Abstract
Viene esaminata la disciplina del diritto del lavoro a tempo parziale (o part time), quale contenuta nel d. lgs. 25 febbraio 2000 n. 61 sulla base della direttiva europea n. 81 del 1997. In particolare si analizza il ruolo che la disciplina del part time ha avuto nello sviluppo della flessibilità in passato, per poi esaminare, anche alla luce delle modifiche del 2012, la disciplina in tema di forma, sanzioni, clausole elastiche e flessibili. Un paragrafo è dedicato alla analisi del divieto di discriminazioni a danno dei part timers.
La prima disciplina organica di legge del lavoro a tempo parziale (o part time, secondo la formula inglese) fu introdotta nell’ordinamento italiano con l’art. 5 del d.l. 30.10.1984, n. 726 (poi convertito, con modificazioni, nella l. 19.12.1984, n. 863 e ora abrogato), nel contesto di uno dei primi interventi di promozione dell’occupazione.
Alla base di quell’intervento, oltre la volontà di dare una più precisa veste normativa ad una forma di lavoro al tempo già molto diffusa, stava la constatazione che, in altri paesi europei che all’epoca registravano tassi di disoccupazione minori rispetto a quello italiano, una rilevante percentuale del lavoro femminile era occupata ad orario ridotto. Si venne a stabilire così l’idea di una diretta correlazione fra la diffusione del lavoro part time e le azioni di contrasto normativo della disoccupazione, che ha dominato tutto il dibattito successivo, sino ai giorni nostri, tanto da far affermare nei documenti ufficiali che hanno accompagnato l’emanazione del provvedimenti di riforma del 2003 che ogni impedimento o restrizione normativa, posto al ricorso al lavoro a tempo parziale avrebbe potuto costituire una limitazione allo sviluppo dell’occupazione.
Al di là dell’ovvia considerazione che il part time si dimostra capace di moltiplicare il numero degli occupati anche in assenza di una reale crescita economica, grazie alla redistribuzione delle occasioni di lavoro su una platea più vasta di soggetti, deve, tuttavia, apparire evidente come le migliori potenzialità di sviluppo si rintracciano soprattutto nella capacità del lavoro a tempo parziale di attirare sul mercato del lavoro quanti altrimenti ne rimarrebbero lontani, per la concomitante necessità di accudire la prole o comunque altre persone incapaci di provvedere agli ordinari bisogni della loro vita. Si tratta di soggetti prevalentemente di sesso femminile, per il permanere di una distribuzione dei ruoli nella coppia, che rimane fortemente ancorata alla tradizione, anche in paesi molto evoluti. Dunque, in una prospettiva che dia eguale importanza ai bisogni di entrambe le parti del contratto, il lavoro a tempo parziale si rivolge soprattutto a coloro che già sono impegnati in lavori “di cura” e possono quindi offrire sul mercato del lavoro una disponibilità temporale limitata.
La correlazione fra la diffusione del part time e il tasso complessivo di occupazione finisce, quindi, per essere parziale e non biunivoca, nel senso che lo sviluppo del lavoro ad orario ridotto non può apparire illimitato, se non a costo di confinare necessariamente le donne in un ambito lavorativo del tutto peculiare o, parimenti, di imporre, ai fini di contrastare la disoccupazione, una forma di occupazione dimidiata ad una parte rilevante della popolazione.
Poiché sono indubbie le limitazioni che, sul piano delle prospettive di carriera, derivano da una occupazione a tempo ridotto, si è suggerito, dunque, al fine di evitare che si venga a creare una nuova forma di segregazione del lavoro femminile, di sviluppare, piuttosto che il part time in quanto tale, le politiche dei servizi alla persona, come strumento diretto a favorire la presenza femminile sui luoghi di lavoro, sgravando le famiglie dai compiti di cura cui altrimenti esse sarebbero obbligate. In questo senso si è notato, anzi, come, in alcuni paesi, a fronte di tassi elevati di occupazione femminile, sia complessivamente contenuta la quota di part time (Danimarca e paesi scandinavi), poiché la presenza o di sistemi di welfare particolarmente sviluppati (che giungono sino al punto di assicurare un sostituto alla presenza familiare in caso di malattia di un figlio) vale a limitare la diffusione del lavoro a tempo parziale fra le donne.
