LAZIO
(XX, p. 681; App. II, II, p. 170; III, I, p. 971; IV, II, p. 317)
Popolazione e struttura insediativa. - Il peso demografico del L., rispetto al totale nazionale, si è stabilizzato intorno all'8,8% a partire dagli anni Settanta. Gli incrementi registrati al 1981 (4.970.681 ab.: +6% rispetto al 1971) e al 1991 (5.203.353 ab., con un ulteriore aumento del 4,69%) si sono allineati alla media italiana, come effetto di un movimento naturale solo lievemente eccedentario (natalità: 9,9ı; mortalità: 8,4ı), mentre i flussi migratori, in precedenza cospicui soprattutto verso Roma e l'area pontina, fanno registrare ora un apporto positivo assai ridimensionato (0,2% annuo).
Il fatto nuovo nella tendenza distributiva della popolazione laziale è rappresentato dall'arresto della vertiginosa crescita dell'agglomerazione romana: all'interno dei limiti comunali la capitale accoglie (1991) ben 88.000 ab. in meno rispetto al 1971 e 137.000 in meno rispetto al 1981. Nonostante questa significativa inversione di tendenza (che, negli anni più recenti, ha finito per riguardare anche i comuni della cintura orientale: Tivoli, Guidonia Montecelio, Frascati, ecc.), la provincia di Roma mantiene comunque un peso schiacciante in rapporto all'intera regione: 73% della popolazione totale, sia pure contro il 74,5% del 1971. A sua volta, l'Alto L. (province di Viterbo e Rieti), vera area-problema nella situazione socio-economica regionale, sembra avere finalmente raggiunto il punto di riequilibrio nel processo di spopolamento, assestandosi, negli anni Ottanta, su una consistenza pari all'8,3% del totale regionale, con un incremento di circa 10.900 unità (1981-91) in valore assoluto, per i 4/5 nel Viterbese. Per contro, il Basso L. (province di Latina e Frosinone) ha portato la sua incidenza al 18,7% del totale (dal 17% del 1971), presentando ritmi di crescita relativa in fase di decelerazione, e tuttavia nettamente superiori alla media regionale: 90.500 unità in più nel periodo 1981-91, per oltre i 2/3 nell'area pontina.
Anche dal punto di vista funzionale e relazionale, la struttura insediativa mantiene inevitabilmente i suoi squilibri. Nell'area romana si avvertono rari sintomi di decentramento dei servizi soprattutto nella direzione dei Castelli (Albano, e inoltre Marino, Genzano, Grottaferrata, Velletri), mentre i centri sopra nominati come appartenenti alla conurbazione orientale hanno assunto piuttosto la caratteristica di quartieri-dormitorio. Alquanto isolati restano Civitavecchia, Bracciano e Monterotondo a Nord, e Anzio-Nettuno a Sud, con funzioni terziarie scarsamente competitive, anche se la prima − nella prospettiva di completamento dell'autostrada per Livorno e della superstrada per Terni − avrebbe potuto svolgere un ruolo importante nella saldatura fra Roma e l'asse tirrenico settentrionale, oltre che di nodo per la penetrazione trasversale nell'Alto L. interno. Quest'ultimo non è stato investito da rilevanti processi d'integrazione territoriale e produttiva; la sua struttura funzionale, pertanto, continua a fondarsi − più che su una vera rete di centri − sui due capoluoghi amministrativi (Viterbo e Rieti), i soli dotati di una gamma sufficientemente completa di servizi di rango elevato, e su un numero assai limitato di poli secondari, con funzioni di tipo infrastrutturale (Orte) o genericamente terziario (Tarquinia, Vetralla).
Notevoli, al contrario, le trasformazioni subite dal territorio del Basso L. come conseguenza ulteriore del processo d'industrializzazione già intervenuto nel ventennio precedente, con effetti di crescente marginalizzazione delle aree agricole, specie collinari e montane, e di espansione edilizia spesso incontrollata dei centri, ma anche di complessivo rafforzamento della struttura urbana, che si presenta ora nettamente più densa ed equilibrata. Dalle direttrici forti della Via Pontina (Aprilia, Latina) e dell'Autostrada del Sole (Frosinone, Ceprano, Cassino), essa si è progressivamente consolidata sia nelle aree interne (Sora, Anagni, Alatri, Isola del Liri), sia nella fascia intermedia (Priverno, Fondi), sia lungo la costa (Terracina, Gaeta-Formia); pur se va detto che la programmazione regionale aveva previsto, alla fine degli anni Settanta, una specializzazione funzionale di più alto rango per il polo industriale e universitario cassinate, come pure per il centro turistico e portuale diGaeta, i quali stentano invece a compiere il salto di qualità nella gerarchia terziaria regionale. Discrete prospettive di nuova centralità si aprirebbero infine per Atina, sulla quale, secondo recenti ipotesi, potrebbero convergere le arterie a scorrimento veloce provenienti dalla Valle Roveto (Fucino) e dal Molise (Isernia).
