Abstract
Viene esaminata la disciplina del rapporto di lavoro minorile nella prospettiva di una nuova contestualizzazione delle problematiche relative alla capacità del minore a prestare il proprio lavoro ed alla connessa capacità di stipula del contratto.
Il lavoro minorile è un fenomeno sociale riscontrabile soprattutto in quei contesti in cui il livello di scolarizzazione dei fanciulli è limitato (v. rapporto ILO, Action against child labour 2008-2009: IPEC Progress and Future Priorities, 2010); in cui le ristrettezze economiche spingono alla ricerca di occasioni di integrazione del reddito familiare; in cui la tutela, legislativa e contrattuale, dei lavoratori è alquanto arretrata ed inefficace (De Cristofaro, M.L., voce Lavoro minorile, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1990, 1). L’implicazione della persona del lavoratore nell’esecuzione della prestazione assume una particolare rilevanza nella disciplina sul lavoro minorile in cui il principio della salvaguardia della posizione del contraente debole viene realizzato mediante una accurata serie di divieti relativi all’esecuzione stessa della prestazione lavorativa. Limitazioni dettate dall’esigenza di salvaguardare la salute psicofisica del minore, lo sviluppo mentale, spirituale, morale e sociale, di evitare un suo disumano sfruttamento, e dalla sempre più crescente esigenza di assicurare tanto l’istruzione scolastica quanto la formazione professionale volta al pieno inserimento nel mercato del lavoro (Spagnuolo Vigorita, L., La tutela giuridica del lavoro minorile, in Riv. infort., 1971, 648).
L’esigenza di approntare idonee garanzie a favore dei minori affonda le proprie radici storiche alla fine del XIX secolo, quando l’industrializzazione galoppante cominciò a drammatizzare il tema delle condizioni di lavoro e delle tutele del minore. La comunità internazionale mostrò di aver acquisito coscienza del problema già nel 1919 (Convenzione sull’età minima – industria), nell’ambito della attività dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Nesi, G., Nogler, L., Pertile, M., a cura di, Child Labour in a Globalized Word. A Legal Analysis of ILO Action, Ashgate, 2008), ed in particolare si assunse in quella prestigiosa sede l’impegno a proteggere l’infanzia e a riconoscere tale obiettivo come essenziale al perseguimento della giustizia sociale e della pace universale in modo da abolire le peggiori forme di lavoro minorile.
La rilevanza internazionale ed europea della materia è testimoniata da numerose normative, quali la Carta sociale europea 18 ottobre 1961; la Conv. OIL 138/1973 sull’età minima di ammissione al lavoro; la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989; la dir. 94/33 CE relativa alla protezione dei giovani sul lavoro; la Conv. OIL 182/1999 e Raccomandazione 190/2000 sulla proibizione delle forme peggiori di lavoro minorile e sui programmi d’azione per la loro eliminazione (Nunin, R., Il lavoro dei minori: interventi recenti internazionali e interni, in Riv. giur. lav., I, 2000, 655 e ss.). La stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, sulla scia della Convenzione internazionale del 1989, garantisce ai minori condizioni di lavoro «appropriate alla loro età», e la protezione «dallo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che ne possa minare la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, mentale , morale o sociale» o che possa intralciare la loro istruzione (art. 32).
L’attenzione per la materia dei diritti dei minori è cresciuta negli ultimi decenni a causa di molteplici fattori, quali la natura globalizzata delle economie e delle operazioni di business e le tendenze di decentramento che hanno senz’altro influenzato il godimento dei diritti umani sul lavoro, da tutelarsi anche mediante i nuovi strumenti di lotta al lavoro minorile quali i codici di condotta ed eticità della produzione (Commento generale – Comitato Onu – 14 gennaio – 1 Febbraio 2013, I, 1).
Sul versante nazionale la prima esperienza normativa risale alla l. 11.2.1886, n. 3657 e al R.d., 17.9.1886, n. 4082, sul lavoro dei fanciulli negli opifici, nelle cave e nelle miniere. La l. 19.6.1902, n. 242 e il r.d. 29.1.1903, n. 41 e, soprattutto, il R.d. 10.11.1907, n. 818, sostituito dalla l. 26.4.1934, n. 653, modificata dalla l. 20.11.1961, n. 1325, hanno invece previsto una regolamentazione unitaria del lavoro delle donne e dei fanciulli nell’ottica di una tutela della salute della forza lavoro considerata più debole (cd. mezze forze).
