Abstract
La voce mette in evidenza l’origine contrattuale del rapporto di lavoro e la funzione organizzativa che lo stesso assume, per passare all’esame della nozione di subordinazione tecnico-funzionale accolta dall’art. 2094 c.c.
Muovendo da tale nozione, la giurisprudenza ha elaborato indici sussidiari per distinguere il lavoro subordinato da quello autonomo e qualificare correttamente il rapporto nei casi dubbi.
La voce analizza, inoltre, l’impatto dei recenti interventi legislativi sul contratto “a tutele crescenti” e sul riordino delle tipologie contrattuali sulla nozione di subordinazione, sottolineando che questi interventi sono finalizzati a ridurre le tipologie di lavori precari e ad aumentare l’occupazione.
Nella sistematica del Codice civile non è menzionato il contratto di lavoro, ma, in omaggio all’ideologia corporativa, nel titolo II del libro V dedicato al lavoro nell’impresa (v. artt. 2082 c.c. ss.), la sezione seconda richiama i collaboratori dell’imprenditore, tra i quali campeggia il prestatore di lavoro subordinato, definito dall’art. 2094 c.c.
Con questa definizione, il Codice sembra, a prima vista, superare la naturale contrapposizione degli interessi delle parti che risiede in ogni contratto di scambio, accreditando la tesi secondo la quale il lavoratore collabora con l’imprenditore per realizzare l’interesse dell’impresa che, in base a tale ideologia, supera e trascende gli interessi delle parti.
In realtà, secondo l’interpretazione della dottrina e della giurisprudenza di gran lunga prevalenti, successive alla caduta dell’ordinamento corporativo, l’art. 2094 c.c., al di là dell’omaggio formale all’ideologia corporativa, non ha disconosciuto l’origine contrattuale del rapporto, e in particolare la natura di contratto a prestazioni corrispettive, quando la norma precisa che è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione.
La disciplina del lavoro subordinato nell’impresa supera la prospettiva essenzialmente commutativa del contratto di locazione di opere, secondo la quale l’area del contratto coincide con l’area dello scambio, e ne sottolinea il profilo organizzativo, rimanendo impregiudicato se l’organizzazione dell’impresa sia un dato presupposto dal contratto di lavoro (in questo senso, v. Mancini, G.F., La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957) o l’effetto di quest’ultimo (in tal senso, Persiani, M., Contratto di lavoro e organizzazione, Padova, 1966).
È chiaro che secondo la prima tesi taluni poteri e obblighi delle parti non hanno origine contrattuale, mentre accogliendo la seconda tesi, il profilo organizzativo del rapporto è interamente riconducibile al contratto di lavoro, il quale, di conseguenza, diventa la fonte di tutti i poteri del datore di lavoro e degli obblighi del lavoratore.
Ciò che interessa mettere in evidenza è come l’art. 2094 c.c. e in precedenza la legge sull’impiego privato del 1924, esaltando il profilo organizzativo del rapporto di lavoro, abbiano collegato inscindibilmente la collaborazione del prestatore di lavoro con l’organizzazione dell’imprenditore.
L’art. 2094 c.c., diversamente dalla legge sull’impiego privato, ha introdotto la nozione di subordinazione identificandola nella collaborazione del prestatore di lavoro «alle dipendenze e sotto la direzione» dell’imprenditore.
Non si tratta ovviamente di un’endiadi ma di una formula che esprime due concetti diversi, anche se collegati.
L’espressione «sotto la direzione» indica che l’imprenditore ha il potere di determinare, al momento della costituzione del rapporto, e di modificare unilateralmente, in corso di rapporto, le modalità di esecuzione della prestazione di lavoro (subordinazione tecnica) affinché la collaborazione del prestatore di lavoro «alle dipendenze» dello stesso imprenditore, sia idonea a soddisfare l’interesse di quest’ultimo (subordinazione funzionale).
Si comprende allora più chiaramente perché l’art. 2094 c.c., collegando il contratto di lavoro all’impresa, riconosca al medesimo non soltanto la ordinaria funzione di scambio, ma anche una funzione organizzativa. Più precisamente il contratto di lavoro subordinato consente all’imprenditore di pianificare e coordinare, attraverso l’esercizio del potere direttivo, la prestazione di lavoro dedotta in contratto con le prestazioni rese da altri lavoratori in altrettanti contratti di lavoro.
E infatti il coordinamento di uno o più contratti di lavoro con gli altri fattori della produzione consente all’imprenditore di realizzare il risultato produttivo. È ovvio che il risultato produttivo perseguito dall’imprenditore non entri nel contenuto del singolo contratto individuale di lavoro e tuttavia va precisato che tale risultato, pur rimanendo estraneo all’oggetto dell’obbligazione assunta dal lavoratore, diviene punto di riferimento per la determinazione del modo di essere della prestazione dovuta.