Condizioni economiche. - L'osservazione degli indicatori più generali della struttura economica − con i limiti già rilevati, per la presenza di una concentrazione di popolazione e di attività come quella romana − vede il L. nella posizione tipica di una regione ''di mezzo'', a crescente specializzazione terziaria.
In effetti, il valore medio regionale del reddito prodotto pro capite (fatto=100 il corrispondente valore nazionale) è passato, nel 1990, da 98 a 112,6 punti. Analizzando, tuttavia, l'andamento dell'indicatore a scala provinciale, emergono divari particolarmente vistosi e in qualche modo sorprendenti, che sembrano tendere a un'ulteriore accentuazione. Così, nell'Alto L., la provincia di Rieti si mantiene ormai generalmente vicino alla media regionale, come probabile risultato dell'intervento straordinario, ma anche di un raggiunto equilibrio fra consistenza minima della popolazione e parziale rinnovamento produttivo; mentre il Viterbese scende progressivamente al di sotto di tale media (97,2 punti nel 1990). Ancor più, nel Basso L., si riscontra la forte crisi del sistema frusinate, il cui reddito pro capite sale da 90 punti percentuali nel 1980 ad appena 90,3 nel 1990, tendendo a distaccarsi sempre più dall'area economica del Centro. A sua volta, l'area pontina, che nel 1980 guidava nettamente la graduatoria laziale (con 106,5 punti), incrementa relativamente di poco questo valore (111,6 punti nel 1990) e viene superata dalla provincia romana, la quale, anche a motivo della rallentata crescita demografica, sembra offrire ai suoi abitanti un tenore di vita più elevato (da 98 a 116,7 punti, nel periodo considerato). Questa situazione si traduce, però, in un divario del tutto abnorme quando si passi a esaminare l'indicatore dei consumi, dove Roma e la sua provincia vantano un livello superiore di quasi 15 punti alla media italiana e distanziano di molto le altre divisioni geografiche della regione.
Rispetto alla formazione del reddito, dunque, si potrebbe dire che Roma consuma, oltre alle proprie risorse, una grossa quota di quelle prodotte nel restante territorio regionale. Infatti, ben l'82% del valore aggiunto fornito dall'area romana deriva da attività terziarie (di cui il 20% da servizi amministrativi) rese per gran parte all'intero sistema nazionale, mentre nel Basso L. è significativa la partecipazione del settore industriale (circa 1/3 in entrambe le province che lo compongono, pari, nel complesso, al 28% del totale regionale), non trascurabile anche nel Reatino (oltre 1/4 del valore aggiunto provinciale), mentre nel Viterbese e nella stessa area pontina si segnala l'incidenza del settore agricolo (9,1 e 5,9% dei rispettivi totali provinciali, pari, nel complesso, a ben il 44% del reddito agricolo regionale).
Un almeno parziale riscontro della situazione fin qui descritta si ha nella struttura occupazionale, dove la provincia romana fa registrare, ancora nei primi anni Novanta, l'81,9% di addetti al terziario (72,5% nel 1981); quelle di Frosinone e di Latina, rispettivamente, il 35,2 e il 32,6% di addetti all'industria (tuttavia in netta diminuzione rispetto al 1981: 44,6 e 38,4%; ancora più sensibile, nel secondario, la flessione di Rieti, dal 34,3 al 31,7%); il Viterbese ben il 15,5% di addetti all'agricoltura. Nell'insieme, al 1991, la regione conta il 4,5% di occupati nel primario (6,3% nel 1981), il 20,2% nell'industria (27,6%) e il 75,3% nei servizi (66,1%).
Entrando nel dettaglio dei singoli comparti, va sottolineato, per quanto concerne l'agricoltura, come sia ormai consolidato il dualismo fra aree a coltivazione intensiva, dove si affermano aziende di crescenti dimensioni e tecnologicamente avanzate (Agro Romano e Pontino; Viterbese, che già muoveva da una struttura fondiaria più ampia), e aree marginali, con prevalenza del part-time, che, pur offrendo rese nettamente inferiori, limita tuttavia l'abbandono dei terreni (cinture suburbane, zone interne). Nel periodo 1973-87, la superficie a seminativo è aumentata del 7%, mentre è diminuita del 15% quella destinata a colture legnose; pressoché stazionarie le foraggere (−4%) e le aree boscate (+4%); l'incidenza della superficie improduttiva, prescindendo dall'intervenuta modifica della classificazione statistica, permane intorno al 22% dell'intero territorio regionale. L'immagine di un L. totalmente ''urbanizzato'' si conferma dunque stereotipa, e dovuta, ancora una volta, alla presenza sovrastante − ma fortemente concentrata dal punto di vista spaziale − dell'agglomerazione romana.