La necessità di una comune e generale salvaguardia della personalità del minore, trova fondamento nella garanzia costituzionale della dignità della persona e nella speciale protezione dell’infanzia (artt. 2, 31, 37 Cost.). Il legislatore ha dato specifica attuazione all’art. 37 Cost. con la l. 17.10.1967, n. 977, intitolata alla «Tutela del lavoro dei bambini e degli adolescenti», cosi come modificata dal d.lgs. 4.8.1999, n. 345 attuativo della dir. 94/33 CE, e dal d.lgs. 18.8.2000, n. 262: normativa che ha abbandonato il principio di assimilazione giuridica dei minori alle donne. La normativa si applica ai minori di anni diciotto titolari di un contratto di lavoro, anche speciale, e distingue ai propri fini due categorie di minori: il bambino, meno che quindicenne o in ogni caso ancora soggetto all’obbligo scolastico, e l’adolescente, di età compresa tra i quindici e i diciotto anni di età e non più soggetto all’obbligo scolastico (art. 1). Detta disciplina non si applica agli adolescenti addetti a lavori occasionali o di breve durata concernenti: a) i servizi domestici prestati in ambito familiare; b) le prestazioni di lavoro non nocivo, né pregiudizievole, né pericoloso, nelle imprese a conduzione familiare (art. 2). Il regime delle esclusioni, sebbene conforme al dettato europeo (cfr. art. 2 dir. 94/33 CE), risulta connotato da un’indeterminatezza assoluta dei concetti di «occasionale» e «breve durata», per la comprovata circostanza che spesso è proprio il lavoro svolto «in famiglia», ad essere causa di dispersione scolastica e sfruttamento del lavoro minorile.
La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che la definizione «breve durata» è alternativa a quella di «natura occasionale» e va necessariamente riferita ad attività che traggano origine da esigenze impreviste dal datore di lavoro e/o risultino di durata corrispondente a quella di una giornata lavorativa o di poco superiore e, cioè, ad un tipo di prestazione che non rientra tra quelle che l’azienda richiede abitualmente ai propri dipendenti, anche se limitatamente a determinati periodi dell’anno (Cass. pen., 5.10.2010, n. 35706).
L’art. 37 Cost. affida alla legge ordinaria il compito di individuare il limite minimo di età per il lavoro salariato. L’art. 3 della l. n. 977/1967, e successive modificazioni, stabilisce due requisiti per l’individuazione dell’età minima per l’ammissione al lavoro, in assenza dei quali risulta applicabile la sanzione contenuta nell’art. 26. In generale è vietata l’ammissione al lavoro prima che il minore abbia concluso il periodo di istruzione obbligatoria (art. 34 Cost.); in ogni caso l’età per lavorare è fissata nel minimo a quindici anni compiuti (salvo che per il settore pubblico in cui l’età minima coincide con il compimento dei diciotto anni: art. 2, d.P.R. 9.5.1994, n. 487).
L’indagine vertente sul significato da attribuire all’inciso «periodo di istruzione obbligatoria», non può che fare riferimento alla legislazione del sistema scolastico e formativo (Garofalo, D., Minori e formazione professionale, in Miscione, M., a cura di, Il lavoro dei minori, Milano, 2002, 39 e ss.; Pasqualetto, E., La capacità di lavoro, in Cester, C., a cura di, Diritto del lavoro, Commentario diretto da F. Carinci, II, Il rapporto di lavoro subordinato, Milano, II ed., 2007, 336 e ss.). Quest’ultima però si è trovata a lungo invischiata in una complessa fase di transizione, iniziata con la l. 20.1.1999, n. 9, riformata dalla legge delega 28.3.2003, n. 53 e dai relativi decreti delegati 15.4.2005, n. 76 e 17.10.2005, n. 226. Nell’attuale ordinamento l’istruzione è obbligatoria per almeno dieci anni ed è finalizzata a consentire il conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età. Per effetto dell’innalzamento dell’obbligo scolastico l’età per l’accesso al lavoro è conseguentemente elevata da quindici a sedici anni (art. 1, co. 622, l. 27.12.2006, n. 296; Circ. Min. lav. 20.7.2007, n. 9799; D.M. 22.8.2007, n. 139; Circ. Min. Istr. 30.12.2012, n. 101).
