Abstract
La voce analizza criticamente le principali questioni poste dal testo unico sull’immigrazione (d.lgs. 25.7.1998, n. 286) in materia di lavoro degli stranieri. Dopo alcune considerazioni generali sul governo delle migrazioni economiche in Italia, si affronta la disciplina della programmazione dei flussi in ingresso, per passare poi alla procedura di assunzione dei lavoratori stranieri subordinati, tanto nel settore privato quanto in quello pubblico, ed all’accesso al lavoro autonomo. Ci si sofferma, infine, sulla disciplina del rapporto di lavoro dello straniero (con specifico riferimento al contratto di soggiorno per lavoro subordinato ed al lavoro degli stranieri irregolari) e sui rapporti intercorrenti fra questo ed il regime di validità del permesso di soggiorno.
Il dato di partenza, con il quale è inevitabile confrontarsi qualora si voglia avvicinare la disciplina nazionale sul lavoro degli stranieri, è indubbiamente rappresentato dalla storica carenza di un’efficace ed unitaria strategia di medio e lungo periodo in materia di politiche migratorie, nonché dal sostanziale fallimento dei numerosi tentativi legislativi che si sono succeduti, spesso con carattere emergenziale, nello sforzo di regolare le migrazioni per motivi economici. Anche (e forse soprattutto) a causa della complessità e della macchinosità della procedura prevista dalla normativa vigente, sulla quale torneremo a breve (v. infra, § 3), l’ingresso ed il soggiorno per motivi di lavoro sul territorio nazionale dei cittadini di Paesi terzi risultano particolarmente complessi. L’esito di una tale situazione è rappresentato, nella pratica, dalla costante elusione delle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno e, quindi, dai continui ingressi irregolari sul territorio. Il cospicuo numero di lavoratori stranieri irregolari presenti nell’economia sommersa del nostro Paese rappresenta dunque, almeno in parte, il risultato dell’evidente inadeguatezza del sistema predisposto, fin dagli anni ’80 dello scorso secolo, per regolare il fenomeno migratorio. Scarsi sono stati gli effetti prodotti dai provvedimenti adottati, anche di recente, dal legislatore nazionale al fine di contenere ulteriormente gli ingressi tanto degli stranieri regolari quanto, e soprattutto, di quelli irregolari. Solo un numero sostanzialmente esiguo di lavoratori stranieri attualmente soggiornanti in Italia, difatti, hanno fatto regolare ingresso nel nostro Paese per motivi di lavoro. Per far fronte ad una tale situazione sono stati quindi periodicamente adottati dei provvedimenti di sanatoria (l’ultimo dei quali è stato previsto dall’art. 5 del d.lgs. 16.7.2012, n. 109), che si sono dimostrati gli unici strumenti in grado di dare regolarità ai lavoratori stranieri, impossibilitati ad entrare regolarmente a causa di una gestione delle quote troppo restrittiva ed intricata e di un mercato del lavoro eccessivamente caratterizzato dalla domanda di lavoratori in nero.
Ciò che qualifica il sistema italiano, in estrema sintesi, è quindi il divario a tutt’oggi esistente tra gli ostacoli legislativi all’accesso al lavoro, tanto subordinato quanto autonomo, per gli stranieri, da un lato, e la strutturale richiesta di lavoratori stranieri, in particolar modo stagionali, nel mercato del lavoro italiano, dall’altra. Una tale conclusione, peraltro, non appare significativamente scalfita neppure dalle ripercussioni che la recente crisi economica ha comportato anche sul mercato del lavoro straniero, e che hanno determinato un rallentamento dei flussi in ingresso ed una diminuzione dell’occupazione immigrata come effetto della contrazione della domanda di manodopera straniera proveniente dalle imprese e dai servizi (Fondazione Leone Moressa, Gli stranieri: un valore economico per la società. Dati e considerazioni su una realtà in continua evoluzione, Bologna, 2012).
Una volta tratteggiate, per sommi capi, le coordinate all’interno delle quale intendiamo muoverci, è possibile passare all’esame delle norme che regolano i molteplici aspetti delle politiche migratorie nazionali per motivi economici, contenute principalmente nel testo unico sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998, d’ora in avanti t.u.), ed in particolare quantomeno i relativi assi portanti, ovverosia la programmazione dei flussi migratori in ingresso per motivi di lavoro, la procedura di assunzione dei lavoratori stranieri subordinati e l’accesso al lavoro autonomo e, infine, gli elementi maggiormente caratterizzanti il rapporto di lavoro con lo straniero, con particolare attenzione ai rapporti intercorrenti fra rapporto di lavoro e permesso di soggiorno.