Gli andamenti produttivi più recenti vedono un sensibile incremento delle colture orticole nelle province di Roma e Latina, a compensare la flessione dei cereali e delle colture industriali; nel Viterbese si afferma sempre più la frutticoltura; nel Frusinate e nel Reatino alla favorevole congiuntura olivicola e ortofrutticola si contrappone una sensibile crisi dell'allevamento. Quest'ultima coinvolge di fatto l'intera regione, dove il numero dei capi bovini si è stabilizzato intorno alle 330.000 unità (1989), quello dei suini è crollato ad appena 200.000 unità (360.000 nel 1971) e il patrimonio ovino, pur se numericamente consistente (1.280.000 capi, raddoppiati rispetto ai primi anni Settanta), risente in maniera particolarmente negativa della scarsa mobilità nell'uso dei terreni, dovuta all'imperfetta legislazione sull'affitto, anche nelle zone a utilizzazione estensiva. Modesto permane l'apporto della pesca.
L'industria laziale attraversa una fase di ristagno, legata a fattori sia strutturali che congiunturali, entrambi ascrivibili in larga misura alle strategie d'intervento attuate nei decenni precedenti. Infatti, l'estensione della politica meridionalistica a gran parte della regione ha determinato forti squilibri localizzativi delle produzioni di mercato e una totale dipendenza dall'esterno delle produzioni di base e innovative. Il venir meno dei sostegni finanziari ha acuito la crisi di comparti come il metalmeccanico (Valle del Sacco, area pontina), già in difficoltà a livello nazionale, e compromesso la permanenza stessa di industrie come l'elettronica (Rieti-Cittaducale). Un'evoluzione positiva hanno fatto registrare invece, le industrie alimentari, cartarie e poligrafiche, chimico-farmaceutiche, dei mezzi di trasporto (con l'insediamento FIAT di Cassino), della gomma e delle materie plastiche, anche se va rilevato trattarsi di rami anch'essi decisamente soggetti a fattori esogeni. Del resto, l'occupazione industriale strettamente intesa (comparto manifatturiero) avverte un decremento più che proporzionale, pur risultando elevata la produttività per addetto (110% rispetto al valore medio nazionale), mentre il settore delle costruzioni, ancorché sottodimensionato, manifesta sintomi di ripresa.
Il settore terziario contribuisce per oltre i 3/4 alla formazione del valore aggiunto regionale, con incrementi più sensibili, negli anni Ottanta, per i servizi privati e un lieve ridimensionamento − in termini relativi − di quelli pubblici. In particolare, la quota prodotta dai rami creditizio e assicurativo (7,5%) risulta la più elevata fra tutte le regioni italiane (media nazionale: 4,5%), mentre il ramo dei trasporti (10,5%, contro una media italiana dell'8%) è secondo solo alla Liguria.
Quanto al movimento turistico, si registrano alcune oscillazioni durante gli anni Ottanta, con una tendenza di fondo comunque positiva (7 milioni di arrivi e 32,5 milioni di presenze nel 1989, contro 5,2 e 24,9 milioni, rispettivamente, nel 1979). La componente estera, fortemente concentrata a Roma, ammonta al 35÷40% degli arrivi e al 25÷30% delle presenze, per la massima parte in esercizi alberghieri, mentre le attrezzature ricettive extra-alberghiere riguardano in larga misura i litorali e le stazioni montane (Terminillo, Monti Simbruini). L'affermazione dell'agriturismo, pur non trascurabile, risulta inferiore alle potenzialità ambientali, poiché l'utilizzazione del patrimonio edilizio abbandonato, sia nei centri che nelle aree rurali, è ostacolata dalle difficoltà di collegamento alle reti dei servizi essenziali.
Sostanzialmente immutata la struttura delle comunicazioni, fatti salvi la trasversale viaria Civitavecchia-Orte, tuttora (1992) in fase di completamento, e la bretella Fiano-San Cesareo, di raccordo fra i due tronchi dell'Autostrada del Sole (per Firenze e Napoli), che è stata aperta al traffico nel 1988-89.
Bibl.: Lazio, 2 voll., Novara 1979 (coll. ''Conoscere l'Italia''); Regione Lazio (Comitato Regionale per la Programmazione), Istituto Regionale di Studi e ricerche per la Programmazione Economica e territoriale del Lazio (IRSPEL), Quadro di riferimento per la programmazione regionale, Roma 1980; Lazio, Milano 1981 (coll. ''Guida d'Italia''); IRSPEL, Sistema regionale dei trasporti e programmazione. Un modello di interpretazione e di simulazione applicato al Lazio, ivi 1983; P. Landini, Lazio. Panorama geografico, Novara 1985 (coll. ''L'Italia''); M.G. Grillotti Di Giacomo, P. Di Carlo, L. Moretti, La struttura delle aziende agrarie come base per l'individuazione di aree agricole funzionali. Il caso del Lazio, Roma 1985 (coll. ''Memorie Società Geografica Italiana''); IRSPEL, Il sistema insediativo regionale: tendenze e trasformazioni nei comuni del Lazio, ivi 1985; SOMEA (Società per la Matematica e l'Economia Applicate), Prospettive di sviluppo dell'Alto Lazio, ivi 1988; AA.VV., Le province del Lazio meridionale: problemi e possibili strategie, ivi 1988; IRSPEL, Economia e società del Lazio, ivi 1990. Si veda inoltre la rivista Lazioricerche, pubblicata dall'IRSPEL.
