le sodaglie e infine i boschi - luoghi di caccia e approvvigionamento della selvaggina per i signori - che quasi sempre hanno contrassegnato, anche nella nostra epoca, le aziende latifondistiche (v. Duby, 1962).
Il processo di formazione dei grandi accentramenti terrieri si fondava in parte su un'evoluzione della villa romana che consentiva ai grandi proprietari di estendere il proprio raggio di dominio tramite nuovi acquisti, matrimoni, lasciti, ecc. Per altra parte esso era il risultato della formazione stessa della struttura agraria feudale, che poggiava sulle concessioni imperiali e regie a singoli feudatari di interi territori, i quali diventavano dominî nelle mani di una sola famiglia. Un altro contemporaneo e parallelo processo di formazione di grandissime proprietà riguardava le chiese e i monasteri. Soprattutto fra il X e l'XI secolo in tutta Europa si svolse un gigantesco processo di accentramento delle terre sulla base di un fenomeno tipico di quell'epoca, che continuò nei secoli successivi in forme più attenuate e più lente: le donazioni e i lasciti dei laici. Si pensi che l'abbazia di Saint-Germain-des-Prés, in Francia, possedeva 32.748 ettari nel IX secolo; l'abbazia di Nivelles, nel Brabante belga, fondava la propria prosperità, intorno all'850, su un possesso di 10.120 ettari; quella di Ely, nei pressi di Cambridge, vantava, intorno al 1050, aziende sparse in ben 16 villaggi della contea e intorno al 1200 era proprietaria di una tenuta di 28.000 ettari, ottenuta in parte grazie anche alla bonifica dei fens, le tipiche terre basse e acquitrinose dell'Inghilterra orientale (v. Duby, 1962; v. Slicher van Bath, 1960).
Un processo in parte diverso di formazione e di accentramento latifondistico nell'Europa medievale, destinato a lasciare un'impronta profonda nella storia agraria successiva, fu quello legato alla colonizzazione della Germania orientale. Incoraggiate dai principi tedeschi e slavi, dai vescovi e dai monaci dell'ordine cistercense, consistenti quote della popolazione tedesca si trasferirono oltre l'Elba nel corso del XII e XIII secolo. Si trattava di terre dove la nobiltà germanica e slava, insieme al clero, aveva già grandi tenute che attendevano il lavoro di dissodamento e di sfruttamento agricolo delle popolazioni contadine. Queste ultime vennero dunque a occupare, in regioni come la Pomerania, la Prussia, la Slesia, ecc., accanto agli antichi servi slavi, la posizione di colonizzatori delle terre dei nobili locali, degli appaltatori di manodopera (locatores), dei monasteri (grangie), dei nobili tedeschi. Fu grazie alla distribuzione di questa grande massa di popolazione contadina che si posero le premesse demografiche e sociali per la creazione dei latifondi: vale a dire la formazione della piccola proprietà dei coloni che assicurava il lavoro nelle grandi tenute. Queste, per la verità, non sempre erano superiori ai 250 ettari, anche se in alcuni casi potevano superare, come per esempio nella Prussia orientale, i 1.000 ettari. In queste regioni i contadini divennero progressivamente sempre meno liberi in quanto furono assoggettati, soprattutto dopo la guerra con la Polonia del 1410, a un rigido regime di prestazioni obbligatorie, la cosiddetta Gesindezwangsdienstpflicht (servizi personali coattivi), e di vincoli residenziali. Progressivamente, tanto i vecchi schiavi di origine slava che gli eredi dei coloni tedeschi vennero assimilati in un'unica condizione servile, quella dei cosiddetti Erbuntertänigen (servi ereditari), utilizzati intensivamente nelle tenute. Si era così formata la Gutsherrschaft (signoria curtense) della Germania orientale, alquanto diversa da quella del resto d'Europa, che riuscì invece a coesistere con l'economia e la piccola proprietà contadina (v. Slicher van Bath, 1960). Qui i contadini vennero inglobati, con una lotta aspra e senza scrupoli, in una sorta di economia da piantagione nella quale la manodopera coatta doveva coltivare grandi e grandissime proprietà che producevano quasi esclusivamente per il mercato: le tenute latifondistiche della Germania orientale, come quelle della vicina Polonia e della Russia occidentale, dell'Ungheria, della Boemia e dei Paesi Baltici, erano sempre più estensivamente coltivate a cereali destinati all'esportazione nel resto d'Europa (v. Lütge, 1963).
Il latifondo, inteso come accentramento proprietario e come sistema agrario, conobbe un'espansione forse senza precedenti nei secoli dell'età moderna, tanto in paesi dove si ebbe una significativa crescita della piccola proprietà contadina libera, quanto in realtà agrarie dove perdurò il dominio dell'economia servile. In paesi come la Russia e la Polonia la servitù della gleba, consolidatasi ulteriormente nei secoli XVI e XVII, non conobbe i processi di erosione e sfaldamento che investirono invece questo istituto nel resto dell'Europa occidentale e mediterranea. Perciò in queste regioni la grande proprietà venne a conservarsi più o meno intatta nelle sue rigide e coattive forme di controllo sociale, accompagnata da una debole o inesistente evoluzione sul piano delle tecniche di produzione. Qui i nobili, di norma proprietari assenteisti, controllavano interi villaggi e avevano poteri discrezionali e assoluti tanto sulla terra che sulla gente che vi viveva. Essi riscuotevano anche tasse dai loro sottoposti, sia sotto forma di prestazioni lavorative personali, sia in forma di denaro. Per questa via, dunque, come già era accaduto in passato - e come è connaturato a un potere così vasto ed esclusivo di controllo delle fonti di reddito - essi detenevano di fatto un potere genuinamente statale su base locale.
Grande proprietà, lavoro servile, società debolmente articolata e dominata da una ristretta aristocrazia terriera: furono queste le caratteristiche che contrassegnarono i paesi dell'Europa orientale almeno fino alla metà dell'Ottocento. In essi ancor più che nel resto d'Europa, d'altra parte, i meccanismi successori (fidecommesso, maggiorascato) che regolavano la trasmissione dei possessi e della proprietà all'interno delle famiglie nobili, assicuravano l'indivisibilità dei beni e delle tenute e mantenevano così le aziende latifondistiche al riparo da ogni processo di divisione o frazionamento. La crescita delle città europee nel corso dell'età moderna incrementò progressivamente la domanda di grano e farine e dilatò perciò su una scala senza precedenti il mercato internazionale dei cereali: una condizione di ulteriore rafforzamento dell'agricoltura latifondistica su base servile dell'Est europeo.
