Meridionale, questione
La questione meridionale si pone come problema fondamentale non appena si costituisce in unità lo Stato italiano, nel 1860, e tale resta, pur attraverso profonde trasformazioni, per tutto il corso della sua storia fino a oggi.Altra e più complessa vicenda è la diversità dello sviluppo economico-sociale e civile delle due parti d'Italia, Centro-Nord e Mezzogiorno. Questo divario può farsi risalire a epoche ben più antiche, lungo il percorso plurimillenario che costituisce la peculiare continuità storica di memorie e di tradizioni culturali su cui si è fondato il senso di identità delle popolazioni insediate sul territorio italiano.
Un momento di forte distinzione nei processi di sviluppo delle due parti d'Italia può collocarsi già alla metà dell'XI secolo, quando il Sud viene unificato nello Stato normanno a ordinamento feudale: ne scaturirà una precoce impronta nazionale sia del Mezzogiorno che della Sicilia e, insieme, una lunga preminenza sotto diverse dinastie dei modelli e dei valori della nobiltà feudale, radicata nelle campagne e nella rendita fondiaria. L'altra parte d'Italia si orientava invece verso un più largo sviluppo delle città e poi delle aree regionali, che in termini politici si riferivano dialetticamente all'Impero e sul terreno economico-sociale davano vita a notevoli processi di sviluppo mercantile (v. Galasso, 1965).
La feudalità e la Chiesa, con le vastissime proprietà terriere e la diffusione di valori e modelli di comportamento per l'intera società meridionale, bloccheranno ancora nel Settecento i tentativi riformistici che la dinastia borbonica cercherà di sperimentare col sostegno di un avanzato ceto intellettuale e tecnico di formazione illuministica.In un'epoca in cui l'agricoltura dava l'impronta all'intera società e i contadini costituivano oltre il 90% della popolazione di molte province meridionali, "la vera debolezza del Mezzogiorno era nell'arretratezza delle campagne, proprio in quel settore dove era invece la riserva di forze che avrebbe assicurato - col concorso di altre favorevoli circostanze - la rapida evoluzione della Lombardia" (v. Villani, 1962, p. 74).
L'abolizione della feudalità nel Regno di Napoli fu il risultato dell'intervento esterno dei Francesi, nel 1806. Scomparivano i poteri giurisdizionali del baronaggio, che però conservava la proprietà di gran parte degli antichi possessi e, soprattutto, il potere e il prestigio sociale. I valori e i modelli feudali restavano validi anche per la borghesia agraria che andava acquisendo, nel corso dell'Ottocento, appezzamenti fondiari dalla proprietà ecclesiastica e dall'aristocrazia, mostrando però scarsa propensione a investire capitali nella trasformazione dell'agricoltura.
Nel primo Ottocento la crescita della popolazione meridionale e l'aumento dei prezzi agricoli favorivano l'espansione della produzione agricola. In particolare si sviluppavano le colture intensive (olivo, vite, agrumi, mandorlo) nelle aree costiere di Puglia e Campania, Sicilia e Calabria. Restava però centrale il sistema di produzione tradizionale, che vedeva la larghissima diffusione del latifondo cerealicolopastorale. Erano rare le aziende capitalistiche capaci di procedere alla razionalizzazione delle tecniche agrarie e delle rotazioni, in modo da avere costanti aumenti nei livelli di produttività.
Scarsamente consistenti erano le attività industriali, per lo più di livello artigianale, che producevano per l'autoconsumo o per un ristretto mercato locale. L'industria laniera concentrata nella valle del Liri era di limitate dimensioni e di sostanziale fragilità tecnologica e organizzativa. Più avanzati erano gli stabilimenti tessili delle valli del Sarno e dell'Irno, costruiti e gestiti da imprenditori per lo più svizzeri o tedeschi. Erano inglesi e francesi, invece, gli industriali che avevano impiantato i cantieri metalmeccanici che, intorno alla capitale, si affiancavano agli arsenali e alle fabbriche d'armi gestite direttamente dallo Stato borbonico: imprese protette dai dazi e garantite dalle commesse statali.
Le ragioni del forte ritardo dell'economia meridionale consistevano essenzialmente in una sostanziale dipendenza dal mercato internazionale, sia per la produzione agricola che nei settori extra-agricoli, e in un'estrema esiguità del mercato interno. La scarsa mercantilizzazione dell'economia meridionale, poco prima della caduta del Regno, era attestata dal livello bassissimo del commercio estero pro capite: 5,5 ducati rispetto ai 9 dell'arretrato Stato pontificio e ai 40 del Regno di Sardegna (v. Graziani, 1960). Non meno grave era l'arretratezza organizzativa delle strutture creditizie nel Mezzogiorno: il Banco di Napoli aprì la prima filiale, a Bari, solo nel 1857; largamente prevalenti erano i prestiti a interessi usurai.I sistemi di comunicazione e le dotazioni di strade e di ferrovie erano quantitativamente irrilevanti in un Mezzogiorno dove centri urbani in espansione e fertili o desolate campagne vivevano in quasi completo isolamento. Molto bassi erano i livelli di strutturazione civile della società meridionale, dove l'analfabetismo sfiorava il 90% della popolazione, mentre in Piemonte e in Lombardia l'indice, pur elevato, era del 54%.
Con l'unificazione nazionale l'arretratezza meridionale confluisce dentro un più largo assetto politico ed economico, che appare comunque distante e in complessivo ritardo rispetto alle maggiori potenze che in forme diverse avevano avviato processi di intenso sviluppo capitalistico: Gran Bretagna, Francia, Belgio, Austria, Stati germanici. Il divario che distingue e contrappone subito le 'due Italie' si inserisce quindi dentro un più generale ritardo che colloca il nuovo Stato italiano a notevole distanza dai più avanzati paesi del tempo: specialmente sul terreno dello sviluppo manifatturiero e della disponibilità di capitali e di risorse energetiche, all'epoca ferro e carbone (v. Pescosolido, 1991).
