latino macaronico
La prima poesia macaronica nasce come ‘genere’ a Padova alla fine del XV secolo, caratterizzata dallo scontro di elementi linguistico-culturali popolareggianti e rusticali con la tradizione latino-umanistica; a livello formale, dalla sovrapposizione dell’esametro classico a un lessico sostanzialmente dialettale.
Già il poemetto eponimo del genere, la Macaronea di Tifi Odasi, rinvia all’alimento principe della macaronea secta, l’accolita di goliardi e burloni che ne sono protagonisti, ossia i macaroni, gli gnocchi (ovviamente non di patate, introdotte solo dopo la scoperta dell’America, la cui coltivazione nell’Italia settentrionale non inizia prima del XVIII secolo; Messedaglia 1973): un impasto a freddo o a caldo di farina di grano o di pane grattugiato, passati sulla gratacasa, la grattugia (in legno) del formaggio, per dar loro la forma tondeggiante. L’etimologia è accreditata da Teofilo Folengo nella Apologetica in sui excusationem premessa all’edizione Toscolana del Liber macaronices:
Ars ista poetica nuncupatur ars macaronica a macaronibus derivata, qui macarones sunt quoddam pulmentum farina, caseo, botiro compaginatum, grossum, rudem et rusticanum; ideo macaronices nil nisi grassedinem, ruditatem et vocabulazzos debet in se continere
ed esplicitata da Paoli (1959), è stata recentemente discussa da Petrolini (2008), che rinvia a un *manicarone «mangiare grossolano».
Le prime due macaronee – la Tosontea di un non meglio identificato Corado e la citata Macaronea di Tifi Odasi (Michele di Bartolomeo degli Odasi, morto a Padova dopo il 14 ottobre 1492) – furono composte plausibilmente fra il 1484 e il 1490; la terza (Nobile Vigonce Opus, di autore sconosciuto) fu stampata nel 1502 (l’edizione dei testi qui citati con le sigle T, M, V in Paccagnella 1979; per una Macaronea medicinalis, un poemetto di oltre mille versi, composto in due parti, nel 1498 e nel 1509, attribuito al parmense Gian Giacomo Bartolotti: cfr. Schupbach 1978). Il macaronico si struttura in esametri classicamente regolari in cui un lessico di base volgare-dialettale si mescida con il sistema morfosintattico latino, rispecchiando la lingua in uso nella scuola: basti pensare alle lezioni in un latino ricco di inserti dialettali di Pietro Pomponazzi (Mantova 1462 - Bologna 1525) o alle farse e a mimi studenteschi come la Catinia di Sicco Polenton (Levico 1375 o 1376 - Padova 1448), sempre in area padovana, o alla predicazione, dove il mescolamento di latino e volgare era abitudine comune, particolarmente negli exempla.
I macaronici padovani sono tutti di estrazione universitaria (Corado e l’autore del Vigonce), partecipi della vita culturale della città. Tifi Odasi fu in rapporti culturali e letterari con Domizio Parenzo, Bartolomeo Leonico Fusco, Niccolò Lelio Cosmico, poeta anche in volgare e fratello dell’umanista Ludovico che fu legato d’amicizia con Ermolao Barbaro e ➔ Poliziano. La loro lingua non è qualificabile come un caso di ‘latinismo pedestre’.
Il massimo di connotazione della poesia macaronica va ricercato proprio nel latino, che non intende restaurare quello classico, ma plasmare una miscela di elementi spuri ognuno dei quali mantiene la propria individualità esasperando l’antinomia a fini espressivi: così, le citazioni classiche (Tifi apre la sua Macaronea con un verso di imitazione oraziana) vengono inserite in contesti estranei, prevalentemente sessuali e scatologici.
Sul piano morfosintattico, pur mantenendo una morfologia superficiale latina, si conserva l’ordine volgare della sequenza con: l’inserzione immediata di morfemi latini in lessemi dialettali (del tipo bachetas, cagavit); il comparativo latino di un lessema volgare: «Non est in toto quisquam poltronior orbe» (M 50); l’omissione della terminazione casuale; l’uso del caso oggetto senza desinenza: «Et nigromantem portans candela de sevo (M 14); l’espressione delle casuali e finali con propter + infinito: «pars ficat in manicam propter magnare secretus» (M 448), in alternativa con la corrispondente costruzione dialettale, in clausola: «Pendet a sinistris per non morire de fame» (M 366); la conservazione di categorie grammaticali volgari, come l’articolo, semplicemente inserito: «et non permittit crescere fadiga lo cazo» (T 38) o applicato a sintagmi con definizione morfematica casuale (preferibilmente in clausola esametrica, dove l’articolo completa il dattilo in quinta sede): «Et quid non faceret propter saciare la gulam» (M 375).
Sul piano lessicale il contrasto fra il nobile e il plebeo (cfr. Migliorini 1969) si evidenzia nella compresenza nella stessa parola di suffisso latino e lessema dialettale (o, all’inverso, di lessema classico e suffisso volgare o immacaronito), del tipo stracabilis (M 354), dentalia (M 507), paialis (M 298), macaroneus (M 45 457 ...), fututor (M 166), culamina (M 632), foramina culi (M 488, 523) o nella doppia modificazione, suffissale e aggettivale, del tipo: «cogitat et credat magnum tenere cazonem».
