Sottosviluppo
Il termine 'sottosviluppo' viene generalmente usato per definire lo stato di un paese o di una regione considerato, sotto uno o più aspetti, inferiore rispetto a quello di paesi o regioni assunti come termine di paragone, in base a indici numerici o a valutazioni qualitative. Il confronto può riguardare le caratteristiche economiche, sociali, culturali, politiche o il loro assieme e il termine di paragone è rappresentato da quei paesi che, secondo i criteri adottati, sono considerati sviluppati. Così, ad esempio, per quanto riguarda gli aspetti economici, se il criterio adottato è il prodotto nazionale lordo pro capite, si fissa un suo valore come soglia e, mentre i paesi che si trovano al di sopra di essa sono considerati sviluppati, quelli che si trovano al di sotto sono considerati tanto più sottosviluppati quanto più il loro prodotto pro capite è inferiore a quel valore. Se questo criterio viene ritenuto inadeguato a cogliere tutte le caratteristiche dello sviluppo e del sottosviluppo economico, il confronto tra paesi o regioni diventa più complesso per la difficoltà di trovare una misura soddisfacente delle caratteristiche significative. Queste difficoltà aumentano grandemente quando dagli aspetti economici si passa a quelli sociali, politici, culturali. Poiché molto spesso il passaggio dallo stato di sottosviluppo a quello di sviluppo è stato visto come 'progresso dalla tradizione alla modernità', come termine di paragone sono stati assunti i paesi dotati di istituzioni economiche e sociali e di ordinamenti politici 'moderni', identificati essenzialmente con il mercato e con la democrazia politica. Il sottosviluppo consisterebbe, dunque, nell'assenza o nella scarsa diffusione o nel cattivo funzionamento di queste istituzioni e ordinamenti, e nella sopravvivenza di istituzioni e di comportamenti tradizionali.
Il concetto di sottosviluppo, definito in negativo come assenza delle caratteristiche proprie di un paese sviluppato, ha le sue radici più lontane nella contrapposizione tra civiltà e barbarie. Nell'antichità classica e nel Medioevo cristiano, tuttavia, l'atteggiamento dei popoli e delle culture europee che si ritenevano civili nei confronti dei barbari o degli infedeli era variabile e contraddittorio e, in particolare, mancava l'idea del progresso come passaggio dalla barbarie alla civiltà (v. Bury, 1920). È solo nell'età moderna, dopo la scoperta dell'America, che l'Europa si definisce compiutamente rispetto al mondo esterno, l'uomo europeo conosce 'l'altro', contrapponendolo a sé come 'arretrato', e inizia l'elaborazione dell'idea di progresso come legge storica di movimento dell'umanità, delle sue conoscenze, delle sue istituzioni verso il meglio (v. Sachs, 1976). Il problema dell'identificazione delle origini degli abitanti del Nuovo Mondo venne affrontato confrontando i loro costumi con quelli propri di popoli europei o mediterranei in epoche lontane, quali risultavano dai racconti degli storici antichi. Questa comparazione, mettendo in evidenza affinità vere o immaginarie tra i popoli 'selvaggi' e i progenitori dei popoli europei, portò a concludere che, nel corso dei millenni, i primi erano 'rimasti indietro' rispetto al cammino della civiltà percorso dai secondi: essi erano, dunque, 'arretrati'.
D'altra parte, le grandi scoperte scientifiche del XVII secolo aprono la via all'idea di un processo storico che non è soltanto un ritorno a ideali e a valori classici dopo l'eclissi dell'età di mezzo, come si pensava nel Rinascimento, ma acquisizione di nuove conoscenze che rovesciano e sostituiscono vecchie convinzioni. Questa idea di progresso si estende gradualmente dal campo della conoscenza scientifica a quello delle istituzioni sociali e politiche, portando alle grandi costruzioni teoriche dell'illuminismo e del positivismo ottocentesco: il progresso diventa così non più un fenomeno sempre reversibile, una fase alla quale si alternano stasi e decadenza, ma una legge della storia umana. Una manifestazione fondamentale di questa legge è il progresso economico che, con l'affermarsi di filosofie materialistiche e utilitaristiche, viene sempre più spesso assunto come indice privilegiato del progresso sociale.
I diversi modi con i quali l'uomo si procaccia i mezzi per la sua sussistenza e riproduzione diventano gli elementi determinanti degli aspetti di una società, ed essi si succedono nel tempo come 'stadi' di un processo, dall'economia di raccolta e di caccia fino a quella commerciale e industriale, che porta a una sempre maggiore divisione del lavoro, a una più ampia produzione, alla creazione di crescente ricchezza. Mentre questi stadi si susseguono in ordine temporale ed evoluzionistico come tappe dello sviluppo dell'intera umanità, le caratteristiche di ciascuno o di parte di essi definiscono, in un ordine logico-spaziale, economie diverse coesistenti nello stesso momento storico: alcune di esse sono già pervenute allo stadio più avanzato, altre sono rimaste arretrate.
Il metodo comparativo, nato con la discussione sulle origini dei popoli del Nuovo Mondo, diventa così un sostegno all'idea dello sviluppo progressivo e, più precisamente, all'idea che i modi di organizzazione delle economie e delle società dell'Occidente indicano la direzione nella quale tutta l'umanità si muove e verso la quale dunque dovrebbero muoversi le economie e le società che, in confronto alle prime, si possono definire sottosviluppate (v. Nisbet, 1969).
Se il concetto di sottosviluppo e la sua definizione hanno origini lontane nella contrapposizione tra popoli barbari o arretrati e popoli civili o progrediti, in economia il problema dell'arretratezza si può dire venga tematizzato dopo la rivoluzione industriale inglese, nella fase della sua prima parziale estensione ad altri paesi europei e agli Stati Uniti. Si afferma in questo periodo la convinzione che l'espansione della produzione manifatturiera sia il motore dello sviluppo economico ed è sulla base di questo presupposto che List (v., 1841) enuncia per la prima volta una classificazione dei paesi secondo il loro grado di sviluppo, contrapponendo all'economia dell'Inghilterra, definita un'economia "predominante", le economie di quei paesi, appartenenti alla zona temperata, che possono considerarsi nel breve o medio periodo "industrializzabili" e che, come gli Stati Uniti, mirano, o, come la Germania, dovrebbero mirare, mediante opportune politiche nazionali, a diventare economicamente indipendenti. List raggruppa, infine, in una terza categoria i paesi, appartenenti alle zone calde, che per un lungo periodo avrebbero dovuto ancora fondarsi sull'agricoltura e sull'esportazione dei suoi prodotti in una inevitabile, ma a suo parere non necessariamente dannosa, posizione di dipendenza da quelli industrializzati.
Le analisi e le indicazioni di politica economica in senso nazionale e protezionista di List erano ovviamente dirette ai paesi compresi nella seconda categoria, cosicché si può dire che esse vennero a costituire l'ideologia dei 'second comers', ossia di quei paesi che, relativamente arretrati rispetto all'Inghilterra, cercarono di seguirla sulla via dell'industrializzazione o la raggiunsero nella fase della 'seconda rivoluzione industriale'.
I paesi che List riteneva non adatti all'industria erano, in parte, da poco usciti dalla posizione di colonie europee con sistemi produttivi, commerciali e finanziari deboli e dipendenti (America Latina), erano ancora colonie (Indie Orientali) o lo sarebbero diventate dopo pochi decenni in seguito alla 'corsa all'Africa' delle potenze europee. Furono proprio questi paesi, esclusivamente o prevalentemente agricoli o produttori di materie prime, che, dopo la seconda guerra mondiale, diventarono un problema per la comunità internazionale e un oggetto specifico di studio per gli economisti. Le conseguenze della crisi degli anni trenta e della guerra in America Latina e la decolonizzazione dell'Africa e dell'Asia fecero apparire sulla scena internazionale movimenti politici, governi e nuovi Stati che, al di là delle più appariscenti formulazioni ideologiche, condividevano una comune tendenza nazionalistica e una forte aspirazione allo sviluppo imperniato prevalentemente sull'industrializzazione. D'altra parte, il perfezionamento dei metodi statistici e della contabilità nazionale e il loro impiego da parte dell'Organizzazione delle Nazioni Unite e delle sue agenzie permisero di confrontare, come non era stato possibile fino ad allora, i prodotti nazionali e le altre macrograndezze economiche più significative dei diversi paesi e di misurare quindi il dislivello che separava i paesi sviluppati da quelli che vennero chiamati sottosviluppati. Il sottosviluppo e le politiche per superarlo diventarono oggetto di una branca dell'economia, l'economia dello sviluppo, che, come ebbe a scrivere uno dei suoi principali esponenti, "si occupa della struttura e del comportamento delle economie dove il prodotto pro capite è inferiore a 200 dollari USA del 1980" (v. Lewis, 1984).
Da allora il concetto di sottosviluppo è stato definito e analizzato essenzialmente con riferimento a quei paesi che, già colonie o semicolonie dell'Europa, dopo la rivoluzione industriale non sono riusciti a raggiungere i livelli di crescita economica dei paesi industrializzati. Essi sono stati anche definiti da alcuni autori paesi 'periferici', per indicare la loro posizione marginale e subordinata all'interno di un sistema mondiale gerarchico che vede al suo centro i paesi più industrializzati (v. Prebisch, 1950; v. Wallerstein, 1974-1980), o 'paesi in via di sviluppo', espressione che sottolinea una tendenza delle loro economie a convergere verso quelle sviluppate, ma che suona eufemistica per alcuni di essi. Infine, alcune organizzazioni internazionali li classificano in diverse fasce a seconda del livello del prodotto nazionale lordo pro capite basso, medio basso, medio alto (v. World Bank, 1996) o definiscono 'meno sviluppati' quelli che presentano i livelli di reddito più bassi (v. UNCTAD, 1996).
Se si adotta il metodo comparativo e si accoglie la teoria degli stadi, il sottosviluppo può essere considerato come lo 'stadio originario' di ogni società ed economia. Riferendoci a quel confronto tra i 'selvaggi' del Nuovo Mondo e gli antichi popoli europei e mediterranei dal quale è iniziato il comparativismo, si potrebbe concludere che "al principio tutto il mondo era come l'America" (v. Meek, 1976) e che i paesi ancor oggi sottosviluppati sono semplicemente all'inizio o nelle prime fasi dello sviluppo già da tempo percorse e superate da altri. Occorre però allora spiegare perché, nello stesso periodo, possano coesistere paesi che si trovano in fasi diverse del processo di sviluppo e, in particolare, perché ancor oggi esistano paesi in condizioni di sottosviluppo.Una spiegazione che si basa sul concetto di razza, come sottospecie umana distinguibile in base a caratteri morfologici, biologici e culturali, individua la causa del sottosviluppo di un paese o di una regione nell'appartenenza dei suoi abitanti a una razza i cui componenti non presentano le attitudini necessarie perché abbiano origine e continuino nel tempo processi di crescita e di sviluppo come quelli che hanno caratterizzato il mondo occidentale nell'età moderna.