Il processo di unificazione dello Stato e del mercato nazionale è apparso decisivo per l'avvio di un modello di sviluppo capitalistico italiano, accelerato poi con l'avvio dell'industrializzazione. La trasformazione dell'Italia in paese industriale avrà inizio con l'adozione nel 1887 del protezionismo doganale, da cui deriveranno anche le distorsioni settoriali e territoriali del sistema industriale italiano e, in primo luogo, una più rapida divaricazione nei ritmi di sviluppo delle due aree del paese (v. Romeo, 1959; v. Sereni, Capitalismo..., 1968; v. Bonelli, 1978). A questa interpretazione, articolata ma sostanzialmente fondata sulla interdipendenza tra politica ed economia, tra unificazione nazionale e sviluppo economico, tra Nord e Sud, si è contrapposta una visione rigidamente dualistica dello sviluppo italiano.Sulla base anche di una ricerca che privilegia i fattori di diffusione spontanea e regionale dell'industrializzazione europea (v. Pollard, 1981), si è affermato il carattere preunitario dello sviluppo economico delle regioni settentrionali, accresciutosi poi in sostanziale autonomia e distinzione rispetto al Mezzogiorno, anche dopo l'unificazione nazionale (v. Cafagna, 1989). Questa tesi riduce a poca cosa il ruolo dello Stato, che appare invece determinante, nel favorire e caratterizzare il modello italiano di sviluppo capitalistico, e nega una interdipendenza fra Nord e Sud, che è stata invece corposa in più momenti decisivi del processo unitario.
Al momento dell'unificazione nazionale, all'interno del nuovo Stato italiano, il Mezzogiorno si presenta come questione meridionale. I rapporti tra il governo nazionale e la società meridionale saranno subito difficili, né potrà migliorarli il ruolo svolto dagli eminenti intellettuali liberali esiliati dai Borboni e tornati al Sud come ministri e dirigenti politici: Silvio Spaventa, Francesco De Sanctis, Pasquale Stanislao Mancini, Francesco Ferrara, Pasquale Villari, Ruggero Bonghi. Prenderanno le distanze dal governo sia la piccola borghesia provinciale che aveva combattuto nel disciolto esercito garibaldino, sia l'aristocrazia e la grossa borghesia di orientamento borbonico e autonomista.
Lo statalismo radicale di stampo giacobino degli intellettuali meridionali divenuti ministri dell'Italia unita si fondava, sul piano teorico, sulla concezione hegeliana dello Stato, in cui gli intellettuali svolgono un ruolo essenziale. Ma sul piano storico concreto questo accentuato statalismo meridionale, e in particolare napoletano, si costituiva come alternativa alla debole strutturazione civile della società e alla tradizione borbonica che negava la politica come strumento di organizzazione sociale. Nelle forme culturali e politiche del liberalismo romantico si sviluppava, nel Mezzogiorno d'Italia, quella tradizione intellettuale che nel Settecento era stata illuministica e giacobina.
Questa tradizione aveva però un punto debole, politico e sociale, che ne avrebbe inficiato le possibilità di successo e bloccato la capacità di realizzazione: il suo isolamento nella società meridionale, la sua esigua rappresentatività sociale e quindi l'estrema difficoltà che incontrava nel costituire una solida ed efficace direzione politica. Tra questi intellettuali-politici e la società meridionale non c'era e non si formava alcun rapporto di organicità. Così come sarebbe accaduto per le successive proposte e progettazioni degli intellettuali e politici meridionalisti, i disegni di organizzazione e di trasformazione politica apparivano calati dall'alto e avevano scarsissime possibilità di realizzarsi e di consolidarsi in forme strutturali nuove, in comportamenti e in modelli culturali innovativi.
Ma l'esplosione che rischiò di mandare in frantumi il nuovo Stato fu la rivolta dei contadini all'interno del vasto moto sociale del 'brigantaggio', che sconvolse le province meridionali per oltre un quinquennio. Questa forma estrema di protesta sociale contro il perpetuarsi di un antico sfruttamento fu stimolata dal tentativo di restaurazione della dinastia borbonica, dagli interessi temporali del papa, dalla propaganda del clero meridionale colpito dalla soppressione degli ordini religiosi. La lotta al brigantaggio impegnò metà dell'esercito italiano in una guerra che produsse più morti delle battaglie risorgimentali, mentre una legge speciale sanciva lo stato d'assedio e sospendeva le libertà costituzionali nel Mezzogiorno.
Il rischio di perdere le province del Sud bloccò i progetti di organizzare lo Stato italiano secondo i principî del decentramento amministrativo e dell'autogoverno locale nella tradizione del liberalismo britannico, cui erano vicini i dirigenti politici che erano anche espressione degli interessi economici preminenti nelle regioni settentrionali. Si scelse invece un rigido accentramento istituzionale e amministrativo e si accentuò il carattere oligarchico delle relazioni politiche.
L'unificazione normativa comportò pesanti conseguenze per il Sud: il crollo delle manifatture non più protette e la forte crescita della pressione fiscale, per pagare le spese delle guerre risorgimentali e il costo delle strade e ferrovie necessarie per unificare il mercato nazionale.
La politica economica liberistica del primo ventennio unitario favorì il settore meridionale delle colture pregiate d'esportazione. La vendita delle terre demaniali ed ecclesiastiche accelerò la trasformazione in senso borghese della proprietà fondiaria nel Mezzogiorno, ma i contadini restarono esclusi da questo processo di privatizzazione del possesso fondiario e videro peggiorare la loro condizione anche per la perdita degli antichi usi civici. D'altra parte la profusione di tutti i mezzi finanziari nell'acquisto di questo milione di ettari di terre toglieva alla borghesia meridionale ogni possibilità di investire capitali nel rinnovamento della produzione agricola.
Con le Lettere meridionali di Pasquale Villari ha inizio, nel 1875, la riflessione critica sulle condizioni del Mezzogiorno nello Stato italiano, quella composita corrente culturale e politica definita 'meridionalismo' perché pone il Mezzogiorno come questione centrale della nazione e dello Stato italiani.Il problema che, insieme a Villari, si porranno i giovani intellettuali e proprietari liberali Leopoldo Franchetti, Sidney Sonnino e Giustino Fortunato, nelle inchieste sulle Condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane e su La Sicilia nel 1876 e negli articoli su "La rassegna settimanale", sarà la ricerca dei modi per allargare il consenso sociale all'oligarchico Stato liberale. Sullo sfondo c'erano i bagliori rivoluzionari della Comune di Parigi, la questione sociale, lo spettro del socialismo. Di prevalente cultura positivistica, l'orientamento meridionalistico produrrà inchieste e analisi spregiudicate e precise delle strutture sociali ed economiche e dei comportamenti culturali e politici diffusi nelle regioni meridionali.