Nel nostro ordinamento è pacificamente riconosciuta allo Stato la facoltà di subordinare l’ingresso dello straniero sul proprio territorio a determinate autorizzazioni (ferma restando, principalmente, la normativa internazionale ed europea di diritto umanitario), e quindi di trattare in maniera differente lo straniero con riguardo all’accesso al lavoro (diversamente da quel che accade, ad esempio, per i cittadini dei Paesi membri dell’Unione europea). Una volta che questi è stato ammesso ed autorizzato a lavorare in Italia, invece, operano la tutela del lavoro «in tutte le sue forme e applicazioni» (art. 35, co. 1, Cost.), come pure le altre garanzie – costituzionali, in specie gli artt. 35-40, e legislative – disposte in favore del lavoratore in quanto tale, e ciò indipendentemente dalla nazionalità di quest’ultimo, in ossequio al principio di parità di trattamento in materia di lavoro rispetto ai lavoratori nazionali, sancito anche dallo stesso t.u. (art. 2, co. 3). È chiaro, quindi, che le norme che disciplinano la regolarità del soggiorno e l’accesso al lavoro rappresentano uno snodo cruciale, anche perché la normativa nazionale vincola la presenza regolare dello straniero in Italia prevalentemente all’esercizio di un’attività lavorativa.
Le politiche migratorie nazionali sono articolate su due livelli: uno più generale, volto alla determinazione delle azioni e degli interventi sul fenomeno migratorio nel suo complesso, ed uno più specifico che, sulla base di tali criteri generali, determina annualmente la consistenza numerica e la composizione dei flussi migratori diretti verso l’Italia. Il primo livello di programmazione si incarna nel documento programmatico triennale di cui all’art. 3, co. 1-3, t.u., che è emanato con d.P.R. all’esito di una consultazione tra Presidente del Consiglio dei ministri, sentiti i ministri interessati, ed una serie di altri soggetti istituzionali e di enti attivi nell’assistenza e nell’integrazione dei lavoratori stranieri. Quanto al secondo livello, è sempre il Presidente del Consiglio dei ministri che, nei limiti delle quote massime così stabilite, e sentiti i medesimi soggetti già consultati per l’emanazione del documento programmatico, può fissare annualmente con proprio decreto (il cd. “decreto flussi”) il numero massimo dei lavoratori ammessi l’anno seguente a svolgere in Italia un’attività lavorativa subordinata, anche stagionale, ed autonoma (art. 3, co. 4, t.u.). Tale numero è determinato tenendo conto anche dei ricongiungimenti familiari e delle misure di protezione temporanea dovute a rilevanti esigenze umanitarie; sono, inoltre, individuati due criteri di selezione prioritaria a beneficio, rispettivamente, dei cittadini di uno Stato terzo che abbia concluso con l’Italia accordi di cooperazione in materia di flussi migratori, e di coloro che abbiano almeno un ascendente (entro un certo grado) di nazionalità italiana. Infine, sono previste restrizioni agli ingressi dei cittadini di Paesi che non collaborano nel contrasto all’immigrazione clandestina o nella riammissione di propri cittadini destinatari di un provvedimento di rimpatrio (art. 21 t.u.).
Va rilevato che l’ultimo documento programmatico che è stato approvato risale al triennio 2004-2006; in carenza del documento, che sulla carta dovrebbe rappresentare il fulcro della programmazione delle politiche migratorie nazionali, l’azione governativa degli ultimi anni si è pertanto mossa senza perseguire una reale strategia unitaria e di medio periodo. La programmazione dei flussi migratori è quindi oggi esclusivamente demandata al “decreto flussi”, strumento affidato di fatto alla discrezionalità del Ministero dell’Interno e che, svuotato quasi del tutto della funzione di regolare gli ingressi, finisce per incarnare il mezzo con cui è annualmente “sanata” la posizione degli stranieri già irregolarmente presenti in Italia, anziché determinare realmente e preventivamente il numero dei nuovi arrivi dall’estero sulla base di un’attenta valutazione delle esigenze del mercato del lavoro.