Queste precisazioni aiutano a comprendere perché l’obbligo di collaborazione del lavoratore soddisfa l’interesse del datore di lavoro al coordinamento e all’organizzazione della prestazione di lavoro.
D’altra parte l’obbligo di collaborazione del lavoratore così inteso distingue il contratto di lavoro dagli altri contratti di scambio.
Si deve comunque sottolineare che l’individuazione del contenuto tipico della subordinazione non elimina sempre ed in ogni caso le difficoltà che la giurisprudenza ha incontrato e incontra nell’accertamento della natura subordinata del rapporto quando la fattispecie concreta si collochi nell’area di confine del lavoro subordinato.
La dottrina ha talvolta tentato di individuare un criterio che fosse da solo sufficiente a identificare il vincolo di subordinazione (così ad es. la soggezione alle direttive, il rischio, la distinzione tra obbligazione di attività e obbligazioni di risultato, l'inerenza del rapporto di lavoro all’organizzazione dell’impresa, ecc.).
Ed è bene precisare che lo stesso criterio servirebbe a distinguere questa fattispecie da quella del contratto d’opera, perché l’art. 2222 c.c. individua il contenuto dell’obbligazione di lavoro del prestatore nel compimento di un’opera o un servizio senza vincolo di subordinazione.
In realtà, come ha ampiamente messo in evidenza la giurisprudenza (si veda al riguardo Persiani, M., Riflessioni sulla giurisprudenza in tema di individuazione della fattispecie lavoro subordinato, in Studi in onore di F. Santoro Passarelli, vol. V, Napoli, 1972. In giurisprudenza, v. Cass., S.U., 30.6.1999, n. 379 e, più recentemente, ex plurimis, Cass., 19.4.2010, n. 9252), nessuno dei criteri proposti dalla dottrina appare da solo sufficiente a identificare la fattispecie del lavoro subordinato nell’impresa disegnata dall’art. 2094 c.c. e a distinguerla da quella del lavoro autonomo.
Così, non risulta completamente decisiva la soggezione del prestatore di lavoro alle direttive del datore di lavoro. Infatti, anche in determinate ipotesi di lavoro autonomo continuativo è agevole riscontrare lo stesso margine di autonomia non solo nell’esecuzione, ma anche nell’organizzazione della prestazione lavorativa (sul punto, cfr. Cass., 22.12.2009, n. 26986; Cass., 13.12.2010, n. 25150). Basti pensare in proposito a talune forme di mandato e alla prestazione di lavoro del dirigente, cd. alter ego dell’imprenditore, rispetto ai quali le direttive sono già insite nella competenza determinata dall’oggetto del contratto.
Anche le direttive impartite dal committente all’agente e quelle impartite dal datore di lavoro al commesso viaggiatore si differenziano, talvolta, soltanto per la loro maggiore o minore intensità e cioè sulla base di un criterio squisitamente quantitativo (sugli indici che distinguono i due tipi di rapporto, v. Cass., 16.7.2009, n. 16603).
Per non parlare delle direttive rispetto a determinate prestazioni professionali (Cfr. Cass., 29.10.2014, n. 23021; Cass., 14.2.2011, n. 3594; Cass., 16.2.2009, n. 3713). Ad esempio, la genericità delle direttive impartite dall’impresa a volte non esclude la subordinazione del medico esterno che presti servizio presso una casa di cura (Cfr. Cass., 15.6.2009, n. 13858, che ha ravvisato la subordinazione del medico nel dovere di rispettare un orario di lavoro e turni di servizio, soggetti al controllo datoriale attraverso l’imposizione dell’obbligo di timbratura del cartellino).
La giurisprudenza, inoltre, è molto oscillante sulla qualificazione autonoma o subordinata dell’attività di insegnamento nella scuola privata. Infatti, è stata considerata autonoma la prestazione del docente che si sia obbligato a tenere un numero minimo di lezioni (Cass., 21.5.2003, n. 8028), mentre è subordinato il rapporto che si svolga con modalità tali da comportare l’inoperosità dell’insegnante per alcune ore presso la scuola e l’osservanza di un orario di lavoro predisposto dalla stessa direzione scolastica (Cass., 19.4.2010, n. 9252; Cass., 12.11.2010, n. 23032).