Il Sud aveva appena dimostrato l'insofferenza politica per i sistemi di governo della Destra storica, fornendo la base per il successo del nuovo ceto politico espresso dalla Sinistra. Il meridionalismo nasce anche come critica alla Sinistra meridionale, alle forme clientelari di una politica che privilegiava i lavori pubblici. Sembra però difficile da condividere il giudizio che restringe questo meridionalismo a una ideologia di esponenti sconfitti della Destra, che vedevano riprodursi nella Sinistra i mali ereditari del Sud, ma non vi scorgevano la presunta capacità di egemonia delle forze sociali e politiche meridionali (v. Giarrizzo, 1992).In realtà non si vedono maturare processi di effettivo rinnovamento dei gruppi dirigenti meridionali, tra Ottocento e Novecento; anche se la critica radicale del clientelismo trasformistico, in Fortunato come in Pasquale Turiello, finisce per nascondere il movimento complesso delle diverse spinte sociali, che pur si fa strada attraverso la mediazione personalistica dei bisogni reali di ceti sempre più ampi che si presentano sulla scena politica. Ma la critica della politica come clientelismo non appartiene soltanto alla storia del Mezzogiorno. Al giurista siciliano Gaetano Mosca il governo e il Parlamento italiani sembravano, alla fine dell'Ottocento, nient'altro che un mercato in cui si comperavano e vendevano concessioni e favori, solidarietà e complicità. La politica era ridotta a mero potere; la selezione della classe politica non avveniva allargando la partecipazione dei cittadini al processo decisionale, ma consisteva nello scontro tra "camarille e combriccole".In ogni caso, nel Mezzogiorno, rapporti parentali, relazioni clientelari, pratiche trasformistiche sono i connotati essenziali dell'attività politico-amministrativa: essi accomunano i comportamenti delle tradizionali oligarchie fondate sulla proprietà terriera e gli atteggiamenti dei diversi ceti intermedi che emergono a nuove responsabilità pubbliche nei processi di liberalizzazione e di democratizzazione che preparano il pieno dispiegarsi della società di massa nel Novecento.
In questo senso il radicalismo tipico di una parte così significativa dell'intellettualità meridionale è conseguente alla difficoltà di rapporti verificabile nel Mezzogiorno otto-novecentesco tra struttura della proprietà e della produzione e forme innovative del ricambio sociale e politico. Il lento e faticoso allargamento dei confini sociali entro cui si formeranno i gruppi dirigenti locali e nazionali, nel passaggio dal notabilato agrario ai ceti intermedi urbani, non riuscirà a fornire un'alternativa credibile né sul terreno dei comportamenti e della riorganizzazione delle relazioni nella società civile, né su quello delle prospettive di rinnovamento politico.
Rappresentanza omogenea di una ristretta borghesia di proprietari terrieri, la deputazione meridionale nel Parlamento italiano si caratterizzerà, tra Ottocento e Novecento, per la spiccata vocazione a presentarsi "ministeriale con tutti i ministeri" e a schierarsi, prevalentemente, per le cause più arretrate e gli interessi più conservatori: a sostegno del tentativo reazionario di fine secolo e contro le aperture sociali e politiche del governo liberale dei primi anni del Novecento, stabile perno della maggioranza giolittiana a garanzia dei tradizionali equilibri politici e sociali nel Sud.
Sul finire degli anni ottanta si cumulano diversi processi che inducono un mutamento decisivo nel modello di sviluppo capitalistico italiano e l'avvio di un processo di industrializzazione destinato ad accrescere rapidamente i caratteri di modernità e di forza economica del paese, mentre gli effetti della crisi agraria europea, dopo l'unificazione del mercato mondiale dovuta alla diffusione delle comunicazioni marittime e ferroviarie, ridimensionano il ruolo dell'agricoltura italiana.
La scelta protezionistica del 1887 favorirà un determinato modello di industrializzazione, in cui risulteranno penalizzati settori nuovi come quello meccanico e intere aree territoriali come il Mezzogiorno. La tariffa tutelerà sia la cerealicoltura capitalistica del Nord che quella latifondistica del Sud. Il problema fondamentale per un processo di industrializzazione in un mercato aperto era costituito dal finanziamento delle importazioni necessarie per lo sviluppo economico e quindi dei mezzi per mantenere l'equilibrio della bilancia dei pagamenti. La risposta italiana o, se si vuole, l'arma segreta del capitalismo italiano per finanziare il suo sviluppo, sarà la trasformazione di una gran massa di contadini, prevalentemente meridionali, in emigranti produttori di reddito all'estero, invece che in coltivatori proprietari e quindi produttori consumatori all'interno (v. Bonelli, 1978).
Si sceglie così di porre l'agricoltura al servizio dell'industrializzazione, attraverso le rimesse degli emigranti piuttosto che attraverso più proficui scambi intersettoriali giocati sull'ampliamento del mercato interno. Anche a prescindere dalla reiterata interdipendenza tra settore primario e industria in espansione, non è possibile negare la connessione tra Nord e Sud proprio nello sviluppo del processo di industrializzazione. Un esempio significativo resta il sostegno all'apparato industriale settentrionale, colpito dalla crisi internazionale del 1907, grazie agli interventi della Banca d'Italia e alla liquidità assicurata dalle rimesse degli emigranti meridionali (v. Bonelli, 1971).
Il processo di industrializzazione si concentrerà nelle aree settentrionali contrassegnate da più elevati livelli di sviluppo nell'agricoltura e nella strutturazione civile della società e avvantaggiate da più facili scambi con i mercati europei avanzati. Il meccanismo di sviluppo industriale produrrà da questo momento effetti moltiplicativi nell'accrescimento dei ritmi di espansione delle aree industriali, accentuerà la forbice nelle ragioni di scambio tra derrate e manufatti e quindi tenderà ad accrescere progressivamente il divario tra Nord e Sud.
La storia successiva confermerà, attraverso notevoli trasformazioni, la correlazione tra i rapidi processi di industrializzazione e di sviluppo del Nord e l'avanzamento più lento del Mezzogiorno sulla strada dell'espansione e della modernità. L'interdipendenza squilibrata tra le due parti del paese sarà la costante fondamentale del particolare modo di sviluppo italiano.
Il protezionismo colpiva intanto il settore economico più avanzato del Mezzogiorno: le colture pregiate d'esportazione. La guerra doganale con la Francia faceva crollare la viticoltura, che si era diffusa in Puglia, con forti indebitamenti dei coltivatori, proprio per la forte domanda del mercato francese negli anni della crisi agraria.