Non casualmente l’accrescitivo iperbolico tocca in specie i campi gastronomico e sessuo-scatologico: busazum (M 524), cagarola (V 263), cazochius (V 47), cazonem (M 560), coionacis (V 47), culaci (V 303), potaza (M 21, 227, 513), tetaze (M 226, 511), vacaza (M 190), fino alla serie derivativa: «putanarum putanissima, vaca vacarum, / potifarum potissima, pota potaza» (M 20-21).
Queste caratteristiche sono embrionalmente utilizzate nei padovani e anche negli autori più tardi: Evangelista Fossa, autore dei Virgiliana (1494) e volgarizzatore delle Bucoliche e di Seneca e poeta in volgare con l’Innamoramento di Galvano (Lippi 1982); Bassano Mantovano, autore di tre macaronee, di cui la più nota è quella Contra Savoynos (Curti 1983) cui rispose Giovan Giorgio Alione con la Macarronea contra macarroneam Bassani e poi con l’Opera iocunda [...] metro macharronico materno et gallico composita nel 1521 (Alione 1953 e 1982). Ma il latino macaronico assurge a sistema linguisticamente e metricamente disciplinato e regolare solo con Teofilo Folengo, ben cosciente del significato eversivo del proprio macaronico nei confronti della linea di ➔ Pietro Bembo.
Dalla prima edizione del 1517, per tutta la vita (muore nel 1544 e l’ultima edizione appare postuma nel 1552) Folengo si dedica alla revisione delle sue Macaronee, in un ricercato equilibrio delle componenti linguistiche – latino, toscano e dialetti (il nativo mantovano, il bresciano, il veneto e gli altri con cui era venuto a contatto nelle sue peregrinazioni conventuali) – e delle diverse esperienze culturali e personali: cultura umanistica, mondo rusticale, privato itinerario biografico e religioso. Nel 1517 per la prima volta il macaronico viene applicato al genere del poema epico e dell’egloga e già questa prima versione del Baldus è accompagnata da fitte glosse marginali. L’edizione del 1521, che porta in coda l’importante autocommento della Merlini Cocai apologetica in sui excusationem con la trattazione prosodica della Normula macaronica de sillabis, espande il macaronico all’egloga (Zanitonella), al poema eroicomico (Moschaea) e all’epigramma, stabilendo un’omologia anche strutturale con le raccolte virgiliane che aveva il solo scopo di accreditare la visione di un nuovo Virgilio del macaronico. Un tale parallelismo era del resto già stato avanzato da Bernardino Scardeone per Tifi Odasi:
Merito ergo (si conferre exemplum liceat) tantum huic nostro civi Macaronaeum carmen debet, quantum heroicum Virgilio, et Danti aut Petrarchae vernaculum (Scardeone 1560, lib. II, cl. X, pp. 238-239)
Il «movimento fondativo» (Segre 1979) sta nel collegamento di un poema virgiliano con i temi cavallereschi, ammettendo così la vitalità del latino, capace di afferrare anche la modernità, di coprirne tutti gli spazi culturali e sociali con la mediazione del comico e del ludico, con il riversamento nel latino di un lessico dialettale e di contenuti realistici connotati in maniera fortemente espressiva. Nel procedimento di riscrittura parodica i classici latini e Virgilio occupano una posizione privilegiata (un excursus significativo dà il paragrafo «Modelli e fonti» di Lazzerini 1992: 1046-1052): citazioni, ovviamente in contesti macaronici, come: «dum cantat in umbra / “Dic mihi, Dameta”, tondenti braga cadebat» (XIX, 10-11), dalla terza egloga; riprese come la chiusura dell’ultimo libro (XXV, 657-658) dalla seconda egloga virgiliana: «he heu, quid volui, misero mihi, perditus Austrum / floribus et liquidis immisi fontibus apros», anche se alcuni calchi sono più appariscenti, come quello di «macaron, macaron, quae te mattezza piavi?» (IV, 285) ancora sulla seconda egloga: «A, Corydon, Corydon, quae te dementia cepit!». In altri casi non sono da escludere mediazioni intertestuali a più livelli, come nel caso dell’anafora con doctus dell’elogio del Gonzaga (V, 394-397) che rinvia a Giovenale (volgarizzato da Giorgio Sommariva in una stampa di Treviso del Manzolino nel 1480 e riedito attorno al 1525 dal tipografo folenghiano Paganini) per il tramite di Tifi Odasi (M 458-465); ancora dall’Odasi (i versi finali della M: «et Brontem et Steropem et nudum membra Piragmon / Vulcanumque facit nigra sudare fusina») Aen. VIII, 425: «Brontes Steropesque et nudus membra Pyracmon», per la citazione dei ciclopi nel Baldus: «Spadazzam lateri cunctis metuendus ataccat, / quae fuit obscuris Vulcani facta boteghis, / hanc ve fabri rapido temprarunt fulmine igne / Broth zoppus, sguerzusque Sterops, gobbusque Pyrazzus» (IV, 37-40).
Folengo si distanzia così tanto da uno sforzo umanistico di riattivazione della lingua e del mondo classico, quanto da un’accettazione del mondo popolare emergente, e soprattutto della lingua. La mescidanza e l’interferenza linguistica sono il meccanismo che realizza questo progetto iniziale, anche se, alla fine, è però il latino a inglobare il dialetto.
Alione, Gian Giorgio (1953), L’opera piacevole, a cura di E. Bottasso, Bologna, Libreria Antiquaria Palmaverde.
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