Nella restante Europa il processo di concentrazione della proprietà terriera e la forma estensiva della sua conduzione furono il risultato di differenti processi, tanto demografici che sociali e talora anche politici. Due grandi eventi, insieme a una crisi economica senza precedenti, diedero un impulso formidabile all'estensione della proprietà latifondistica a metà del XVII secolo: la guerra dei Trent'anni e la peste. Le continue distruzioni, il disordine politico, l'insicurezza nelle campagne provocata dalle scorrerie degli eserciti produssero fenomeni di abbandono delle terre e in qualche caso di desertificazione di vaste zone rurali, determinando un calo del valore dei fondi e facilitando l'accaparramento da parte di grandi proprietari. "Da allora - ha notato uno storico tedesco - la Germania si è divisa nel paese dei contadini (Bauernland) a ovest, e nel paese della grande proprietà (Gutsland) a est dell'Elba" (v. Franz, 1970, p. 179). Al tempo stesso il crollo demografico indotto dalla peste rese più rarefatta la presenza contadina sulla terra, favorendo un vasto processo di abbandono dell'agricoltura a favore del pascolo. In molte regioni della Spagna, nel nord della Francia, e soprattutto in Borgogna, in alcuni distretti del Belgio, in Scozia nelle Midlands e nel Leicestershire in Inghilterra, i seminativi cedettero il posto al pascolo e ai prati favorendo così a un tempo il diffondersi di pratiche estensive e la concentrazione del possesso fondiario. Tale fenomeno, che si collegava anche alla frequente depressione dei prezzi dei cereali, assumeva aspetti particolari nell'Inghilterra del tempo: per un verso esso proseguiva una tendenza già in atto, in quanto la pastorizia e l'allevamento costituivano da almeno due secoli una pratica privilegiata da molti grandi e medi proprietari inglesi e scozzesi, che così soddisfacevano la domanda di lane grezze proveniente dalle fabbriche tessili delle città fiamminghe; per un altro verso, e spesso in connessione con queste rilevanti opportunità di mercato, il fenomeno era alimentato dal movimento delle recinzioni (enclosures) - su cui avremo modo di tornare - che rappresentava un formidabile processo di liberazione delle terre dai tradizionali usi promiscui e consuetudinari e determinava la loro concentrazione, in forma di piena proprietà privata, nelle mani di grandi e grandissimi proprietari.
Intanto l'Europa proprio in quella fase storica veniva rafforzando i propri modelli di conduzione latifondistica oltreoceano. Nel Nordamerica l'affidamento dello sfruttamento delle colonie, da parte dello Stato, a una società commerciale (ad esempio la Compagnia britannica o la Compagnia olandese delle Indie) trasformò mercanti e avventurieri in nuovi signori della terra presso le comunità indiane, che così furono private della loro originaria libertà e costrette al lavoro agricolo coatto. Nel Sudamerica spagnolo si sviluppò e radicò l'istituto dell'encomienda che consisteva nell'assegnazione di un feudo a nobili e favoriti spagnoli, i quali godevano del diritto di imporre alle popolazioni indigene prestazioni coatte, tributi, corvées (v. Weber, 1923). All'indomani della conquista, il processo di concentrazione fu anche favorito dalla decimazione della popolazione india. Secondo dati congetturali, ma significativi nella sostanza, nel Messico centrale, ad esempio, essa sarebbe passata da 27,6 milioni nel 1519 a 1,3 milioni nel 1595 (v. Braudel, 1979; tr. it., p. 7); in Perù crollò da 10 milioni a 833.000 fra il 1530 e il 1600 (v. Carmagnani, 1975). Sotto forma soprattutto di piantagioni per la coltivazione dello zucchero, caffè, cotone, ecc., il latifondo formatosi sulla base dell'encomienda si è sostanzialmente conservato, pur adattandosi ai mutamenti storici, sino all'inizio del XIX secolo, con conseguenze di straordinaria portata - come vedremo - sulla struttura fondiaria di grandi paesi come l'Argentina, il Brasile, il Messico, il Perù e altri ancora.
Il destino e il diverso peso sociale della grande proprietà latifondistica in Europa e nel mondo occidentale sono intimamente legati all'evoluzione complessiva, non solo economica ma anche politico-istituzionale, dei vari paesi. Intanto il diverso processo di sfaldamento dell'economia curtense aveva portato ad assetti agrari ampiamente diversificati, e poi le diverse scelte strategiche dei gruppi dominanti e le molteplici vicende politiche hanno deciso del ruolo della grande proprietà terriera nei diversi contesti nazionali. In Inghilterra, ad esempio, il processo di liberazione dei contadini dalle antiche forme di servitù - realizzatosi più precocemente che altrove - si era accompagnato a un parallelo fenomeno di accaparramento della terra da parte di settori alti e bassi della nobiltà. Attraverso il sistema delle recinzioni (enclosures), intensificatosi nei secoli XVIII e XIX, si venne creando una concentrazione proprietaria di notevoli dimensioni. Secondo dati del 1883, riferiti a Inghilterra e Galles, 400 pari possedevano quasi 6 milioni di acri (1 acro = 4.047 m²) di terra (oltre il 18% della superficie agricola), con una media di oltre 14.000 acri a testa. I grandi proprietari, in numero di 1.288, possedevano oltre 8 milioni di acri (quasi il 27% della superficie), con una media di oltre 6.000 acri. Veniva poi la nobiltà minore degli squires, che in numero di 2.529 possedevano oltre 4 milioni di acri (quasi il 14% della superficie) con una media di 1.700 acri a testa (v. Ambrosoli, 1976).
Com'è noto, non sempre all'ampiezza del possesso fondiario corrispondeva poi una gestione estensiva delle proprietà. Le campagne dell'Inghilterra sono state fra Settecento e Ottocento, almeno in alcune regioni, l'epicentro di una rivoluzione agricola che ha trasformato profondamente le tecniche produttive e i rapporti sociali, favorendo lo sviluppo capitalistico dell'agricoltura. Ma questo è spesso avvenuto all'interno di un assetto distorto della proprietà giuridica della terra, una proprietà non poche volte redditiera e assenteistica, che pesava passivamente sugli imprenditori capitalisti, i fittavoli e le varie figure di farmer.
Diverso destino ebbe invece la grande proprietà in Francia. Qui era stato più lento il processo di liberazione dei servi della gleba, che furono affrancati da Luigi XVI soltanto poco prima della Rivoluzione. Ma la grande e grandissima proprietà, concentrata nelle mani della nobiltà e del clero, fu sempre accompagnata da una assai numerosa e diffusa piccola e piccolissima proprietà contadina concentrata in diversa misura nelle varie realtà regionali. Tale peculiarità della Francia venne rafforzata dagli esiti della Rivoluzione. A partire, infatti, dalla notte del 4 agosto 1789, l'abolizione dei diritti feudali e della manomorta da parte dell'Assemblea Nazionale e le iniziative prese in seguito dai governi rivoluzionari colpirono la grande proprietà in maniera irreversibile su tutto il territorio nazionale. Da allora, e grazie a processi che si faranno più accentuati nel corso dell'Ottocento, la Francia è sempre stata considerata, nel panorama agrario europeo, e sia pure con qualche semplificazione, il paese della piccola proprietà contadina.