Un ulteriore requisito per l’ammissione al lavoro del minore, prettamente connesso all’esigenza di tutelare l’integrità psico-fisica del lavoratore minore, è rappresentato dalle visite mediche preassuntive (art. 8, l. 977/1967, la cui violazione comporta l’applicazione dell’art. 26), finalizzate ad accertare l’esistenza dei requisiti di idoneità all’attività lavorativa. Il giudizio sull’idoneità, comprovato da apposito certificato, deve essere rilasciato da un medico del Servizio sanitario nazionale – anche se operante in regime di convenzione - o dal medico competente ex art. 38 d.lgs. n. 81/2008 (Circ. Min. lav. 22.1.2010, n. 1401). A tal proposito occorre precisare che la Commissione tecnica istituita presso il Ministero del Lavoro (interpello 2.5.2013, n. 1) ha escluso l’obbligo della visita preventiva per lo stagista minorenne posto che non si tratta di rapporto di lavoro nemmeno speciale (ex art. 1, co. 1, l. n. 977/1967): tuttavia ai minori che frequentano le aule e che utilizzano attrezzature di lavoro trova applicazione il d.lgs. 9.4.2008, n. 81. L’art. 8, l. n. 977/1967, prescrive inoltre la visita periodica finalizzata al controllo della persistenza dell’idoneità, durante l’attività lavorativa concretamente svolta. Il giudizio sull’idoneità deve essere comunicato per iscritto al datore di lavoro, al lavoratore e ai titolari della potestà genitoriale. Uno specifico controllo sanitario è poi previsto per gli adolescenti la cui esposizione personale al rumore sia compresa fra 80 e 85 decibel (controllo biennale), ovvero fra 85 e 90 (controllo annuale). Da ultimo, l’art. 42, co.1, lett. b), d.l. 21.6.2013, n. 69, ha soppresso l’obbligo di visita preassuntiva, limitatamente alle lavorazioni non a rischio.
L’art. 4, l. n. 977/1967, sancisce il divieto, penalmente rilevante (art. 26), di adibire al lavoro i bambini, ossia i minori di quindici anni o coloro che sono ancora soggetti all’obbligo scolastico, salvo specifica eccezione. Infatti la direzione territoriale del lavoro (Dtl) può autorizzare, previo assenso scritto dei titolari della potestà genitoriale, l’impiego dei minori in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario e nel settore dello spettacolo, purché si tratti di attività che non pregiudicano la sicurezza, l’integrità psicofisica e lo sviluppo del minore, la frequenza scolastica o la partecipazione a programmi di orientamento o di formazione professionale.
L’art. 6 prevede inoltre il divieto generale di adibire gli adolescenti a mansioni che espongano a particolari agenti fisici, biologici e chimici elencati nell’Allegato I, anche in questo caso a pena di sanzioni penali. Il divieto è superabile in caso di indispensabili motivi didattici o di formazione professionale, ma soltanto per il tempo strettamente necessario alla formazione stessa, svolta in aule o in laboratori adibiti ad attività formativa, oppure in ambienti di lavoro di diretta pertinenza del datore di lavoro purché sotto la sorveglianza di formatori competenti anche in materia di prevenzione e di protezione e nel rispetto di tutte le condizioni di sicurezza e di salute previste dalla vigente legislazione. In questi casi, fatta eccezione per gli istituti di istruzione e di formazione professionale, l’attività deve essere preventivamente autorizzata dalla Dtl, previo parere dell’azienda/unità sanitaria locale competente in ordine al rispetto da parte del datore di lavoro richiedente della normativa in materia di igiene e di sicurezza sul lavoro.
In ogni caso, è vietato adibire i minori al lavoro in assenza della specifica valutazione dei rischi (art. 7, l. n. 977/1967).
L’art. 2 c.c., rubricato «Maggiore età. Capacità di agire», si limita a far salve le leggi speciali che stabiliscono un’età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro, e precisa che «in tal caso il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro», ma nulla dice sulla capacità di stipulare autonomamente il contratto di lavoro. Nel silenzio della legge si è discusso molto sulla possibilità o no di riconoscere al minore, in possesso dei requisiti per l’ammissione al lavoro, detta capacità.