Questa tesi, argomentata talora in base ad indagini sulle capacità intellettuali di appartenenti a gruppi etnici diversi, è stata utilizzata soprattutto per spiegare l'arretratezza dei paesi o delle regioni abitate da popolazioni africane o di origine africana. Già nella classificazione di Linneo queste erano descritte di carattere "subdolo, pigro, irresponsabile", in confronto all'uomo europeo "attivo, di mente sveglia, un esploratore" (v. Menozzi, 1980). Un'altra spiegazione privilegia il fattore climatico; in particolare si sostiene che, poiché i paesi più sviluppati si trovano oggi prevalentemente nelle aree temperate e queste sono state anche in passato la culla delle maggiori civiltà, tale tipo di clima deve considerarsi, se non l'unica, certo una condizione essenziale per lo sviluppo (v. Huntington, 1915). A queste tesi si obietta che l'attribuzione delle innegabili diversità tra i gradi di sviluppo economico, sociale e civile nelle diverse popolazioni a differenze biologiche innate e permanenti non è mai stata dimostrata, mentre le differenze culturali sono frutto della storia e quindi mutevoli; quanto al clima, la maggiore o minore difficoltà che esso comporta per il soddisfacimento dei bisogni essenziali dell'uomo può aver influito sul modo in cui questo, in diverse situazioni, organizza le attività volte alla propria sopravvivenza e anche sulla complessiva organizzazione della società, ma questo fattore è solo uno dei tanti e sempre meno influente con il progredire delle tecniche (v. Sylos Labini, 1983).
Un diverso approccio al tema è quello che spiega i dislivelli tra paesi diversi con gli ostacoli che in alcuni di essi si opporrebbero all'avvio di un processo di sviluppo. Il primo tipo di ostacoli, riconducibile in ultima analisi a fattori religiosi o, più generalmente, culturali, consiste nell'assenza dei valori e delle motivazioni che promuovono lo sviluppo e, quindi, nella presenza di comportamenti individuali sfavorevoli all'acquisizione, alla competizione, all'innovazione. Esemplari a questo proposito le ricerche volte a mettere in evidenza la correlazione in diversi periodi tra crescita economica e diffusione dell'aspirazione al successo riflessa nelle fonti letterarie del tempo (v. McClelland, 1973).Il secondo tipo di ostacoli è rappresentato dalle "barriere economiche" (v. Hagen, 1962), consistenti principalmente nella scarsità di risparmio e nella ristrettezza del mercato, entrambe dipendenti dal basso livello dei redditi che dà luogo a un circolo vizioso, dato che la mancanza di risparmio e la non profittabilità degli investimenti rendono impossibili le innovazioni che aumenterebbero la produttività e, quindi, il reddito (v. Nurkse, 1958).
Queste spiegazioni del sottosviluppo sono più ampiamente accettate e meglio argomentate di quelle basate sulla razza o sul clima ma, a loro volta, rinviano a un altro ordine di cause. Se, infatti, il sottosviluppo di una parte del mondo dipende dalla mancanza di determinate condizioni economiche, sociali, culturali, ci si deve chiedere quali sono le ragioni di questa mancanza. Scartate le spiegazioni razziali o climatiche, la risposta più essere trovata soltanto nella storia (v. Sylos Labini, 1983).
Spiegare il sottosviluppo con la storia significa negare la sua natura di stato originario per ricercarne le cause negli avvenimenti e nei processi che, nel corso dei secoli, hanno mutato le capacità produttive e le forme di organizzazione delle economie e delle società dei diversi paesi, i valori, le motivazioni, i comportamenti dei loro abitanti. Questi avvenimenti e processi hanno avuto effetti diversi, avvantaggiando alcuni paesi e svantaggiandone altri, creando in alcuni le condizioni dello sviluppo e determinando in altri la stagnazione o la decadenza. Già Smith, illustrando l'importanza che per il progresso e la ricchezza dei paesi manifatturieri e commerciali d'Europa avevano avuto la scoperta dell'America e del passaggio del Capo di Buona Speranza, rilevava, per contrasto, "le terribili sventure" che questi avvenimenti avevano arrecato ai popoli delle Indie Orientali e Occidentali (v. Smith, 1776). Egli, quindi, identifica nell'espansione dell'Europa al di fuori dei propri confini un fattore storico che aveva determinato una divaricazione tra gli andamenti economici di diversi paesi.
Le ricerche volte a misurare le tendenze della produzione, dei commerci, dei redditi nell'età moderna e in particolare a confrontarne i livelli nelle diverse parti del mondo prima e dopo la rivoluzione industriale sono giunte alla conclusione, pur circondata da una cautela giustificata dalla scarsità dei dati e dalle difficoltà delle comparazioni, che nel XVII e XVIII secolo gli scarti del livello di vita per abitante tra una nazione e l'altra erano dell'ordine di 1,0 a 1,5-1,6. Questo scarto si riduce ulteriormente confrontando vasti spazi economici, cosicché esso risulta minimo quando si confrontano tra loro, ad esempio, l'Europa occidentale, la Cina e l'India (v. Bairoch, 1981). I risultati ottenuti dall'elaborazione dei dati statistici disponibili trovano una conferma nelle testimonianze dei viaggiatori, saggisti, precursori della contabilità nazionale di quel tempo, e in quanto di quelle diverse civiltà è arrivato fino a noi.
La situazione cambia con la rivoluzione industriale: nella seconda metà del Settecento i suoi effetti aumentano gradualmente i livelli della produzione manifatturiera pro capite in Inghilterra e la sua diffusione sul continente e oltreoceano li raddoppia, tra il 1800 e il 1860, per l'insieme dei paesi europei e dell'America settentrionale; mentre tali valori diminuiscono continuamente, fino ai primi decenni del Novecento, nei principali paesi coloniali, semicoloniali o di recente indipendenza, che verranno poi chiamati sottosviluppati (v. Bairoch, 1971). La divaricazione degli andamenti della produzione manifatturiera è una delle principali cause del dislivello che viene a crearsi tra le diverse parti del mondo, dislivello che tende ad aggravarsi nel periodo che va dalla metà dell'Ottocento alla metà del Novecento (v. Kuznets, 1958). A questa data un primo approssimativo confronto tra i redditi medi delle principali aree del mondo rivelerà che un abitante del Nordamerica godeva di un reddito pari a sei volte quello medio del Sudamerica, a quattordici volte quello dell'Africa, a ventidue volte quello dell'Asia (v. United Nations, 1951).Possiamo quindi concludere che, se la spiegazione del sottosviluppo si deve ricercare nella storia, gli eventi storici che segnano l'inizio e l'intensificarsi dei processi di differenziazione tra mondo sviluppato e mondo sottosviluppato sono la nascita degli imperi e delle colonie europee oltreoceano e la diffusione dell'industria nei paesi dell'Occidente.
Le grandi scoperte geografiche delle quali parla Smith segnano l'inizio dell'età moderna e del lungo processo di trasformazione che porta al tramonto di quelle società che vengono chiamate tradizionali. Prima d'allora il mondo era diviso in regioni grandi e piccole, sconosciute alcune agli abitanti delle altre e collegate tra loro, quelle note, da rapporti radi e difficili. Ciascuna di queste aree, dal punto di vista economico, è indipendente dalle altre, perché, anche se tra alcune di esse si svolgono scambi consistenti e risalenti addietro nel tempo, tali rapporti hanno una funzione marginale e la loro influenza non è tale da modificare profondamente la struttura e il funzionamento dell'economia e della società. L'Europa occidentale e centrale è una di queste aree, divisa in regni, principati, città libere che, con la rinascita dopo il Mille, sono sempre più connesse tra loro da movimenti di merci e di persone. Le altre parti del mondo, note o ignote, si possono considerare 'aree esterne' a essa. Nelle diverse aree le attività economiche, i rapporti sociali, l'organizzazione politica presentano forme diverse: mentre in Europa prevale ancora il feudalesimo, seppur nel suo seno siano già apparsi in embrione i nuovi soggetti sociali che saranno protagonisti della transizione al capitalismo, in Asia e in alcune regioni di quella che verrà chiamata America esistono grandi imperi con una struttura sociopolitica complessa, dove una classe dominante impone alla popolazione tributi e prestazioni di lavoro e monopolizza attività manifatturiere e commerci, mentre in Africa, in Oceania e in altre regioni dell'America prevalgono società con forme di organizzazione molto semplici, fondate sui rapporti di parentela, e con economie di sussistenza. Il mondo premoderno, quindi, presenta una grande varietà di forme nelle quali i diversi popoli organizzano le attività produttive, i commerci, le istituzioni sociali, il potere politico, riconducibili ad alcuni 'idealtipi', o, in termini marxiani, modi di produzione, ciascuno caratterizzato da una propria logica interna, da specifiche contraddizioni e conflitti, che imprimono a ciascuno di essi un maggiore o minore dinamismo.
In Europa, dopo la fase di crescita demografica ed economica dei primi tre secoli del secondo millennio, le carestie, le epidemie, le guerre e i conflitti sociali che si susseguono dopo la metà del XIV secolo sembrano il segno che il modo di produzione feudale è entrato in crisi, dopo aver raggiunto il punto culminante della sua espansione che ne aveva evidenziato i limiti e scatenato le contraddizioni interne (v. Wallerstein, 1974-1980). Ma la contrazione della popolazione e della produzione non porta alla stagnazione prolungata o alla decadenza: gli Stati nazionali che vanno formandosi, dopo il tramonto dell'idea imperiale e la sia pur parziale ricomposizione della frammentazione feudale, la borghesia cittadina dei mercanti, lo sviluppo di un nuovo spirito laico e critico che mette in dubbio valori, credenze e comportamenti del passato aprono una nuova epoca. I limiti che bloccano lo sviluppo - scarsità di terre dopo la colonizzazione dei secoli precedenti, vincoli delle corporazioni, ostacoli ai traffici con l'Oriente determinati dalle conquiste ottomane, scarsità di metalli preziosi per finanziare i governi e le guerre - spingono alla ricerca di terre nuove e di risorse fuori dal continente, a evadere le regolazioni corporative, a sperimentare nuove rotte per il commercio. Con le grandi scoperte geografiche e la creazione di insediamenti, colonie e imperi europei in varie parti del mondo, mentre in Europa inizia la transizione verso il capitalismo, in stretta connessione con questo processo si delineano le prime maglie di un tessuto di rapporti che gradualmente unirà aree un tempo separate e indipendenti in un unico mercato.
Le organizzazioni tradizionali dell'economia che un tempo caratterizzavano le diverse parti del mondo vengono distrutte o subordinate al modo di produzione che si sta affermando in Europa occidentale, il modo di produzione capitalistico, che attraverso successive fasi di sviluppo unirà il mondo in un sempre più integrato sistema economico. Questo sistema economico ha una struttura gerarchica che, alle origini, vede ai suoi estremi un centro, costituito dalle economie dell'Europa occidentale, e una periferia, composta dai paesi da essa dominati economicamente e politicamente, ed è a queste origini che si può fare risalire l'inizio della divaricazione tra aree che avevano presentato in passato livelli di sviluppo assai simili (v. Volpi, 1994).
La formazione di un mercato e di un sistema economico mondiale è un processo storico che si prolunga nei secoli attraverso tappe e punti di svolta: dalla scoperta del Nuovo Mondo, che dà inizio agli scambi tra le due sponde dell'Atlantico, e dalla circumnavigazione dell'Africa che apre la via delle Indie Orientali, alla rivoluzione industriale che spinge i paesi industrializzati alla ricerca di fonti di materie prime e di mercati per i loro manufatti, alla rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni che rende più veloci, più ampi e meno costosi i movimenti delle merci, degli uomini e delle informazioni, ai quali si aggiungono in misura crescente i flussi dei capitali, all'affermazione delle grandi società transnazionali e alle reti di imprese che portano a quella che oggi viene chiamata 'globalizzazione' dell'economia.