Un'assai diversa evoluzione della proprietà terriera segnò le strutture delle campagne spagnole. Più esattamente occorre dire che gran parte della Spagna meridionale ha rappresentato in Europa, per tutta l'età moderna e in maniera ancora più accentuata dell'Italia del sud, una delle aree più fortemente segnate dal latifondo tipico. L'Andalusia del XVIII secolo era per eccellenza la terra dei grandes terratenientes. Un solo proprietario, il duca di Medinaceli, che era il maggiore latifondista della regione, concentrava nelle sue mani oltre 120.000 fanegas (1 fanega = 0,64 ettari); il duca di Béjar possedeva, presso Siviglia, 13.000 ettari, mentre il conte de la Quintana ne deteneva oltre 36.000. A metà del Settecento questa nobiltà di antico lignaggio, i cui antenati avevano occupato le terre a sud del Guadalquivir al tempo della Reconquista contro i Mori, possedeva gran parte della terra coltivabile: venti duchi, i maggiori hacendados, detenevano nelle proprie mani circa 400.000 fanegas distribuite in 91 tenute. D'altra parte la concentrazione fondiaria non era solo un carattere distintivo del possesso feudale individuale. Spesso anche le terre comunali, indistinguibili sotto il profilo del paesaggio agrario da quelle dei grandi feudatari, erano estremamente concentrate e talora occupavano superfici sterminate. Il caso più spettacolare di questo tipo di latifondismo pubblico era certamente rappresentato dal comune di Almería, che possedeva all'incirca 53.000 ettari (v. Artola, 1978).Tale forma di concentrazione era ovviamente favorita dalla giurisdizione feudale, che proteggeva ad esempio i possessi dalla frantumazione connessa alla trasmissione ereditaria. Tuttavia, quando negli anni trenta dell'Ottocento venne avviata l'abolizione della giurisdizione feudale e furono posti in vendita i beni della manomorta, così che una massa considerevole di terra venne immessa nel mercato a vantaggio degli emergenti ceti borghesi, la struttura latifondistica dell'agricoltura andalusa non conobbe grandi variazioni. Attraverso la politica degli acquisti delle terre messe in vendita - in una società in cui le figure della borghesia imprenditoriale non avevano avuto grandi possibilità di svilupparsi - e tramite accorte strategie matrimoniali, le antiche famiglie riuscirono a riaccorpare spesso le antiche proprietà. D'altra parte la razionalità tecnica della conduzione latifondistica e le straordinarie convenienze economiche che ne derivavano favorivano potentemente la continuità sia dei modelli di concentrazione fondiaria che dei relativi modi di produzione. La campagna andalusa, soprattutto nelle aree di pianura, era coltivata a cereali con una alternanza triennale in cui si aveva un maggese (barbecho) di due anni: quindi una sottoutilizzazione della terra che poteva essere sopportata soltanto da una azienda di notevole ampiezza. Ciò significava affidare ai meccanismi della natura il compito di assicurare il recupero della fertilità delle superfici agricole, senza investimenti in concimi e lavoro. La crescente disponibilità, per i lavori stagionali, di braccianti (braceros) talora provenienti anche dalle file dei piccoli contadini (minifundistas), e soprattutto la presenza di grandi fittavoli, che prendevano la terra sulla base di fitti brevi e la sfruttavano con criteri capitalistici, garantivano ai grandi proprietari una rendita sicura e pressoché costante, oltre che la continuità di un indiscusso potere nella società e nello Stato della Spagna di allora.
La via verso la modernizzazione borghese e capitalistica ha portato dunque, di fatto, a una conservazione del latifondo nelle sue caratteristiche tipiche, in quelle regioni nelle quali per ragioni storiche, sociali e ambientali esso si era profondamente radicato (v. Martinez Alier, 1968; v. Tuma, 1965).
Nella forma della concentrazione proprietaria il latifondo si è affacciato all'età contemporanea non solo nell'Europa mediterranea, ma anche in quella continentale. In Germania, ad esempio, nelle regioni meridionali e occidentali il processo di liberazione dei contadini (la Bauernbefreiung) e il progressivo dissolvimento delle strutture fondiarie portarono alla frantumazione dei grandi patrimoni e alla diffusione di medie e piccole aziende coltivatrici. In Stati come la Prussia, invece, la stessa abolizione della feudalità e il riscatto dei contadini si tradussero in un ulteriore processo di concentrazione della proprietà. Dopo le sconfitte subite dall'esercito napoleonico, le leggi che il governo di Prussia varò nel 1807 e nel 1811, destinate a garantire la libertà dei contadini e la possibilità di alienazione e di vendita delle terre liberate dagli obblighi consuetudinari, portarono a un massiccio trasferimento di proprietà nelle mani dei grandi proprietari (Gutsbesitzer). È stato calcolato che circa 420.000 ettari di terra vennero allora ceduti dai contadini quale indennizzo per la loro libertà; da 20.000 a 24.000 aziende contadine furono invece direttamente acquistate da famiglie nobili o borghesi, per un totale di 200.000 ettari; mentre ben 100.000 aziende abbandonate - un patrimonio di terre oscillante fra i 300.000 e i 500.000 ettari - vennero incamerate in varie forme da nuovi e vecchi padroni.
Per la verità in molte regioni della Germania e dell'Europa orientali, nel corso di tutto l'Ottocento, il lento e faticoso processo di liberazione e di affermazione sociale del mondo contadino spesso si accompagnava a un rafforzamento della proprietà latifondistica, che diventava borghese solo per il titolo giuridico della libera proprietà. Nel 1895 in Pomerania 62 proprietari possedevano 485 fondi per un totale di circa 262.000 ettari; in Slesia i proprietari con più di 5.000 ettari erano, nel 1887, 46 e accentravano nelle loro mani oltre 671.000 ettari di terra (v. Slicher van Bath, 1960). Singoli proprietari nobili possedevano nella stessa epoca nei vari Stati orientali immense proprietà familiari rafforzate proprio dalle possibilità di acquisto favorite dall'abolizione dei vincoli feudali. In Moravia il vescovo di Olmütz possedeva oltre 54.000 ettari; l'imperatore Francesco Giuseppe in Boemia, Moravia e Bassa Austria vantava oltre 73.000 ettari; al principe del Lichtenstein appartenevano, in Moravia, Boemia e Slesia, oltre 180.000 ettari; mentre in Ungheria il conte Scönborn-Buchheim aveva nelle proprie mani - distribuiti in 780 masserie, 58 zone forestali e in altre forme di sfruttamento e di controllo territoriale - oltre 431.000 ettari. Spesso all'interno di queste immense tenute si veniva svolgendo un moderno processo di trasformazione capitalistica delle campagne e si realizzava a un tempo un più stretto rapporto funzionale fra agricoltura e industria. In Austria, ad esempio, all'interno delle proprietà latifondistiche non vi era soltanto una notevole varietà di colture, con ricorso crescente all'uso delle macchine, ma spesso vi si realizzavano vere e proprie attività industriali: la produzione dello zucchero, legata alla coltivazione su larga scala della barbabietola, la fabbricazione della birra, che utilizzava l'orzo coltivato più o meno estensivamente, la lavorazione del legname proveniente dalle immense tenute forestali (v. Kautsky, 1899).