Preistoria. - Allo stato attuale delle ricerche, appare tracciabile il seguente quadro degli insediamenti preistorici nel Lazio.
Paleolitico. - Nel Paleolitico Inferiore in Italia in generale e nel L. in particolare, si riscontrano sparse presenze umane, in insediamenti posti quasi sempre all'aperto, e spesso situati su terrazzi fluviali o ai margini di bacini lacustri.
Le più antiche industrie laziali sono rappresentate da complessi su ciottolo, rinvenuti nei giacimenti di Colle Marino (Anagni), sui terrazzi e lungo i bacini della Valle del Siri, ad Arce e Fontana Liri, databili anteriormente a 700.000 anni fa (data quest'ultima delle soprastanti lave del Vulcano Laziale); più recenti sono i siti con industrie su selce e quarzite (con choppers, raschiatoi, denticolati) rinvenuti lungo una fascia collinare, sulla riva destra del fiume Sacco, tra Castro dei Volsci e Pofi, databili tutti all'interglaciale Günz-Mindel.
Un paleosuolo rinvenuto ad Anagni-Fontana Ranuccio (Frosinone), datato radiometricamente su leuciti a 458.000 anni fa (glaciazione di Mindel), ha industria, attribuita all'Acheuleano arcaico, con rari bifacciali, strumenti minuti su scheggia, e una caratteristica industria su osso, che utilizza diafisi e ossa lunghe animali (per es. di elefante); due incisivi umani rappresentano i più antichi resti conosciuti, nel L., di Homo erectus. A Pofi, sotto una colata lavica datata 400.000 anni fa, si sono rinvenuti un frammento di ulna, uno di tibia e due frammenti di cranio di Homo erectus, associati a industria su selce e su lava. Cronologicamente assimilabili a queste industrie sono i manufatti litici di Valchetta Cartoni, provenienti da una cava di ghiaia sulla riva destra del Tevere all'altezza di Ponte Milvio.
La maggior parte dei giacimenti italiani con industria acheuleana si trova, come si è detto, su terrazzi fluviali: tra questi, il sito stratificato di Torre in Pietra (livello m), quelli del L. meridionale di Ceprano, Pontecorvo e Lademagne; queste ultime località hanno livelli collocabili cronologicamente nel Riss, con industria litica a bifacciali di tipo evoluto, rari choppers, raschiatoi e denticolati in selce, attribuibili all'Acheuleano Superiore; anche a Ceprano e Pontecorvo viene utilizzato l'osso per la fabbricazione di strumenti.
A nord di Roma, rinvenimenti acheuleani sono quelli di La Polledraca e Malagrotta, dove l'industria (confrontabile con quella dei vicini siti di Torre in Pietra e Castel di Guido) accanto ai bifacciali presenta microstrumenti su scheggia, ricavati da piccoli ciottoli in selce: una serie di strumenti sono ottenuti con la lavorazione delle ossa di grandi mammiferi. Alla stessa facies culturale, databile intorno a 300.000 anni fa, è riferibile la paleosuperficie messa in luce a Castel di Guido, circa 2 km a nord-est di Roma, sull'Aurelia. Il sito, inquadrabile nell'ambito della glaciazione rissiana, è caratterizzato da un alternarsi di depositi di limo e di sedimenti eruttivi che inglobano il livello antropico: probabile postazione di caccia, oltre ad abbondanti resti animali (bue primigenio, elefante, cavallo, ecc.), ha rivelato resti umani comprendenti due femori, un parietale e un mascellare attribuibili a Homo erectus; l'industria, microlitica, ha confronti con quella di Malagrotta: eccezionale la capacità tecnica dimostrata nella lavorazione di manufatti ossei tra cui un bifacciale.
Tutti i siti all'aperto ora nominati testimoniano una frequentazione dell'area da parte di Homo erectus, la cui organizzazione in gruppi è indicata anche dalla sua capacità di caccia di grossi mammiferi. La fauna, sempre abbondante in questi giacimenti, indica situazioni di prateria alternata a foresta.
Alla fine della glaciazione rissiana e all'interglaciale Riss-Würm (13.000-80.000 anni fa) sono attribuibili i siti dislocati nella bassa valle dell'Aniene, all'altezza della sua confluenza con il Tevere: a Sedia del Diavolo, Monte delle Gioie, Saccopastore, Casal de' Pazzi, industrie di tipo musteriano sono state rinvenute associate a resti umani.