Per un verso, la suddetta omissione induce a ritenere che il contratto vada stipulato a mezzo del rappresentante legale (Suppiej, G., Il rapporto di lavoro, Padova, 1982, 206 ss.; Pret. Oderzo, 30.6.1988, in Lavoro 80, 1989, 430; Tar Sicilia, Palermo, 23.8.1988, n. 509, in Tar, 1988, I, 3192). Questa lettura troverebbe conferma negli artt. 320 e 357 c.c. secondo cui i genitori o il tutore rappresentano il minore in tutti gli atti civili e ne amministrano i beni (Smuraglia, C., La persona del prestatore nel rapporto di lavoro, Milano, 1967, 212 e ss.). Cosicché, il minore non possiederebbe la capacità primaria contrattuale ma quella secondaria di esercizio dei diritti derivanti dal contratto, anche attraverso il processo. Distinzione che può avere una sua giustificazione, data l’importanza della scelta di un’occupazione (Santoro Passarelli, F., Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1995, 144).
Questa tesi, però, riconosce in favore del rappresentante la facoltà di disporre di un diritto che investe la persona stessa del rappresentato. Per superare l’ostacolo e valorizzare la libertà di lavorare del minore, la dottrina aveva cercato di attribuire al consenso del lavoratore un effetto giuridico rilevante configurandolo come condizione sospensiva del contratto stipulato dal legale rappresentante (Rescigno, P., Capacità di agire, in Nss.D.I., II, Torino, 1964, 861 ss.). Tuttavia, requisito fondamentale della condizione è che essa sia estranea alla struttura tipica del negozio (Santoro Passarelli, F., Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1997, 199, secondo cui l’inadempimento non può essere dedotto nemmeno come condizione risolutiva espressa perché questa attiene al funzionamento del negozio). Ne segue che, se il prestatore non adempie, si avrà inadempimento del rappresentante legale (Smuraglia, C., op. cit., 217), il quale sarà tenuto ad indennizzare il datore ex art. 1381 c.c., cosicché la preventiva adesione del minore risponde a ragioni di mera convenienza pratica (Santoro Passarelli, F., Nozioni, cit., 145).
Ad avviso di una diversa scuola di pensiero, il consenso del minore rappresenta un requisito di validità del contratto non essendo possibile un’imposizione ad opera del rappresentante legale pena la violazione dell’art. 4 Cost. (ergo del diritto al lavoro come “libertà negativa”: su cui Giubboni, S., Il primo dei diritti sociali. Riflessioni sul diritto al lavoro tra Costituzione italiana e ordinamento europeo, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.INT – 46/2006, 10 ss.) e del divieto di lavoro forzato o obbligatorio contenuto nell’art. 3, lett. a) della Conv. OIL n. 182/1999 (Miscione, M., I minori verso il lavoro, in Il lavoro dei minori, Milano, 2002, 23), ed ora nell’art. 5 co. 3, e 15, co. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Cosicché si tratterebbe, semmai, «di assistenza, e/o di integrazione del consenso, se non si vuole profilare, più realisticamente, una fattispecie autorizzatoria» (Scognamiglio R., La tutela giuridica del lavoro giovanile, in Dir. lav., 1979, I, 115), in analogia con quanto accade ex art. 165 c.c. con il minore ammesso a contrarre matrimonio, con il personale navigante e di volo (art. 324, co. 1; art. 375, co. 1; art. 901, co. 1, cod. nav.) o, ancora, con il lavoro domestico (art. 4, l. 2.4.1958, n. 339). Occorre sottolineare, però, che si tratta di disposizioni particolari ed eccezionali che non possono estendere i propri effetti oltre il proprio ambito di applicazione: esse, del resto, prevedono la necessità di un’assistenza proprio perché regolamentano fattispecie in cui emergono particolari condizioni anche ambientali in cui la prestazione dovrà svolgersi (Smuraglia, C., op. cit., 1965, 206). Nonostante la validità dell’obiezione, va detto che la tesi trova un solido argomento nelle norme di principio sul diritto-dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle loro capacità, della loro inclinazione naturale e delle loro aspirazioni (art. 30 Cost., nonché 147 e 261 c.c.: Olivelli, P., Il lavoro dei giovani, Milano 1981, 54-55; Ballestrero, M. V., Tutela e parità di fanciulli, adolescenti e giovani nel rapporto di lavoro, in Il diritto di famiglia e delle persone,1982, 13).