La possibilità di fare ingresso e di soggiornare regolarmente in Italia è rigidamente vincolata, specie dopo le modifiche al t.u. introdotte dalla cd. “Bossi-Fini” (l. 30.7.2002, n. 189), all’esistenza di un valido contratto di lavoro. La procedura volta alla stipulazione di un contratto di lavoro tra un datore di lavoro presente sul territorio nazionale, italiano o straniero regolarmente soggiornante, ed un lavoratore straniero residente all’estero può essere avviata solo una volta che il “decreto flussi” sia stato emesso, e sempre che le relative quote lo consentano (sugli ingressi fuori quota v. infra, § 5). Si tratta, come si anticipava, di una procedura particolarmente lunga e complessa, che ora è necessario schematicamente illustrare.
Il presupposto dell’intera procedura (disciplinata dall’art. 22 t.u.) è che il primo incontro tra domanda ed offerta di lavoro – sempre che il lavoratore non sia già regolarmente soggiornante sul territorio – avvenga quando l’aspirante lavoratore si trova ancora nel suo Paese d’origine. Si tratta di una condizione che, oltre a non agevolare l’assunzione di stranieri, accentua i profili di illegalità del fenomeno. Difatti, il datore di lavoro che intende instaurare un rapporto di lavoro subordinato, a tempo indeterminato o determinato, con uno straniero residente all’estero è tenuto a presentare tramite procedura telematica allo Sportello unico per l’immigrazione territorialmente competente (si tratta dell’ente responsabile dell’intero procedimento di assunzione dei lavoratori stranieri, istituito in ogni Provincia presso la Prefettura - Ufficio territoriale del Governo), e previa verifica, presso il Centro per l’impiego competente, dell’indisponibilità di un lavoratore già presente sul territorio nazionale ad occupare quel posto di lavoro, una domanda, nominativa o più raramente numerica, di assunzione. Tale domanda deve principalmente contenere, oltre ai dati identificativi del datore e del lavoratore (in caso di richiesta nominativa), la garanzia della disponibilità di una sistemazione alloggiativa per il lavoratore, l’impegno ad accollarsi le spese di viaggio in caso di rimpatrio e la proposta di stipula di un contratto di soggiorno per lavoro subordinato (sul quale v. infra, § 8), a tempo indeterminato, determinato o stagionale, a tempo pieno o a tempo parziale (con orario non inferiore a 20 ore settimanali). Entro 60 giorni dalla presentazione della domanda lo Sportello unico, appurata la validità della documentazione prevenutagli, sentita la Questura sull’inesistenza di motivi ostativi all’ingresso ed al soggiorno dello straniero in Italia ed all’assunzione per il datore di lavoro, e verificato il rispetto delle prescrizioni del contratto collettivo applicato alla fattispecie, rilascia il nulla osta al lavoro, dopo aver altresì valutato la compatibilità della richiesta con i limiti numerici stabiliti dal “decreto flussi”. Il nulla osta è quindi telematicamente inviato dallo Sportello unico, su istanza del datore, agli uffici consolari del Paese del lavoratore che, informato dal datore del rilascio dell’autorizzazione, può chiedere a questi stessi uffici il rilascio del visto di ingresso per lavoro. Entro 6 mesi dal rilascio del visto lo straniero deve fare ingresso in Italia e, entro 8 giorni dall’ingresso, deve recarsi presso lo Sportello unico che ha rilasciato il nulla osta e firmare il contratto di soggiorno per lavoro subordinato depositato dal datore. Solo a questo punto lo straniero può richiedere alla Questura, tramite lo Sportello unico, il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, che gli consentirà di soggiornare e lavorare regolarmente in Italia.