Altri paesi (e fra questi significativamente l’Olanda), invece, hanno dimostrato una preferenza individuale femminile per il lavoro a orario ridotto, anche dopo che le esigenze di cura dei figli sono venute meno. Negli studi socio-economici, quindi, è andata emergendo la nozione di lavoro a tempo parziale volontario, come criterio idoneo a misurare la qualità del lavoro, registrando la soddisfazione dei singoli per la durata del proprio impegno.
Per altro verso, nella prospettiva dell’impresa, si è a lungo ritenuto che il lavoro a tempo parziale potesse costituire uno strumento di flessibilità dell’organizzazione della produzione, in quanto consente di dimensionare i flussi di attività secondo le mutevoli necessità del mercato. In questo senso, l’esperienza comparata conosce forme di part time con orari variabili quanto a collocazione e durata, in relazione ai quali sono previste, in alcuni ordinamenti, anche tutele assistenziali e previdenziali limitate, al fine di ridurre i costi che le imprese sono chiamate a sopportare. Si giunge, anzi, ad ipotesi nelle quali manca perfino la garanzia di un impiego certo del lavoratore, poiché la prestazione viene resa secondo calendari variabili che non impongono una durata minima giornaliera o mensile (cd. part time a zero ore, o lavoro “a chiamata”, già noto alla esperienza tedesca della metà degli anni ’80). In questa particolare prospettiva, il part time finisce per costituire figura tipica della segmentazione del mercato del lavoro, segnando una profonda differenza di tutela fra un nocciolo di lavoratori garantiti (core workers) e una galassia di precariato che viene aggregata alla produzione su base temporanea o discontinua (contingent workers).
Le esperienze europee degli anni ‘80 hanno messo però in guardia contro un uso così disinvolto della forza lavoro, che non appare per nulla conforme al principio di eguaglianza sostanziale e a quella sua particolare versione che questo ha assunto nella legislazione europea, nella forma del principio di non discriminazione. Di qui l’impegno comunitario, prima attraverso la giurisprudenza della Corte di giustizia e, successivamente, attraverso la direttiva, di cui meglio infra si dirà, rivolto ad assicurare parità di trattamento fra lavoratori a tempo pieno e a tempo parziale ed una convenienza reciproca fra le parti individuali nella scelta della durata della prestazione.
La evoluzione subita dalla disciplina, in Italia e nel resto d’Europa, finisce così per svelare gli equivoci che circondavano l’intervento regolativo del legislatore: nella prospettiva di garantire anche ai part timers parità di trattamento e pari opportunità rispetto ai lavoratori a tempo pieno, il lavoro a tempo parziale vede ridursi la sua capacità di assicurare una maggiore flessibilità oraria della prestazione. Per altro verso, una volta che si sia messo in rilievo il motivo che spinge i lavoratori a ricercare occupazioni a orario ridotto, dovrà apparire evidente che, ove si voglia contrastare la disoccupazione sul lato dell’offerta, si dovrà particolarmente tutelare, in forza del principio della volontarietà del part time, l’aspettativa del lavoratore ad una garanzia circa l’effettiva capacità di poter conciliare i propri impegni familiari con quelli derivanti dalla occupazione lavorativa e, dunque, si dovrà, per un altro verso ancora, prevedere garanzie di prevedibilità dell’orario in concreto praticato.
In conclusione, nella prospettiva di favorire l’occupazione di qualità, secondo le indicazioni europee, il lavoro a tempo parziale finisce per assumere un ruolo importante, ma in certo modo limitato, in quanto esso si rivolge soprattutto a quei lavoratori che, in conseguenza di situazioni, peraltro generalmente transitorie, sono impossibilitati ad offrire per intero il proprio tempo sul mercato del lavoro. Né peraltro si deve dimenticare come la parallela flessibilizzazione dell’orario, attuata in seguito alla dir. 93/104/CE del 23.11.1993, ha finito ormai per indirizzare verso l’ordinario rapporto a tempo pieno una gran parte delle esigenze di flessibilità delle imprese. Il ricorso al lavoro a tempo parziale rimane comunque indispensabile per il settore terziario e per tutti i servizi che vedono una fruizione da parte della clientela solo in certi momenti della giornata, della settimana o dell’anno (come, per es., la ristorazione, la pulizia, il trasporto aereo o i call center, la grande distribuzione e il turismo). Per tali ipotesi, infatti, la flessibilizzazione della organizzazione che può essere assicurata dalle manovre relative all’orario appare comunque insufficiente a garantire una presenza del personale particolarmente intensa nei momenti di maggiore afflusso.