Anche il rapporto di lavoro dei cd. messaggeri metropolitani è stato oggetto di una contrastante giurisprudenza di merito e di legittimità. Infatti, la Cassazione civile, diversamente da quella penale, ha considerato autonomo il suddetto rapporto quando il messaggero metropolitano decida autonomamente se lavorare, e comunque sia libero di accettare l’incarico di recapito trasmesso via radio dalla sede aziendale (v., da ultimo, Cass., 20.1.2011, n. 1238).
Ancora, nel rapporto di lavoro giornalistico la subordinazione non è esclusa dal fatto che il giornalista goda di una certa libertà di movimento e non sia obbligato al rispetto di un orario predeterminato, essendo invece determinante che egli si tenga a disposizione dell’editore anche nell’intervallo di tempo fra una prestazione e l’altra per evaderne richieste variabili e non sempre predeterminate e predeterminabili (Cass., 16.7.2013, n. 17372; Cass. 5.8.2013, n. 18619).
Tuttavia, una sentenza della Cassazione (Cass., 6.7.2001, n. 9167) ha svalutato, eccessivamente, il requisito delle direttive come dato di identificazione della fattispecie, quando ha qualificato come subordinato il rapporto di lavoro di un propagandista farmaceutico, ritenendo sufficiente l’esistenza di direttive di ordine generale impartite dal datore di lavoro. Con questo ordine di argomentazioni si dilata a dismisura l’area della subordinazione che finisce per coprire ogni forma di lavoro autonomo continuativo, favorendo quel fenomeno di rigetto dell’uso del contratto di lavoro subordinato.
Secondo una recente giurisprudenza, il vincolo di subordinazione potrebbe ritenersi sussistente anche in assenza di soggezione al potere direttivo del datore di lavoro, qualora le mansioni assegnate siano elementari, ripetitive e predeterminate (cfr. Cass., 8. 7.2013, n. 16935; Cass., 4.10.2011, n. 20265; Cass., 5.8.2010, n. 18271; contra Cass., 19.7.2013, n. 17718).
Parimenti, parte della dottrina e della giurisprudenza finisce per avallare la dilatazione della fattispecie della subordinazione quando richiama e utilizza il concetto di cd. subordinazione attenuata, non più caratterizzata dell’etero-direzione, ma dal mero coordinamento del datore di lavoro, e, perciò, compatibile con un elevato grado di autonomia del prestatore d’opera (cfr. Ghera, E., Subordinazione, statuto protettivo e qualificazione del rapporto di lavoro, ora in Il nuovo diritto del lavoro. Subordinazione e lavoro flessibile, Torino, 2006, 135. Sul punto si v. criticamente Santoro-Passarelli, G., (voce) Lavoro autonomo, in Enc. dir. Ann., Milano, 2012, 711 ss. In giurisprudenza cfr. Cass., 1.8.2013, n. 18414; Cass., 15.5.2012., n. 7517).
Questo orientamento potrebbe apparire confortato dall’art. 2, co. 1, d.lgs. 15.6.2015, n. 81 sulle tipologie contrattuali che applica la disciplina del lavoro subordinato ai rapporti di collaborazione organizzati dal committente.
In ogni caso, occorre ribadire che, sebbene il riconoscimento delle direttive non sia sempre decisivo, esso resta – rispetto ad altri indici sussidiari come l’osservanza di un orario di lavoro, la continuità della prestazione, l’erogazione di un compenso continuativo – comunque il criterio distintivo principale tra lavoro subordinato e lavoro autonomo (Cass., 29.1.2015, n. 1692; Cass., 17.2.2011, n. 3863; Cass., 17.11.2010, n. 25581). Non può non notarsi, però, come anche questo indice di subordinazione finisca per lasciare al giudice un notevole margine di discrezionalità nell’individuazione della disciplina applicabile alla fattispecie concreta.
Anche la distinzione tra obbligazione di mezzi o di attività, in base alla quale l’obbligato si impegna a svolgere un’attività di lavoro, e obbligazione di risultato, secondo cui l’obbligato si impegna a svolgere un’attività qualificata dal risultato, non sembra idonea a distinguere il lavoro subordinato da quello autonomo, perché quest’ultimo può atteggiarsi anche come obbligazione di attività (Mengoni, L., Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, in Riv. dir. comm., 1954, I, 185, 280, 366. Peraltro, la distinzione in parola è stata sottoposta ad una revisione critica tesa a svalutarne la rilevanza sul piano della distribuzione dell’onere della prova dell’esatto adempimento: cfr. Perulli, A., Il lavoro autonomo, in Tratt. Cicu-Messineo-Mengoni, XXVII, t. 1, Milano, 1996, 181; in giurisprudenza, Cass., S.U., 28.7.2005, n. 15781; Cass., S.U., 11.1.2008, n. 577).