Al nucleo originario si aggiungono nel corso del tempo nuove aree già a esso esterne: il centro si rafforza e la periferia si amplia e si diversifica. Paesi che furono imperi potenti decadono e vengono smembrati e sottomessi, paesi che furono colonie si sviluppano e si industrializzano ed entrano a far parte del centro del sistema. La storia del sottosviluppo è la storia della periferizzazione di una grande parte del mondo, e i diversi percorsi seguiti dai paesi che sono o furono periferici e sottosviluppati dipendono in gran parte dai modi e dai tempi della loro inclusione nel mercato e nel sistema economico mondiale.
La spiegazione del sottosviluppo in base alla storia deve, quindi, tener conto oltre che delle caratteristiche economiche, sociali, culturali di ciascun paese prima della sua subordinazione ai paesi del centro, di tre principali elementi: la fase di sviluppo del capitalismo durante la quale esso entrò a far parte della periferia; le forme della sua subordinazione e, in particolare, il modo in cui esso venne colonizzato, come colonia di popolamento o di sfruttamento, e da quale paese europeo; il ruolo che ogni paese o area periferica ebbe nel mercato e nel sistema economico mondiale. A seconda dei casi, il divario rispetto ai paesi sviluppati è più o meno aumentato, si sono determinati in misura diversa processi di modernizzazione, si sono create in diverso grado condizioni favorevoli allo sviluppo. Come questi diversi elementi abbiano concorso a determinare il sottosviluppo può essere illustrato esaminando tre casi significativi: quello dell'America Latina, quello dell'India, quello dell'Africa subsahariana.
La colonizzazione dell'America Latina. - I paesi dell'America Latina, considerati in via di sviluppo e classificati dalle statistiche internazionali tra le economie a reddito medio basso o medio alto, presentano notevoli dislivelli tra loro e al loro interno. Due aspetti, tuttavia, li accomunano: il fatto di essere stati tutti colonizzati dai regni iberici di Spagna e Portogallo e di essere tutti sottosviluppati se, come termine di confronto, si assume l'America settentrionale, ossia le regioni di quel Nuovo Mondo, colonizzate da Olandesi, Inglesi e Francesi, che, insieme alle regioni centrali e meridionali, dopo la loro scoperta costituirono la prima periferia dell'Europa. Il caso dell'America Latina può quindi essere preso come esempio dell'importanza che le caratteristiche della colonizzazione hanno avuto nel determinare il fenomeno del sottosviluppo. Tre di queste caratteristiche appaiono particolarmente rilevanti: le origini sociali dei colonizzatori, le forme di distribuzione e di possesso della terra, la modalità di organizzazione e di mobilitazione della forza lavoro.
La colonizzazione spagnola e portoghese fu opera, soprattutto in una prima fase, prevalentemente di militari, di funzionari, di nobili, spesso cadetti, che rifuggivano dall'esercizio del lavoro manuale e portavano con sé oltreoceano valori e comportamenti propri del mondo feudale ancora molto più vivi nei loro paesi rispetto a quanto fossero, nello stesso periodo, in Olanda o in Inghilterra. L'emigrazione che si ebbe in seguito non fu libera, ma controllata dal centro e volta a escludere eretici e non conformisti, ossia proprio quelle minoranze che ebbero un ruolo così importante nello sviluppo della Nuova Inghilterra (v. Sylos Labini, 1983).
Tutti i paesi europei introdussero nel Nuovo Mondo istituzioni di tipo feudale, ma mentre nelle colonie inglesi e francesi queste ebbero applicazione più limitata e breve vita e vennero presto sostituite da forme moderne di possesso e sfruttamento della terra, in quelle spagnole e portoghesi la concessione della terra a conquistatori, a nobili e a funzionari portò alla formazione di grandi latifondi che, nonostante le trasformazioni economiche e sociali e le riforme attuate dopo il raggiungimento dell'indipendenza, hanno lasciato fino a oggi un segno profondo nella struttura dell'agricoltura (v. Bagù, 1949).
Per coltivare la terra e sfruttare le miniere, i colonizzatori cercarono di utilizzare le popolazioni locali riducendole in servitù, ma dove la loro inadattabilità o resistenza o la loro scarsità determinarono carenza di manodopera si ricorse in misura crescente, via via che si estendevano le piantagioni di zucchero e di caffè, all'importazione di schiavi africani.
Di conseguenza, la struttura sociale delle colonie spagnole e portoghesi fu estremamente polarizzata, con uno strato superiore composto dai grandi latifondisti, dai funzionari regi, dall'alto clero, mentre all'estremo inferiore stava la grande massa dei servi e degli schiavi. Il mercato interno era quindi molto ristretto: le attività agricole e minerarie si indirizzavano prevalentemente all'esportazione dei prodotti alimentari e delle materie prime, trasportate in Europa dalle compagnie commerciali in cambio dei manufatti europei per il consumo dei ceti abbienti e degli schiavi africani per le piantagioni. L'economia latinoamericana dipendeva, quindi, interamente dal mercato internazionale e mancava delle condizioni necessarie per la nascita di una borghesia rurale e cittadina - di quella classe di proprietari coltivatori, di artigiani e di commercianti che, nello stesso periodo, si sviluppava nelle regioni nordorientali del continente, dove erano affluiti coloni intraprendenti, si erano formate la piccola e media proprietà, e il lavoro libero e la disponibilità di terra consentivano retribuzioni relativamente alte e un mercato interno in espansione.
Gli Stati indipendenti, nati dopo i primi decenni dell'Ottocento, ereditarono questa struttura sociale ed economica e un sistema fiscale basato quasi esclusivamente sulla tassazione degli scambi con l'estero.Una fitta rete di ditte commerciali inglesi si stabilì in breve tempo, conquistando una posizione pressoché monopolistica nel commercio di esportazione e di importazione. Le spese pubbliche connesse con l'edificazione delle strutture statuali e con le frequenti guerre e, in seguito, l'inizio delle costruzioni ferroviarie, a fronte delle fluttuazioni delle entrate fiscali, legate agli andamenti del commercio internazionale, e della carenza di capitali interni, resero cronici i disavanzi dei bilanci statali, costrinsero i governanti a indebitarsi sul principale mercato finanziario, quello di Londra, e aprirono la strada alla penetrazione finanziaria inglese. Solo alla fine dell'Ottocento e solo in alcuni paesi e regioni si avranno le prime fasi di modernizzazione dell'agricoltura e le prime iniziative industriali (v. Carmagnani, 1975).
Decadenza e deindustrializzazione dell'India. - Il processo attraverso il quale l'inserimento nel mercato mondiale, la subordinazione al monopolio commerciale dei paesi del centro e, infine, la concorrenza dei prodotti manufatti dopo la rivoluzione industriale portarono alla crisi delle economie tradizionali e al sottosviluppo può essere ben illustrato dal caso dell'India. Già Smith ricorda il governo della Compagnia delle Indie Orientali come esempio di una politica di oppressione che, riducendo i fondi destinati al mantenimento del lavoro, faceva sì che un paese fertile come il Bengala fosse afflitto da bisogno, fame e mortalità e sempre meno in grado di mantenere la sua popolazione (v. Smith, 1776).
La Compagnia inglese, partendo dalle prime concessioni commerciali agli inizi del Seicento, aveva gradualmente eliminato i concorrenti portoghesi, olandesi e francesi, estendendo la sua influenza e assicurandosi infine il controllo su quasi tutto il subcontinente, che alla metà dell'Ottocento passò sotto l'amministrazione diretta del governo britannico. L'economia indiana, come tutte le economie tradizionali, era basata prevalentemente sull'agricoltura, dalla quale le comunità di villaggio traevano la loro sussistenza e lo Stato i tributi, riscossi dagli Zemindar, una classe di funzionari concessionari della terra per il periodo della loro carica, che prelevavano ai contadini una percentuale del raccolto. Esisteva però anche una fiorente attività manifatturiera, organizzata in fabbriche con tecniche basate sulla divisione del lavoro, promossa dalle autorità centrali e da esse diretta mediante sovrintendenti. Anche i commerci interni e internazionali erano molto intensi e i mercanti indiani, con quelli arabi ed egiziani, avevano rapporti con i paesi dell'Estremo e del Vicino Oriente, dai quali parte delle merci arrivava in Europa.
La penetrazione europea portò inizialmente alla decadenza della classe dei grandi commercianti, sostituiti dalle compagnie commerciali portoghesi, olandesi e, infine, inglesi. Quando poi ai primi insediamenti costieri succedette l'occupazione o il controllo di intere regioni, l'agricoltura indiana venne interamente ristrutturata, e dopo la rivoluzione industriale anche le manifatture decaddero e quasi scomparvero per lungo tempo. La Compagnia delle Indie, per coprire le spese della sua amministrazione, passò dal tradizionale tributo proporzionale al raccolto a un'aliquota su un imponibile fisso che prescindeva dai variabili andamenti annuali e, dovendo individuare i contribuenti nei proprietari, come accadeva per la land tax inglese, attribuì i titoli di piena proprietà agli Zemindar, che da semplici concessionari divennero liberi di disporre della terra e, quindi, di venderla. La commerciabilità della terra portò alla concentrazione della proprietà fondiaria, mentre i contadini, diventati affittuari, poterono essere sfrattati e spesso, in annate cattive, si trovarono a dover ricorrere agli usurai per pagare l'affitto e provvedere alla sussistenza. Si formarono, quindi, le classi dei grandi proprietari, dei contadini senza terra e dei commercianti usurai; la tradizione del lavoro comune per provvedere ai lavori idraulici e le forme di redistribuzione proprie delle comunità di villaggio vennero meno. La popolazione agricola fu così esposta alle conseguenze delle inondazioni e delle siccità: nel 1770 si ebbe la prima grande carestia del Bengala nella quale morì un terzo della popolazione (v. Edwardes, 1961).
Fino alla rivoluzione industriale l'India era stata grande esportatrice di tessuti in Europa: ancora nel 1814 il valore delle esportazioni di tessuti indiani in Inghilterra era stato di 1.300.000 sterline dell'epoca, mentre l'India nello stesso anno importava tessuti inglesi per sole 26.000 sterline. Lo sviluppo dell'industria tessile inglese e le leggi che discriminavano le manifatture locali invertirono i rapporti tra i due paesi. Il mercato venne invaso dai più convenienti manufatti europei, e nel 1835 l'India importava tessuti inglesi per 400.000 sterline mentre ne esportava soltanto per 100.000 (v. Barratt Brown, 1974). Si estendevano, invece, le piantagioni di cotone, determinando così quella specializzazione produttiva che, qui come altrove, faceva dei paesi della periferia i fornitori di materie prime per l'industria dei paesi del centro.
Se si confronta l'India coloniale con l'India anteriore alla dominazione inglese e si ricordano le stime di Bairoch sui divari di reddito tra l'Europa e gli imperi asiatici prima della rivoluzione industriale (v. § 3b), quello dell'India appare un caso esemplare di sottosviluppo come risultato della crisi e della decadenza di una società, di un'economia e di una civiltà paragonabili a quelle europee, crisi determinata dall'inserimento del paese nel mercato e nel sistema economico mondiale in posizione periferica. Non tutti gli osservatori e i commentatori del colonialismo inglese giudicavano nel secolo scorso i suoi effetti sull'India da questo punto di vista. Marx, in particolare, nell'ambito della sua visione dei processi storici di transizione tra diversi modi di produzione, considerava la conquista britannica dell'India come un fattore di progresso, perché avrebbe determinato la distruzione delle vecchie forme di organizzazione dell'economia e della società, l'affermazione di rapporti sociali capitalistici e, di conseguenza, lo sviluppo delle forze produttive, del quale egli vedeva un primo segno e un fattore trainante nell'inizio delle costruzioni ferroviarie (v. Marx, 1853).