Al pari che per la disciplina generale in tema di orario di lavoro anche l’attuale regolazione del part time è conseguente alla trasposizione nel diritto interno di una direttiva europea (dir. 97/81/CE del 15.12.1997), che, tuttavia, ha un contenuto assai modesto. Già in passato, infatti, nell’ambito di un più vasto intervento in materia di disciplina dell’orario di lavoro, il Consiglio aveva suggerito con la Risoluzione del 18.12.1979, sulla “ristrutturazione del tempo di lavoro” (GUCE C2 del 4.1.1980), di sviluppare il lavoro a tempo parziale come strumento a base volontaria, idoneo ad attrarre sul mercato del lavoro i lavoratori di età avanzata o quanti fossero gravati da responsabilità familiari, preoccupandosi, per altro verso, di evitare la concentrazione dei lavoratori ad orario ridotto in attività poco qualificate e assicurando comunque a costoro il diritto alla parità di trattamento, quanto alle condizioni di impiego. Tale iniziativa, tuttavia, rimase a lungo priva di seguito, tanto che si dovette attendere la fine degli anni ’90 per assistere alla approvazione della direttiva, peraltro nella forma di un “avviso comune” reso dai sindacati dei lavoratori e degli imprenditori di livello europeo. La direttiva, a ben vedere, appare modellata sui contenuti della Convenzione OIL n. 178 del 24.6.1994 (nel frattempo stipulata, ma ratificata da pochissimi Stati) che prevede un generale principio di parità di trattamento fra lavoratori a tempo pieno e a tempo parziale, con riguardo sia alla disciplina del rapporto contrattuale, sia ai diritti sindacali, sia all’accesso ai benefici di tipo previdenziale (artt. da 4 a 7), individuando al contempo i criteri alla stregua dei quali effettuare il giudizio di comparazione (art. 1). La disposizione di cui all’art. 9, poi, impegna gli Stati membri dell’OIL che abbiano proceduto alla ratifica ad adottare specifiche misure, intese a «facilitare l’accesso ad un lavoro a tempo parziale produttivo e liberamente scelto, che risponda alle necessità di datori e lavoratori». In particolare, fra le misure idonee alla diffusione del part time si individua la «revisione delle leggi e delle regolamentazioni che possono impedire o scoraggiare dal ricorso o dalla accettazione di un lavoro a tempo parziale» (art. 8.2.a).
L’art. 10 della Convenzione impone, infine, l’adozione di misure necessarie ad assicurare che la trasformazione del rapporto dal tempo pieno a part time e viceversa avvenga su base volontaria, mentre l’art. 11 consente l’attuazione negli ordinamenti nazionali delle disposizioni OIL non solo attraverso leggi o regolamenti, ma anche attraverso contratti collettivi, quando ciò sia consentito dalle prassi nazionali, imponendo in ogni caso la consultazione delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e degli imprenditori prima dell’intervento normativo delle autorità pubbliche.
Non dissimilmente la direttiva 97/81/CE individua come proprio obiettivo quello di assicurare la soppressione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale e di migliorare la qualità del lavoro a tempo parziale nonché quello di facilitare lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base volontaria e di contribuire all'organizzazione flessibile dell'orario di lavoro in modo da tener conto dei bisogni degli imprenditori e dei lavoratori (clausola 1, lett. a e b, dell’accordo allegato alla direttiva)
La clausola 5 dell’accordo vale a chiarire meglio la definizione degli obiettivi della direttiva, affermando che, «nel quadro della clausola 1 del presente accordo e del principio di non-discriminazione tra lavoratori a tempo parziale e lavoratori a tempo pieno: (a) gli Stati membri, dopo aver consultato le parti sociali conformemente alla legge o alle prassi nazionali, dovrebbero identificare ed esaminare gli ostacoli di natura giuridica o amministrativa che possono limitare le possibilità di lavoro a tempo parziale e, se del caso, eliminarli; (b) le parti sociali, agendo nel quadro delle loro competenze a delle procedure previste nei contratti collettivi, dovrebbero identificare ed esaminare gli ostacoli che possono limitare le possibilità di lavoro a tempo parziale e, se del caso, eliminarli».