Non diversamente squilibrata si presentava la distribuzione della proprietà in Russia alla fine dell'età moderna. Qui la durezza del servaggio contadino aveva reso impossibile ogni dinamica sociale e perciò una qualunque evoluzione dei rapporti sociali. Nonostante l'abolizione della servitù da parte di Alessandro II, nel 1861, la struttura della proprietà fondiaria cambiò molto lentamente e ancora nel 1878 appariva quasi interamente dominata dalle grandi concentrazioni nobiliari. A parte, infatti, i 150 milioni di desiatine (1 desiatina = 1,0925 ettari) posseduti dallo Stato, il resto (circa 240 milioni di desiatine) era posseduto da grandi proprietari. La famiglia imperiale, ad esempio, ne possedeva 7 milioni (il 2,9% della proprietà non statale), il clero 6 milioni (2,5%), i nobili 73 milioni (30,4%) (v. Dovring, 1965³; v. Tuma, 1965; v. Weber, 1923). Il resto era in mano a imprese commerciali e grandi famiglie borghesi. Con simili concentrazioni fondiarie, e con il lavoro ancora di fatto semiservile dei contadini, la nobiltà e i ceti dominanti russi partecipavano utilmente al mercato mondiale del grano grazie alla possibilità di praticare bassi prezzi concorrenziali rispetto alle agricolture più progredite della stessa Europa. Ma una tale struttura si fondava su una così disumana condizione di vita di milioni di contadini da alimentare continue e talora esplosive tensioni sociali. Le riforme di Pëtr Arkad´evič Stolypin tra il 1906 e il 1911 tentarono di introdurre elementi di razionalizzazione, ma solo la Rivoluzione del 1917 mise violentemente fine, per tappe successive e con diversi interventi, a un regime agrario fra i più arretrati e ingiusti d'Europa.
Nel corso dell'Ottocento e soprattutto del nostro secolo la proprietà fondiaria latifondistica, tanto nella forma della semplice concentrazione giuridica che in quella dei modi tipici di produzione, è stata sottoposta a critiche culturali e politiche formidabili e ad altrettanti formidabili processi di erosione o di smembramento violento. Intanto il processo continuo e senza soste di incremento demografico ha portato a una crescita senza precedenti della pressione contadina sulla terra, determinando nella maggioranza dei paesi una frantumazione progressiva delle grandi proprietà e la formazione di assetti fondiari più equilibrati. Il fenomeno dello sviluppo industriale, d'altro canto, ha tolto per sempre ai grandi proprietari terrieri il primato sociale e politico da essi lungamente detenuto e al tempo stesso ha offerto ai contadini e in generale ai ceti rurali la possibilità di un lavoro alternativo rispetto a quello agricolo, togliendo così ai latifondisti in moltissime regioni il potere di controllo monopolistico sulla forza lavoro. Senza contadini il latifondo diventava improduttivo e perciò i proprietari erano costretti a venderne porzioni, a smembrarlo, a renderlo diversamente redditivo.
Contemporaneamente a tali processi, fenomeni culturali e politici di grande portata hanno sottratto legittimità e consenso alla grande concentrazione proprietaria. La critica al sistema feudale già avviata dal pensiero riformatore settecentesco, le trasformazioni materiali introdotte dalla Rivoluzione francese, l'emergere di nuovi ceti borghesi in vari Stati d'Europa hanno portato all'affermazione di una idea nuova nel mondo contemporaneo: la terra non può più essere la forma di rappresentazione simbolica del potere. Un tempo, quanto più estese erano le proprietà, tanto più vasto era il prestigio sociale di chi le possedeva e più rilevante il potere a Corte, nei vertici dello Stato, ecc. In età contemporanea la terra diventa molto più borghesemente uno strumento di produzione, un bene acquistabile e vendibile sul mercato, da far fruttare nelle forme più convenienti: essa deve corrispondere, nella sua estensione, alle possibilità tecniche - di chi la detiene - di renderla interamente produttiva. Nello stesso tempo, soprattutto nel corso dell'Ottocento, entro il nuovo quadro dell'ideologia borghese liberale, la proprietà della terra diventa sempre di più la base, simbolica e materiale, del potere politico ed elettorale: essa è la condizione stessa della cittadinanza. La più larga distribuzione della proprietà corrisponde pertanto a un allargamento dei diritti civili e a un rafforzamento delle basi di consenso della nazione. Anche in ragione di questo si guarda con sempre maggior interesse ai ceti contadini e alla loro stabilità materiale, considerata base fondamentale della stabilità sociale interna. La critica al latifondo esprime quindi una posizione culturale - più o meno esplicita a seconda dei casi nazionali - che ispira i processi di formazione dello Stato contemporaneo.Resta infine da considerare l'azione disgregatrice esercitata direttamente dallo Stato sulle vecchie strutture fondiarie. La liquidazione dei vecchi istituti giuridici feudali e l'affermazione di un moderno diritto successorio - in base al quale i beni del capofamiglia venivano equamente divisi fra tutti gli eredi - portarono, sia pure assai lentamente, alla frantumazione dei grandi patrimoni. D'altra parte la stessa pressione fiscale esercitata dai moderni Stati nazionali, che ha gravato in maniera crescente sulla ricchezza immobiliare, ha finito col rendere sempre meno convenienti i vasti possedimenti e il loro utilizzo economico in forme estensive e tecnicamente arretrate. Infine le riforme agrarie avviate in tempi diversi in molti Stati, attraverso la limitazione legale della dimensione del possesso, hanno contribuito in maniera rilevante all'intero processo di riduzione dei grandi complessi fondiari.
L'evoluzione del mondo contemporaneo è andata quindi contro il modello di proprietà e di economia rappresentato dal latifondo, ma questo non ha significato affatto la sua scomparsa. Esso è diventato l'eccezione negli Stati industrializzati dell'Occidente, l'oggetto di difficili sforzi di riforma e trasformazione in alcuni paesi latinoamericani e, infine, il terreno vario e accidentato di diversi tentativi di riforma agraria nelle campagne dei paesi in via di sviluppo.