Indubbiamente il governo britannico, dopo lo scioglimento della Compagnia delle Indie, introdusse nella colonia istituzioni e procedimenti amministrativi e giudiziari moderni, promosse la formazione di funzionari locali, concesse gradualmente limitate forme di autonomia e di partecipazione agli affari pubblici che consentirono all'India, al momento dell'indipendenza, di poter contare su una struttura statale abbastanza efficiente e fondata sull'accettazione dei principî democratici almeno da parte degli strati più colti della popolazione. Alla fine dell'Ottocento, inoltre, l'afflusso di capitali europei aveva segnato l'inizio di una ripresa economica, sia in campo agricolo che nello sfruttamento delle risorse minerarie e nell'industria tessile.Le conseguenze di secoli di subordinazione e di decadenza economica restavano, tuttavia, gravissime e l'India indipendente iniziava il suo cammino con uno dei redditi pro capite più bassi del mondo e con povertà e denutrizione di massa nelle città e nelle campagne.
L'Africa subsahariana dalla tratta degli schiavi alla colonizzazione. - L'Africa subsahariana fu l'ultima parte del mondo a cadere sotto il dominio delle potenze europee, che ne concordarono la spartizione al congresso di Berlino del 1885. Vaste regioni del continente, particolarmente quelle affacciate sull'Atlantico, erano tuttavia già da tempo entrate a far parte del mercato mondiale svolgendovi, a partire dal Seicento e fino ai primi decenni dell'Ottocento, la funzione di fornitrici di schiavi per i paesi sull'altra sponda dell'oceano. La tratta, iniziata dai portoghesi, era diventata un'impresa lucrosa per le compagnie commerciali e per i mercanti indipendenti, particolarmente inglesi, via via che si erano estese in America le piantagioni di zucchero, di caffè e di cotone: l'insufficiente offerta di forza lavoro indigena, l'ostilità dei conquistatori verso il lavoro manuale, gli ostacoli all'emigrazione, le difficili condizioni climatiche delle aree tropicali e, infine, soprattutto il basso costo del lavoro degli schiavi rispetto a quello dei lavoratori liberi avevano aumentato continuamente la domanda dei piantatori, che raggiunse le punte più alte nella seconda metà del Settecento. Quanti neri siano stati catturati dai razziatori dello stesso colore, quanti siano stati imbarcati dai mercanti europei e quanti, infine, siano arrivati vivi sui luoghi di destinazione non è certo, ma le varie stime si aggirano intorno ai 12 milioni di individui venduti e acquistati negli scali africani per tutto il periodo della tratta (v. Coquery-Vidrovitch, 1985).
Le dimensioni del fenomeno, ampie se si tiene conto che l'Africa era poco popolata, spiegano la gravità degli effetti che esso ebbe sull'economia e sulla società del continente. Sotto l'aspetto demografico, per i paesi dell'Africa occidentale è stato calcolato che l'esportazione degli schiavi abbia pareggiato la crescita naturale della popolazione, mantenendola stagnante e impedendone quell'aumento che viene considerato per i paesi europei uno degli stimoli principali alla crescita economica dopo il Mille e allo sviluppo agricolo e industriale iniziato nel Settecento (v. Klein e Lovejoy, 1970).
Sotto l'aspetto economico, il commercio negriero stimolò nei paesi africani la caccia e l'impiego degli schiavi anche dove precedentemente la schiavitù non esisteva o presentava aspetti particolari, simili a quelli propri della servitù domestica o della famiglia allargata. Quando nell'Ottocento la domanda dei mercanti europei si contrasse e gradualmente si esaurì in seguito alle leggi e agli accordi internazionali che vietavano la tratta, e l'industria europea non cercò più in Africa schiavi ma nuove fonti di materie prime, l'offerta eccedente trovò uno sbocco nelle piantagioni e nelle miniere locali. Ciò contribuì a mantenere basso il costo del lavoro libero, limitando la capacità di consumo e la formazione dei mercati interni. Dal punto di vista sociale e politico, la spinta a procurarsi schiavi determinò la formazione di Stati negrieri dove la classe dominante, scambiando con gli Europei schiavi con armi da fuoco, accrebbe il suo potere, favorì l'assoggettamento delle popolazioni più pacifiche, con strutture di tipo comunitario, ai regni guerrieri, rese più frequenti le guerre tra i diversi Stati per procurarsi prigionieri da vendere, e incrementò le rivalità tra etnie diverse.
Il pieno inserimento dell'Africa subsahariana nel sistema economico mondiale si ebbe soltanto con l'occupazione europea, che portò a profondi cambiamenti nelle strutture sociali e nell'economia del continente. Anche se le potenze coloniali europee adottarono forme di governo e di amministrazione diverse tra loro e spesso differenziate per ciascuna potenza nelle varie parti del proprio impero, si trovarono tutte e ovunque di fronte al problema di conciliare l'esigenza di affermare il loro dominio in regioni vastissime e su popolazioni molto disperse sul territorio con la scarsità di quadri metropolitani ai quali affidare il mantenimento dell'ordine, la gestione dell'economia, la riscossione dei tributi. Così, dopo aver tracciato al tavolo delle trattative e delle conferenze internazionali dei confini ai propri domini che ignoravano le realtà etniche, culturali ed economiche preesistenti, ogni potenza, sia che seguisse la politica del governo 'indiretto' preferita dalla Gran Bretagna, sia che si proponesse di creare una struttura amministrativa simile a quella metropolitana, come fece la Francia nelle sue colonie occidentali, doveva necessariamente tener conto nei suoi rapporti con la popolazione rurale, che costituiva ovunque la maggioranza, delle strutture sociali e delle gerarchie tradizionali. Con gli organi di governo e di amministrazione europei continuarono quindi a convivere istituti, rapporti di potere, legami di lealtà preesistenti e tuttavia deformati dal fatto che il ruolo di figure come i re, i sultani, i capivillaggio assumeva un carattere ambiguo di rappresentanti di esigenze e culture locali e insieme di strumenti del potere coloniale. La diffusione dell'istruzione e la formazione di moderni quadri indigeni fu limitata a poche aree urbane, soprattutto là dove la Francia svolse una politica di assimilazione culturale.
La funzione economica dell'Africa fu, fino al momento dell'indipendenza, quella di fornitrice di prodotti agricoli tropicali e di materie prime; gli investimenti direttamente produttivi o rivolti alle infrastrutture furono molto limitati e diretti a questo obiettivo. In alcune regioni i sistemi di possesso della terra e l'organizzazione della produzione restarono sostanzialmente immutati, e lo sfruttamento delle risorse ebbe come principale soggetto le compagnie commerciali; altrove ampie estensioni di terreno, espropriato e acquistato a prezzi irrisori, vennero date in concessione a società europee agricole o minerarie; in poche aree, come il Sudafrica, la Rhodesia, il Kenya, si ebbe una limitata immigrazione di coloni bianchi che respinsero le popolazioni indigene verso l'interno o le isolarono in riserve (v. Wallerstein, 1985). Ovunque la rete del commercio interno, regionale e interregionale venne sconvolta dalla frontiera coloniale, dagli spostamenti della popolazione e dalla riorganizzazione della produzione: la costruzione di strade e ferrovie venne progettata in funzione del commercio estero e provvide quindi ai flussi di merci dall'interno ai porti, trascurando le comunicazioni tra le regioni interne.
Le nostre conoscenze sulla storia antica dell'Africa subsahariana sono ancora limitate, e gli effetti della conquista e della dominazione europea ci appaiono meno drammatici della distruzione degli Imperi indiano, azteco o incaico, ma certamente la tratta degli schiavi, prima, e le forme della colonizzazione, poi, impedirono il manifestarsi di condizioni favorevoli allo sviluppo. Qui non si ebbe né la nascita di una borghesia commerciale, rurale e manifatturiera come nelle colonie di popolamento inglesi dell'America settentrionale o dell'Oceania, né la formazione di strati sociali colti e illuminati come in India. Al momento della decolonizzazione l'Africa presentava tutti i caratteri del sottosviluppo e una permanente dipendenza economica dai paesi industrializzati, soprattutto da quelle che erano state le potenze coloniali.
Quando il problema del sottosviluppo si impose all'attenzione delle organizzazioni internazionali e dei governi e venne tematizzato dagli economisti, secondo le prime approssimative stime che abbiamo già ricordato (v. § 3b), i residenti nelle grandi aree geografiche distinte dall'America settentrionale, dall'Europa e dai paesi socialisti, e definibili sottosviluppate in base al confronto tra i dati medi del reddito, rappresentavano circa il 75% della popolazione mondiale. Oggi le statistiche delle Nazioni Unite distinguono dalle economie sviluppate, con il 15% della popolazione mondiale, e da quelle già socialiste in transizione verso l'economia di mercato, con il 7%, i paesi 'in via di sviluppo', con il 78% (v. United Nations, 1996). In prima approssimazione, anche se le due classificazioni non sono comparabili rigorosamente, le dimensioni del fenomeno in termini di popolazione che vive in condizioni di sottosviluppo non sembrano sensibilmente mutate nel mezzo secolo trascorso dalle prime rilevazioni. A una più accurata osservazione, tuttavia, i paesi esclusi dal ristretto club dei più ricchi, spesso compresi sotto l'ambigua etichetta di 'Terzo Mondo', mostrano marcate disparità di livelli e di tendenze che rendono poco significativo e fuorviante considerarli come un insieme omogeneo.
Una prima disaggregazione di questo insieme si può ottenere utilizzando l'indicatore del grado di sviluppo economico tradizionalmente impiegato, ossia il prodotto nazionale lordo pro capite in dollari USA, prescindendo qui dagli errori di valutazione e dai limiti di significatività che tale indice presenta. È così possibile distinguere, in base ai dati del 1994, un numero di paesi a basso reddito con prodotti pro capite che vanno dagli 80 ai 720 dollari, un gruppo di paesi a reddito medio-basso fino a un massimo di 2.820 dollari, e uno, più ristretto, a reddito medio-alto che arriva fino a 8.260 dollari. Tuttavia, se le differenze tra i valori medi dei tre gruppi sono molto forti, sensibili, come si vede, appaiono anche i divari tra paese più ricco e paese più povero di ciascun gruppo, mentre ulteriori differenze vengono alla luce quando si prendano in considerazione altri dati e indicatori riportati nelle statistiche internazionali (v. World Bank, 1996; v. UNDP, 1996).Tra i paesi a basso reddito, ad esempio, è compresa la Cina, che presenta, nel decennio 1985-1994 un tasso annuo di crescita del prodotto nazionale del 7,8%, mentre per la gran parte dei paesi dello stesso gruppo i valori sono negativi. Paesi di pari reddito hanno tassi di alfabetizzazione e speranze di vita alla nascita molto diversi, che rivelano un divario sia nelle condizioni di vita delle popolazioni sia nelle loro potenzialità economiche. Variano anche, tra paese e paese della stessa classe di reddito, gli indicatori macroeconomici (come il tasso di inflazione o il peso del debito estero) che dipendono sia dalle caratteristiche strutturali di ciascuno di essi sia dalle politiche seguite dai rispettivi governi.