Molti sono i profili di criticità di una tale procedura, che non è eccessivo definire bizantina, la quale finisce per rendere pressoché impossibile l’ingresso regolare per lavoro e che, pertanto, sarebbe necessario ripensare a fondo. È solo ai principali di tali aspetti che è possibile far cenno in questa sede, i quali peraltro vanno a sommarsi al già sottolineato eccesso di regolazione: il prevalente meccanismo della chiamata nominativa del lavoratore ancora residente all’estero, che inevitabilmente produce irregolarità; il principio della preferenza per le assunzioni di lavoratori già presenti sul territorio (e, quindi, il disfavore verso nuovi ingressi nel mercato del lavoro nazionale); l’impossibilità di fare ingresso in Italia per inserimento nel mercato del lavoro (ipotesi invece consentita dalla versione originaria del t.u., che contemplava l’istituto dello sponsor); l’introduzione del contratto di soggiorno per lavoro subordinato ed i pesanti oneri che ne derivano (v. infra, § 8). Tali osservazioni valgono, mutatis mutandis, anche per la speciale procedura prevista dall’art. 24 t.u. per le assunzioni di lavoratori subordinati stagionali, che ricalca in gran parte quella appena descritta, salvi alcuni accorgimenti, gli ultimi dei quali dovuti al cd. “decreto semplificazioni” del Governo Monti (d.l. 9.2.2012, n. 5, conv. con mod. dalla l. 4.4.2012, n. 35), che l’hanno resa più semplice e celere, allo scopo di agevolare ulteriormente la diffusione di tale fenomeno (che, peraltro, nella pratica già rappresenta una realtà decisamente prevalente rispetto agli ingressi a tempo determinato o indeterminato).
Anche gli ingressi per lo svolgimento di attività non occasionale di lavoro autonomo, disciplinati dall’art. 26 t.u., sono subordinati – fatte salve, tuttavia, numerose eccezioni – alla previa verifica della disponibilità delle quote appositamente destinate nel “decreto flussi” (e sempre che non si tratti di attività riservate dalla legge ai soli cittadini italiani). Anche in questo caso è prevista una rigida procedura per la concessione allo straniero del visto di ingresso e del permesso di soggiorno. Questi, difatti, è tenuto a dimostrare di disporre di adeguate risorse economiche per avviare l’attività in questione e l’inesistenza di motivi ostativi all’esercizio della stessa, nonché di possedere i requisiti di legge necessari per esercitarla (compresa l’iscrizione ad albi o registri, se prevista) e di disporre di un’idonea sistemazione alloggiativa e di un reddito annuo superiore al livello minimo previsto per l’esenzione dalla spesa sanitaria. La Questura territorialmente competente, alla quale deve essere presentata la documentazione di cui sopra, all’esito dell’istruttoria rilascia, entro 20 giorni, il nulla osta provvisorio all’ingresso. Il visto di ingresso vero e proprio è, invece, concesso dalla rappresentanza diplomatica o consolare italiana nel Paese di origine, entro 120 giorni dalla presentazione della domanda, una volta accertato il possesso dei requisiti prescritti e dopo aver acquisito un ulteriore nulla osta all’ingresso da parte di tre ministeri (quello degli Affari esteri, quello dell’Interno e quello competente in relazione all’attività che si intende svolgere). Il visto di ingresso deve essere utilizzato entro 180 giorni dalla data del rilascio. Dopo aver fatto ingresso in Italia, lo straniero, tramite lo Sportello unico, ottiene dalla Questura il rilascio del permesso di soggiorno per lavoro autonomo. Anche in questo caso, l’alto tasso di burocratizzazione dell’iter procedurale incide sensibilmente sulla possibilità per gli stranieri di svolgere attività di lavoro autonomo nel nostro Paese, e di conseguenza contribuisce a determinare un forte tasso di abusivismo (peraltro pesantemente sanzionato, qualora esso assuma le sembianze dell’abusivismo commerciale).
Per speciali categorie di lavoratori stranieri che richiedono di entrare in Italia è consentita, in deroga al generale principio secondo cui non possono essere rilasciati visti di ingresso per motivi di lavoro in numero eccedente alle quote annualmente predeterminate, la possibilità di ingresso fuori quota, per lo svolgimento di attività lavorative tanto subordinate quanto autonome (artt. 27-27 quater t.u.). In tali ipotesi il rilascio delle autorizzazioni al lavoro, dei visti di ingresso e dei permessi di soggiorno avviene più celermente e senza limiti numerici, in ragione della natura particolarmente qualificata delle attività svolte ovvero in considerazione dei peculiari tratti di mobilità e temporaneità delle prestazioni stesse. Le categorie esentate dalle quote sono tassativamente elencate dal t.u., alle previsioni del quale si rinvia per le disposizioni di dettaglio; i lavoratori entrati in Italia “fuori quota”, diversamente da coloro che invece hanno seguito la procedura di cui all’art. 22 t.u., restano vincolati, nello svolgimento della propria attività lavorativa, alla qualifica in forza della quale era stato consentito l’ingresso.