Si è ritenuto da parte della dottrina italiana, con un argomento che è stato anche riprodotto nei documenti ufficiali che hanno preceduto ed accompagnato l’emanazione del d.lgs. 10.9.2003, n. 276, che l’impegno alla eliminazione degli ostacoli andasse inteso come una indicazione vincolante, rivolta al legislatore nazionale per evitare qualsiasi forma di restrizione normativa che potesse essere considerata dalle imprese come una limitazione all’uso il più flessibile possibile dei lavoratori a tempo ridotto. In verità, la previsione deve intendersi come orientata alla riduzione delle differenze di trattamento fra lavoratori full e part time, che in passato sono state numerose in molti ordinamenti europei, con riguardo, ad es., alla retribuzione in caso di malattia, all’accesso alle prestazioni di disoccupazione o a quelle pensionistiche. Gli “ostacoli” da eliminare, a mente delle previsioni comunitarie, quindi vanno ricercati, in questo senso, non tanto nelle previsioni normative dirette a riconoscere ai lavoratori a tempo parziale una serie di diritti aggiuntivi, quanto piuttosto nelle differenti discipline che trovano applicazione al lavoro a tempo parziale rispetto al contratto ordinario, così obbligando il legislatore ad assicurare pari trattamento a tutti i lavoratori indipendentemente dall’impegno orario.
Non ci si può nascondere, peraltro, che le indicazioni della direttiva si rivolgono altresì ai sindacati, dal momento che le discriminazioni a danno dei part timers, almeno nell’esperienza europea, sono state spesso il frutto di scelte consapevoli delle organizzazioni sindacali che, in congruenza alle sollecitazioni provenienti dalla base associativa, hanno ritenuto di privilegiare la situazione occupazionale dei lavoratori a tempo pieno. In questo senso, anche al di là dell’origine pattizia della direttiva, i principi antidiscriminatori devono considerarsi estesi anche alle norme collettive.
Ciò premesso, tuttavia, non si deve dimenticare come appaia estraneo all’orizzonte regolativo delle parti collettive e delle stesse istituzioni europee un intervento diretto a dettare una disciplina del rapporto comune a tutti gli Stati membri, di modo che non può dirsi che, al di là dei principi enunciati, si imponga agli ordinamenti nazionali l’adozione di una certa precisa regola, piuttosto che di un’altra. Non deve stupire, quindi, a fronte della tecnica legislativa adottata in sede europea, il fatto che l’ordinamento interno abbia conosciuto nel breve volgere di pochi anni provvedimenti di segno radicalmente opposto, tutti intesi alla trasposizione della direttiva.
Il lavoro a tempo parziale trova regolazione nell’ordinamento italiano nel d.lgs. 25.2.2000 n. 61, che tuttavia è stato fatto oggetto di plurime modifiche (spesso di segno contrapposto) attraverso: il d.lgs. 26.2.2001 n. 100; il d.lgs. n. 276 del 2003; la l. 24.12.2007, n. 247, la l. 12.11.2011, n. 183 e, da ultimo, l. 28.6.2012, n. 92.
Quanto alla particolare forma scritta che il contratto individuale deve assumere perché sia valido, il combinato disposto di cui all’art. 2, co. 1 e art. 8, co. 1 e 2 del d.lgs. n. 61 del 2000 stabilisce ora che il contratto di lavoro a tempo parziale è stipulato in forma scritta a fini probatori, precisando tuttavia, nell’ambito della disposizione che raccoglie i profili sanzionatori, che qualora la scrittura risulti mancante, è ammessa la prova per testimoni nei limiti di cui art. 2725 c.c. e, dunque, per le sole ipotesi nelle quali il documento scritto sia andato perduto senza colpa del contraente che lo invoca (si pensi, per fare solo un es., ad un documento che rimanga nella materiale disponibilità di un consulente d’azienda infedele).
A riguardo, il co. 1 dell’art. 8 del d.lgs. n. 61 del 2000 aggiunge che, «in difetto di prova in ordine alla stipulazione a tempo parziale» e su richiesta del lavoratore, ma senza alcun effetto sulle retribuzioni già corrisposte, «potrà essere dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data in cui la mancanza della scrittura sia giudizialmente accertata». Pare chiaro che l’ipotesi regolata sia diversa da quella prima richiamata della perdita incolpevole e si riferisca ad una mancanza ab origine della forma scritta.