Si sviluppa quindi l'orientamento liberistico che caratterizzerà gran parte della critica meridionalistica al processo di industrializzazione concentrato al Nord. La politica economica protezionistica viene liquidata senza appello: sarà definita nefasta per il futuro dell'economia e della società italiana e giudicata come l'effetto malsano della formazione di un blocco di potere industriale-agrario.
Antonio De Viti De Marco, economista e proprietario di colture pregiate, conia per il Mezzogiorno colpito dal protezionismo la definizione di "mercato coloniale", cui viene impedita sia la possibilità di vendere sul mercato internazionale i prodotti dell'agricoltura intensiva, che di acquistare all'estero manufatti industriali a minor costo. Insieme a Luigi Einaudi, a Fortunato e a tutto l'orientamento liberista, De Viti De Marco critica il modello di industrializzazione italiano come 'artificiale' e 'patologico', sia perché non rispondente ai canoni del liberismo, sia perché comporta l'aggravamento degli squilibri territoriali e settoriali.
La critica del protezionismo e dei blocchi sociali che ne erano considerati espressione e supporto (industriali del Nord e agrari del Sud, capitalisti e operai del Nord, latifondisti e piccola borghesia del Sud) caratterizzerà in maniera largamente omogenea quasi tutti i più autorevoli esponenti del meridionalismo. I quali peraltro saranno schierati, a cavallo del XX secolo, su posizioni politiche differenziate: il liberale Fortunato, il radicale De Viti De Marco, il socialista e poi democratico Gaetano Salvemini, il socialista e poi comunista Antonio Gramsci, il cattolico e popolare don Luigi Sturzo, il radicale e poi azionista Guido Dorso.
Si distingueranno invece per l'approvazione della scelta protezionista, in quanto fondamento di una necessaria industrializzazione italiana, il repubblicano Napoleone Colajanni, che confuterà le motivazioni pseudoscientifiche dell'interpretazione in chiave razzista della questione meridionale, e il radicale Francesco Saverio Nitti, che si batterà per un tendenziale riequilibrio in direzione meridionalistica del processo di industrializzazione e di modernizzazione produttivistica della società italiana.
Salvemini, con il progetto politico dell'alleanza tra operai del Nord e contadini del Sud, e Nitti, con il programma di industrializzazione meridionale, rappresentano i punti di vista più netti della critica meridionalistica alla politica di riformismo produttivistico, limitata all'area capitalistica settentrionale, condotta dai governi di Giuseppe Zanardelli e di Giovanni Giolitti al principio del Novecento.
La politica giolittiana, che guiderà gli anni della prima industrializzazione italiana, si adeguava ai precisi limiti territoriali posti all'espansione dei livelli produttivi e delle libertà democratiche e si mostrava insufficiente rispetto all'obiettivo politico e sociale di un tendenziale riequilibrio territoriale nel processo espansivo del paese.
Le libertà politiche e sindacali e il riformismo produttivistico, che accompagnano nel Centro-Nord la trasformazione industriale e la prima modernizzazione italiana, non hanno corso nelle province meridionali. Qui domina ancora, sul terreno sociale e politico, la proprietà fondiaria, che è inserita pienamente negli equilibri governativi nazionali. Ed è per questo che le organizzazioni e le lotte sociali dei contadini e degli operai meridionali sono escluse programmaticamente dal riconoscimento assicurato nella pianura padana alle libertà di associazione sindacale e di sciopero.
Negli anni dei governi giolittiani l'esercito italiano sarà invocato dai proprietari e dai deputati pugliesi e dislocato nelle aree calde, a più forte densità di braccianti, per garantire la tutela della libertà del lavoro. Non si tutelava invece la libertà di sciopero, viste le reiterate disposizioni governative che definivano associazioni a delinquere le leghe contadine. In questo senso un filo di continuità legava le lotte sociali nel Mezzogiorno giolittiano con il vasto movimento di braccianti, mezzadri, coltivatori scesi in lotta nella Sicilia del 1893 per il crescente disagio aggravato dalla crisi agraria: stato d'assedio e repressione militare erano state le risposte del governo di Francesco Crispi alle richieste e alle agitazioni dei Fasci siciliani.
L'analfabetismo di massa, il progressivo disfacimento del tessuto sociale nelle vastissime aree di emigrazione, la riduzione della politica a rapporti clientelari e il rifiuto quasi viscerale dei ceti dominanti meridionali di aprire stabili canali di comunicazione con le masse lavoratrici connotavano il quadro in cui si esprimeva, in scoppi improvvisi e incontrollati sanzionati dai ricorrenti 'eccidi proletari', il ribellismo delle masse subalterne meridionali. Si cercherà di arginare e canalizzare questo spontaneo e drammatico ribellismo, ai primi del Novecento, con una difficile e ingrata opera di organizzazione politica e sindacale che con Arturo Labriola e con Giuseppe Di Vittorio assumerà, specialmente tra i nuclei operai campani e nelle leghe bracciantili pugliesi, le forme radicali del sindacalismo classista e rivoluzionario, quanto più sarà spinta ai margini degli equilibri sociali, politici e territoriali garantiti dalla mediazione giolittiana.
All'inizio del XX secolo il Mezzogiorno si presenta come una realtà sempre più differenziata: arretrata lungo la dorsale appenninica, dinamica nelle aree costiere. Il più ampio processo di trasformazione capitalistica dell'agricoltura meridionale si era sviluppato nell'area pugliese, dove si era diffusa la grande azienda cerealicola, che si affiancava alla più antica pratica della coltivazione intensiva dei prodotti ortofrutticoli. Giardini, orti irrigui e seminativi arborati ricoprivano l'area costiera campana, tra le foci del Garigliano e del Sele. La Sicilia mostrava una rinnovata capacità d'espansione economica sostenuta dalle crescenti richieste di colture pregiate provenienti dal mercato mondiale. La favorevole congiuntura internazionale determinava la riorganizzazione delle strutture commerciali e una consistente crescita dei centri urbani.