Analogamente, l’inerenza del rapporto di lavoro all’impresa non appare caratteristica esclusiva del lavoro subordinato perché può contrassegnare anche il rapporto di lavoro autonomo continuativo (cfr. Ichino, P., Autonomia e subordinazione nel diritto del lavoro, Milano, 1989, 100). Basti pensare al contratto di agenzia, nel quale la prestazione dell’agente è continuativa e soddisfa un interesse durevole del preponente o al contratto di mandato che può essere costitutivo di un rapporto inerente all’organizzazione dell’imprenditore: è noto che una dottrina accreditata (Bigiavi, W., La piccola impresa, Milano, 1947, 118) ha affermato che la fonte della preposizione institoria non è necessariamente costituita da un contratto di lavoro subordinato.
Parimenti, la subordinazione è esclusa quando non sia garantita una disponibilità continua del giornalista in redazione (cfr. Cass., 19.8.2013, n. 19199; Cass., 25.6.2009, n. 14913), mentre è stato considerato di lavoro autonomo il rapporto di un redattore, che, sulla base di una serie di incarichi fiduciari, procurava notizie, senza obbligo di presenza, ma con una certa continuità (Cass., sez. lav., 29.5.2013, n. 13408).
Quando il lavoratore sia a disposizione dell’impresa, anche se la prestazione era richiesta al bisogno, il rapporto di lavoro è subordinato (cfr. Cass., 12.2.2008, n. 3320; Cass., 7.1.2009, n. 58).
Insomma, anche il contratto di lavoro autonomo continuativo consente al datore di lavoro il coordinamento dell’altrui attività ad un proprio scopo.
Di solito la diversa imputazione del rischio è considerata criterio distintivo tra lavoro autonomo e subordinato, nel senso che il rischio è a carico del lavoratore autonomo, mentre nel lavoro subordinato il rischio è imputato al datore di lavoro (cfr. Cass., 4.3.2015, n. 4346).
Si deve comunque precisare che, mentre il rischio derivante dalla impossibilità o mancanza di lavoro è sopportato dal lavoratore sia nel lavoro autonomo che in quello subordinato, il rischio collegato all’utilità del lavoro è sempre sopportato dal lavoratore autonomo che si obbliga a prestare l’opus perfectum, cioè a eseguire e ultimare l’opera a regola d’arte, diversamente da quanto avviene nel rapporto di lavoro subordinato, in cui il prestatore di lavoro si obbliga a eseguire con diligenza la propria attività. Va anche precisato che la corresponsione di un fisso giornaliero e di un obbligo di esclusiva non sono incompatibili con la qualificazione autonoma del rapporto di lavoro (cfr. Cass., 27.7.2009, n. 17455).
Nel tentativo di adeguare il dato normativo a quello economico, una parte della dottrina ha ritenuto di identificare la subordinazione del prestatore di lavoro nella sua condizione di inferiorità economico-sociale rispetto al datore di lavoro (Scognamiglio, R., Lezioni di diritto del lavoro, Bari, 1972, 10).
In realtà, la subordinazione socio-economica non può essere considerata elemento identificativo della subordinazione e distintivo del lavoro subordinato rispetto al lavoro autonomo. E l’art. 2222 c.c., che ravvisa nel lavoro prestato senza vincolo di subordinazione, prevalentemente o anche esclusivamente personale, il dato che identifica il lavoro autonomo, non consente di affermare che, ogni qualvolta sia ravvisabile una dipendenza economica del prestatore d’opera nei confronti del committente, il rapporto debba considerarsi senz’altro di lavoro subordinato.
L’esecuzione della prestazione nel lavoro autonomo non sarebbe necessariamente personale, mentre lo sarebbe nel lavoro subordinato (Cass., 24.6.2009, n. 14868). È bene chiarire, però, che anche nelle ipotesi in cui il prestatore d’opera si avvale dell’opera di terzi (artt. 2222, 2232, 1717 c.c.) il coordinamento degli artt. 1180 e 1228 c.c. consente di distinguere l’adempimento diretto del terzo dall’adempimento a mezzo terzi.
Quest’ultima è sempre una forma di adempimento personale giacché il comportamento del debitore può estendersi dalla propria azione fisica alla direzione dell’altrui attività.
Occorre, d’altra parte, sottolineare che, sia pure in ipotesi limitate, non è incompatibile con la natura subordinata del rapporto la sostituzione del prestatore di lavoro subordinato con il consenso del lavoratore (ad esempio, nel contratto di portierato).