Significativamente, il Novecento si apre con un movimento di lotta popolare contro il latifondo: la Rivoluzione messicana del 1910. In Messico, come in altri paesi del subcontinente, la terra appartenente ai villaggi indiani (ejidos) era stata progressivamente usurpata dai colonizzatori ispanici che l'avevano accentrata in vastissime tenute (haciendas). Ma, per un paradosso solo apparente, la concentrazione fondiaria e la coltivazione latifondistica erano aumentate soprattutto nel corso dell'Ottocento, quando alcune innovazioni tecniche permisero un più proficuo sfruttamento della terra. La creazione della ferrovia, che consentiva un trasporto più economico delle derrate, fece sì che molte haciendas uscissero dalla loro economia di autosufficienza aprendosi al mercato e dando vita a un ulteriore processo di concentrazione fondiaria e a un più intenso sfruttamento del lavoro dei contadini (peones). In certi casi la ferrovia poteva correre per 125 chilometri attraverso una sola proprietà.
La rivolta contadina ebbe fra gli altri due effetti: la fissazione di limiti al diritto di proprietà e l'avvio di un processo, sia pure limitato e insufficiente, di ricostituzione degli ejidos. Inoltre essa, nonostante l'arresto e la sconfitta subita nel 1919, ha dato il via a un processo pressoché continuo di riforma agraria che ha conosciuto nei decenni successivi momenti di pausa e fasi di grande ripresa. Così il processo di frazionamento delle terre è ripreso tra il 1934 e il 1940 sotto il governo di Lázaro Cárdenas e ha dato luogo a una nuova fase di redistribuzione fondiaria tra il 1958 e il 1970. A tutt'oggi il latifondo non è del tutto scomparso, i contadini poveri e gli indios senza terra sono ancora una dolorosa realtà dei nostri anni.
In America Latina, un'area latifondistica per eccellenza, che ha conosciuto un lento processo di trasformazione in età contemporanea, è stata senza dubbio la pampa argentina. Grande pianura dove gli Indiani praticavano la caccia e dove gli Europei introdussero l'allevamento brado dei cavalli, essa si era enormemente valorizzata nel corso dell'Ottocento soprattutto grazie al suo uso come pascolo. Bestiame grosso, pecore e cavalli avevano un'assoluta libertà di movimento su terre fertilissime, prive di popolazione, tanto che potevano raddoppiarsi di numero ogni tre anni. Si trattava di un'economia latifondistica basata sulla pastorizia, che a metà Ottocento dava ai proprietari un profitto annuo del 30%. Anche in questo caso la ferrovia, a partire dal 1857, portò a una progressiva e a un certo punto clamorosa valorizzazione della grande proprietà terriera, tanto da fare dell'Argentina, alla fine del secolo, uno dei paesi più prosperi del mondo (v. Scobie, 1964).
Per un verso l'estendersi della coltivazione del grano e per un altro la specializzazione degli allevamenti - che permetteva l'invio di ingenti quantità di carni selezionate e di pelli nei mercati europei - consentirono al latifondo della pampa argentina di rafforzarsi e di razionalizzarsi, diventando un tratto caratteristico e dominante di quelle campagne per i decenni seguenti. Il processo di frantumazione delle grandi proprietà ha conosciuto un primo avvio soprattutto nella provincia di Santa Fé, grazie ai nuovi coloni provenienti dall'Italia e da altri paesi europei, che hanno introdotto profonde trasformazioni nelle strutture agricole locali. Più lento è stato il processo di trasformazione nella provincia di Buenos Aires, dove l'alto valore della terra in mano agli hacenderos non ha consentito un qualche processo di redistribuzione fondato sul libero mercato e sulla colonizzazione delle terre. In questa regione il latifondo è durato molto a lungo e il processo della sua trasformazione e talora dissoluzione è dipeso più da forze economiche spontanee che da interventi statali.
Non è possibile naturalmente neppure segnalare i processi di evoluzione e di persistenza del fenomeno latifondistico in tutti i paesi dell'America Latina. Ciò che merita tuttavia di essere qui ricordato è che proprio questo subcontinente costituisce l'area del mondo dove le strutture del latifondo hanno mostrato una più lunga persistenza storica, influenzando profondamente l'evoluzione economica e gli squilibri sociali e politici delle varie nazioni che ne fanno parte. Si pensi, tanto per fare qualche esempio, che in un paese come il Venezuela - dove il presidente Romulo Betancourt ha varato la riforma agraria all'inizio degli anni sessanta - la superficie agricola e quella destinata alla pastorizia ammontavano a circa 30 milioni di ettari. Ebbene, in quegli stessi anni i possessi latifondistici superiori ai 1.000 ettari totalizzavano la cifra complessiva di 22 milioni. Non diversamente in un paese come la Bolivia, nel 1961, 28 milioni di ettari (quasi l'87% della terra posseduta dai privati) erano in mano a proprietari di aziende con più di 1.000 ettari. Significativi d'altra parte sono i dati globali. Secondo una ricerca ONU del 1960 in tutto il subcontinente solo 108.000 proprietari possedevano 471 milioni di ettari, vale a dire il 65% della terra posseduta dai privati: una media di circa 4.300 ettari a proprietario.
Diversi sono stati, ad ogni modo, gli interventi dei vari governi nazionali, soprattutto sotto la spinta della cosiddetta Alleanza per il progresso, il programma di riforme voluto negli anni sessanta dal presidente Kennedy. Essi sono stati in parte improntati alla strategia della distribuzione in piccoli fondi (parcelación) di tenute latifondistiche, in parte indirizzati al progetto della colonizzazione, che prevedeva anche uno sforzo di trasformazione ambientale e di nuovo insediamento delle famiglie contadine. Nel 1964, in Perù, il presidente Ferdinando Belaunde ha avviato un processo di redistribuzione delle terre che non ha avuto effetti di vasta portata, mentre in Cile Salvador Allende ha proseguito nei primi anni settanta una riforma elaborata sotto il precedente governo democristiano di Edoardo Frei. Qui tra il 1965 e il 1973 - quando il governo democratico cileno fu soppresso da una dittatura sanguinaria - sono stati espropriati poco meno di 10 milioni di ettari, quasi il 60% della superficie agricola (v. AA.VV., 1965; v. Rivas Espejo, 1986). Una via assolutamente diversa ha scelto invece Cuba, che con la rivoluzione di Fidel Castro del 1959 ha realizzato una rapida e radicale liquidazione del latifondo delle piantagioni di zucchero e dei pascoli con la creazione di un settore cooperativo e di un settore organizzato secondo moduli di collettivizzazione.