Questa eterogeneità esisteva in parte anche nel passato, e in parte si è accentuata come effetto dei diversi percorsi seguiti nello scorso cinquantennio dalle economie, dalle società, dai sistemi politici dei diversi paesi, che hanno determinato anche spostamenti nelle posizioni inizialmente occupate dalle varie aree geografiche nella graduatoria dello sviluppo: mentre le stime dell'immediato dopoguerra assegnavano all'Asia il posto più basso, le statistiche attuali ci indicano nell'Africa il continente più povero.
Se queste considerazioni impediscono di trattare il sottosviluppo come un fenomeno presente nello stesso modo e misura in tutto quello che è stato chiamato 'Terzo Mondo', è tuttavia possibile delineare, mediante l'analisi delle caratteristiche strutturali dei paesi che ne fanno parte, una sorta di 'idealtipo' del paese sottosviluppato, i cui elementi si ritrovano, seppur in numero e grado diversi, in ciascuno di essi. Queste caratteristiche riguardano la struttura dell'economia e il ruolo che essa svolge nel sistema mondiale, le forme della società, il tipo e il funzionamento dei sistemi politici.
La struttura produttiva del tipico paese sottosviluppato è caratterizzata dalla prevalenza dei settori primari, agricoltura e attività estrattive, che impiegano la maggior parte della forza lavoro e contribuiscono per una quota rilevante alla formazione del prodotto nazionale. Tra questo carattere e il basso livello del reddito esiste un duplice nesso causale: da un lato, il basso livello dei redditi comporta una domanda rivolta prevalentemente ai beni di consumo più necessari, quali i prodotti alimentari, dall'altro, esso si spiega con la struttura della produzione, caratterizzata dalla mancanza o dalla ristrettezza dei settori a più elevata produttività.Tale struttura, a sua volta, ha alle sue origini, come si è visto (v. cap. 4), la specializzazione produttiva determinatasi dopo la rivoluzione industriale, per l'operare congiunto del colonialismo e del mercato mondiale: dipende, dunque, dalla posizione periferica occupata dai paesi sottosviluppati nel sistema economico mondiale. A seconda della prevalenza delle attività agricole o di quelle estrattive e in relazione al prodotto primario prevalente, variano le caratteristiche economiche e sociali di un paese. L'aspetto comune è la forte dipendenza dalle esportazioni verso i paesi industrializzati del centro e, quindi, dagli andamenti delle loro economie, particolarmente rilevanti quando, come spesso avviene, la specializzazione assume la forma di monocoltura.
L'agricoltura presenta in media livelli di produttività molto bassi. Ciò dipende in alcune aree (Africa subsahariana) dall'estensione dell'agricoltura di sussistenza che non produce per il mercato, impiega tecniche tradizionali e manca di infrastrutture e di servizi alla produzione, in altre (America Latina) dalla grande proprietà latifondista (che spesso convive con quella di sussistenza) generalmente a coltura estensiva e parzialmente lasciata incolta. Le colture e le aziende dove si è concentrato il progresso tecnico e che hanno raggiunto livelli di produttività più elevati sono quelle per l'esportazione, sviluppatesi spesso a danno delle colture tradizionali per il consumo interno. È questa una delle cause che costringono paesi agricoli (specialmente africani), un tempo autosufficienti dal punto di vista alimentare, a dipendere per la soddisfazione dei bisogni fondamentali dalle importazioni o dagli aiuti dei paesi industrializzati. Diversa e migliore rispetto al passato è la situazione di quei paesi asiatici dove prevale la piccola azienda contadina introdotta dalle riforme agrarie del dopoguerra (Corea, Taiwan) o dallo scioglimento delle grandi aziende collettive (Cina), o dove è stata sperimentata con successo la 'rivoluzione verde' (India, Filippine: v. World Bank, 1983).
L'industria, nei paesi che hanno sviluppato in qualche misura questo settore, produce prevalentemente beni di consumo (alimenti, bevande, vestiario) e, a un livello più avanzato, beni di consumo durevole, semplici attrezzi e strumenti meccanici, materiali da costruzione. In questi paesi l'attività manifatturiera è, per una parte considerevole, organizzata in piccole attività produttive - chiamate 'informali' in quanto sfuggono alle norme che disciplinano il mercato e le condizioni del lavoro, l'accertamento e la riscossione dei tributi, le norme edilizie e urbanistiche - e in imprese private e molto spesso pubbliche, promosse dalle politiche volte a sostituire le importazioni con prodotti nazionali. Nei paesi dove, a causa delle loro dimensioni, il mercato interno è più vasto, le risorse più abbondanti, la dipendenza dal mercato esterno minore (come la Cina, l'India, il Brasile), l'industrializzazione si è estesa a molti settori, compreso quello dei mezzi della produzione, e le catene produttive comprendono molte o tutte le fasi della lavorazione: in questi casi esiste un vero e proprio sistema industriale, anche se esso non è in grado, se non per i prodotti a basso costo, di competere con i paesi più industrializzati. Dove, invece, l'industria è limitata a pochi poli o enclaves ed è costituita da fasi decentrate delle multinazionali, non si può parlare di un vero sistema industriale, in quanto le imprese esistenti hanno scarsi rapporti e legami tra loro e spesso 'fanno sistema' con settori produttivi localizzati all'estero. L'industria, in questi casi, appare 'disarticolata' e gli investimenti spesso producono i loro effetti moltiplicativi all'estero piuttosto che all'interno del paese (v. Amin, 1975). Un altro aspetto importante è la carenza di capacità imprenditoriali, manageriali e tecniche, conseguenza della struttura sociale che questi paesi hanno ereditato dal passato coloniale, della limitata estensione dell'istruzione, nonché della scarsità delle risorse dedicate alla formazione e alla ricerca. Le conseguenze sono la dipendenza da tecnologie importate dall'estero, le difficoltà di adattarle e utilizzarle in modo efficace, il ricorso frequente a imprenditori, tecnici e personale specializzato straniero.
Il graduale inserimento delle diverse parti del mondo nel sistema economico capitalistico ha diffuso ovunque le forme moderne dello scambio, ma in molte regioni sottosviluppate i mercati sono ancora incompleti e frammentati e sopravvivono forme tradizionali di circolazione. La mancanza di linee di comunicazione e la limitatezza delle informazioni restringono gli scambi dei prodotti entro confini locali, i mercati del lavoro sono quasi assenti dove prevale un'economia di sussistenza basata sull'autoconsumo, il risparmio viene raccolto e prestato mediante reti di solidarietà familiari e tribali o istituzioni informali, e mancano o sono poco ramificati i moderni strumenti di intermediazione finanziaria.
Sulla distribuzione del reddito i dati statistici sono incompleti e frammentari. Ciò che sappiamo, tuttavia, conferma la convinzione che nella maggior parte dei casi la distribuzione è più diseguale di quanto non sia nei paesi più industrializzati, con una elevata concentrazione del reddito negli strati più alti e una grande parte della popolazione con redditi inferiori alla media. L'aspetto più importante di questa distribuzione tuttavia non è tanto la diseguaglianza tra le diverse fasce di reddito, quanto il fatto che il reddito delle fasce inferiori è spesso al di sotto di quel minimo che viene convenzionalmente considerato la 'linea della povertà'.
I poveri costituiscono così una componente spesso maggioritaria della popolazione, specialmente di quella rurale, sia nei paesi con i valori più bassi del prodotto nazionale pro capite sia in quelli che si trovano in una posizione intermedia (specialmente alcuni dell'America Latina). Solo in alcuni paesi che hanno compiuto una profonda riforma agraria il fenomeno della povertà è relativamente ridotto e la distribuzione del reddito più egualitaria (Cina, Corea, Taiwan).
La coesistenza di agricoltura tradizionale di sussistenza e colture tecnicamente avanzate per l'esportazione, l'esistenza di aree industriali, prevalentemente urbane, poco collegate all'insieme dell'economia nonché la distribuzione fortemente diseguale del reddito sono alla base di un fenomeno che è stato oggetto di molte analisi e discussioni: il dualismo. Esso consiste nella presenza di aree geoeconomiche fortemente differenziate entro i confini dello stesso paese. All'origine della differenza sta la politica coloniale, che privilegiava le colture agricole e le altre attività economiche orientate all'esportazione, costruiva centri commerciali e infrastrutture a esse funzionali e favoriva la creazione di élites indigene docili o assimilabili, emarginando dal processo di sviluppo e di modernizzazione la maggior parte del paese. Il divario tra aree e strati della popolazione è stato spesso accentuato dalle politiche seguite dopo il raggiungimento dell'indipendenza e, in particolare, dal modo in cui è stata attuata, molto o poco, l'industrializzazione, che ha portato a una rapida e disordinata urbanizzazione e alla stagnazione nelle campagne. La concentrazione dei redditi nelle fasce più alte, d'altra parte, e l'effetto di dimostrazione hanno portato alla diffusione di modelli di consumo occidentali che stimola l'importazione di beni non necessari o la creazione di imprese nazionali che li producono, mentre per la popolazione impiegata nei settori tradizionali e per i poveri delle città i consumi bastano appena, quando bastano, a soddisfare le necessità elementari.
Infine, tra le caratteristiche economiche del sottosviluppo si può elencare la tendenza strutturale al disavanzo della bilancia dei pagamenti e all'indebitamento con l'estero. La causa principale di questo fenomeno si può ritrovare nell'interazione tra la specializzazione produttiva ereditata dal passato e lo sforzo di industrializzazione e modernizzazione degli ultimi decenni. Quando un paese sottosviluppato si propone di sostituire le importazioni di manufatti esteri con la produzione nazionale, la costruzione di un'industria moderna implica l'importazione di impianti e macchinari. Per acquisire la valuta necessaria ad acquistare questi beni capitali e i beni di consumo richiesti dai nuovi strati sociali urbani è indispensabile in una prima fase espandere al massimo l'esportazione dei prodotti primari nei quali il paese è specializzato. Ciò, tuttavia, incontra numerosi ostacoli: la tendenza alla caduta delle ragioni di scambio tra prodotti primari e manufatti, la sostituzione di materie prime agricole con prodotti chimici nell'industria dei paesi industriali, le politiche adottate per proteggere l'industria nascente che penalizzano l'agricoltura disincentivando la produzione. La preferenza data alle colture per l'esportazione e le errate politiche agricole, inoltre, portano a una restrizione della produzione per il consumo interno, spingendo all'importazione anche di prodotti alimentari, con effetti cumulativi di dipendenza dall'estero, dato che le abitudini alimentari tendono a modificarsi comprendendo in misura sempre maggiore beni che, per ragioni climatiche, non possono essere prodotti all'interno. Il deflusso di risorse causato dai disavanzi commerciali è poi aggravato da eccessi nelle spese pubbliche e militari dei governi e dall'esportazione o 'fuga' di capitali che, per mancanza di impieghi remunerativi all'interno, per scopi speculativi o per ragioni di sicurezza si dirigono all'estero. Il ricorso all'indebitamento, che, come abbiamo visto, per alcuni paesi dell'America Latina è iniziato con la loro indipendenza (v. § 4b), diventa necessario e determina squilibri macroeconomici difficilmente sanabili.