L’inadeguatezza dei criteri fin qui presi singolarmente in esame per identificare il lavoro subordinato e distinguerlo da quello autonomo ha indotto la giurisprudenza, ormai prevalente, a utilizzarli in modo variamente combinato fra loro e, seppur nella consapevolezza della non decisività di ciascuno singolarmente considerato, a valutarli globalmente come indizi probatori della subordinazione (Cass., 17.6.2009, n. 14054; Cass., 17.4.2009, n. 9256).
Quanto alla rilevanza del nomen juris, ossia della dichiarazione delle parti in ordine alla qualificazione del rapporto, la giurisprudenza prevalente ritiene che tale riferimento risulti di maggiore utilità in tutte quelle fattispecie in cui i caratteri differenziali tra due o più figure negoziali appaiono non agevolmente tracciabili: in questo caso la valutazione del documento negoziale diventa tanto più rilevante quanto più labili appaiono i confini tra le figure contrattuali in esame (Cass., 26.8.2013, n. 19568). In caso di contrasto tra la dichiarazione delle parti e il loro comportamento successivo, secondo la medesima giurisprudenza, prevale quest’ultimo ai fini della qualificazione giuridica del rapporto come subordinato o autonomo (cfr. Cass., 4.3.2015, n. 4346; Cass., 21.9.2014, n. 22289).
In ogni caso, va sottolineato che il metodo più rigoroso di qualificazione del rapporto per l’applicazione della disciplina della subordinazione, contrassegnata da un elevatissimo tasso d’inderogabilità, è quello della sussunzione della fattispecie concreta nel tipo legale disegnato dall’art. 2094 c.c.
In altre parole, la fattispecie concreta deve presentare tutti i connotati della fattispecie astratta e coincidere con essa. Ma è altrettanto opportuno ricordare come a questo metodo se ne contrapponga un altro, ossia quello tipologico, che fa leva sulla distinzione tra tipo legale e normativo.
Il tipo normativo non individua un tipo legale determinato, ma soltanto talune e non tutte le caratteristiche di un tipo legale, sicché l’applicazione del metodo tipologico consente al giudice di non sussumere la fattispecie concreta in quella astratta, ma di ricondurre la prima al tipo normativo.
Il riferimento al tipo normativo consente quindi al giudice, che debba procedere alla qualificazione di una fattispecie concreta come lavoro subordinato o meno, di considerare come subordinati anche rapporti di lavoro che non presentano tutti i tratti del tipo legale e quindi finisce per ampliare di fatto la sua discrezionalità, sia nella qualificazione della fattispecie concreta, sia nella conseguente determinazione del campo di applicazione della normativa.
Il discorso finora condotto sui metodi adottati dall’interprete per individuare la disciplina applicabile alla fattispecie concreta consente di affrontare il problema della cd. disponibilità del tipo lavoro subordinato da parte del legislatore. Espressione di uso ormai corrente per affermare che al legislatore non è consentito escludere l’applicazione della disciplina prevista per il tipo lavoro subordinato rispetto ad un rapporto che ha oggettivamente le caratteristiche del lavoro subordinato (sul punto si v. Montuschi, L., Il contratto di lavoro fra pregiudizio e orgoglio giuslavoristico, in Lav. dir., 1993, 21 ss).
La Corte costituzionale ha affermato ripetutamente (C. cost., 31.3.1994, n. 115; C. cost., 29.3.1993, n. 121) che «non sarebbe comunque consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato» (in senso adesivo cfr. anche Cass., 25.5.1998, n. 5214).
In altre parole, la Corte fonda la sua tesi su «una nozione effettuale di subordinazione come nozione presupposta dal sistema dei diritti costituzionali» (cfr. D’Antona, M., Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale nel diritto del lavoro, in Argomenti dir. lav., 1995, spec. 63 e 67).
Questa tesi non appare persuasiva per due ordini di ragioni.
In primo luogo perché compete alla discrezionalità del legislatore definire e regolare i tipi che per l’appunto sono denominati legali. Ed in secondo luogo perché è difficile affermare che i diritti riconosciuti dagli artt. 35 a 40 della Costituzione siano riferibili soltanto ed esclusivamente al lavoro subordinato.
Se dunque la subordinazione non può essere considerata una fattispecie costituzionalmente rilevante, ne consegue che il legislatore può separare la fattispecie della subordinazione dal corrispondente trattamento normativo.
Ciò non significa che il legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità, possa regolare due fattispecie identiche con un trattamento normativo diverso e, per contro, due fattispecie diverse con una medesima disciplina, perché violerebbe il principio di uguaglianza-ragionevolezza sancito dall’art. 3 Cost.