A Casal de' Pazzi, tra la via Tiburtina e la Nomentana, è stato condotto recentemente uno scavo nel deposito pleistocenico a sabbie e ghiaie; accanto a numerosi strumenti − a patina diversa, indicanti giaciture non in posto − è stato rinvenuto un frammento di parietale umano, definito pre-neandertaliano. A Torre in Pietra, a nord di Roma, sono presenti due livelli antropici (m e d): l'industria del livello d, più recente, consistente in più di 700 manufatti, è di tipo musteriano e tipologicamente prefigura il ''pontiniano'' classico dell'Agro Pontino. Posta sul più basso dei terrazzi fluviali dell'Aniene, datata al Riss-Würm, la cava di Saccopastore ha rivelato la presenza di scarsa industria litica pre-musteriana, tipologicamente affine al livello d di Torre in Pietra. Particolarmente importante il rinvenimento di due crani, uno femminile (età dell'individuo, circa 50 anni) e uno maschile (età circa 25 anni), attribuiti a una varietà di Homo sapiens neanderthalensis.
Il passaggio al Paleolitico Medio avviene in modo graduale, anche in relazione alla molteplicità di significati che a questa definizione si possono attribuire: per quanto riguarda le industrie, molti dei siti precedentemente citati potrebbero essere attribuiti a questa fase; più preciso potrebbe essere considerato il riferimento alle glaciazioni, in particolare l'interglaciale Riss-Würm e parte del Würm. Da un punto di vista antropologico, assistiamo alla comparsa di Homo sapiens neanderthalensis. Le industrie, di tipo musteriano, assumono nel L. una connotazione particolare. Nell'area pontina (Canale delle Acque Alte) e nelle grotte costiere tra il Circeo e Gaeta (Grotta Guattari, Grotta dei Moscerini, Grotta di Sant'Agostino), il ''pontiniano'' rappresenta una specializzazione locale eseguita su ciottoli, ricca di raschiatoi, punte, denticolati, ecc.
A Grotta Guattari, al Circeo, il ritrovamento di un cranio neandertaliano all'interno di un circolo di pietre, con il foro occipitale allargato, aveva fatto pensare a complesse pratiche magico-rituali; nuovi studi tendono a ridimensionare l'intervento umano, ma questo dato resta d'importanza fondamentale per le nostre conoscenze dell'uomo di Neandertal.
L'industria dei cinque livelli a industria pontiniana di questa grotta ha forti affinità con il livello superiore di Torre in Pietra (livello d), caratterizzato anch'esso da un largo impiego del ritocco Quina e dalla presenza sporadica della tecnica ''levallois'' (che consiste nel preparare il nucleo per ottenere schegge di forma predeterminata). Il Canale delle Acque Alte è stato d'importanza fondamentale per la documentazione stratigrafica relativa a episodi geomorfologici, correlabili con situazioni climatiche e confrontabili con dati faunistici. I numerosi siti di superficie, sulle dune fossili della pianura pontina, si possono rapportare ai predetti episodi in modo molto preciso.
A una fase più avanzata si può riferire un musteriano che, pur nell'uso costante di piccoli ciottoli, sembra indicare situazioni diverse: un musteriano a denticolati sembra caratterizzare i livelli inferiori a Grotta Barbara (Circeo) e gli strati 26-27 della grotta del Fossellone, che poggiano su livelli definiti pontiniani. A queste concentrazioni costiere va aggiunto un musteriano delle aree più interne, definito da varianti quali la presenza di punte e l'utilizzazione più o meno intensa della tecnica ''levallois'', conosciuto a Poggio Mirteto, a Cassino, a Sora. Nel Musteriano laziale, come in generale in quello italiano, sembra esservi una relativa omogeneità.
In corrispondenza della 2a−3a fase della glaciazione wurmiana, che parte da circa 38.000 anni fa, inizia la comparsa dell'uomo attuale (Homo sapiens sapiens), che via via sostituisce l'uomo di Neandertal, destinato a scomparire. Nel Paleolitico Superiore, che copre tutti gli stadi finali del Würm, le testimonianze archeologiche indicano culture più complesse, industrie litiche più articolate e differenziate, rituali funerari e magico-religiosi più elaborati, caccia e raccolta con indizi di specializzazione.
Nel L. i rinvenimenti più antichi di questa fase appartengono all'Aurignaziano e sono presenti nella Grotta del Fossellone al Circeo: l'industria, definita un tempo ''circeiana'' per la sua somiglianza con il pontiniano, è separata da un livello sterile dal sottostante livello musteriano: grattatoi carenati e a muso, lame ritoccate e a strozzatura compaiono accanto a oggetti in osso, corno, steatite: tipiche le punte d'osso a base spaccata. Le faune indicano una fase freddaasciutta dell'ultima glaciazione. A Grotta Barbara (Circeo) piccoli lembi sovrastanti i livelli musteriani hanno restituito abbondante industria litica e manufatti di osso di tipo aurignaziano: siti all'aperto sono a Canale delle Acque Alte e a Pratica di Mare, a Monte Gennaro e Selva dei Muli. Sembra di poter cogliere, per questo periodo, lo sfruttamento di nicchie ecologiche diversificate, forse corrispondenti ad attività già indirizzate verso una certa specializzazione.