Nell'immaginario collettivo il sottosviluppo è associato alla sovrappopolazione e alla fame che spesso viene, a sua volta, attribuita all'eccesso di bocche da sfamare. In realtà, fino a quando un paese non inizia processi di crescita economica e di modernizzazione, il saggio di natalità è più o meno compensato da quello della mortalità, molto elevato rispetto ai paesi più sviluppati a causa delle cattive condizioni igieniche e sanitarie. D'altra parte, l'aumento della popolazione in Europa dopo il Mille e nel Settecento viene considerato dagli storici un fattore che ha stimolato lo sviluppo. L'eccezionale aumento della popolazione mondiale, più che raddoppiata dal 1950 al 1990, è determinato in massima parte dalla crescita demografica dei paesi meno sviluppati (v. Birdsall, 1991), e dipende dalla divaricazione verificatasi in questi paesi tra tassi di natalità, rimasti immutati o ridotti poco e lentamente, e tassi di mortalità fortemente diminuiti per effetto dei progressi della medicina e della diffusione di misure preventive igieniche e sanitarie. Questi fattori hanno agito molto rapidamente, mentre le condizioni economiche, la struttura produttiva, l'istruzione, i valori e le mentalità prevalenti nella società, che influenzano i tassi di natalità, sono mutati in misura minore e assai diversa nei diversi paesi.
In particolare, nei paesi dove l'industria moderna non ha messo radici e i principali mezzi di sostentamento si trovano nell'agricoltura di sussistenza, nelle attività informali, nelle occupazioni precarie, e dove mancano sistemi previdenziali e assicurativi, l'elevata natalità è favorita dal fatto che i figli svolgono ancora un ruolo positivo nella formazione del reddito come coadiuvanti familiari e una funzione assicurativa per gli anziani.
In questi paesi, gli ostacoli che hanno bloccato o rallentato lo sviluppo hanno impedito il formarsi del circolo virtuoso tra andamenti demografici e andamenti economici che aveva caratterizzato, soprattutto dopo la rivoluzione industriale, i processi di sviluppo nel centro del sistema mondiale fornendo, in una prima fase, l'abbondante offerta di forza lavoro necessaria all'industria e determinando in seguito, come conseguenza delle migliori condizioni di vita, una flessione della natalità. Si deve inoltre notare che, nel secolo scorso, in alcuni paesi e regioni europei, caratterizzati da uno sviluppo più lento, l'eccesso della popolazione rispetto alle possibilità di impiego produttivo era stato in parte assorbito dai grandi flussi migratori verso paesi extraeuropei con abbondanza di terre e di occasioni di lavoro, come l'America, l'Australia, la Nuova Zelanda, mentre questa tendenza è oggi difficile e contrastata.
Le differenziazioni già rilevate tra diversi paesi e aree della periferia si ritrovano anche nei loro andamenti demografici che, d'altra parte, confermano il ruolo giocato da fattori economici e socioculturali. Il tasso di crescita della popolazione, infatti, è diminuito più marcatamente negli anni novanta rispetto al decennio precedente nei paesi dell'Est asiatico, che hanno registrato i migliori risultati economici, è in flessione anche nell'America Latina, che in gran parte comprende paesi a medio reddito, è il più elevato nell'area più povera, l'Africa subsahariana, è cresciuto nei paesi a religione musulmana dell'Africa settentrionale e del Medio Oriente.
La società sottosviluppata presenta due principali caratteristiche: forte polarizzazione e limitata mobilità sociale. Mentre nei paesi sviluppati le differenze e i confini tra le diverse classi tendono ad attenuarsi e a sfumare, in quelli meno sviluppati i divari e gli steccati tra i ceti detentori della ricchezza e del potere e la gran parte della popolazione permangono ampi ed elevati.
Essi dipendono, assumendo forme e presentando gradi diversi nei diversi paesi, dalle strutture economiche di ciascuno di essi, dalle modalità dei processi di trasformazione in corso e dalla distribuzione del reddito che, come abbiamo visto, è contrassegnata da forti diseguaglianze; ma sono fattori importanti anche la sopravvivenza di rapporti e istituzioni sociali tradizionali e l'esistenza di ordinamenti politici che concentrano il potere nelle mani di ristretti gruppi e oligarchie.
Dove l'agricoltura rappresenta ancora il settore produttivo prevalente, la classe più numerosa è costituita dai contadini: braccianti o mezzadri nelle grandi aziende e nelle piantagioni, coltivatori di piccoli appezzamenti, spesso di proprietà comune, nell'agricoltura di sussistenza. Le dimensioni della povertà rurale, la dispersione sul territorio, il basso livello di istruzione determinano l'emarginazione sociale di questa parte della popolazione. I soggetti sociali dominanti nelle campagne, là dove non sono state attuate riforme agrarie, sono gli eredi dei feudatari, come nei latifondi dell'America Latina, o continuano a trarre il loro potere dal ruolo loro assegnato in istituzioni tradizionali, non cancellate e spesso a suo tempo utilizzate ai propri scopi dai colonizzatori europei, come in Africa.
Il proletariato urbano è numeroso soltanto dove l'industrializzazione è iniziata già nei primi decenni del secolo (America Latina) o nei più grandi paesi dell'Asia (India, Cina), nei quali tuttavia costituisce ancora una minoranza degli occupati, mentre altrove, come si è detto (v. § 5b), le attività manifatturiere sono in gran parte organizzate in piccole unità produttive informali di carattere artigianale. I lavoratori informali e precari sono poi particolarmente numerosi nel commercio e nei servizi personali, che danno occupazione a una quota rilevante della popolazione urbana dilatata dalla crescita demografica e dall'emigrazione dalle campagne, soprattutto in Africa e in Asia; se i loro redditi sono modesti e spesso al di sotto della linea della povertà, essi tuttavia, insieme al proletariato organizzato in sindacati, possono esercitare un certo influsso sul potere politico, costretto ad adottare provvedimenti di controllo dei prezzi o a distribuire aiuti esteri per evitare disordini e ribellioni. La numerosità degli addetti al piccolo commercio e ai servizi privati è una delle ragioni che spiegano come mai nei paesi sottosviluppati il settore terziario rappresenti una quota dell'occupazione simile a quella che si registra nei paesi più sviluppati, dove è considerata un indice del passaggio a una società postindustriale.
Un'altra ragione è rappresentata dalla espansione degli occupati nel settore pubblico (funzionari, impiegati, militari, addetti ai pubblici servizi), come conseguenza delle tendenze stataliste prevalenti per lungo tempo nella maggior parte dei paesi sottosviluppati, delle politiche populiste e clientelari che utilizzano la concessione di posti nell'amministrazione per ottenere consenso, delle attese di promozione sociale che si ritiene possano essere soddisfatte solo attraverso una carriera militare o nella pubblica amministrazione. Le vaste dimensioni del terziario non denotano qui il passaggio del capitalismo verso una nuova fase caratterizzata dall'espansione dei servizi moderni e avanzati, ma la sua arretratezza, e possono diventare fattori di instabilità e di tensione sociale quando crisi economiche o politiche di aggiustamento e stabilizzazione contraggono le risorse pubbliche disponibili (v. Sylos Labini, 1986).
L'aspetto forse più importante del sottosviluppo dal punto di vista sociale è la mancanza o la debolezza della borghesia imprenditrice, cioè di quella classe che, in rapporto dialettico con il proletariato, è stata promotrice della crescita e dell'innovazione nei paesi industrializzati. Se si eccettuano alcune regioni dell'America Latina e dell'Asia, quel tanto o poco di sviluppo industriale che si è avuto negli scorsi decenni è stato prevalentemente attuato da imprese multinazionali straniere o dallo Stato: nel primo caso con limitati effetti di diffusione delle capacità imprenditoriali e manageriali e di espansione dell'occupazione, nel secondo con effetti di burocratizzazione e di inefficienza. Più diffusa (soprattutto in Africa) è invece la borghesia mercantile, spesso con radici in antiche tradizioni di commerci locali o a lunga distanza. Nei paesi del centro i guadagni realizzati dai mercanti sono stati nel passato una delle fonti dell'investimento nella manifattura e dell'accumulazione, e quindi un fattore della transizione al capitalismo; nei paesi sottosviluppati avviene, invece, molto spesso che i profitti realizzati in attività produttive vengano impiegati nel commercio, oltre che negli investimenti immobiliari e nella speculazione finanziaria.
La struttura sociale propria del sottosviluppo, che è oggi ancora caratteristica della maggior parte dei paesi africani e di vaste regioni dell'America Latina e dell'Asia meridionale, tende a mantenere e talora ad accentuare la polarizzazione tra i pochi ricchi e benestanti - grandi proprietari terrieri, commercianti, alti burocrati - e la grande massa dei poveri, nelle campagne e nelle sterminate periferie dei centri urbani: gli effetti della crescita economica, dove e quando si verifica, si trasmettono molto parzialmente e lentamente verso il basso, suscitando nuove iniziative e occupazione stabile e sufficientemente remunerata. Le possibilità di salire i gradini della scala sociale sono, quindi, scarse e si riducono ulteriormente quando la mobilità, oltre che dalle condizioni economiche, è frenata dalla sopravvivenza di antiche strutture castali, come in India, da barriere etniche, o da discriminazioni politiche.
La democrazia politica è considerata un attributo della modernità contrapposta alla tradizione, e l'inosservanza dei suoi principî e l'inesistenza o il cattivo funzionamento delle sue istituzioni costituiscono una caratteristica del sottosviluppo (v. cap. 1). Come abbiamo già visto per l'economia e la società, tuttavia, quello che i paesi sottosviluppati ci presentano oggi è un quadro complesso, in cui aspetti riconducibili a forme tradizionali si intrecciano con quelli che sono il portato della dominazione coloniale e con le trasformazioni avvenute dopo la conquista dell'indipendenza. I loro sistemi politici riflettono queste stratificazioni di elementi tradizionali e moderni che sono stati fortemente influenzati dalle vicende delle relazioni internazionali tra le grandi potenze e si diversificano marcatamente da paese a paese. Per completare il quadro del sottosviluppo come oggi si presenta con qualche cenno sui sistemi politici, è necessario tener conto di questa complessità e del fatto che non esiste una dimostrabile connessione tra sviluppo economico e ordinamenti democratici, almeno nella breve e nella media durata, come del resto provano gli esempi di paesi tra i più economicamente avanzati che hanno conosciuto esperienze di governi totalitari.
Se la democrazia viene identificata con la divisione dei poteri e con l'esistenza di un governo basato su libere elezioni e di leggi che garantiscono la libertà di pensiero, di parola, di stampa e di organizzazione, è facile constatare che nel Terzo Mondo questi principî hanno trovato un'applicazione limitata e che solo recentemente, anche in seguito ai profondi cambiamenti nel quadro internazionale, sembra delinearsi una tendenza ad attuarli là dove fino a ieri - si trattasse di paesi di antica indipendenza come quelli dell'America Latina o recentemente decolonizzati, in rapido sviluppo come quelli dell'Asia orientale o tra i più poveri come quelli dell'Africa - autoritarismo e repressione erano caratteri dominanti. Occorre tuttavia osservare che, almeno a una prima analisi, una tendenza contrapposta a quella verso una democrazia moderna si sta manifestando in numerosi paesi a religione islamica, che hanno ristabilito o sembrano essere in procinto di ristabilire istituti e norme che hanno il loro fondamento nella rigorosa osservanza di principî religiosi e di tradizioni basate su questi principî e affermatesi nel lontano passato.Le forme nelle quali la mancanza o l'inosservanza di principî democratici si sono concretizzate in diversi sistemi politici può essere illustrata con due esempi: l'alternanza di governi populisti e autoritari in America Latina e gli Stati 'neopatrimoniali' dell'Africa subsahariana.