Invece, dal combinato disposto degli artt. 3 e 35 Cost. discende il vincolo per il legislatore ordinario ad una ragionevole distribuzione delle tutele tra i diversi rapporti di lavoro.
Accettata questa conclusione, rimane da chiarire una questione ulteriore e diversa, anche se connessa con la prima, e cioè se sia consentito al legislatore di individuare per due fattispecie di diversa natura una disciplina parzialmente analoga senza per questo cadere nella censura di avere violato l’art. 3 Cost.
La risposta all’interrogativo è positiva, con l’avvertenza di avere presente che spetterà alla Corte costituzionale stabilire il limite oltre il quale il legislatore, nella definizione dei tipi e nella dislocazione delle relative tutele e, quindi, nella individuazione di una disciplina parzialmente analoga a rapporti di lavoro di natura diversa, abbia violato il principio stabilito dall’art. 3 Cost.
Ciò significa che il rispetto della ragionevolezza impone al legislatore di apportare deroghe a disposizioni di contenuto generale, in forza di requisiti di diversità della fattispecie rispetto al tipo lavoro subordinato (si v., in questo senso, Scognamiglio, R., La disponibilità del rapporto di lavoro subordinato, in Riv. it. dir. lav., 2001, II, 119).
La legislazione ha spesso negato la qualificazione di lavoro subordinato a diversi rapporti di lavoro (basti pensare, ad esempio, al lavoro del volontario di cui all’art. 2, co. 3, l. 11.8.1991, n. 266 oppure alle borse di lavoro e ai lavori di pubblica utilità di cui all’art. 1, co. 5, d.lgs. 7.8.1997, n. 280). In questi casi l’esclusione della disciplina del lavoro subordinato non dipende dalla separazione tra fattispecie e trattamento normativo applicabile, ma dalla diversità, almeno parziale, della fattispecie regolata rispetto a quella disegnata dall’art. 2094 c.c. e dalle finalità di questi rapporti.
Il discorso sulla cosiddetta disponibilità legislativa del tipo già riproposto dall’art. 69, d.lgs. 10.9.2003, n. 276, che ha stabilito la conversione delle collaborazioni continuative e coordinate senza l’individuazione di uno specifico progetto in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dall’origine del rapporto ritorna di attualità, entro certi limiti, con l'art. 2 del d.lgs. n. 81/2015. E tuttavia è difficile ritenere che la nuova formula normativa utilizzata dall'art. 2 del d.lgs. n. 81/2015, e cioè «le collaborazioni organizzate dal committente», incida e allarghi la nozione di subordinazione definita dall'art. 2094 c.c.
L’art. 1 del d.lgs. n. 81/2015, recante il testo organico delle tipologie contrattuali in attuazione della l. delega 10.12.2014, n. 183, recita «il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro».
Questa definizione ricorre in diversi testi normativi nazionali ed europei (cfr., in precedenza, l'art. 1 d.lgs. 6.9.2001, n. 368, come modificato dalla l. 28.6.2012, n. 92. Cfr. anche il preambolo e il sesto considerando dell’accordo quadro CES-UNICE-CEEP allegato alla dir. 99/70/CE e la dir. 2008/104/CE in materia di somministrazione) e non sembra modificare la fattispecie definita dall'art. 2094 c.c. E tuttavia il rapporto di lavoro subordinato viene definito a tutele crescenti perché il d.lgs. 4.3.2015, n. 23, ha introdotto a fronte del licenziamento illegittimo una tutela risarcitoria la cui entità è crescente in ragione dell'anzianità di servizio maturata dal lavoratore licenziato illegittimamente, mentre ha ridotto drasticamente l'ambito di applicazione della reintegrazione.
In secondo luogo, come stabilisce la cd. legge di stabilità 2015 (l. 23.12.2014, n. 190, art. 1, co. 118), il datore di lavoro non è obbligato a pagare i contributi previdenziali e assistenziali per i premi tre anni di durata del rapporto di lavoro per gli assunti fino al 31.12.2015.
La riduzione drastica dell'ambito di applicazione della sanzione della reintegrazione a fronte del licenziamento illegittimo e la riduzione dei costi sopportati dal datore di lavoro in caso di nuove assunzioni, dovrebbero avere come effetto finale quello di ridurre le tipologie di lavori precari e aumentare l'occupazione.
In terzo luogo, il d.lgs. n. 81/2015 ha riordinato la pluralità di tipi contrattuali, regolando accanto al rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, il lavoro a tempo parziale, il contratto a tempo determinato, il lavoro intermittente, la somministrazione di lavoro, le varie forme di apprendistato.