Da sempre molto dibattuta, in dottrina come in giurisprudenza, è la questione se gli stranieri possano accedere agli impieghi alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni o, viceversa, se la cittadinanza italiana rappresenti tuttora un requisito per l’accesso ai pubblici impieghi. Da un lato, la riserva al cittadino non pare essere oggetto di vincolo costituzionale, e ciò nonostante che art. 51, co. 1, Cost. disponga che «Tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge». La giurisprudenza costituzionale, difatti, ritiene che l’espressione «cittadini», contenuta anche in altri analoghi passaggi della Carta debba essere letta, ad esempio in relazione all’art. 3, come riferita ai consociati, e non ai titolari di detto status (v. ad es. C. cost., 23.11.1967, n. 120). E neppure pare determinante il disposto dell’art. 98, co. 1, Cost., secondo cui «I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione». Dall’altro lato, il fatto che la cittadinanza italiana costituisca un requisito generale per accedere al pubblico impiego è tuttora prescritto dall’art. 2 dello «Statuto degli impiegati civili dello Stato» (d.P.R. 10.1.1957, n. 3), come pure da altre disposizioni di dettaglio valevoli per i singoli comparti. Molte sono, tuttavia, le deroghe all’applicazione di tale norma, che coprono principalmente i cittadini dell’Unione europea (tranne che per gli impieghi che comportano l’esercizio, sia pure indiretto, di pubblici poteri, e che riguardano la tutela degli interessi generali dello Stato o delle pubbliche collettività, come ricordato più volte dalla Corte di giustizia, la quale ha così limitato la deroga alla libera circolazione dei lavoratori europei, ex art. 45, co. 4, TFUE, ad ipotesi determinate; il d.P.C.m. 7.2.1994, n. 174, definisce i «posti» e le «tipologie di funzioni» per il cui esercizio è richiesto il possesso della cittadinanza italiana, utilizzando peraltro criteri che in parte differiscono da quelli enunciati dai giudici di Lussemburgo).
A fronte di un quadro normativo frammentario e contraddittorio, che vede contrapporsi norme che impongono il requisito della cittadinanza (art. 2, d.P.R. n. 3/1957; art. 2, d.P.R. n. 487/1994; art. 38, d.lgs. 30.3.2001, n. 165; art. 27, co. 3, t.u.) e norme che, viceversa, sembrano consentire in via generale l’accesso alla funzione pubblica anche degli stranieri (su tutte, gli artt. 2 e 43 t.u.), talvolta come riflesso delle aperture stabilite dall’ordinamento europeo – che ha esteso a determinate categorie di stranieri la possibilità di accedere alla funzione pubblica: il riferimento è ai familiari dei cittadini dell’Unione europea, ex art. 24, dir. n. 2004/38/CE, ai cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, ex art. 11, co. 1, dir. n. 2003/109/CE, ed ai titolari dello status di rifugiato o di protezione sussidiaria, ex art. 24, co. 1, dir. n. 2004/83/CE, sulle quali si v. ora l’art. 7 della l. 6.8.2013, n. 97 –, si riscontrano due contrapposti orientamenti giurisprudenziali. Un primo filone, prevalente nella giurisprudenza amministrativa, afferma la preclusione del pubblico impiego per i cittadini stranieri, fatte salve le esclusioni stabilite dal diritto dell’Unione, ritenendo applicabili le disposizioni che prevedono il requisito della cittadinanza italiana, che non sarebbero state abrogate dal t.u., né tantomeno sarebbero in contrasto con i principi costituzionali (fra le altre, cfr. TAR Piemonte, 12.5.1994, n. 252; TAR Toscana, 24.1.2003, n. 38; TAR Veneto, 25.3.2004, n. 782; TAR Toscana, 14.10.2005, n. 4689; Trib. Venezia, 19.2.2005, n. 181; Trib. Bologna, 7.8.2008; ma si v. anche Cass., 13.11.2006, n. 24170). Un diverso e più ampio orientamento, invece, prevalente nella giurisprudenza ordinaria e maggiormente condivisibile, opera una lettura costituzionalmente orientata del vigente quadro normativo alla luce del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost., e ritiene superato il requisito della cittadinanza italiana in quanto contrastante con il principio di parità di trattamento affermato anche dal t.u. (fra le altre, cfr. TAR Liguria, 13.4.2001, n. 399; App. Firenze, 2.7.2002; Trib. Genova, 21.4.2004; Trib. Pistoia, 7.5.2005; Trib. Firenze, 14.1.2006; Trib. Perugia, 6.12.2006; Trib. Bologna, 25.10.2007; Trib. Milano 30.5.2008; App. Firenze, 28.11.2008; Trib. Milano 17.7.2009; Trib. Milano 20.7.2009; Trib. Milano 11.1.2010; Trib. Milano 28.7.2010; Trib. Milano 21.4.2011; pare inoltre andare nella stessa direzione anche C. cost., 15.4.2011, n. 139).