Le prime e più importanti esperienze populiste in Ecuador, Bolivia, Brasile e Argentina si compiono nella fase di industrializzazione, iniziata con la politica di sostituzione delle importazioni in risposta alla crisi degli anni trenta, e con l'aumento della domanda internazionale durante la seconda guerra mondiale. L'indebolimento delle oligarchie tradizionali, composte prevalentemente dai grandi latifondisti eredi dei feudatari coloniali, crea un vuoto di potere nel quale si inseriscono movimenti che raccolgono le aspirazioni alla promozione sociale dei nuovi ceti urbani, mediando i diversi interessi in un'alleanza interclassista che esclude solo le masse contadine, lascia ai grandi proprietari e allevatori il potere locale e si coagula intorno alla figura di un presidente, al quale le costituzioni attribuiscono già ampi poteri e che si pone in diretto rapporto con le masse, mutuando talora comportamenti e forme dalle dittature fasciste europee (v. Plana e Trento, 1992). L'ispirazione ideologica di questi movimenti e governi è di tipo nazionalista, e i loro obiettivi dichiarati sono la modernizzazione del paese, la sua indipendenza dagli interessi economici stranieri e una più equa distribuzione del reddito. Questi obiettivi sono condivisi nei decenni successivi da una seconda generazione di governi populisti in Perù, Cile, Brasile i quali, come quelli che li avevano preceduti, adottano politiche salariali, monetarie e della spesa pubblica che determinano, dopo una prima fase di crescita, disavanzi del bilancio, indebitamento con l'estero, inflazione, conflitti sociali e crisi (v. Dornbush ed Edwards, 1991). La crisi non risolta in modo costituzionale trova nelle forze armate il soggetto che, appoggiando un partito o, in tempi recenti, agendo in prima persona come istituzione che pretende di rappresentare gli interessi nazionali contro i particolarismi delle fazioni, sospende le garanzie costituzionali, reprime i conflitti sociali, ristabilisce l'ordine e impone nuovi indirizzi di politica economica.
Nei paesi dell'Africa subsahariana le costituzioni, approvate dopo l'indipendenza, erano generalmente modellate nei loro principî fondamentali e nella definizione delle istituzioni politiche su quelle europee, ma si può dire che, con poche e parziali eccezioni, esse non sono mai state applicate. Sia nei paesi a economia di mercato, sia in quelli che si definivano a vario titolo socialisti, sia dove si istituì e si mantenne un governo civile, sia dove esso venne presto scalzato da colpi di Stato che lo sostituirono con governi militari, il potere assunse un carattere personale, concentrato nelle mani di un presidente o di un ristretto direttorio. L'esautoramento delle istituzioni rappresentative, la prevalenza del regime a partito unico sul pluripartitismo e la concentrazione dei poteri venivano giustificati con la necessità di superare il tribalismo e il frazionalismo e di assicurare l'unità nazionale contro le tendenze disgregatrici che nascevano dalla frammentazione della società, oppure con l'idea che in Africa la mancanza di una profonda divisione di classe e l'esistenza di valori africani comuni a tutti fossero la base di un consenso popolare che rendeva inutili le forme di organizzazione e di rappresentanza proprie dei paesi occidentali (v. Tordoff, 1984).
In realtà, nonostante le condanne ufficiali del tribalismo, questo resta nella maggior parte dei paesi una forma diffusa e condivisa di organizzazione degli interessi. La lealtà etnica e clanica continua a essere prevalente su quella verso lo Stato, visto essenzialmente come dispensatore di benefici e di cariche redditizie, tanto più quanto più sono ampi il settore pubblico e il controllo diretto dell'economia (v. Sandbrook, 1985). La possibilità di accedere alle risorse pubbliche o a quelle private controllate dallo Stato è la base dei rapporti che legano al presidente militare o civile i capi e i membri delle tribù e dei clan, i quadri di partito, i burocrati e i militari, e costituisce quindi il fondamento del suo potere. Nei paesi nei quali questi fenomeni sono generalizzati e permanenti nel tempo, lo Stato tende ad assumere la fisionomia di Stato 'neopatrimoniale', in cui l'autorità si basa sui rapporti personali tra il capo e i suoi seguaci, ai quali egli assicura la disponibilità delle risorse nazionali e in cui, quindi, non vi è distinzione tra patrimonio pubblico e patrimonio dell'élite dirigente.
Sia nel caso dell'America Latina che in quello dell'Africa, a partire dagli anni ottanta si sono delineate due tendenze potenzialmente interagenti: da un lato, la liberalizzazione dell'economia e la riduzione dell'intervento pubblico, che limitano le risorse alle quali i governi autoritari o dittatoriali potevano attingere per mantenere il consenso e la fedeltà dei seguaci; dall'altro, una più o meno effettiva democratizzazione, favorita anche dal venir meno dei condizionamenti posti in passato dalla 'guerra fredda'. A uno sviluppo pieno e virtuoso di queste tendenze si oppongono ostacoli che si possono ricondurre a un carattere comune agli Stati dei due subcontinenti, pur così diversi sotto tanti aspetti: quello che Gunnar Myrdal (v., 1968) ha definito con il termine di "Stato debole". Lo Stato debole è caratterizzato da una generale assenza di disciplina sociale, ossia scarsa osservanza della legge, generale disobbedienza alle regole, frequenti collusioni tra pubblici ufficiali e interessi privati. Questi fenomeni sarebbero conseguenza del fatto che, mentre in Occidente le norme consuetudinarie che nelle società tradizionali fissavano i diritti e gli obblighi dei diversi componenti della collettività si sono trasformate gradualmente, nel corso di un lungo processo storico, in un sistema codificato di diritti e doveri dei cittadini nei confronti dello Stato, il colonialismo ha distrutto o indebolito i sistemi di integrazione sociale preesistenti e ha suscitato una forte opposizione verso l'autorità, vista come un'entità esterna ai cui comandi è giusto sottrarsi quanto più possibile.
Dopo la colonizzazione, la creazione di Stati, istituzioni pubbliche e sistemi legislativi, spesso ispirati a modelli stranieri, non ha coinvolto la gran parte della popolazione e non si è accompagnata, se non limitatamente, alla nascita di nuove forme di aggregazione sociale, così che lo Stato ha continuato a essere visto come una fonte di comandi imposti dall'alto. La 'debolezza' dello Stato rende instabili e lenti i processi di sviluppo economico e politico e, là dove si accompagna a divisioni etniche o claniche e alla persistenza di istituzioni, rapporti sociali e vincoli di lealtà tradizionali, può far sì (come è avvenuto in alcuni paesi africani) che la crisi dei governi autoritari si traduca in un vero e proprio collasso dell'organizzazione statuale.
Se il sottosviluppo viene considerato come il ritardo di una parte del mondo rispetto a quella più sviluppata, spiegato da fattori culturali, sociali o economici endogeni ai paesi che vi appartengono, e indipendente dai processi che hanno portato alla formazione del mercato e del sistema mondiale capitalistico, con le sue interdipendenze e gerarchie (v. § 3a), allora, da un lato non esiste nessuna relazione tra lo sviluppo dei paesi del centro e il sottosviluppo della periferia, dall'altro è possibile sostenere che i paesi oggi sottosviluppati potranno inseguire e raggiungere quelli sviluppati purché sappiano realizzare le condizioni che hanno consentito ai primi di precederli sulla via dello sviluppo. Di queste condizioni la più importante è ritenuta l'esistenza e il pieno funzionamento di un mercato concorrenziale, all'interno di ogni paese e tra tutti i paesi nel mercato mondiale. L'ostacolo maggiore al passaggio dal sottosviluppo allo sviluppo sarebbe oggi costituito dallo statalismo, diffuso nella maggior parte dei paesi del Terzo Mondo, dal protezionismo e dall'impiego di errate politiche macroeconomiche attribuibile, almeno in parte, all'influenza delle teorie keynesiane (v. Lal, 1983). È la tesi prevalente nel pensiero economico degli anni ottanta e il fondamento delle politiche suggerite da economisti e organizzazioni internazionali. Una versione particolarmente radicale di tale tesi è quella formulata da P.T. Bauer (v., 1991), che lo porta a negare l'opportunità di aiuti economici ai paesi sottosviluppati: essi sarebbero inutili, dato che i paesi sviluppati sono diventati tali senza bisogno di aiuti, e dannosi, perché servirebbero ai governi statalisti e interventisti solo per rimandare le riforme necessarie a liberalizzare le economie dei loro paesi.
All'estremo opposto si possono collocare quelle teorie che, inquadrando il fenomeno del sottosviluppo nella formazione, evoluzione e struttura del mercato e del sistema mondiale, giungono alla conclusione che esso non è superabile se non con il superamento del capitalismo. La più antica di queste teorie è quella dell'imperialismo, che ha il suo esponente più famoso in Lenin (v., 1916), e il più rigoroso in Rosa Luxemburg (v., 1912). Per la Luxemburg la riproduzione allargata dell'economia capitalistica non è possibile senza l'esistenza di settori o paesi precapitalistici come mercati per le merci che non troverebbero altrimenti uno sbocco adeguato; quando il capitalismo eliminasse completamente le economie tradizionali, esso sarebbe destinato alla fine, perché la realizzazione del profitto e l'accumulazione sarebbero bloccate. Dunque il superamento del sottosviluppo coinciderebbe con la fine del capitalismo.
Una teoria più recente è quella della dipendenza, elaborata prevalentemente da economisti e sociologi latinoamericani (v. Filippi, 1981). Essi sostengono che il sottosviluppo e lo sviluppo sono due aspetti, inscindibilmente legati, dello stesso processo, e che i paesi sottosviluppati dipendono da quelli sviluppati in quanto i loro andamenti economici non sono determinati da fattori endogeni, ma principalmente dalle fluttuazioni, dall'espansione o dalla contrazione delle economie più sviluppate. La dipendenza commerciale, finanziaria e tecnologica di una parte del mondo è funzionale allo sviluppo dell'altra e tende a perpetuarsi con effetti cumulativi. Per un paese dipendente non c'è possibilità di sviluppo fino a quando un processo rivoluzionario non permetterà di superare il sistema economico mondiale capitalistico. Questa teoria, i cui seguaci hanno dato contributi importanti allo studio di aspetti particolari del sottosviluppo e delle sue origini, è tuttavia debole nella definizione di dipendenza (che non è un concetto assoluto quanto piuttosto di grado) e le sue previsioni sono state smentite dall'elevato sviluppo di paesi che, qualche decennio fa, si potevano in base a quelle definizioni considerare dipendenti.
La teoria dell'imperialismo, da parte sua, dopo le prime formulazioni all'inizio del secolo, era stata ripresa da scrittori marxisti nel secondo dopoguerra, quando il sottosviluppo divenne un tema del dibattito economico: questi autori, ricollegandosi al concetto leniniano di putrescenza del capitalismo, sostenevano che questo modo di produzione non aveva più quella capacità di espandere le forze produttive che lo aveva caratterizzato nel passato, e che l'uscita dal sottosviluppo si poteva trovare soltanto nel socialismo, sull'esempio dell'URSS e dell'Europa orientale (v. Baran, 1957).
I risultati ottenuti dai paesi del Terzo Mondo che hanno seguito questa via sono stati diversi, ma anche quelli che, almeno in una prima fase, avevano risolto alcuni problemi del sottosviluppo, riducendo la povertà, creando un'industria e migliorando lo stato della sanità e dell'istruzione, l'hanno abbandonata, ancor prima che la stessa URSS e gli altri paesi socialisti europei, dopo una lunga fase di stagnazione economica e una breve crisi politica, iniziassero la transizione verso l'economia di mercato.