Da ultimo, malgrado la mancanza di un esplicito riferimento alla capacità di stipulare il contratto di lavoro, vi è chi ricava (De Cristofaro. M., Minore età e contratto di lavoro, in Riv. dir. civ., 1979, II, 359 e ss.; De Cristofaro, M. L., op. cit., 3), dalla testuale salvezza delle leggi speciali disposta in una norma, l’art. 2 c.c., che attiene alla capacità di agire, la volontà del legislatore di rendere coincidenti nell’area del rapporto di lavoro subordinato capacità giuridica e capacità di agire, non residuando per tale ragione spazio per l’intervento del genitore nella stipulazione del contratto. Una tesi che trae anch’essa origine dall’art. 4 Cost. (De Cristofaro. M., Minore età, cit. 391-392; Bianca, C.M., Diritto civile, I, La norma giuridica - I Soggetti, Milano, 1987, 214), specie nella sua accezione di “libertà positiva” (Giubboni, S., op. cit., 12 ss.); nonché, stavolta a contrario, dalle disposizioni del codice della navigazione. E non è un caso che nell’art. 16 ter, l. 1.6.1977, n. 285, compaia espressamente l’inciso “giovani che hanno stipulato contratti di formazione” (Treu, T., Il minore nel diritto del lavoro, in Il diritto di famiglia e delle persone, 1982, 296-297): una lettura che non risulta smentita dalle disposizioni in materia di apprendistato in cui viene sancita la possibilità di assumere quindicenni (art. 3, co. 1, d.lgs. 14.9.2011, n. 167).
In una materia di interesse così condizionata dalla mutevolezza nel tempo e nello spazio della percezione sociale del lavoro del minore si impone alla mente del giurista una rivisitazione critica dei dogmi del passato. È incontestabile la considerazione che negli ultimi anni si sia sviluppata una tendenza legislativa volta a valorizzare in misura sempre più crescente la capacità di discernimento del minore nei contesti in cui è coinvolta la sua personalità (cfr. art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione e, più di recente, art. 1, l. 10.12.2012, n. 219 con cui è stato introdotto l’art 315 bis c.c.). Principio già cristallizzato nell’art. 250, co. 5, c.c. riguardante il riconoscimento del figlio naturale ad opera del minore sedicenne di cui si presume una piena maturità psico-fisica. E ciò sebbene l’atto sia irrevocabile (art. 256) e da esso discendano importanti assunzioni di responsabilità in ordine a tutti i doveri e i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi (art. 261).
Il contratto stipulato con un lavoratore di età inferiore a quella minima legale è nullo per illiceità dell’oggetto ma, per la prestazione eseguita, è riconosciuto il diritto alla retribuzione essendosi verificata una violazione delle norme di tutela del lavoro (art. 2126, co. 2, c.c.: Cass. 30.8.2010, n. 18856). Talvolta la giurisprudenza (Cass. 12.12.1997, n. 12604) ha escluso che si possa ricorrere alla nullità derivante dall’illiceità dell’oggetto o della causa, e ha preferito far ricorso alla invalidità derivante da violazione delle norme in tema di età minima con conseguente applicazione del co. 1 dell’art. 2126 c.c. (v. anche De Cristofaro. M., Minore età, cit., 380; De Cristofaro, M.L., Minori (lavoro dei), in Dig. comm., 1993, 484).
Il minore in possesso dei requisiti per l’ammissione al lavoro, se considerato capace di stipulare un valido contratto di lavoro, non può subire i rimedi civili che derivano dalla ricognizione legale del disvalore dell’incapacità. Lo stesso dicasi in caso di emancipazione di diritto per aver contratto matrimonio ex art. 390 c.c.: in questo caso il minore acquista la capacità di compiere gli atti non eccedenti l’ordinaria amministrazione tra cui rientra di certo il contratto di lavoro (Santoro Passarelli, F., op. cit., 142).
Diversamente, secondo le tesi che ritengono il minore incapace di badare autonomamente ai propri interessi, il contratto stipulato dal minore sarebbe annullabile ai sensi dell’art. 1425, co. 1, c.c.. Tuttavia l’incapacità di agire non implica necessariamente una assoluta preclusione al compimento di atti giuridici, in quanto gli atti che il minore pone in essere sono comunque produttivi di effetti giudici. Difatti, il contratto stipulato direttamente dal minore incapace sarebbe annullabile solamente nel caso in cui gli atti compiuti risultino fortemente lesivi degli interessi del minore, esponendolo a rischi e svantaggi (art. 428, co. 2, c.c.). Ed in ogni caso, tale forma di invalidità, accordabile solo a determinate e stringenti condizioni, non produce effetti per il periodo di avvenuta esecuzione del rapporto con conseguente invocabilità dell’art. 2126, co. 1, c.c.