Industrie più tarde sono attribuibili all'Epigravettiano e diffuse in tutto il L.: all'Epigravettiano antico è attribuibile l'industria del Riparo Lattanzi (Cavernette Falische), caratterizzata da tipi ''a cran'', simile a quella rinvenuta a Cenciano Diruto, presso Vignanello.
L'Epigravettiano evoluto è stato identificato a Palidoro, dove l'intera sequenza stratigrafica è stata datata tra 16.000 e 14.000 anni fa; in otto tagli è stata raccolta industria caratterizzante l'intera fase, nell'ambito della quale si possono individuare orizzonti tipologicamente distinguibili. I ritrovamenti di Valle Ottara si collegano all'orizzonte medio di Palidoro.
L'Epigravettiano finale è rappresentato in alcuni siti del L. meridionale, quali Grotta Jolanda (Sezze) e nella parte più alta della sequenza stratigrafica del Fossellone: al Riparo Salvini, presso Terracina, questa facies è stata datata al C 14 a 12.400±170 anni da oggi. Un livello con industria epigravettiana evoluta è stato individuato a Tor Vergata, a sud-est di Roma: il sito sembra indicare, per lo spessore dello strato archeologico (circa 70 cm), una frequentazione protratta nel tempo. Il giacimento più rappresentativo è, sulla riva destra dell'Aniene, non lontano da Roma, Grotta Polesini: i suoi vari livelli indicano una lunga occupazione, confermata dall'abbondantissima industria rinvenuta (circa 400.000 pezzi tra schegge, lame, strumenti in selce e strumenti in osso); lo strato 7 è stato datato a 10.300 anni da oggi. Figure zoomorfe e motivi geometrici, rappresentati su ciottoli a placchette di osso costituiscono le più antiche testimonianze di attività artistica nel Lazio.
Circa 10.000 anni fa può essere posta la fine del Pleistocene e l'inizio dell'Olocene; profondi mutamenti climatici e ambientali interessano questo periodo: l'ultima trasgressione marina, con l'innalzarsi delle acque, provocò il formarsi di dune costiere e quindi di lagune e stagni. Si evidenziano in questo momento aspetti culturali diversi, riferibili all'Epipaleolitico o al Mesolitico: le industrie si differenziano maggiormente a livello locale e a seconda delle aree geografiche, in relazione alle varie soluzioni economiche: il tipo umano è ormai il Sapiens Sapiens. Il termine Mesolitico ha in sé una pluralità di significati, a seconda che se ne voglia accentuare il carattere cronologico (Olocene), tecnologico (lavorazione di strumenti microlitici e geometrici), economico (sfruttamento di risorse alternative: pesca, caccia di piccoli mammiferi e uccelli, raccolta di molluschi, ecc.), culturale (riadattamento dei vari gruppi di cacciatori/raccoglitori alle mutate condizioni ambientali).
Nel L., nella Grotta di Peschio Ranaro, datata a 7780±150 anni, sui Monti Ernici, si sono rinvenuti, accanto a pochi strumenti geometrici, una serie di dorsi. Nell'area del Circeo, al Riparo Blanc, datato 6615±80 a.C., l'industria (denticolati, punteruoli, intaccature) ben si accorda con l'enorme quantità di resti di molluschi marini (30.000 esemplari); i resti di pesci, di granchi, di uccelli, testimoniano la ricchezza e la varietà delle risorse disponibili.
Neolitico. − Recenti, numerose ricerche hanno enormemente arricchito il quadro relativo al popolamento neolitico del L.: le prime testimonianze di attività di sussistenza sembrano privilegiare, a seconda degli ambienti sfruttati, uno dei due aspetti della domesticazione, l'agricoltura o l'allevamento; molto varia è quindi la dislocazione dei siti a seconda del loro adeguarsi ad habitat diversi.
Incerte e dalla posizione stratigrafica non definita sono le presenze riferibili a una ceramica impressa a linee dentellate (Grotta delle Sette Cannelle, Colli Albani, Palidoro, Pyrgi, Due Ponti; a Tor Vergata, una cavità contiene intonaco e frammenti di questa ceramica).
La facies definita a suo tempo di Sasso-Fiorano − a sottolineare le somiglianze tipologiche dell'area laziale (Sasso) con quella emiliana (Fiorano) − è diffusa ampiamente in tutto il territorio del L. settentrionale, nei pressi del lago di Bolsena, lungo il Fiora e il Mignone; appare sottostante a livelli Diana a Grotta del Vannaro (Corchiano) e associata a frammenti tipo Ripoli nei livelli superiori di Palidoro; il suo limite meridionale sembra essere Casale del Pescatore (Montecompatri). Le nostre maggiori conoscenze per questa fase provengono dalla Grotta Patrizi (Furbara): vi si rinvennero una serie di sepolture, una delle quali, isolata, delimitata da un allineamento di pietre, con corredo particolarmente ricco: il cranio dell'uomo era stato trapanato. Questa sepoltura è stata considerata espressione di una certa differenziazione nell'ambito della società neolitica, anche se non in senso gerarchico.