Lo stesso art. 8 del d.lgs. n. 61 del 2000 risolve con articolata previsione, al co. 2, la questione delle conseguenze del mancato rispetto delle norme in tema di forma, stabilendo, innanzi tutto, in linea con le indicazioni della Corte costituzionale, che non comporta la nullità (scil. neanche parziale) del contratto di lavoro part time la mancanza, o indeterminatezza, nel contratto scritto, delle indicazioni di cui all'art. 2, co. 2, relative alla durata o alla collocazione oraria della prestazione.
Le conseguenze che derivano dal mancato rispetto della disposizione ora citata sono però diverse, in conformità al profilo violato. In particolare, si prevede che:
- qualora l'omissione riguardi la durata della prestazione lavorativa, su richiesta del lavoratore possa «essere dichiarata la sussistenza fra le parti di un rapporto di lavoro a tempo pieno a partire dalla data del relativo accertamento giudiziale»;
- qualora, invece, l'omissione riguardi «la sola collocazione temporale dell'orario», il giudice provvederà «a determinare le modalità temporali di svolgimento della prestazione lavorativa a tempo parziale», facendo riferimento alle previsioni dei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, o, in mancanza di queste, «con valutazione equitativa, tenendo conto in particolare delle responsabilità familiari del lavoratore interessato, della sua necessità di integrazione del reddito derivante dal rapporto a tempo parziale mediante lo svolgimento di altra attività lavorativa, nonché delle esigenze del datore di lavoro». La norma in esame prevede altresì che: «per il periodo antecedente la data della pronuncia della sentenza, il lavoratore ha in entrambi i casi diritto, in aggiunta alla retribuzione dovuta, alla corresponsione di un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno, da liquidarsi con valutazione equitativa».
Il legislatore, nell’ambito delle previsioni dell’art. 3, d.lgs. n. 61 del 2000, prevede una articolata e complessa disciplina rivolta a garantire all’impresa un utilizzo quanto mai flessibile della prestazione promessa, riconoscendo il diritto del datore sia a modificare la collocazione della prestazione, grazie alla stipula della clausole flessibili, sia a determinare un prolungamento di questa, attraverso il ricorso al lavoro straordinario o supplementare, ovvero grazie alle clausole elastiche.
Evidente appare nel nuovo quadro normativo la differenza, in via generale, fra lavoro supplementare e straordinario, dal momento che il legislatore ha precisato, all’art. 3, co. 2, d.lgs. 8.4.2003, n. 66, che la riduzione dell’orario normale di lavoro disposta dalla contrattazione collettiva trova applicazione (solo) “ai fini contrattuali”: ne consegue che, ad es., la disciplina di cui all’art. 5, co. 3 e 4 del d.lgs. n. 66, circa le ipotesi in cui è ammesso il prolungamento con prestazioni straordinarie, sarà limitata alle sole ipotesi di superamento di un orario medio di 40 ore settimanali, mentre quando il datore si mantenga al di sotto di tale soglia, il prolungamento non incontrerà i limiti di legge.
A differenza che in passato, il lavoro straordinario è ammesso ora anche nel part time verticale o misto; la formulazione letterale della previsione di cui al co. 5 dell’art. 3, d.lgs. n. 61 del 2000, lascia intendere, invece, ove la si confronti con il co. 1 della stessa disposizione, che non sia ammessa la prestazione di lavoro straordinario nella ipotesi di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale, essendo ammesso in questa ipotesi solo il lavoro supplementare sino alla soglia massima prevista dalla contrattazione collettiva. Non sono chiari i motivi di tale divieto: si può ipotizzare che la norma trovi ragione nella necessità di evitare che il datore possa sistematicamente preferire la forma del lavoro a part time, a scapito della disciplina ordinaria, prolungando poi di fatto la prestazione concretamente resa, sino oltre la durata della prestazione ordinaria, quando ne abbia concreta convenienza.