Lo stesso art. 1426 pone in risalto la relatività del concetto di incapacità del minore nella misura in cui sancisce la validità del contratto stipulato dal minore che abbia occultato con raggiri la sua minore età: comportamento che evidenzia in concreto una sorta di emancipazione del minore, che non subisce il rimedio civile nel momento in cui si trinceri con piena consapevolezza e destrezza dietro la schermo giuridico dell’incapacità.
Considerato che la l. n. 977/1967 si applica ai minori di 18 anni, che hanno un contratto o un rapporto di lavoro, anche speciale, disciplinato dalle norme vigenti (art. 1 ), occorre chiedersi quali siano le forme contrattuali utilizzabili dai minori abilitati dalla legge a prestare la loro attività lavorativa.
È fin troppo evidente che l’impianto normativo, nella sua ultima versione, manifesta un estremo favore per il contratto di apprendistato: l’art. 3, co. 1, d.lgs. n. 167/2011, stabilisce che possono essere assunti con contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, anche per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione, i soggetti che abbiano compiuto quindici anni. Si tratta di un abbassamento del requisito minimo di età stabilito in linea generale in sedici anni dall’art. 1, co. 622, l. n. 296/2006. La deroga contenuta nel d.lgs. n. 167/2011 appare infatti ammissibile in quanto l’esecuzione del contratto di apprendistato garantisce al contempo l’assolvimento dell’obbligo di istruzione attraverso lo strumento dell’alternanza scuola – lavoro, in modo da evitare la dispersione scolastica (cfr. anche art. 48, co. 8, l. 4.11.2010, n. 183; per la legittimità della deroga v. art. 4, co. 2, lett. b), dir. 94/33 CE; art. 32, co. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).
Ad ogni modo, il minore sedicenne che abbia adempiuto gli obblighi scolastici, potrà a rigore stipulare qualunque tipologia negoziale purché l’orario di lavoro non pregiudichi il proseguimento degli studi. Il riferimento è al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato o determinato (a fortiori part time), al contratto intermittente e ripartito (Cass., pen., 5.5.2011, n. 28921), nonché al lavoro a domicilio. Così come è possibile per il minore partecipare a tirocini formativi e di orientamento i quali costituiscono sostanzialmente una esperienza formativa o di addestramento professionale dei giovani nei luoghi di lavoro e non implicano la costituzione di un rapporto di lavoro (art. 18, lett. d), l. n. 196/1997; d. interm. n. 142/1998), né un vero impegno lavorativo.
Le disposizioni contenute nella l. n. 977/1967 sono riferibili esclusivamente ai rapporti di lavoro, anche speciali, di natura subordinata (cfr. ferie, riposi, retribuzione etc.): sembra dunque potersi escludere l’assunzione di un minore per lo svolgimento di attività di lavoro autonomo e a progetto in quanto mancherebbe una norma di legge che abiliti il minore a prestare tale attività. Viceversa il lavoro accessorio, per attività di natura occasionale rese nell’ambito delle attività agricole di carattere stagionale, è ammesso se il minore è regolarmente iscritto a un ciclo di studi presso un istituto scolastico di qualsiasi ordine e grado, compatibilmente con gli impegni scolastici (art. 70, co. 2, lett. a), d.lgs. n. 276/2003).
L’art. 2 c.c. dispone per inciso che «il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro». Questa disposizione, letta unitamente all’art. 75 c.p.c. concernente la legitimatio ad processum – secondo cui «sono capaci di stare in giudizio le persone che hanno il libero esercizio dei diritti che vi si fanno valere» – risolve positivamente il dubbio relativo alla possibilità o meno per il minore di esercitare personalmente i diritti e le azioni derivanti dal contratto di lavoro senza la rappresentanza del genitore esercente la potestà (Pret. Cagliari, 14.11.1986, in Riv. giur. sarda, 1990, 486, con nota di Frongia, V.; contra Pret. Oderzo, 30.06.1988, che ha reputato legittima solo l’azione promossa dai genitori). È stata infatti negata la legittimazione del tutore a ricevere il pagamento delle retribuzioni del minore (Cass., 25.10.1989, n. 4361).