Il d.lgs. n. 81/2015, da una parte, applica dal 1° gennaio 2016 la disciplina del lavoro subordinato «anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro, esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro» (salve alcune eccezioni espresse), e, dall’altra parte, abroga espressamente la disciplina del contratto di lavoro a progetto per i contratti di collaborazione stipulati successivamente alla data di entrata in vigore della norma.
L’art. 52, co. 1, in particolare, abroga espressamente gli artt. 61-69 bis del d.lgs. n. 276/2003, i quali rimangono in vita in via transitoria solo per regolare i contratti già in essere alla data di entrata in vigore del decreto. Tale disposizione realizza in modo netto l’intenzione, annunciata dal legislatore delegante e confermata dalla rubrica della norma, di superare il contratto a progetto.
Non è stato raggiunto, invece, il più ambizioso e delicato obiettivo di superare le collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c.
Infatti, l’art. 52, co. 2, stabilisce espressamente la sopravvivenza dell’art. 409, n. 3, c.p.c., ossia della norma alla quale, come prima osservato, va riconosciuta una sorta di primogenitura delle collaborazioni in questione.
Al tempo stesso e soprattutto, l’art. 2, co. 1, applica la disciplina del lavoro subordinato non già a tutti rapporti di collaborazione, bensì soltanto a una parte di questi.
Infatti, il criterio selettivo utilizzato dall’art. 2, co. 1, per individuare i rapporti ai quali si applica la disciplina del lavoro subordinato è diverso e non coincidente con quello di individuazione delle collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c.
Come conferma anche la rubrica della norma («collaborazioni ‘organizzate’ dal committente»), le collaborazioni alle quali si applica la disciplina del lavoro subordinato sono solo quelle «organizzate» dal committente, non già quelle «coordinate»; tali collaborazioni, inoltre, devono concretarsi in «prestazioni di lavoro esclusivamente personali» e non di carattere «prevalentemente» personale.
Restano dunque escluse dalla riconduzione al lavoro subordinato, non solo le collaborazioni organizzate dal committente, elencate in modo tassativo dall’art. 2, co. 2 (ossia le eccezioni alla regola generale), ma anche e soprattutto tutte le collaborazioni che non si concretino in una collaborazione «organizzata» dal committente ai sensi dell’art. 2, co. 1.
A questo punto si può affermare con un certo margine di sicurezza che i rapporti di collaborazione che sono esclusi dalla riconduzione al lavoro subordinato disposta dall’art. 2, co. 1, – cioè le collaborazioni coordinate e continuative non organizzate dal committente ovvero quelle organizzate dal committente ma rientranti nelle eccezioni del co. 2 – continuano ad avere cittadinanza nel nostro ordinamento.
In proposito si deve osservare che nessuna norma ne sancisce l’eliminazione o il divieto, con la conseguenza che, similmente a quanto avveniva prima della riforma del 2003, i privati potranno utilizzare sia schemi contrattuali tipici sia schemi contrattuali atipici ai sensi dell’art. 1322, co. 2, c.c. per dare vita a rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata e che saranno, per tale ragione, soggetti al rito del lavoro ed alla normativa ad essi applicabile.
Peraltro, il superamento della disciplina del lavoro a progetto comporta anche il venir meno del divieto, previsto da quella disciplina, di regolare forme di lavoro autonomo continuativo a tempo indeterminato al di fuori delle ipotesi già esistenti e regolate dal codice civile (come ad es. il contratto di agenzia), ovvero al di fuori delle poche eccezioni espresse e tassative prima previste dall’art. 61, co. 3, d.lgs. n. 276/2003 e attualmente dall’art. 2, co. 2, d.lgs. n. 81/2015. Pertanto, a seguito delle nuove disposizioni l'ordinamento non solo non supera le collaborazioni coordinate e continuative, ma riconosce nuovamente all’autonomia privata individuale il potere di regolare, anche al di fuori delle ipotesi tipiche previste dal codice civile e delle eccezioni espresse, forme di lavoro autonomo coordinato e continuativo (senza progetto) e a tempo indeterminato.
L’art. 54 del d.lgs. n. 81/2015 regola una procedura di stabilizzazione volta a favorire l’assunzione, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a tutele crescenti, dei collaboratori già impiegati con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, o titolari di partita Iva.
Viene, in particolare, previsto che l’assunzione di tali soggetti con contratto a tempo indeterminato, effettuata a decorrere dal 1° gennaio 2016, comporta l’estinzione degli illeciti amministrativi, contributivi e fiscali connessi all’erronea qualificazione del rapporto di lavoro, con eccezione degli illeciti accertati a seguito di accessi ispettivi effettuati in data antecedente all’assunzione.