Complessa, poi, è la differenza fra le due ipotesi di prolungamento ora esaminate e quella realizzata attraverso “clausole elastiche”, dal momento che entrambe sembrano realizzare il medesimo effetto, attraverso discipline però profondamente diverse. Ed infatti, mentre le clausole che attengono alla modifica della collocazione della prestazione lavorativa mirano ad un obiettivo altrimenti non suscettibile di essere raggiunto per altra via, il prolungamento realizzato attraverso le clausole elastiche presenta maggiori difficoltà per gli imprenditori (a mente delle condizioni previste dal co. 7 sopra cit.) ed appare economicamente più oneroso del lavoro supplementare, tanto che, la contrattazione collettiva raramente se ne è interessata.
Le clausole elastiche appaiono utili, perciò, soprattutto nella ipotesi del part time verticale o misto, come una alternativa funzionale al lavoro supplementare (proprio della forma orizzontale ed escluso, come si è detto, negli altri casi di lavoro a tempo parziale), consentendo un prolungamento della prestazione anche al di là delle condizioni previste per legge per lo straordinario settimanale. Nel part time orizzontale, invece, esse appaiono funzionali soprattutto a garantire al datore la sussistenza di un obbligo in capo al prestatore ad effettuare una prestazione più lunga, così superando le previsioni di cui all’art. 3, co. 3 d.lgs. n. 61 del 2000, che sembrano tutelare la volontà individuale del singolo, legittimando il rifiuto del lavoratore al prolungamento attraverso prestazioni supplementari. Il ricorso al lavoro supplementare appare però economicamente più attraente per il datore, rispetto alle clausole di modifica della durata della prestazione, ove si consideri che non sussiste un diritto a maggiorazioni retributive per le ore prestate in più rispetto all’orario pattuito come standard.
La lettera originaria del d.lgs. n. 61/2000 prevedeva solamente (art. 3, co. 7) «clausole elastiche in ordine alla sola collocazione temporale della prestazione lavorativa». Il legislatore delegato del 2003 ha, invece, ampliato le possibili flessibilità della norma, modificando peraltro la terminologia sino ad allora invalsa nella giurisprudenza. La lettera degli attuali co. 7, 8 e 9 dell’art. 3 del d.lgs. n. 61 del 2000 prevede così che possono concordarsi «clausole flessibili relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione stessa», nonché, nei soli rapporti di lavoro a tempo parziale di tipo verticale o misto, «clausole elastiche relative alla variazione in aumento della durata della prestazione lavorativa».
La disciplina relativa alla liceità di simili pattuizioni è tuttavia unica e si articola in quattro diversi elementi che il decreto del 2003 configura in maniera solo apparentemente simile alle precedenti previsioni di legge: si richiede ora che vi sia una previsione collettiva espressa e un consenso individuale, che sia dato un preavviso e sia riconosciuto «un diritto a specifiche compensazioni».
La previsione, apparentemente rigorosa del co. 7 dell’art. 3 in tema di intervento della contrattazione collettiva, trovava in passato smentita nel co. 2 ter dell’art. 8 dello stesso d.lgs. n. 61, che legittimava il ricorso alle clausola anche in mancanza di disposizioni di contratto collettivo. Siffatta disposizione è stata ora espunta dal testo del decreto, a seguito della abrogazione del co. 2 ter, disposta dalla l. n. 247 del 2007, al co. 44 dell’art. 1. Attualmente, dunque, le clausole possono essere sottoscritte solo in conformità a quanto previsto dai contratti collettivi stipulati dalla oo. ss. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, cui spetta di disciplinare «condizioni e modalità» perché il datore possa legittimamente esercitare il potere derivante dalle previsioni di legge (meno significativa appare, invece, la modifica della durata del preavviso: che, dopo tante variazioni, è ora pari a due giorni lavorativi, «fatte salve le (diverse) intese fra le parti individuali».
Più profonda appare la modifica operata dalla riforma del 2003, quanto al pagamento della maggiorazione retributiva, prima prevista a corrispettivo della sola disponibilità offerta a modificare il momento della prestazione lavorativa, ed ora collegata, invece, al concreto «esercizio da parte del datore di lavoro del potere di variare in aumento la durata della prestazione lavorativa, nonché di modificare la collocazione temporale». Inoltre, a differenza della formula originaria, che si riferiva al diritto del lavoratore a una «maggiorazione della retribuzione», l’attuale lettera del co. 8 prevede solo il diritto «a specifiche compensazioni». Il risultato è evidente: mentre nel sistema legislativo previgente il costo era maggiore sol che si stipulasse il patto, ora il datore sopporta un costo solo in relazione alle volte in cui usufruisce della maggiore disponibilità, rimanendo senza «compensazione» alcuna l’ipotesi in cui il lavoratore, pur avendo offerto la sua disponibilità, non venga chiamato a prolungare la sua prestazione o a modificarne la collocazione.