Il minore può quindi validamente ricevere i crediti scaturiti dal rapporto di lavoro (contra Pret. Legnano 7.10.1970, in Riv. giur. lav., 1970, II, 446) e può autonomamente disporre dei propri diritti mediante rinunce e transazioni (a tal proposito non mancano voci contrarie, v. Olivelli, P., op. cit., 114-115, secondo cui il riconoscimento della capacità è avvenuto solo in considerazione di situazioni vantaggiose per il minore; la norma parla infatti di diritti (una risalente pronuncia della Cass., 19.8.1977, n. 3795, aveva negato la possibilità per il minore di porre in essere atti dispositivi di diritti). Anche le dimissioni rientrano a pieno titolo tra le azioni esercitabili da parte del minorenne (Stanzione, P., Minori (Condizione giuridica dei), in Enc. Dir., 2011, 743; contra Pretura Livorno 8.4.1974, in Foro it., 1975 I, 230), salva la prova ai sensi dell’art. 428 c.c. dell’incapacità di intendere e di volere del lavoratore al momento del recesso e l’estremo del grave pregiudizio (Pret. Firenze, 13.06.1990, in Toscana lavoro giur., 1990, 960, con nota di Corsinovi, C.). Del resto l’art. 2, co. 1, d.lgs. n. 167/2011 prevede espressamente la possibilità per le parti (quindi anche per il minore apprendista) di recedere dal contratto per giusta causa (lett. l) ovvero con preavviso (lett. m) decorrente dal termine del periodo di formazione.
L’art. 37, co. 3, Cost., sancisce il diritto del lavoratore minorenne alla parità di retribuzione a parità di lavoro, rispetto agli altri lavoratori.
Ciò implica che pari mansioni e pari qualifica danno diritto al minore a ricevere pari retribuzione, indipendentemente dal rendimento (Mazzotta, O., La retribuzione per il lavoro minorile: un caso di parità di trattamento nel diritto privato?, in Giur. it., 1976, I, 2, 78 e ss.; Olivelli, P., op. cit., 134 e ss.; Treu, T., I commi 2° e 3° dell’art. 37 Cost., in Comm. cost.. Branca, Bologna, 1979, 224 e ss.). Tale diritto, che rappresenta un’applicazione specifica del principio di uguaglianza, opera con riferimento all’intero trattamento retribuivo, compresi gli scatti di anzianità i quali integrano un aumento periodico del corrispettivo della prestazione lavorativa (Cass., 23.12.2004, n. 23898). Da ciò discende la nullità del patto della contrattazione collettiva di categoria che neghi rilevanza al lavoro del minore ai fini dell’attribuzione degli scatti d’anzianità (Cass. 5.1.1993, n. 36; ma la questione, in passato, è stata molto dibattuta: per tutti, Pera, G., Lavoratori minorenni e scatti di anzianità, in Orient. giur. lav., 1978, 688 e ss.; Silvagna, L., Sul diritto dei minorenni alla parità salariale, in Dir. lav., 1978, II, 419 e ss.). Cosicché, la maggiore inesperienza dei più giovani e l’opportunità di favorire l’occupazione possono giustificare una più bassa retribuzione, rispetto ai lavoratori maggiorenni, solo se ai minori vengano affidate diverse e meno impegnative mansioni (Cass. n. 18856/2010). Tuttavia, l’esigenza di raccordo con la formazione giustifica (cfr. art. 3, co. 4-bis, lett. a), d.lgs. 9.7.2003, n. 216) la specifica previsione in materia di apprendistato contenuta nell’art. 2, co. 1, lett. c), d.lgs. n. 167/2011, quindi la possibilità di inquadrare il lavoratore fino a due livelli inferiori rispetto alla categoria spettante ai lavoratori addetti a mansioni o funzioni che richiedono qualificazioni corrispondenti a quelle al conseguimento delle quali è finalizzato il contratto ovvero, in alternativa, di stabilire la retribuzione dell’apprendista in misura percentuale e in modo graduale alla anzianità di servizio.
Una specifica disciplina è prevista con riferimento all’orario di lavoro (art. 18, l. n. 977/1967) il quale non può superare le 8 ore giornaliere (7 per i bambini) e le 40 settimanali (35 per i bambini), anche in caso di apprendistato (argomentando indirettamente ex art. 2, co. 4, d.lgs. 8.4.2003, n. 66; ma già Cass., pen., 23.1.2003, n. 9516).