La questione meridionale viene posta all'ordine del giorno dei lavori parlamentari, allo spuntare del nuovo secolo, anche per effetto della diffusa emozione suscitata dagli assassini di mafia nella città di Palermo e dalle malversazioni camorristiche nell'amministrazione di Napoli. Ne deriveranno la legislazione speciale per le aree meridionali, con la legge per la Basilicata del 1902 e la più efficace legge per l'incremento industriale di Napoli redatta da Nitti nel 1904, la costruzione dell'acquedotto pugliese, la ferrovia direttissima tra Napoli e Roma. E poi altri provvedimenti per le province meridionali nel 1906 e le disposizioni legislative del 1911 per la sistemazione idraulico-forestale dei bacini montani.
Questa legislazione innovava anzitutto rispetto al principio dell'uniformità e indicava la prospettiva di un intervento statale orientato a correggere gli squilibri territoriali aggravati dal più intenso ritmo del processo di industrializzazione concentrato al Nord. Risultavano di maggior valore ed efficacia quei provvedimenti che incidevano seppur parzialmente sulla struttura economico-sociale di aree determinate, come avveniva per l'incremento industriale di Napoli.
Lì dove invece ci si limitava alla distribuzione di lavori pubblici appariva fondata la critica liberistica di De Viti De Marco e di Fortunato, di Salvemini e di Labriola. Piuttosto che lo sviluppo del Sud, pareva essere obiettivo della legislazione speciale l'acquisizione del consenso e il controllo politico della società meridionale attraverso la distribuzione governativa di concessioni e di minacce di esclusione alle diverse aree, regioni e gruppi d'interesse.
Ma intanto la drammatica risposta delle popolazioni agricole meridionali, soprattutto delle vaste e destrutturate aree interne della collina e della montagna, assumeva la forma dell'emigrazione in massa verso le Americhe, del Sud e del Nord. Nel primo quindicennio del secolo, definito anche della 'rivoluzione industriale italiana' (v. Romeo, 1972), si contavano oltre quattro milioni di espatri ufficiali dal Mezzogiorno, di cui più della metà dalla Sicilia e dalla Campania.I contadini e gli artigiani del Sud si sottraevano così a un atavico destino di miseria e di indigenza, si inserivano in realtà più moderne, determinavano con la loro partenza un più equilibrato rapporto tra popolazione e risorse nel Mezzogiorno, dove crescevano per conseguenza i livelli salariali e miglioravano i rapporti contrattuali. Gli emigrati divenivano anche, con le rimesse, essenziali sostenitori della bilancia dei pagamenti italiana. Ma, oltre agli enormi costi umani di sradicamento e di separazione, andava messo nel conto il prezzo pagato dalla società e dall'economia italiana per una emorragia così larga di giovani energie e di forza lavoro.
La prima guerra mondiale contribuirà fortemente ad accrescere il divario tra Nord e Sud: le pressanti esigenze belliche determineranno un'accelerata espansione dell'industria pesante localizzata nel Settentrione e quindi la guerra alimenterà un flusso ininterrotto di trasferimento della ricchezza del paese lungo la direttrice Sud/Nord. Anche nel dopoguerra l'inflazione gioca a sfavore delle derrate meridionali nella ragione di scambio con i manufatti settentrionali e distrugge il capitale monetario dei piccoli risparmiatori depositato negli uffici postali del Sud. Negli anni venti poi si chiude la 'valvola di sfogo' dell'emigrazione in seguito al nuovo orientamento della legislazione nordamericana che blocca il flusso costante di meridionali verso gli Stati Uniti. Il tentativo più consistente di modernizzazione delle campagne meridionali negli anni del regime fascista fu perseguito con i progetti di bonifica integrale elaborati dalla tradizione produttivistica dei tecnici agrari formatisi prima della guerra nella scuola di Portici e orientati sugli indirizzi nittiano e socialriformista. La principale innovazione era costituita proprio dalla concezione generale di un'opera complessiva di trasformazione fondiaria, di riforma del territorio e dell'ambiente, all'interno della quale, sotto la guida esperta di Arrigo Serpieri, la bonifica integrale si proponeva di superare gli ambiti tradizionali del risanamento idraulico e della lotta alla malaria. La legislazione adottata tra gli anni venti e trenta non riuscì però a produrre gli effetti di rinnovamento agrario che si proponeva, perché si infranse contro la dichiarata opposizione degli agrari meridionali e contro la più coperta ma altrettanto decisa ostilità dei grandi gruppi industriali del Nord, che non gradivano l'investimento di cospicui capitali pubblici nell'ammodernamento dell'agricoltura del Sud.
Intanto la grave crisi che colpiva il sistema industriale e il sistema bancario italiano - dalla riconversione dell'industria bellica e dal crollo della Banca di sconto alla costituzione dell'IRI e dell'IMI - provocava una complessa serie di interventi pubblici che si configuravano "come una forma grandiosa di finanziamento pubblico a posteriori di una espansione industriale localizzata soprattutto nel Nord" (v. Saraceno, 1990, p. 163).
Seguendo la strategia che prevedeva la regolazione pubblica dell'economia per guidare la ristrutturazione dell'industria e della finanza italiana dopo la crisi del 1929, il presidente dell'IRI Alberto Beneduce affidava alla SME di Giuseppe Cenzato il compito di stimolare anche nel Mezzogiorno una crescita dell'industrializzazione sostenuta dallo Stato e incentrata nell'area napoletana, e di favorire il rinnovamento tecnologico e organizzativo del fragile apparato produttivo locale. In questo contesto si sviluppavano le iniziative assunte da Cenzato anche come presidente dell'Unione industriale napoletana: la costituzione della Fondazione politecnica del Mezzogiorno, la pubblicazione della rivista "Questioni meridionali" con Francesco Giordani e Gino Olivetti, il piano di ripresa industriale di Napoli, la redazione nel 1939 del primo piano regolatore per la città di Napoli.
Si trattava di una risposta parziale ai problemi del Mezzogiorno e all'esigenza di una crescita autonoma e diffusa dell'apparato produttivo e industriale locale. L'indiscutibile dinamismo attivato da queste forme di intervento appariva limitato dal preponderante ruolo della grande industria 'esterna' e legata allo Stato, rispetto alla piccola e media impresa locale, e dalla concentrazione dello sviluppo nell'area industriale campana (v. Bruno, 1994).
Prima della guerra l'attività industriale contribuisce per il 20% al reddito globale meridionale formato per il 45% dall'agricoltura, mentre nella media italiana, al 1938, l'attività industriale ha ormai superato, anche se di poco, il contributo del settore primario. Il ristagno complessivo del Mezzogiorno nel periodo fascista è segnalato dal calo del reddito medio per abitante, che corrisponde a circa la metà di quello settentrionale.