In verità, è la stessa contrattazione collettiva ad aver utilizzato la formula poi ripresa dal legislatore (v. ad es. in CCNL delle imprese di pulizia del 25.5.2001, art. 34), forse sul presupposto di una chiamata pressoché certa e comunque frequente. In questo senso si può forse accettare che la maggiorazione sia corrisposta solo nei casi di chiamata, a patto tuttavia che la clausola sia articolata in modo che risulti comunque garantito un corrispettivo anche nell’ipotesi in cui la disponibilità continuativamente prestata rimanga poi inutilizzata. In ogni caso, ove non si procedesse ad interpretare la previsione legislativa in questo (o in analogo) senso ne sarebbe palese l’incostituzionalità, per violazione dell’art. 36 Cost., co. 1 e 2, nella parte in cui tali prescrizioni delineano il diritto ad una retribuzione sufficiente, secondo l’insegnamento della celebre sentenza della Corte costituzionale (C. cost., 4.5.1992, n. 210).
Si stabilisce, poi, che «il diritto a specifiche compensazioni» conseguente alla stipula del patto spetta «nella misura ovvero nelle forme fissate dai contratti collettivi», lasciando quindi intendere, come poi puntualmente specificato dalla circolare interpretativa (circ. Min. Lavoro, 18.3.2004, n. 9, in G.U. del 30.3.2004), che la compensazione possa essere limitata al semplice recupero delle ore lavorate in più in un diverso momento dell’anno, senza dunque che lo scostamento dall’orario determinato nel contratto individuale comporti alcun costo aggiuntivo per l’impresa.
Inoltre, ed è stato certamente questo il punto maggiormente critico, a seguito delle modifiche del 2003 era venuta meno la previsione che consentiva nella originaria stesura del decreto (co. 10) al lavoratore, che avesse intrapreso un’altra attività lavorativa, o che avesse esigenze familiari o di salute, di denunziare la clausola, ritornando alla forma del part time rigido.
La sostanza normativa del più antico precetto è stata però recentemente recuperata dalla l. n. 92 del 2012, che ha inserito un numero 3 bis nel co. 7 e ha integrato il disposto del co. 9 dell’art. 3 d.lgs. n. 61 del 2000, così da consentire al singolo lavoratore di revocare il proprio consenso alla prestazione “flessibile”, per motivi di studio o per malattia oncologica, nonché negli altri casi previsti dalla contrattazione collettiva.
Il legislatore, infine, si preoccupa di tutelare la libertà individuale, stabilendo nell’ultima parte del co. 9 dell’art. 3, che il rifiuto del lavoratore di stipulare il patto «non integra gli estremi del g.m. di licenziamento». La formula è ripresa alla lettera dalla versione precedente del decreto (art. 3, co. 11), dove essa stava a garanzia della assoluta libertà del lavoratore (anche nell’ipotesi di recesso dal patto). Il rifiuto di stipulare un patto (o la denunzia del patto già stipulato, nella vecchia formulazione) attengono alla manifestazione di un consenso negoziale e, dunque, non possono assumere mai la veste dell’inadempimento, di modo che una precisazione in termini disciplinari del comportamento resta preclusa. Il giustificato motivo in esame, in altri termini, è un g. m. oggettivo, a differenza della ipotesi richiamata nel co. 3 dello stesso articolo che è, invece, g. m. soggettivo.
L’art. 4 del d.lgs. n. 61 del 2000 contiene una disciplina a tutela delle possibili discriminazioni subite dal lavoratore ad orario ridotto che è rimasta inalterata pur a fronte dei numerosi interventi di revisione del testo originario del 2000. Si prevede così uno specifico dovere di non discriminare il lavoratore «per il solo motivo di lavorare a tempo parziale», che viene ad aggiungersi all’ormai folto quadro di previsioni legislative relative sia alle forme dirette che indirette di discriminazione.