In Europa il processo di dissoluzione del latifondo ha avuto effetti alquanto radicali, sia sotto il profilo giuridico-proprietario che sul piano tecnico e dei modi di produzione. La Rivoluzione sovietica del 1917 pose fine alle grandi proprietà fondiarie, che si erano avviate a una fase di declino già dai decenni precedenti. Ma le iniziative del nuovo Stato rivoluzionario finirono coll'influenzare, più o meno direttamente, un gran numero di altri Stati, sia quelli che entrarono nella confederazione delle repubbliche sovietiche, sia i paesi vicini preoccupati dell'estendersi dell'onda rivoluzionaria. Fu questo, ad esempio, il caso dell'Ucraina e della Bielorussia, ma anche delle repubbliche baltiche indipendenti (Estonia, Lettonia e Lituania), dove le grandi proprietà costituivano una caratteristica dominante dell'assetto agrario. Nel corso degli anni venti, tanto per iniziativa dei singoli governi che per gli effetti prodotti dalla prima guerra mondiale, i processi di frantumazione dei grandi possessi e la formazione di piccole proprietà contadine interessarono in varia misura tutta la grande area dell'Europa centrorientale. In Germania fu il caso della Baviera, della Prussia orientale, del Brandeburgo e della Pomerania. L'ondata investì anche la Polonia, e soprattutto la Romania (a lungo dominata da un servaggio particolarmente oppressivo), la Cecoslovacchia, l'Ungheria (caratterizzata dalla prevalenza delle grandi proprietà nobiliari), l'Albania, ecc. La rottura degli assetti latifondistici in questi paesi non fu ovviamente uniforme né per l'ampiezza delle superfici investite né per le forme della realizzazione. Perciò nella gran parte di essi - dove la redistribuzione interessò fra il 10 e il 20% della superficie agraria - solo dopo i rivolgimenti prodotti dalla seconda guerra mondiale, e quelli successivi, si è arrivati alla liquidazione pressoché definitiva del latifondo (v. Dovring, 1965³).
Più lento è stato invece il processo di trasformazione nelle zone del latifondo tipico dell'Europa mediterranea. In Spagna, ad esempio, si tentò di limitare il latifondo per via legislativa. Nel 1932 le Cortes della Repubblica appena costituita approvarono una riforma agraria che promuoveva l'espropriazione delle terre, soprattutto di quelle incolte. L'avvento della dittatura franchista, tuttavia, cancellò quel progetto senza sostituirlo con apprezzabili misure alternative, salvo alcuni interventi di sostegno, nei decenni successivi, a favore della diffusione dell'irrigazione. Un provvedimento che però non riguardava le zone del latifondo. Ciò che fece uscire definitivamente dalla sua chiusura l'economia latifondistica spagnola fu invece l'apertura all'economia internazionale a partire dagli anni sessanta. Nella fertile pianura dell'Andalusia, la campiña, i grandi proprietari hanno continuato a innovare le strutture delle aziende introducendo o diffondendo su più larga scala il macchinario agricolo, i concimi chimici e i pesticidi. Facendo leva sulle nuove colture oleaginose, soprattutto di girasoli, essi hanno conservato le loro grandissime proprietà modernizzando le tecniche produttive. Ciò naturalmente non ha risolto gli antichi problemi sociali di quella grande regione agricola (v. Sumpsi Viñas, 1980).Problemi non dissimili, almeno in parte, presentano alcune regioni del Portogallo, come il Ribatejo e soprattutto l'Alentejo, dove negli anni sessanta i braccianti sono stati protagonisti di grandi occupazioni delle terre. Prima del 1975, nei quattro distretti tipicamente latifondisti del paese (Beja, Evora, Portalegre, Setúbal) le aziende con più di 500 ettari occupavano oltre il 53% della terra, mentre quelle da 50 a 500 ne occupavano quasi il 30%. La popolazione era costituita per il 70% da braccianti. In queste regioni si è concentrata la riforma agraria avviata dai governi rivoluzionari dopo l'insurrezione del 25 aprile 1974, che ha portato a un'ampia divisione dei latifondi e alla distribuzione di 1.200.000 ettari di terra ai contadini. Circa il 13% della superficie del paese, e 1/4 di quella meridionale, è stato così distribuito ai braccianti riuniti in speciali cooperative: le Unità Collettive di Produzione (UPC). Si tratta però di un processo che certamente non ha ancora fatto scomparire il latifondo dal paesaggio agrario del Portogallo (v. AA.VV., 1981; v. Barros, 1980).
All'indomani dell'unificazione nazionale la questione del latifondo venne ad assumere in Italia un rilievo sociale e politico del tutto inatteso. Una volta trasferita la capitale del nuovo regno a Roma, la presenza di un esteso territorio spopolato e malarico intorno alla capitale del nuovo Stato, alla città-simbolo della riconquistata indipendenza e grandezza, costituiva una sorta di scandalo che imbarazzava non poco la nuova classe dirigente. Non una ridente periferia si presentava infatti agli occhi dei sempre più numerosi visitatori o delle delegazioni che insieme ai capi di Stato si recavano nella capitale, ma una campagna desolata, luogo di economie pastorali e di agricolture estensive, a cui le sagome possenti degli antichi acquedotti o dei resti della Roma antica aggiungevano un suggello solenne di decadenza.Al momento dell'unificazione del paese, nel cosiddetto Agro romano - un territorio che, includendo Roma, si estendeva per circa 208.000 ettari, distesi fra il mar Tirreno e i monti Sabatini - si concentrava un nucleo di grandi proprietà di diversa natura e titolo che con i loro assetti produttivi segnavano il paesaggio agrario locale. Su un totale di circa 21.000 ettari coltivati estensivamente, e quindi considerati area di latifondo, 72 proprietari privati possedevano oltre 11.000 ettari di terra, il patrimonio ecclesiastico aveva poi una consistenza di oltre 7.000 ettari, mentre quasi 2.500 ettari erano in mano alle opere pie.
In quest'area, tuttavia, a dispetto del carattere desolato del paesaggio, si praticava una forma di agricoltura a suo modo prospera, sorretta com'era dalla razionalità arcaica, se così si può dire, che è propria del latifondo tipico. Le tenute, infatti, appartenenti spesso all'alta nobiltà romana, erano coltivate a grano estensivamente con lavoratori a giornata provenienti prevalentemente dalle provincie vicine e dagli Abruzzi. Il loro misero salario costituiva una delle voci più importanti di spesa per l'azienda latifondistica, tenuta in genere da un fittavolo - il mercante di campagna - che li ingaggiava nei momenti dei grandi lavori stagionali con l'ausilio di alcune figure di incettatori di manodopera: i feroci caporali, che avevano un controllo assoluto sulle braccia da lavoro migranti. Per il resto dell'anno le terre venivano lasciate in abbandono, salvo costituire luogo di pascolo brado per il bestiame, prevalentemente ovino, che dalle montagne dell'Abruzzo e dell'Italia centrale veniva a svernare nei climi miti delle marine. Per il pascolo i pastori abruzzesi o molisani pagavano lauti fitti, direttamente ai proprietari terrieri o agli affittuari, rendendo per questa via quelle terre - prive di costruzioni, di case, di stalle, senza grandi immobilizzi fondiari - una fonte di rendita oltremodo proficua.