La guerra avrebbe provveduto a dissolvere gran parte degli impianti industriali campani con i bombardamenti alleati e con le distruzioni operate dai Tedeschi in ritirata. Minori danni avrebbe invece ricevuto l'industria del Nord, per cui anche per questa strada veniva acuito il divario tra le due parti del paese. Un altro elemento che aggravò drammaticamente le condizioni sociali e di vita del Mezzogiorno liberato dalle truppe alleate fu l'enorme inflazione determinata dall'immissione senza alcuna regolazione delle 'am-lire' con cui l'Italia pagava le spese degli eserciti di occupazione al Sud. Mercato nero, corruzione, criminalità, prostituzione devastarono ciò che restava delle città e delle campagne meridionali dopo l'infinita serie dei bombardamenti.
L'interdipendenza tra Nord e Sud e le modalità del meccanismo operante in un'economia dualistica a sfavore dell'area più debole, anche nelle circostanze straordinarie, appaiono evidenti dalla vicenda del 'piano di primo aiuto' alleato che doveva consentire le importazioni necessarie alla ripresa produttiva dell'Italia. Alla fine del 1944 furono messe a disposizione risorse che corrispondevano alla massa monetaria delle 'am-lire' poste in circolazione al Sud, accresciuta delle rimesse in dollari degli emigrati meridionali. L'obiettivo era di stimolare la ripresa della produzione nell'area meridionale liberata, ma la fine della guerra determinò la destinazione di questi finanziamenti alla riattivazione dell'apparato industriale concentrato al Nord (v. Saraceno, 1974).
La fine della guerra e l'istituzione della Repubblica rappresentano per il Mezzogiorno un momento di profonda svolta. Il blocco agrario meridionale, indagato e criticato da Salvemini e da Gramsci, da Sturzo e da Dorso, ne esce definitivamente scompaginato: sia per la riduzione, accentuata nel periodo tra le due guerre, del peso sociale degli agrari rispetto ai gruppi industriali e finanziari del Nord, sia per l'esplodere del malessere contadino nelle tante occupazioni delle terre incolte, a partire dal 1944. Il contributo dei contadini meridionali sarà decisivo anche per la scelta repubblicana del 1946: in un Mezzogiorno largamente schierato per la monarchia il voto repubblicano nelle aree tipiche del latifondo raggiungerà il 40%.
L'ampio movimento di lotta per la riforma agraria, acuitosi nel 1949, risulterà quindi determinante per l'adozione da parte del governo di provvedimenti parziali ma significativi di riforma agraria: la 'legge Sila' e la 'legge stralcio', che espropriava oltre 400.000 ettari non coltivati alla proprietà assenteista e li assegnava in piccoli lotti di circa sei ettari a circa 90.000 famiglie contadine. Gli effetti di queste leggi, limitati sul piano economico, furono di enorme rilievo sul terreno sociale e politico, perché posero fine al predominio della proprietà terriera nel Mezzogiorno.
Nel 1950 si chiudeva una storia plurisecolare che aveva visto la terra, le campagne, i feudatari, i proprietari, i contadini protagonisti del lento processo di inserimento delle province meridionali nella modernità dei processi economici, dei rapporti sociali, delle relazioni politiche, dei livelli culturali, della strutturazione civile. Le campagne, analizzate mirabilmente da Manlio Rossi Doria nella relazione al convegno azionista del dicembre 1944 dove Dorso indicava l'urgenza di rinnovare la classe dirigente meridionale, perdevano finalmente quella centralità ch'era stata una costante della storia del Mezzogiorno.
Negli anni della ricostruzione veniva elaborata un'originale prospettiva che si proponeva di modificare il modello di sviluppo, operante in Italia in senso fortemente dualistico a svantaggio del Sud. Questo progetto, che si realizzerà in modo parziale e distorto, riprendeva le indicazioni nittiane sull'industrializzazione del Sud. E, soprattutto, si poneva in continuità con la riflessione compiuta nell'IRI degli anni trenta sul Mezzogiorno come causa delle debolezze del sistema industriale e finanziario italiano e insieme strumento per superarle. Da questa esperienza venivano infatti Donato Menichella, Pasquale Saraceno e Francesco Giordani che, in perfetto accordo col ministro socialista dell'Industria e storico dell'economia Rodolfo Morandi, diedero vita nel 1946 alla SVIMEZ (Associazione per lo Sviluppo dell'Industria nel Mezzogiorno).
L'obiettivo era l'avvio di un processo di sviluppo del Sud fondato sull'industrializzazione. Per innescare il meccanismo autopropulsivo, che avrebbe dovuto modificare il vigente modello di economia dualistica, appariva indispensabile un intervento statale di carattere straordinario e addizionale, inteso a creare nel Mezzogiorno condizioni di convenienza per l'investimento industriale. La novità, rispetto alle precedenti posizioni meridionalistiche che avevano puntato sulla libertà del mercato o sulla rivoluzione sociale e politica, era nella proposta di un intervento di pianificazione statale gestito da un governo riformatore in direzione meridionalistica e industrialistica.
Questa prospettiva di rinnovamento strutturale del Mezzogiorno aveva bisogno per realizzarsi di una larga base di consenso politico, sociale e culturale. Le cose andarono in direzione opposta. Le ragioni internazionali della guerra fredda e i contrasti sociali e ideologici liquidarono la già precaria solidarietà politica tra i partiti democratici. Le prevalenti tendenze liberistiche, e sostanzialmente privatistiche, finirono per tutelare le ragioni e gli interessi - presenti nel Nord, nel Sud e nell'amministrazione statale tradizionale - di chi voleva conservare il modello di sviluppo vigente.
Lo strumento della nuova politica di intervento straordinario fu trovato nell'istituzione di un ente che avrebbe dovuto godere di una notevole autonomia decisionale e amministrativa, la Cassa per il Mezzogiorno. Questo organismo prendeva a modello la Tennessee Valley Authority, che aveva gestito lo sviluppo di un'area depressa secondo la politica del New Deal rooseveltiano, e risultava gradito ai dirigenti della Banca Mondiale che finanziavano un programma di investimenti per lo sviluppo del Mezzogiorno nell'ambito delle iniziative economiche a sfondo politico del Piano Marshall.