A differenza dell’accesso dei lavoratori stranieri al mercato del lavoro nazionale, che come si è visto è oggetto di una specifica regolazione, la disciplina del rapporto di lavoro con i suddetti soggetti non presenta significativi profili di specialità, e ciò in virtù del già citato principio secondo cui al lavoratore in possesso di permesso di soggiorno deve essere riconosciuta una condizione di piena uguaglianza e di parità di trattamento rispetto ai lavoratori italiani (art. 2, co. 3, t.u.). Tale principio, peraltro, risulta variamente sancito anche da disposizioni di rango internazionale e dal diritto dell’Unione europea. La scarsità delle pronunce giurisprudenziali testimonia un contenzioso piuttosto scarso in materia di parità di trattamento e svolgimento del rapporto di lavoro. Ciò non significa, tuttavia, che non si pongano ugualmente dei problemi di parità di trattamento, ad iniziare da quelli originati dal contratto di soggiorno per lavoro subordinato.
La sottoscrizione, da parte dello straniero, del contratto di soggiorno per lavoro subordinato, di cui all’art. 5 bis t.u., introdotto nel nostro ordinamento dalla l. n. 189/2002, è condizione per il rilascio del permesso di soggiorno per lavoro subordinato, il quale a sua volta consente di soggiornare e lavorare regolarmente in Italia. A fronte di un dato normativo assolutamente evasivo quanto alla qualificazione giuridica dell’istituto, la ricostruzione più attendibile lo inquadra come un normale contratto di lavoro subordinato, riservato però ai soli cittadini di Paesi terzi, cui accede l’ulteriore impegno di natura contrattuale, e gravante sul datore di lavoro, relativo alla garanzia (fin dall’atto della presentazione della proposta di contratto di soggiorno) della disponibilità per il lavoratore di un alloggio che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, nonché all’impegno al pagamento delle spese di rimpatrio del lavoratore. Gli elementi di specialità del contratto, in altre parole, non paiono tali da incidere sulla causa dello stesso, che pertanto non si discosta da quella tipica di qualunque contratto di lavoro subordinato, ex art. 2094 c.c. Il contenuto essenziale del contratto non può quindi essere fatto coincidere con le sole due obbligazioni riguardanti la garanzia dell’alloggio ed il pagamento delle spese di rimpatrio, ma comprende necessariamente anche la definizione della regolamentazione del contratto di lavoro (mansioni, livello di inquadramento, retribuzione e così via), il tutto a condizioni non inferiori a quelle previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva. La mancata assunzione delle predette garanzie rende il contratto inidoneo a produrre l’effetto di consentire il rilascio del permesso di soggiorno; oltre a questo, il legislatore non ha ulteriormente disciplinato il regime sanzionatorio in caso di inadempienze datoriali.
Molti sono i profili dell’istituto che danno adito a dubbi di costituzionalità, per contrasto principalmente con gli artt. 35-40 Cost., i quali garantiscono allo stesso modo tutti i lavoratori senza ammettere alcuna distinzione fondata sul criterio della nazionalità, ma che paiono anche confliggere con la convenzione OIL 24.6.1975, n. 143 sulla parità di trattamento tra lavoratori stranieri e nazionali: si pensi, su tutti, al fatto che il contratto sia riservato ai soli cittadini di Paesi terzi, il che pone questi ultimi senza dubbio in una posizione più svantaggiata rispetto ai cittadini italiani e dei Paesi membri dell’Unione europea circa l’accesso all’occupazione e le garanzie di durata e stabilità del rapporto di lavoro. L’istituto, in altre parole, impone allo straniero condizioni di mercato più svantaggiose rispetto a quelle di cui può fruire il cittadino italiano o europeo, rispetto ai quali il datore non deve garantire l’idoneità dell’alloggio o impegnarsi a pagare le spese di viaggio.