Non stupisce dunque se, a dispetto delle molte leggi varate dal Parlamento a partire dal 1878 - che contemplavano perfino il diritto di esproprio nei confronti dei proprietari inadempienti agli obblighi di trasformazione fondiaria -, i risultati materiali di riforma del latifondo nel cinquantennio dopo l'Unità furono alquanto esigui. Come dichiarava con lucida consapevolezza la Relazione presentata nel 1914 dalla Presidenza della Camera dei deputati all'allora ministro dell'Agricoltura, le ragioni dell'insuccesso andavano ricercate nel fatto "che le terre mantenute a pascolo naturale danno, senza rischi, senza fatica e con limitato impiego di capitali, un reddito cospicuo. Per la qual cosa, fino a che non si troverà modo di persuadere i proprietari che la sostituzione della coltura intensiva darà loro tanto o più di quello che rendono le terre lasciate a produzione spontanea, o coltivate a grano, non vi sarà precetto di legge o forza di coazione che possa indurli a compiere, a tutto loro rischio, la desiderata trasformazione" (v. Bevilacqua e Rossi Doria, 1984, p. 213).
Il caso dell'Agro romano ha in effetti costituito, per molti aspetti, una situazione paradigmatica della persistenza delle agricolture latifondistiche nelle campagne italiane. Situate per lo più lungo la fascia costiera centro-meridionale della penisola, esse erano insediate in territori assai spesso degradati dal disordine idraulico e dall'imperversare della malaria, che li rendevano inadatti, e talora proibitivi, agli insediamenti umani. E qui, lungo i secoli dell'età moderna, esse avevano trovato, per così dire, il loro habitat ideale. Difficilmente la pressione della popolazione contadina poteva portare in queste terre a una frantumazione spontanea delle grandi proprietà. D'altra parte, la loro collocazione di pianura le rendeva preziose, per l'integrazione delle economie pastorali delle dorsali appenniniche, che vi trovavano ampi pascoli e rifugi invernali per le periodiche migrazioni della transumanza. Era questo insieme di convenienze e di corrispondenze, insieme ai tipici rapporti di produzione, che faceva del latifondo in Italia un sistema agrario.In queste condizioni si trovavano le maremme toscane, il litorale laziale, il Tavoliere delle Puglie - che era sede di una speciale economia agro-pastorale sin dall'età romana -, la piana di Metaponto, le cimose litoranee calabresi, sia tirreniche che ioniche. Non diversa situazione si rinveniva in Sicilia nella vasta piana di Catania: anche se per la verità nell'isola si davano situazioni di latifondo interno, come le terre cerealicole della provincia di Enna, che si presentavano con le caratteristiche di lande disabitate.In tutte queste situazioni di particolare avversità ambientale ai modelli di agricoltura intensiva, il latifondo come modo di produzione, o come sistema agrario, si sposava per così dire spontaneamente al latifondo come grande proprietà. Grandi proprietari gestivano infatti quelle terre, solitamente date in fitto capitalistico per la breve durata delle rotazioni estensive - non più di 6 anni - e conservavano il monopolio terriero in quelle zone sia grazie alla debole pressione demografica, sia spesso in virtù di una politica volta consapevolmente alla conservazione a oltranza e talora all'incremento ulteriore della proprietà. A una tale politica si deve la costituzione di uno dei più cospicui patrimoni latifondistici d'Italia, formatosi nel corso dell'Ottocento e conservatosi con alcune modificazioni sino alla riforma fondiaria del 1950: il latifondo della famiglia Barracco.
Nelle mani dei vari eredi passarono infatti nei diversi decenni a partire dal 1849 qualcosa come 279 kmq di terre, comprendenti decine di comuni e naturalmente agricolture ed economie disparate. Il patrimonio della famiglia Barracco costituì infatti il caso di una grandissima azienda latifondistica nella quale la proprietà giuridica della terra, più che la tipicità della conduzione agricola, unificava in una gestione unitaria differenti realtà produttive: dalla pastorizia nei pascoli alpestri della Sila alla produzione estensiva di grano, dall'allevamento del baco da seta alla trattura e filatura del filo, dalle fabbriche di liquirizia all'attività dei frantoi per la produzione dell'olio d'oliva (v. Petrusewicz, 1989).Il processo di trasformazione del latifondo in Italia nel corso dell'età contemporanea è stato accelerato, come in altri Stati europei, dai nuovi meccanismi egalitari nella trasmissione della proprietà. Passando da una generazione all'altra, la proprietà terriera - che a partire dal Codice civile del 1865 si doveva dividere paritariamente fra i diversi eredi - tendeva a perdere la sua concentrazione e si andava perciò frantumando. La crescita naturale della popolazione e la domanda da parte dei ceti contadini, l'espansione del mercato fondiario, premevano poi spontaneamente in direzione di una distribuzione meno sperequata del possesso. A ciò si aggiunga, quale dato originale della vicenda italiana, il fatto che la collocazione frequente del sistema latifondo in terre fisicamente degradate ha finito col collocare il problema della sua trasformazione all'interno di un non comune sforzo statale di bonificazione.
Dal momento che così spesso le colture estensive si svolgevano in zone di disordine idraulico, di norma intensamente malariche, esse ponevano un problema rilevantissimo di pubblica igiene. Così ai compiti di accrescimento della loro produttività, di una loro più intensa valorizzazione economica, si aggiunse, da parte dello Stato, soprattutto nel corso del XX secolo, lo sforzo di una loro trasformazione a fini di risanamento ambientale: per rendere meno insalubri e più facilmente abitabili estese plaghe territoriali. In certo modo, si potrebbe dire che la trasformazione del latifondo divenne in Italia un obbligo oltre che un compito pubblico.In questa direzione operarono le bonifiche e le trasformazioni fondiarie realizzate nel corso del tempo e intensificatesi nel periodo fra le due guerre, in aree come l'Agro romano e l'Agro pontino, il Tavoliere delle Puglie, la piana di Sibari e di Sant'Eufemia in Calabria, la pianura del Campidano in Sardegna. Si trattò tuttavia di un processo lento e assai contrastato. Ancora nel secondo dopoguerra, in Calabria - regione che deteneva il primato della concentrazione di proprietà nobiliare in Italia -, lungo la fascia ionica del Crotonese, famiglie come quelle dei Berlingieri, dei Galluccio, degli Zito, dei Mottola, oltre ai blasonati Barracco, possedevano proprietà di diverse migliaia di ettari sparse nei diversi comuni. Attraverso accorte politiche di trasmissione dei beni che aggiravano le norme del codice, non poche di queste famiglie erano riuscite a mantenere più o meno indiviso il patrimonio, a ciò incoraggiate da una tenace cultura redditiera oltre che dagli indubbi e tranquilli vantaggi che il sistema latifondistico riusciva comunque a garantire.