Gli adolescenti possono essere adibiti al trasporto di pesi per un massimo di 4 ore giornaliere; mentre è vietata l’adibizione a lavorazioni effettuate con il sistema dei turni a scacchi salvo espressa previsione dei contratti collettivi di lavoro: in tal caso, la partecipazione dei bambini e degli adolescenti può essere autorizzata dalla direzione territoriale del lavoro (art. 19). Altrettanto garantista la regolamentazione del lavoro notturno, ossia quello ricompreso nell’intervallo tra le ore 22 e le ore 6, o tra le ore 23 e le ore 7, di regola vietato (art. 15) e sanzionabile anche penalmente (art. 26). Le deroghe al divieto sono contenute nell’art. 17 e riguardano: a) i minori ammessi alle attività di cui all’art. 4, co. 2, per i quali la prestazione può protrarsi non oltre le ore 24, ma in tal caso il minore deve godere, a prestazione compiuta, di un periodo di riposo di almeno 14 ore consecutive; b) gli adolescenti, i quali possono essere eccezionalmente adibiti al lavoro notturno in caso di forza maggiore che ostacoli il funzionamento dell’azienda, purché tale lavoro sia temporaneo e non ammetta ritardi, non siano disponibili lavoratori adulti e siano concessi periodi equivalenti di riposo compensativo entro tre settimane: in tal caso il datore di lavoro deve dare immediata comunicazione alla Dtl indicando i nominativi dei lavoratori, le condizioni costituenti la forza maggiore, le ore di lavoro.
Qualora l’orario di lavoro giornaliero superi le 4 ore e mezza, deve essere interrotto da un riposo intermedio della durata di minima di un’ora, mezz’ora se previsto dal contratto collettivo o, nel caso il lavoro non presenti carattere di pericolosità o gravosità, previa autorizzazione della Dtl la quale può anche proibire, durante i riposi intermedi, la permanenza dei minori nei locali di lavoro (art. 20). Nei casi in cui il lavoro presenti carattere di pericolosità o gravosità, la Dtl può prescrivere che il lavoro dei minori non duri senza interruzione più di 3 ore, e stabilire altresì la durata del riposo intermedio (art. 21). L’art. 22 garantisce inoltre ai minori un periodo di riposo settimanale di almeno due giorni, se possibile consecutivi, e comprendente la domenica (salva l’eccezione di cui al co. 3), riducibile sino a 36 ore consecutive per comprovate ragioni di ordine tecnico e organizzativo ovvero sino a 24 in caso di part time in virtù del principio di proporzionamento (Cass., pen., 9.6.2005, n. 26391). La mancata concessione del periodo di riposo settimanale configura un reato permanente, protraendosi la condotta illecita fino a quando il contravventore non consenta al lavoratore di fruire del riposo settimanale con le modalità prescritte dalla legge o fino alla data di cessazione dell’attività lavorativa del dipendente (Cass., pen., 14.7.2011, n. 30238).
L’art. 23 garantisce infine agli adolescenti il diritto di ferie retribuite per una durata minima di 30 giorni e di 20 giorni (leggasi quattro settimane ex art. 10, co. 1, d.lgs. 8.4.2003, n. 66) per i bambini.
I minori hanno diritto ad ottenere i medesimi trattamenti e le medesime prestazioni assicurative previste per la generalità dei lavoratori. In particolare, la l. n. 977/1967, si inserisce nel solco tracciato dall’art. 2126 c.c., con riferimento al trattamento retributivo, accordando una specifica tutela previdenziale in ipotesi di lavoro prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore.
L’art. 24, l. n. 977/1967, infatti, per un verso, riconosce il diritto alle prestazioni previste dalle assicurazioni obbligatorie in favore del minore anche nel caso di adibizione al lavoro in violazione delle norme sull’età minima di ammissione; per altro, attribuisce agli istituti assicuratori l’esercizio dell’azione di rivalsa nei confronti del datore di lavoro per l’importo complessivo delle prestazioni corrisposte al minore, detratta la somma corrisposta a titolo di contributi omessi. L’esperibilità dell’azione di rivalsa è quindi subordinata a due precise condizioni: a) adibizione del minore al lavoro in violazione del requisito dell’età minima stabilita dalla stessa legge; b) mancato o illegittimo versamento della contribuzione (Cass. 29.1.2002, n. 1140).
La citata disposizione, sebbene espressamente riferita al datore di lavoro, è stata ritenuta applicabile anche al lavoro autonomo agricolo (Cass., 10.12.1993, n. 12193; Circolari Inps 5.4.1994, n. 109, 28.10.1994 n. 285, 24.6.2003, n. 112).
Art. 37 Cost.; art. 2 c.c.; l. 17.9.1967, n. 977; art. 1, co. 622, l. 27.12.2006, n. 296.
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