La norma ha riguardo, innanzitutto, alla individuazione del lavoratore a tempo pieno comparabile, con cui effettuare il confronto, a fronte del fatto che, come è ben noto, non di rado l’organizzazione del lavoro è tale che non coesistono lavoratori ad orario diverso in relazione alla stessa posizione lavorativa. Il co. 1 dell’art. 4, dunque, intende per lavoratore “comparabile” ai fini del giudizio relativo all’accertamento della discriminazione «quello inquadrato nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dai contratti collettivi di cui all'art.1, comma 3».
Per altro verso, conformemente alle indicazioni comunitarie, il principio consente tuttavia forme di trattamento differenziato, quando questo risultato sia conseguente ad una corretta applicazione del principio del pro rata temporis.
In questo senso il legislatore si è preoccupato, opportunamente, di disciplinare singoli aspetti della disciplina legale e contrattuale che potrebbero dar luogo a dubbi circa la corretta applicazione del principio. Al co. 2 si stabiliscono, quindi, in due lunghi elenchi gli istituti per i quali non si fa luogo a differenziazioni (lett. a) e quelli in relazione ai quali, invece, è legittima l’applicazione di un trattamento riproporzionato in relazione alla durata ridotta della prestazione.
Così si prevede che l'applicazione del principio di non discriminazione comporta che il lavoratore a tempo parziale benefici dei medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile in particolare per quanto riguarda: «l'importo della retribuzione oraria; la durata del periodo di prova e delle ferie annuali; la durata del periodo di astensione obbligatoria e facoltativa per maternità; la durata del periodo di conservazione del posto di lavoro a fronte di malattia; infortuni sul lavoro, malattie professionali; l'applicazione delle norme di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro; l'accesso ad iniziative di formazione professionale organizzate dal datore di lavoro; l'accesso ai servizi sociali aziendali; i criteri di calcolo delle competenze indirette e differite previsti dai contratti collettivi di lavoro; i diritti sindacali»
Al contrario, il trattamento del lavoratore a tempo parziale può legittimamente essere riproporzionato in ragione della più breve durata della prestazione lavorativa, in particolare per quanto riguarda: «l'importo della retribuzione globale e delle singole componenti di essa; l'importo della retribuzione feriale; l'importo dei trattamenti economici per malattia, infortunio sul lavoro, malattia professionale e maternità».
La norma si preoccupa altresì di aggiungere, ma alla luce del generale principio del favor la precisazione appare in fondo ridondante, che i contratti collettivi stipulati da oo.ss. comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, possono provvedere a modulare la durata del periodo di prova e quella del periodo di conservazione del posto di lavoro in caso di malattia qualora l'assunzione avvenga con contratto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale; analogamente si prevede che la corresponsione ai lavoratori a tempo parziale di emolumenti retributivi, in particolare a carattere variabile, possa avvenire in misura più che proporzionale.
L’art. 5 del d.lgs. 61 contiene poi misure (invero molto deboli) dirette ad incentivare la diffusione del part time, che trovano peraltro completamento negli artt. 12 bis e 12 ter in relazione ai lavoratori affetti da patologie oncologiche e al diritto di precedenza nelle assunzioni.
D.lgs. 25.2.2000 n. 61; dir. 1997/81/CE.
Ichino, P., Il tempo della prestazione nel rapporto di lavoro, Milano, 1985, 368-400 (II° edizione, accresciuta, 2012, in collaborazione con L. Valente); Brollo, M., Il lavoro subordinato a tempo parziale, Torino, 1991; Biagi, M., a cura di, Il lavoro a tempo parziale, Milano, 2000; Brollo, M., a cura di, Il lavoro a tempo parziale, Milano, 2001; Liso, F., a cura di, Il lavoro a tempo parziale, Milano, 2002; Papaleoni, M., Il nuovo part-time nel settore pubblico e privato, Padova, 2004; Ferrante V., Il tempo di lavoro tra persona e produttività, Torino, 2004; Delfino, M., Il lavoro part-time nella prospettiva comunitaria. Studio sul principio volontaristico, Napoli, 2008; con taglio divulgativo, v. altresì Dui, P., Il rapporto di lavoro a tempo parziale, Milano, 1989; Mele, L., Il part-time, Milano, 1990; Nicolini, G., Il lavoro a tempo parziale, Milano, 1988; Filadoro, C., Il part-time, Milano, 2000, 31.