Peraltro, l’estinzione delle violazioni è possibile soltanto se siano rispettate due condizioni, ossia che: .) i lavoratori interessati alle assunzioni sottoscrivano presso una sede protetta atti di conciliazione riferiti a tutte le possibili pretese riguardanti la qualificazione del pregresso rapporto di lavoro; .) nei dodici mesi successivi alla assunzione il datore di lavoro non receda dal rapporto di lavoro salvo che per giusta causa ovvero per giustificato motivo soggettivo.
I rapporti speciali di lavoro non hanno nel nostro codice una sistemazione unitaria. Basti pensare all’art. 2128 c.c. sul lavoro a domicilio e all’art. 2129 c.c. sul lavoro negli enti pubblici o a all’art. 2134 c.c. sul contratto di tirocinio, all’art. 2239 c.c. che richiama particolari rapporti non inerenti all’esercizio dell’impresa.
Dalla lettura delle norme richiamate si evince che le discipline di questi rapporti si distinguono da quella che regola il lavoro subordinato nell’impresa perché alterano il vincolo di subordinazione disegnato dall’art. 2094 c.c. (come nel lavoro a domicilio) o modificano la causa del contratto di lavoro subordinato (come nel tirocinio) o non sono inerenti all’esercizio di un’impresa (come per es. il lavoro domestico o il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni).
La portata di tali modifiche consente di affermare che tra il rapporto di lavoro subordinato nell’impresa e i rapporti speciali non esiste una relazione di genus a specie o di tipo a sottotipo, se è vero che il sottotipo si caratterizza rispetto al tipo per l’addizione di uno o più elementi, ma una relazione longitudinale che colloca sullo stesso piano la fattispecie legale del lavoro subordinato nell’impresa e quelle speciali.
Da questi rilievi discende un triplice ordine di conseguenze: a) l’art. 2094 c.c. non individua una fattispecie minima unitaria e neppure identifica un trattamento minimo uniforme applicabile a tutti i rapporti di lavoro speciali; b) le normative dei rapporti speciali identificano altrettanti tipi legali, distinti da quello disegnato dall’art. 2094 c.c.; c) conseguentemente le disposizioni che regolano il lavoro subordinato nell’impresa si applicano, in quanto compatibili, ai rapporti speciali, non in via diretta, ma in via analogica.
Il contratto di lavoro subordinato, oltre ad essere a prestazioni corrispettive, è un contratto oneroso, perché la controprestazione del datore di lavoro è costituita dalla retribuzione.
L’onerosità del contratto di lavoro subordinato induceva, in passato, a presumere la illiceità del contratto di lavoro subordinato gratuito, per contrasto con l’art. 36 Cost. Il lavoro gratuito può, però, essere oggetto possibile di contratti innominati ex art. 1322 c.c., i quali si distinguono da quello tipico di cui all’art. 2094 c.c. e sono ammessi in virtù della meritevolezza degli interessi perseguiti.
La meritevolezza viene fatta coincidere, indipendentemente dalle concrete modalità di svolgimento del rapporto, con la sussistenza di una finalità ideale non lucrativa e pertanto riconducibile a scopi altruistici di solidarietà sociale e politica o anche religiosa (Cass., 20.2.2006, n. 3602).
In questi rapporti la prestazione è resa affectionis vel benevolentiae causa o in esecuzione di doveri morali o sociali (art. 2034 c.c.). Ad esempio, l’attività, non di culto, svolta dal religioso per l’ente di appartenenza (Cass., 7.11.2003, n. 16774).
In genere, le organizzazioni benefiche o anche solidaristiche e ideologiche si avvalgono di collaborazioni gratuite: in questi casi la presunzione di gratuità può essere vinta dalla corresponsione continuativa e non dalla dazione in via occasionale di somme, che può essere giustificata da un intento di liberalità.
Si riscontra una crescente attenzione legislativa nei confronti delle prestazioni lavorative gratuite svolte a titolo volontario dagli appartenenti alle organizzazioni del cd. terzo settore: termine riassuntivo utilizzato per descrivere le attività distinte sia da quelle amministrative, svolte dalle istituzioni pubbliche, sia da quelle di impresa, condotte dai soggetti privati.
Come, pure, prestazioni di lavoro gratuito possono essere riscontrabili nell’ambito residuale dell’impresa familiare (art. 230 bis c.c.. Cfr. Cass., 22.9.2014, n. 19925).
Artt. 1-4, 35-41 Cost.; art. 2094, 2222, 2239 c.c.; Art. 18, l. 20.5.1970, n. 300; l. 10.12.2014, n. 183; d.lgs. 4.3.2015, n. 23; d.lgs. 15.6.2015, n. 81.
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