Solo con la riforma agraria del 1950, che limitava per legge il possesso di terra a superfici non superiori ai 300 ettari, insieme alle profonde trasformazioni ambientali e tecnico-produttive che nelle campagne italiane seguirono a quel provvedimento, il latifondo - come concentrazione fondiaria e come sistema - si avviò al suo definitivo tramonto.
Il processo di decolonizzazione, avviato in molti paesi nel corso del nostro secolo e intensificatosi soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, ha investito in modo particolare la questione della proprietà terriera: tanto le forme della proprietà che i modi del suo sfruttamento economico. Il latifondo è stato dunque, in varia misura, al centro dell'attenzione sia dei nuovi governi indipendenti che delle forze di opposizione, tanto delle masse contadine e bracciantili quanto dei vari organismi internazionali (ONU, FAO, Banca Mondiale, ecc.) che negli ultimi decenni hanno offerto cooperazione e contributi tecnici e conoscitivi.
Il processo di trasformazione delle strutture latifondistiche ha avuto differente portata ed efficacia nei vari paesi, a seconda della consistenza della concentrazione terriera, della forza del movimento contadino che esercitava la propria pressione rivendicativa, dei rapporti delle forze in campo e della volontà politica dei governi. Non c'è dubbio, tuttavia, che dalla soluzione del problema della terra e dall'efficacia reale delle riforme agrarie realizzate sono dipesi e dipendono in parte ancora oggi il destino nonché le capacità di sviluppo autonomo di molti paesi collocati alla periferia del mondo industrializzato.
Nel grande continente africano il processo di trasformazione del latifondo ha riguardato solo alcuni Stati. In generale, soprattutto l'Africa Nera non ha avuto grandi problemi di concentrazione squilibrata della proprietà terriera. La vastità del territorio, la scarsa densità demografica, la conduzione di tipo cooperativo dell'agricoltura propria delle comunità di villaggio hanno storicamente impedito il formarsi delle grandi concentrazioni di proprietà. Tuttavia non sono mancate le eccezioni, anche perché le varie dominazioni coloniali hanno alterato spesso profondamente le strutture fondiarie tradizionali e i rapporti sociali delle comunità locali. In Etiopia, ad esempio, prima delle misure di esproprio emanate nel 1975, il 90% circa delle terre coltivate era nelle mani della famiglia imperiale, di pochi grandi proprietari privati e della Chiesa copta. Più diretto frutto della dominazione coloniale inglese è stata invece la formazione del latifondo in Kenya, nelle highlands situate in prossimità di Nairobi, dove le terre più fertili (e anche l'agricoltura economicamente più evoluta) sono state a lungo concentrate nelle mani di pochi coloni bianchi.È tuttavia nell'Africa settentrionale che i processi riformatori sono stati più incisivi. In Egitto, prima della riforma agraria avviata nel 1952 con la deposizione del re Faruq, un terzo del territorio agricolo della valle del Nilo era occupato da poco più di 2 milioni e mezzo di piccolissimi contadini (fellahin) che non possedevano più di 5 feddan a testa (1 feddan = 0,42 ettari), un altro terzo apparteneva a medi proprietari (da 5 a 10 feddan), tutto il resto era in mano ai grandi proprietari. Di questi circa 2.000 detenevano proprietà di oltre 200 feddan, quasi un quinto di tutta la valle del Nilo, che costituivano il nucleo della proprietà latifondistica vera e propria. La legge di riforma del 9 settembre 1952 decretò l'esproprio dietro indennizzo delle proprietà che superavano i 200 feddan, assegnando le terre eccedenti ai fellahin in misura non superiore ai 5 feddan pro capite. A partire dal 1961 Nasser riprese e ampliò le politiche di esproprio e di riforma.
Anche in Algeria il governo rivoluzionario - dapprima coll''operazione aratura' del 1962, che colpì le terre lasciate vacanti dai coloni francesi, e poi coi decreti del marzo 1963, che nazionalizzavano le proprietà terriere degli stranieri - ridimensionò la proprietà latifondistica. Le misure del governo, che a partire dal 1972 ha ripreso l'iniziativa di riforma, colpirono soprattutto quei 6.000 coloni che possedevano, da soli, l'85% di tutte le terre di proprietà europea in Algeria: all'incirca 2,8 milioni di ettari (v. AA.VV., 1965; v. Adair, 1982). Esperienze analoghe hanno conosciuto, in questo dopoguerra, anche la Tunisia e il Marocco, nei quali è stata variamente trasformata la grande proprietà coloniale (v. Marcaccini, 1981).Alquanto radicata e persistente è stata la presenza del latifondo in Medio Oriente, dove l'arretratezza economica e sociale dei diversi paesi rende ancora più gravi gli effetti della concentrazione della proprietà. In Iraq, ad esempio, dove l'antica proprietà statale delle terre era stata abolita con la Land settlement law (1932) dall'amministrazione coloniale inglese, l'1% della popolazione possedeva il 75% della terra.
Nel luglio del 1958 il rovesciamento della dinastia hashemita portò alla promulgazione di una Costituzione che prevedeva la limitazione e regolamentazione della proprietà terriera. La riforma che ne seguì fissò in 1.000 donum (circa 250 ettari) il limite massimo di proprietà per le terre irrigate e in 2.000 donum per quelle in regime arido. Vennero allora confiscati e distribuiti ai contadini circa 1 milione e mezzo di donum (v. AA.VV., 1965).
Di vaste dimensioni è stata la concentrazione latifondistica in Iran, dove ancora in questo dopoguerra circa 100.000 proprietari, l'1% della popolazione agricola, possedevano il 56% delle terre coltivate: alcuni di essi, per lo più capitribù, comprendevano nelle loro proprietà oltre 40 villaggi. Le varie riforme avviate a partire dai primi anni cinquanta, e soprattutto la legge del 15 gennaio 1962, che limitava il possesso dei proprietari a non più di un villaggio e a non oltre 120 ettari di terra, hanno aperto un processo contrastato ma irreversibile di destrutturazione del latifondo.Anche nel continente asiatico - in particolare dopo la Rivoluzione comunista in Cina -, in India, in Pakistan, in Indonesia, dove la grande proprietà coloniale ha dominato l'agricoltura soprattutto nelle piantagioni, la conquista dell'indipendenza dalle potenze europee ha avviato un processo di riforme fondiarie e agrarie che oggi, grazie all'irrigazione, alla diffusione di concimi e di macchinari, almeno in alcune regioni, stanno cambiando i caratteri di un antico paesaggio agrario.
(V. anche Contadini; Meridionale, questione; Servaggio).
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