Una linea di pensiero meno radicale delle teorie dell'imperialismo e della dipendenza è quella che, senza presupporre il crollo o l'abbattimento rivoluzionario del sistema economico mondiale, suggerisce che i paesi sottosviluppati dovrebbero eliminare o ridurre i nessi che a esso li legano, mirando a uno sviluppo autocentrato o autarchico, basato sulle loro forze (v. Galtung e altri, 1980). Questa soluzione si presta a molte obiezioni: essa sembra praticabile (ed è stata per un certo periodo praticata) soltanto da grandi paesi come la Cina, richiede una centralizzazione e un controllo dell'economia e della vita sociale che presentano gli stessi aspetti negativi conosciuti dai paesi socialisti, può produrre effetti positivi in una prima fase, quando si tratta di assicurare le condizioni minime di soddisfazione dei bisogni fondamentali della popolazione, ma entra in crisi, come ha dimostrato l'esperienza, quando i bisogni aumentano e si diversificano, e lo sviluppo della produzione richiede nuove tecnologie. L'esaltazione dell'autosufficienza e dell'opposizione ai modelli dei paesi sviluppati rischia, in definitiva, di trasformarsi in una sorta di romanticismo economico e di rimpianto o esaltazione delle forme premoderne di economia e di organizzazione sociale.
La tesi dei teorici della dipendenza e di quanti sostengono che sottosviluppo e sviluppo sono processi e fenomeni tra loro connessi appare ben fondata, come si è visto (v. cap. 4), nella storia, nella struttura e nel funzionamento del mercato mondiale sino ai giorni nostri. Da essa tuttavia non si può dedurre né l'impossibilità dello sviluppo per un paese sottosviluppato né l'impossibilità di un superamento generale del sottosviluppo. Che un paese coloniale e dipendente possa trasformarsi in una economia sviluppata in grado di competere nel mercato mondiale e anche di raggiungere una posizione centrale nel sistema economico è provato da esempi storici che vanno da quello più antico dell'America del Nord a quelli più recenti della Corea del Sud o di Taiwan. La possibilità, i tempi e i modi di questa trasformazione dipendono dalla presenza di alcune condizioni favorevoli iniziali, tra le quali probabilmente le più importanti sono di carattere sociale e, tra le condizioni economiche, quelle relative alla dotazione di capitale umano. Una volta che il processo di sviluppo è avviato, un ruolo determinante, per la sua prosecuzione e la sua maggiore o minore stabilità, è svolto dalle riforme economiche e sociali e dalle politiche adottate, per le quali non esiste una ricetta valida universalmente, ma che devono adeguarsi alla durata dei tempi di apprendimento necessari per affrontare con successo la competizione su scala internazionale.
Il problema cambia dimensioni e natura quando dal caso di uno o più paesi si passa a considerare l'insieme del Terzo Mondo. Da un lato, infatti, ci si può chiedere se la struttura gerarchica del sistema economico mondiale sia un suo carattere permanente o possa essere mutata anche senza presupporre, come vogliono i teorici dell'imperialismo e della dipendenza, il superamento del modo di produzione capitalistico; dall'altro, si può dubitare che il raggiungimento, specie se in tempi relativamente brevi, da parte dei paesi attualmente sottosviluppati dei livelli di reddito e dei modelli di consumo che sono oggi propri dei paesi sviluppati sia compatibile con la dotazione delle risorse naturali del pianeta e con la conservazione, in grado accettabile, dell'ambiente naturale.Alla prima domanda si può rispondere notando come non esista in nessuna teoria dello sviluppo e del sottosviluppo un solido fondamento per negare la possibilità del superamento del sottosviluppo e della divisione del mondo in un centro e in una periferia. Anche in ambito marxista, il nocciolo teorico delle tesi di Rosa Luxemburg è stato dimostrato erroneo (v. Sweezy, 1942). D'altra parte, l'osservazione degli attuali processi di trasformazione del sistema economico mondiale ci mostra tendenze più complesse che non una semplice riproduzione della struttura centro-periferia. Insieme al formarsi di aree economicamente deboli e con un elevato grado di dipendenza dai paesi più sviluppati, in quello che era il sistema dei paesi socialisti, si assiste all'aggregarsi di un'area economicamente forte e competitiva nell'Asia orientale e a un seppur lento e instabile emergere di una parte dell'America Latina. Il continente che presenta ancora tutte le caratteristiche del sottosviluppo, l'Africa, piuttosto che un'area periferica e dipendente dal centro sembra diventare sempre più un'area esterna al mercato e al sistema mondiale. Ciò che si può dire, quindi, è che il superamento del sottosviluppo si intreccia con trasformazioni nel sistema mondiale, in un processo lungo e diseguale nelle diverse parti del mondo, il cui esito è difficilmente prevedibile in base agli strumenti teorici a disposizione.
Quanto alla sostenibilità di una generale emersione del Terzo Mondo dalla condizione di sottosviluppo, sembra ragionevole affermare che se, in linea teorica, la sua possibilità non può essere esclusa, la sua effettiva attuazione richiederà ondate di innovazioni tecniche risparmiatrici di risorse, modificazioni dei modelli di consumo, politiche internazionali di tutela dell'ambiente.
(V. anche Agricoltura; Colonizzazione e decolonizzazione; Comunità europea; Cooperazione economica internazionale; Demografia; Industrializzazione; Migratori, movimenti; Modernizzazione; Popolazione; Povertà: Economia; Relazioni internazionali; Sviluppo economico; Sviluppo politico).
bibliografia
Amin, S., Le développement inégal, Paris 1975 (tr. it.: Lo sviluppo ineguale, Torino 1977).
Bagu, S., Economia de la sociedad colonial: ensayo de historia comparada de América, Buenos Aires 1949 (tr. it.: Economia della società coloniale, in Teoria e storia del sottosviluppo latinoamericano, a cura di A. Filippi, 2 voll., Napoli 1981).
Bairoch, P., Le Tiers-Monde dans l'impasse. Le démarrage économique du XVIIIe au XXe siècle, Paris 1971 (tr. it.: Lo sviluppo bloccato, Torino 1976).
Bairoch, P., Sviluppo/sottosviluppo, in Enciclopedia Einaudi, vol. XIII, Torino 1981.
Baran, A.P., The political economy of growth, New York 1957 (tr. it.: Il 'surplus' economico e la teoria marxista dello sviluppo, Milano 1962).
Barratt Brown, M., The economics of imperialism, Harmondsworth 1974 (tr. it.: L'economia dell'imperialismo, Roma-Bari 1977).
Bauer, P.T., The development frontier, London 1991.
Birdsall, N., Economic approaches to population growth, in Handbook of development economics (a cura di H. Chenery e N.T. Srinivasan), Amsterdam 1991.
Bury, J.B., The idea of progress. An inquiry into its origin and growth, London 1920 (tr. it.: Storia dell'idea di progresso, Milano 1964).
Carmagnani, M., L'America Latina dal '500 ad oggi, Milano 1975.
Coquery-Vidrovitch, C., Afrique Noire. Permanences et ruptures, Paris 1985.
Dornbusch, R., Edwards, S. (a cura di), The macroeconomics of populism in Latin America, Chicago 1991.
Edwardes, M., A history of India. From the earliest times to the present day, London 1961 (tr. it.: Storia dell'India, Bari 1966).
Filippi, A. (a cura di), Teoria e storia del sottosviluppo latino-americano, 2 voll., Napoli 1981.
Galtung, J., O'Brien, P., Preiswerk, R., Self-reliance. A strategy for development, London 1980.
Hagen, E.E., On the theory of social change: how economic growth begins, Homewood, Ill., 1962.
Huntington, E., Civilization and climate, New Haven, Conn., 1915.
Klein, M., Lovejoy, P.E., Slavery in West Africa, in The uncommon market. Essays in the economic history of the Atlantic slave trade (a cura di H.A. Gemery e J.S. Hogendorn), New York 1970.
Kuznets, S., Underdeveloped countries and the pre-industrial phase in the advanced countries, in The economics of underdevelopment (a cura di A.N. Agarwzia e S.P. Singh), Oxford 1958 (tr. it.: L'economia dei paesi sottosviluppati, Milano 1966).
Lal, D., The poverty of 'development economics', London 1983.
Lenin, V.I., Imperializm, kak vysšaja stadija kapitalizma, Petrograd 1916 (tr. it.: L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere complete, vol. XXII, Roma 1966).
Lewis, W.A., The state of development theory, in "American economic review", 1984, LXXIV, 1, pp. 1-10.
List, F., Das nationale System der politischen Ökonomie, StuttgartTübingen 1841 (tr. it.: Il sistema nazionale di economia politica, Milano 1972).
Luxemburg, R., Die Akkumulation des Kapitals, Berlin 1912 (tr. it.: L'accumulazione del capitale, Torino 1960).
McClelland, D.C., The achievement need and economic growth, in Applied historical studies (a cura di M. Drake), London 1973.
Marx, K., The British rule in India, in "New York daily tribune", 25 giugno 1853 (tr. it.: La dominazione britannica in India, in K. Marx e F. Engels, Opere complete, vol. XII, Roma 1978, pp. 129-135).
Meek, R.L., Social science and the ignoble savage, Cambridge 1976 (tr. it.: Il cattivo selvaggio, Milano 1981).
Menozzi, P., Razza, in Enciclopedia Einaudi, vol. XI, Torino 1980.
Myrdal, G., Asian drama. An inquiry into the poverty of nations, New York 1968 (tr. it.: Saggio sulla povertà di undici paesi asiatici, Milano 1971).
Nisbet, R.A., Social change and history: aspects of the Western theory of development, New York 1969.
Nurkse, R., Problems of capital formation in underdeveloped countries, Oxford 1958 (tr. it.: La formazione del capitale nei paesi sottosviluppati, Torino 1965).
Plana, M., Trento, A., L'America Latina nel XX secolo, Firenze 1992.
Prebisch, R., The economic development of Latin America and its principal problems, New York 1950.
Sachs, I., The discovery of the Third World, Cambridge, Mass., 1976.
Sandbrook, R., The politics of Africa's economic stagnation, Cambridge 1985.
Smith, A., An inquiry into the nature and causes of the wealth of nations (1776), in The works and correspondence of Adam Smith (ed. critica a cura di R.H. Campbell, A.S. Skinner e W.B. Todd), vol. II, Oxford 1976 (tr. it.: Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano 1973).
Sweezy, P.M., The theory of capitalist development: principles of Marxian political economy, 2 voll., New York 1942 (tr. it.: La teoria dello sviluppo capitalistico, Torino 1951).
Sylos Labini, P., Il sottosviluppo e l'economia contemporanea, Roma-Bari 1983.
Sylos Labini, P., Le classi sociali negli anni '80, Roma-Bari 1986.
Tordoff, W., Government and politics in Africa, London 1984.
UNCTAD (United Nations Conference for Trade and Development), Handbook of international trade and development statistics, New York 1996.
UNDP (United Nations Development Program), Human development report 1996, New York 1996.
United Nations, National income and its distribution in underdeveloped countries, New York 1951.
United Nations, World economic and social survey, New York 1996.
Volpi, F., Introduzione all'economia dello sviluppo, Milano 1994.
Wallerstein, I., The modern world-system, 3 voll., New York 1974-1980 (tr. it.: Il sistema mondiale dell'economia moderna, 2 voll., Bologna 1978-1982).
Wallerstein, I., The three stages of African involvement in the world economy, in Political economy of contemporary Africa (a cura di P.C.W. Gutking e I. Wallerstein), London 1985.
World Bank, World development report, Washington 1983.
World Bank, World development report, Washington 1996.