La facies del Sasso è stata datata, nella più settentrionale Grotta dell'Orso di Sarteano, a 4130-50 a.C.
A Monte Venere, che presenta una particolare posizione ''insulare'' nell'ambito del lago di Vico, sei distinti livelli contenevano materiale del Sasso e alcuni frammenti di ceramica dipinta: i livelli 4 e 5 sono stati datati 4990±100 e 4910±60 a.C. A Tufarelle, sui monti della Tolfa, un abitato all'aperto ha rivelato indizi di strutture abitative e di opere di sistemazione dell'intero pianoro. È caratteristica in tutta questa fase la frequentazione di grotte, probabilmente a scopo rituale, in alcuni casi in probabile connessione con un culto delle acque (Grotta del Vannaro, Grotta Patrizi, alcune delle Caverne Falische).
Aspetti della cultura di Diana sono presenti nei livelli superiori della Grotta del Vannaro e nello strato F di Valle Ottara, insediamento all'aperto nella valle del Velino (datato al C14 a 3448±145 a.C.); a Tre Erici (Luni sul Mignone) pochi frammenti non molto diagnostici sono stati datati a 3445±80 a.C. Per il Neolitico più recente i dati più ampi provengono dallo scavo di Quadrato di Torre Spaccata, indagato per un'ampiezza di oltre 300 m2: in quest'area sono stati individuati piani di concotto, fosse, abbondante ceramica (scodelle carenate e tronco-coniche, scodelline decorate a graffito e tratteggio, confrontabili con esemplari della Lagozza), resti di fauna domestica e di semi (Hordeum sp., Triticum e Pisum sp.). Una datazione alla termoluminescenza ha dato due date: 3220±350 e 2870±300 a.C.
Colpisce, in questa fase più tarda del Neolitico, il fenomeno dell'abbandono di molti siti della facies Sasso, mentre i nuovi abitati, gravitanti nell'ambito della valle del Tevere, in molti casi saranno frequentati fino al Bronzo.
Eneolitico - Bronzo Antico. − L'Eneolitico laziale si pone nell'ambito del 3° e nei primi secoli del 2° millennio a.C.; il L. partecipa della cultura di Rinaldone, localizzata in un'ampia area del Tirreno centrale, fra l'Arno e il Tevere, con significativi addensamenti nei pressi delle Colline Metallifere della Toscana e nella valle del Fiora.
Caratteristica di questo aspetto culturale è la sepoltura a grotticella artificiale, con deposizione singola o plurima o, in alternativa, la semplice fossa terragna (come, per es., Casamari e Valvisciolo). Le necropoli non sono ampie, ma sono numerose, spesso poste a poca distanza tra loro (Ponte S. Pietro, Rinaldone, Porcareccia, Naviglione e, collegabile con queste, anche se non in territorio laziale, quella di Poggialti-Vallelunga): ricorrente nei corredi il tipico ''vaso a fiasco'', accanto a una serie di armi, quali mazze e asce in pietra, punte di freccia, pugnali triangolari e asce in rame che in origine avevano spinto a sopravvalutare il loro carattere guerriero (Puglisi 1959).
Significativa per le implicazioni di carattere sociale è la cosiddetta ''tomba della vedova'' di Ponte S. Pietro, nella quale una donna è stata deposta (sacrificata?) accanto al corpo dell'uomo, il cui rango sembra testimoniato da un corredo insolitamente ricco.
A un momento in parte più tardo è attribuibile la diffusione, nel L., del bicchiere campaniforme: la sua presenza più consistente (6 esemplari) è nella grande tomba a forno di Fosso Conicchio (Viterbo), ma frammenti di questo tipico vaso, rappresentante un momento cronologico particolare in tutta l'Europa centro-occidentale e settentrionale, provengono da Tre Erici (Luni sul Mignone), dove la stratigrafia indica una continuità con i precedenti livelli neolitici, confortando l'ipotesi di una stabilità ormai acquisita. Anche a Torre Crognola e a Poggio Olivastro abitati su pianoro hanno rivelato frammenti di ceramica campaniforme.
Uno dei pochi abitati di un Eneolitico più avanzato − oltre a Selva dei Muli (Frosinone) e a Maccarese (Roma), non ancora estesamente indagati − è rappresentato dal giacimento di Piscina di Torre Spaccata, ai margini del quartiere romano di Cinecittà: è stato possibile indagare sull'organizzazione dello spazio, in base alla distribuzione del materiale archeologico. Grandi vasi per l'immagazzinamento, piani di cottura, fosse di scarico si alternano, a poca distanza, a due sepolture, una maschile e una femminile. Semi carbonizzati e abbondanti resti di fauna domestica testimoniano la pratica, stabilizzata, dell'agricoltura e dell'allevamento. Quest'abitato s'inserisce in una rete di siti coevi, posti a poca distanza l'uno dall'altro (Tor Vergata, Osteria del Curato) in un'area di pianura, percorsa da corsi d'acqua abbondanti, ai piedi dei Colli Albani.