La legge istitutiva della Cassa per il Mezzogiorno fu presentata nell'estate 1950 dal presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e approvata con l'opposizione dei comunisti e dei socialisti. Sulla maggiore disponibilità del segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio era prevalsa la critica politica di Giorgio Amendola, che riprendeva l'opposizione liberistica alla legislazione speciale e giudicava insufficiente e parziale un intervento limitato agli aspetti economici e tecnici rispetto alla necessità di una profonda trasformazione sociale e politica di un'area vasta e complessa come il Mezzogiorno d'Italia.
Negli anni cinquanta e sessanta le ragioni e le proposte delle diverse posizioni meridionalistiche che si riconoscevano nel riformismo democratico e industrialista della SVIMEZ e nelle lotte sociali e politiche dei partiti di sinistra furono dibattute da due importanti riviste. "Nord e Sud", fondata da Francesco Compagna insieme a Vittorio de Caprariis, Rosario Romeo e Giuseppe Galasso, si richiamava al meridionalismo liberale e democratico di Croce e di Nitti, di Salvemini e di Dorso, e forniva un contributo rilevante a un'analisi aggiornata della società meridionale, con l'obiettivo di formare una moderna classe dirigente. "Cronache meridionali", diretta da Amendola, Mario Alicata e Francesco De Martino, riprendeva dal meridionalismo gramsciano la considerazione del carattere nazionale della questione meridionale e rivendicava, col supporto di indagini e di proposte, una linea di politica economica nazionale che puntasse allo sviluppo produttivo e civile del Sud.
Anche nella SVIMEZ emergono presto forti dubbi sulla 'politica dei due tempi', sulla distinzione cioè tra una prima fase infrastrutturale, di realizzazione di opere pubbliche come 'prerequisiti' dell'industrializzazione, e il successivo avvio di un processo di sviluppo industriale. Il timore, fondato, era che questo tipo di intervento favorisse il Nord più che il Sud, perché allargava la domanda di prodotti che il Mezzogiorno era in grado di acquisire solo dal Settentrione. Del resto l'industria privata del Nord e politici e tecnici liberisti non perdevano occasione per denunciare il carattere parassitario dell'industria che si voleva creare nel Mezzogiorno con il sostegno statale e criticavano aspramente la formazione al Sud di inutili 'doppioni' dell'industria settentrionale.
Così, nel primo quinquennio, la Cassa per il Mezzogiorno si occupò quasi esclusivamente di opere pubbliche: dalle infrastrutture civili alle bonifiche e irrigazioni per l'agricoltura. I finanziamenti per l'industria furono scarsissimi, mentre già l'intervento straordinario si configurava come 'sostitutivo' della spesa pubblica ordinaria, invece che 'aggiuntivo'. Il passaggio dalla progettazione alla gestione politica mostrava che la dichiarata prospettiva di sviluppo si limitava a una meno innovativa politica di opere pubbliche. Risultati di notevole rilievo si conseguivano però col miglioramento della produzione agricola nelle aree più avanzate: la 'polpa' rispetto all''osso' delle zone meno produttive (v. Rossi Doria, 1982).
Intanto scompariva il paesaggio tradizionale del Mezzogiorno agrario e contadino. Il grande esodo, accelerato dalla formazione del Mercato Comune Europeo e dallo sviluppo industriale dell'Italia del Nord, già sul finire degli anni cinquanta modificava profondamente il volto del Sud. Lo svuotamento progressivo delle campagne e delle zone interne provocava il rigonfiamento delle città, specie costiere, caratterizzate da prevalenti funzioni terziarie e burocratiche largamente parassitarie.
Le modificazioni più consistenti si realizzavano sul piano dei comportamenti socioculturali, grazie alla diffusione crescente dell'istruzione e delle comunicazioni di massa. Strade, istruzione e televisione rompevano definitivamente, dopo i grandi flussi migratori, un isolamento ch'era stato per secoli caratteristica del Mezzogiorno non solo interno. Ne uscivano profondamente rinnovati i comportamenti culturali e politici di massa. Ma queste larghe modificazioni nel paesaggio, nel costume, negli assetti sociali, nei livelli di vita, nelle espressioni culturali, negli atteggiamenti politici non si fondavano su un mutamento altrettanto profondo della strutturazione economica e quindi non riuscivano a consolidare un'adeguata conformazione civile e politica delle relazioni nella società meridionale.
Una seconda fase della politica dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno si aprì con la legge del 1957 sulle aree e i nuclei industriali e con l'obbligo per le imprese a partecipazione statale di collocare al Sud il 60% dei nuovi impianti. Finanziamenti agevolati e sgravi fiscali dovevano servire a diffondere l'installazione di piccole e medie industrie meridionali. Dopo alcuni anni questi incentivi furono estesi alla grande industria, privata e pubblica, che nel Sud realizzò alcuni grandi impianti siderurgici e petrolchimici, da Taranto a Brindisi, e poi l'Alfa Romeo a Pomigliano (Napoli). La fase dell'industrializzazione selettiva, nella seconda metà degli anni sessanta, si caratterizzò per l'ulteriore incentivazione dei pochi, grandi impianti dell'industria privata e delle partecipazioni statali, che rappresentano il frutto maggiore e più discusso della politica dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno.
La stagione degli investimenti industriali nel Sud si chiudeva rapidamente: un ruolo decisivo avevano svolto le partecipazioni statali, spesso in aspra polemica con l'industria privata, come nel caso dell'Alfa Sud. Si addensavano le critiche all'incapacità dei grandi impianti di favorire la diffusione di effetti propulsivi sull'ambiente circostante. Si parlava di 'cattedrali nel deserto', di 'modernizzazione senza sviluppo'.Intanto, nel primo ventennio della politica di intervento pubblico, che era stato una fase di sviluppo per l'intero paese, dalle regioni meridionali erano partiti altri quattro milioni di emigranti verso l'Europa e l'Italia del Nord: più o meno quanti erano espatriati verso le Americhe nella prima fase dell'industrializzazione italiana, durante il primo quindicennio del secolo.La crisi petrolifera del 1973 segna uno spartiacque nella politica dell'intervento straordinario al Sud. I finanziamenti pubblici non saranno più rivolti agli investimenti industriali e in genere produttivi, ma assumeranno un carattere assistenziale di sostegno al reddito delle persone. Contemporaneamente si realizzerà la politica di ristrutturazione industriale delle imprese settentrionali per sostenerne la concorrenzialità internazionale. Si aprirà così una fase che caratterizzerà in forme marcatamente assistenziali e clientelari l'intervento pubblico nelle regioni meridionali, e che andrà oltre la stessa conclusione della politica di intervento straordinario gestita dalla Cassa per il Mezzogiorno.