La situazione era resa ancor più grave dal fatto che la sottoscrizione del contratto di soggiorno era richiesta dall’art. 36 bis del regolamento di attuazione del t.u. (d.R. 23.7.1999, n. 349) anche allo straniero già regolarmente soggiornante nel passaggio da un posto di lavoro all’altro, e quindi ai fini del rinnovo del permesso di soggiorno (e non solo per il primo accesso in Italia, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno). L’art. 2 del d.lgs. 4.3.2014, n. 40 ha infine risolto il problema, prevedendo l’abrogazione della disposizione che esigeva la stipula del contratto di soggiorno anche al momento del rinnovo del permesso di soggiorno per lavoro (lasciando comunque inalterato l’art. 5 bis t.u., il quale richiede il contratto di soggiorno in sede di primo rilascio del permesso).
In ogni caso, il fatto che il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro sia comunque tuttora condizionato alla previa stipulazione del contratto di soggiorno si pone in aperto contrasto anche con la dir. n. 2011/98/UE sul permesso unico di soggiorno e lavoro. La direttiva prevede una procedura unica di domanda per tutti i cittadini di Paesi terzi che desiderano fare ingresso in uno Stato membro dell’Unione al fine di svolgervi un’attività lavorativa, domanda che, qualora venga accolta, implica il rilascio al richiedente di un permesso unico di soggiorno e lavoro; essa, in altre parole, mira ad alleggerire le procedure di concessione del titolo combinato di accesso. Neppure il recente d.lgs. n. 40/2014, di recepimento della direttiva, ha conformato la disciplina nazionale ai dettami europei. Esso, difatti, si è limitato a disporre l’inserimento della dizione «permesso unico lavoro» su alcuni permessi di soggiorno che consentono l’attività lavorativa (con l’esclusione dei permessi di soggiorno per lungosoggiornanti, per motivi umanitari, per status di rifugiato e di protezione sussidiaria, per studio, per lavoro stagionale, per lavoro autonomo e per alcune delle categorie per le quali è previsto l’ingresso al di fuori del sistema delle quote: v. infra, § 5).
L’art. 22, co. 12, t.u. sanziona penalmente il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori privi del permesso di soggiorno, il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, ovvero il cui permesso sia stato revocato o annullato. L’apparato sanzionatorio è stato, peraltro, recentemente rafforzato ad opera del d.lgs. n. 109/2012, che ha recepito la dir. n. 2009/52/UE introducendo, fra le altre cose, delle ipotesi aggravanti connesse a fattispecie di grave sfruttamento lavorativo (qualora i lavoratori stranieri irregolari siano in numero superiore a tre, minori in età non lavorativa o esposti a situazioni di grave pericolo), e prevedendo, in tali ipotesi, la possibilità che al lavoratore che denunci il datore e che cooperi nel relativo procedimento penale possa essere rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
Per quel che concerne, invece, le sorti delle prestazioni lavorative comunque rese dal lavoratore irregolare, l’illegittimità del rapporto di lavoro instaurato non comporta il venir meno per il lavoratore del diritto alla retribuzione ed alla copertura previdenziale ed assicurativa, e ciò in virtù dell’applicazione dell’art. 2126 c.c., che a certe condizioni fa salvi gli effetti delle prestazioni di fatto anche se rese in violazione della legge (in tal senso si veda, per tutte, Cass., 26.3.2010, n. 7380). Peraltro, l’art. 3 del d.lgs. n. 109/2012 ha da ultimo espressamente previsto, a carico del datore di lavoro che assume lavoratori stranieri irregolari, l’obbligo al pagamento di tutte le somme, dovute a titolo retributivo, contributivo e fiscale, che egli avrebbe dovuto pagare in caso di assunzione legale, presumendo che il rapporto di lavoro abbia avuto una durata di almeno tre mesi.
Considerato lo stretto legame che il t.u. postula fra soggiorno e lavoro, un ultimo aspetto che merita di essere affrontato concerne i riflessi delle vicende che interessano il regime di validità del permesso di soggiorno sul rapporto di lavoro, da un lato, e le ripercussioni sul permesso di soggiorno dell’estinzione del rapporto di lavoro, dall’altro.