L'ultimo decennio del secolo si apre in gran parte delle regioni meridionali con caratteri che mostrano un'accentuazione dei problemi strutturali, delle contraddizioni interne e quindi del divario con le aree più sviluppate del paese e dell'Europa. Certo non si può parlare oggi di arretratezza per definire la condizione del Mezzogiorno d'Italia che, nel periodo repubblicano, si è comunque "agganciato al grande sviluppo economico dei paesi industriali e, sia pure in misura incompleta, inserito nell'economia europea" (v. Graziani, 1987, p. 202).
Siamo di fronte a un processo segnato, nella maggior parte del Sud, da una crescita economica relativamente consistente, ma ancora qualitativamente inadeguata a promuovere uno sviluppo equilibrato nei diversi ambiti strutturali, politici, culturali. L'espansione economica, sostenuta da un intervento statale consistente ma non orientato prevalentemente allo sviluppo produttivo, non ha determinato innovazioni strutturali nell'area tali da innescare un circolo virtuoso crescita economica-rinnovamento sociale-progresso civile. Si è avvitata sempre più, invece, una spirale negativa di finalità distorte e uso illecito delle risorse pubbliche, che ha prodotto il crescente degrado della convivenza civile.La diffusione di comportamenti illeciti e criminali nell'ultimo quindicennio ha indirizzato l'attenzione verso i nessi che legano i prerequisiti economici dello sviluppo a quelli più largamente culturali, morali, politici. I flussi di finanziamento pubblico non si possono più valutare solo in termini quantitativi, ma occorre una precisa analisi della direzione che prendono e dell'uso concreto che se ne fa. Diviene sempre più difficile collegare la massa cospicua di risorse pubbliche erogate con l'esiguità sconcertante dell'occupazione attivata.
I contrastanti processi di mutamento riconfermano la necessità di guardare con attenzione alle forme di interazione che, fin dall'unificazione, legano nel bene e nel male le due sezioni territoriali del paese. La ricorrente tentazione, sul terreno politico e anche storiografico, di segnare una netta linea di separazione tra le due parti del paese non trova fondati elementi di riscontro almeno per tutta la vicenda unitaria; che è stata, per ogni verso, un processo storico più che secolare di scambi di tutti i tipi, di interdipendenze cresciute nel tempo, di trasferimenti massicci di persone e di culture prima ancora che di flussi finanziari.
Il risultato più concreto della politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno repubblicano è stato la costruzione, in forme adeguate alla sua nuova caratterizzazione urbana, del consenso sociale al sistema di governo politico e amministrativo. Ci sono stati però altri beneficiari di questi consistenti flussi di spesa pubblica: anzitutto le grandi imprese, ma anche interessi economici e sociali più diffusi, collocati nel Nord del paese. L'intervento pubblico si proponeva di avviare lo sviluppo dell'industria meridionale, ma in realtà ha contribuito a formare un blocco di potere politico-amministrativo al Sud e ha sostenuto l'espansione dell'industria settentrionale, grazie alla crescente domanda di prodotti proveniente dal Mezzogiorno sussidiato tramite il sostegno ai redditi individuali.
Il benessere materiale e la diffusione dei consumi privati nel Mezzogiorno sono stati pagati con il degrado dei servizi pubblici e con la dissoluzione della legalità e delle regole che fondano la convivenza civile. La drammatica peculiarità della questione meridionale negli ultimi decenni è consistita nel nesso che stringe economia assistita, controllo politico delle risorse pubbliche, esautoramento delle sedi e delle forme del controllo amministrativo, illegalità diffusa, fino ad aprire varchi agli interessi illeciti nella stessa legislazione di emergenza, che dalla riparazione dei danni del terremoto in Campania e Basilicata si è estesa a tutti i lavori pubblici.
Nell'ultimo ventennio si è accentuata all'interno del Mezzogiorno la divaricazione fra aree maggiormente integrate in una dinamica di crescita (Abruzzo, Molise, Basilicata e parte della Puglia) e intere regioni sempre più lontane da prospettive di sviluppo e colpite da una devastante disoccupazione (Campania, Calabria, Sicilia e parte della Puglia).
Le decisioni politiche, le pratiche amministrative, gli interessi economici hanno largamente funzionato in gran parte del Sud come ostacoli allo sviluppo, innalzando barriere alla definizione di relazioni sociali ed economiche trasparenti ed efficienti. La classe politica di governo e gli amministratori locali sono quindi intervenuti nella carenza di un tessuto sociale organizzato in forme associative e solidaristiche e hanno costruito un sistema di interazioni che ha legato scelte politiche, decisioni amministrative, forze economiche, gruppi sociali intorno a determinati interessi particolari, spesso illeciti.
In questo contesto si è determinata l'espansione della criminalità organizzata, modernizzata e inserita nei circuiti internazionali, pur con i vecchi nomi di mafia, camorra e 'ndrangheta. Anch'essa è riuscita a intrecciare abilmente politica, economia e società, con un controllo sempre più esteso del territorio. In un quadro così deteriorato il problema della criminalità è il problema della riorganizzazione civile del Mezzogiorno e dell'intero paese attraverso una ridefinizione delle relazioni a livello sociale e politico e, prima ancora, dell'etica dei comportamenti personali.
Il lungo periodo segnato dalla politica di intervento straordinario nel Mezzogiorno si è chiuso definitivamente nella primavera del 1993 quando, per evitare il previsto referendum abrogativo, un decreto del governo ha riportato la spesa per il Sud alla competenza dei ministeri e delle amministrazioni ordinarie.
Intanto le inchieste giudiziarie portavano alla luce una mappa spaventosa di cointeressenze tra politici, affaristi e criminali, svelando i caratteri e il funzionamento di un sistema di potere politico-criminale che aveva governato e amministrato, con un ampio consenso sociale, larga parte del Mezzogiorno ed era stato il principale ostacolo interno allo sviluppo produttivo e civile di gran parte del Sud nella prima fase della storia dell'Italia repubblicana.
(V. anche Contadini; Disoccupazione; Dualismo economico; Incentivi economici; Latifondo; Migratori, movimenti; Sottosviluppo).
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