Quanto alla prima questione, l’ipotesi è quella di un rapporto di lavoro validamente costituito ed in corso con uno straniero regolarmente soggiornante, in costanza del quale avvenga la scadenza, la revoca, la sospensione o l’annullamento del permesso di soggiorno. Nel silenzio del legislatore (se si esclude quanto previsto a proposito delle già ricordate sanzioni gravanti sul datore di lavoro), la giurisprudenza ha assimilato l’ipotesi a quella dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione, dovuta al venir meno del provvedimento autorizzativo al lavoro (Cass., 11.7.2001, n. 9407). Non si determinerebbe, quindi, un’immediata ed automatica risoluzione del rapporto, bensì sarebbe rimessa al datore di lavoro la valutazione di tale ipotesi come giustificato motivo oggettivo di licenziamento (art. 3, l. 15.7.1966, n. 604). Solo di recente anche il legislatore è intervenuto sul punto, affermando che lo straniero il cui permesso di soggiorno sia scaduto, ma che ne abbia chiesto il rinnovo entro i 60 giorni dalla scadenza, gode degli stessi diritti dello straniero regolarmente soggiornante, potendo quindi egli continuare a svolgere l’attività lavorativa almeno fino a che non gli sia comunicata, e contestualmente anche al datore, da parte del Questore l’esistenza di motivi ostativi al rinnovo del permesso (art. 5, co. 9 bis, t.u., aggiunto dall’art. 40, co. 3, d.l. 6.12.2011, n. 20, conv. con mod. dalla l. 22.12.2011, n. 214).
Per quanto riguarda, invece, la perdita del posto di lavoro, l’art. 22, co. 11, t.u., come risultante dalle modifiche introdotte dall’art. 4, co. 3, l. 28.6.2012, n. 92, dispone che la perdita del posto di lavoro, per licenziamento o dimissioni, non costituisce motivo di revoca del permesso di soggiorno, che continuerà quindi ad avere efficacia per il periodo di residua validità (che comunque non potrà essere inferiore ad un anno, salvo che si tratti di lavoro stagionale, ovvero, nel caso in cui lo straniero percepisca un trattamento di sostegno del reddito, per tutta la durata del corrispondente periodo, qualora sia superiore ad un anno). Il lavoratore potrà, quindi, iscriversi nelle liste di collocamento per il periodo di residua validità del permesso. Non solo: egli potrà anche, decorso il termine di un anno dalla cessazione del rapporto di lavoro, continuare a rimanere in Italia, purché dimostri di possedere un reddito minimo annuo, derivante da fonti lecite, non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale.
Infine, solo qualche cenno alla questione delle conseguenze derivanti dall’impugnazione eventualmente proposta dal lavoratore straniero contro il licenziamento intimatogli nel residuale ambito di applicazione della tutela reintegratoria: il riferimento è da un lato alla nuova versione dell’art. 18 l. 20.5.1970, n. 300, come novellato dalla l. n. 92/2012 (ed in particolare alla cd. “tutela reintegratoria piena”, co. 1-2, ed alla cd. “tutela reintegratoria attenuata”, co. 4 e 7), e dall’altro alle ipotesi disciplinate dagli artt. 2, co. 1, e 3, co. 2, d.lgs. 4.3.2015, n. 23, in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti. Non essendo prevista alcuna forma di sospensione del termine di validità del permesso di soggiorno, la relativa scadenza determinerà, in carenza di una nuova occupazione, il rientro dello straniero nel suo Paese d’origine. Qualora dovesse successivamente intervenire un ordine giudiziale di reintegrazione del lavoratore, il datore si troverebbe nell’impossibilità di ottemperare tempestivamente a tale ordine, a meno di non avviare la procedura di cui all’art. 22 t.u. tramite richiesta nominativa, comunque soggetta alla disponibilità delle quote annualmente determinate, e fermo restando il risarcimento dei danni subiti dal lavoratore dal momento del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione. Sarebbe stato certamente più equo e razionale prevedere, in tali situazioni, una sospensione del termine di validità del permesso di soggiorno, un apposito permesso di soggiorno per la durata del giudizio o, ancora, una procedura agevolata di ingresso valevole in tale ipotesi. Ma, allo stato, si tratta unicamente di considerazioni valide nell’ottica de jure condendo.
Artt. 1-7; 21-27 quater, d.lgs. 5.7.1998, n. 286.
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