Bronzo Medio iniziale. − Le prime manifestazioni di questo periodo hanno caratteri a volte evanescenti, distinguibili in gran parte solo su base tipologica. Il L. settentrionale sembra avere caratteristiche sue proprie: in un'area corrispondente all'Etruria meridionale, i siti si pongono in zone perilacustri (Bracciano, Mezzano), lungo le valli fluviali o sulla costa. L'appartenenza alla facies di Grotta Nuova colloca con confronti precisi quest'aspetto di passaggio al Bronzo Medio, che aveva visto il manifestarsi di orizzonti quali quello di Montemerano.
Nel L. meridionale sono occupate le valli del basso Tevere, dell'Aniene e del Sacco fino alla pianura pontina (La Caprina, presso Guidonia; Ceccano, ai margini della valle del Sacco; Canterno, sul lago omonimo, sui Monti Ernici; Montecassino, Isola Liri, Paliano; zone costiere tra il Tevere e la piana di Fondi; abitato perilacustre ad Albano). I dati botanici (a Canterno) testimoniano un'agricoltura complessa, accanto a una raccolta di risorse spontanee molto articolata; anche la fauna, accanto ai domestici, indica una forte presenza di specie selvatiche, indiziando una significativa attività di caccia e pesca (per es. a Ceccano).
Bronzo Medio avanzato. − Con il termine di ''appenninico'' alla fine degli anni Cinquanta fu designata una cultura, ampiamente diffusa in tutta l'Italia peninsulare, dai caratteri molto omogenei (Puglisi 1959): la sua configurazione economica in senso prevalentemente pastorale, pur essendo stata rivista in questi ultimi anni alla luce dei dati via via emersi, mantiene sempre, nella distribuzione dei siti e nei caratteri dell'ergologia, una propria connotazione significativa e specifica. L'individuazione di insediamenti stabili (per es. a Luni, dove ''case'' lunghe scavate nel tufo sono state attribuite a questo periodo) rende più articolata la comprensione di questi gruppi, le cui manifestazioni occupano tutto il 14° secolo.
Indizi di occupazione stabile sono emersi a Crostoletto di Lamone, a Monte Rovello, alla Scarceta, a Narce, contrapponendosi a quei siti costieri e di altura dove l'esistenza di un singolo livello confermerebbe l'ipotesi di frequentazioni stagionali, legate alla transumanza.
Già U. Rellini (1933) aveva definita ''appenninica'' la tipica ceramica nero lucida, decorata a intaglio, a incisione, dai complessi motivi a meandro, a spirale, a zig-zag; più tardi specifici manufatti fittili venivano dal Puglisi (1959) connessi con la bollitura e la lavorazione del latte.
Si modifica sostanzialmente il criterio di occupazione del territorio e gli abitati di nuovo impianto attribuibili a questo periodo in molti casi saranno frequentati fino in età storica (come Ficana, Gabii, Pratica di Mare); abbandonate in parte le posizioni costiere e perilacustri, sembrano essere preferite le zone collinose interne, in relazione a corsi d'acqua e a percorsi naturali di comunicazione, rappresentati spesso dalle stesse valli fluviali.
Nell'Etruria costiera sono documentati i siti di Marangone, Malpasso e Torre Chiaruccia; vengono occupate aree della Sabina, con i siti di Toffia, Ponzano, Valle Ottara e le zone intorno a Roma: a Castiglione (Gabii), gli scavi hanno evidenziato, accanto a faune domestiche, resti di uccelli palustri e tartarughe d'acqua dolce, dando importanti indicazioni sul paleoambiente.
L'abitato di Doganella di Rocca Priora sui colli Albani, ultima propaggine degli Appennini, rappresenta forse una stazione di transito e insieme un punto di controllo dei sottostanti pascoli dei Pratoni del Vivaro; a Pratica di Mare, testimonianze appenniniche provengono da due aree distinte, dall'acropoli e dalla zona degli altari. Un esempio di necropoli megalitica è rappresentato per questa fase dalle quattro strutture dolmeniche di Pian Sultano.
Bronzo Recente. - Con il termine ''subappenninico'' si definiscono tradizionalmente quegli aspetti, in molti casi ancora intimamente legati alle fasi precedenti, che se ne differenziano per una più ampia diffusione della pratica dell'agricoltura e dell'allevamento in sede stabile, per un intensificarsi degli scambi ad ampio raggio (con il mondo miceneo e con l'Europa centrale), per una maggiore produzione e diffusione di oggetti in bronzo, legati all'attività agricola nonché alla guerra. La ceramica tipica di questo periodo è priva di decorazione, con anse molto sviluppate, terminanti in elementi plastici (cilindri, corna di lumaca, becco di papera), poste su ampie scodelle carenate. È caratteristica la scelta di siti naturalmente o artificialmente difesi, che però non escludono l'occupazione, continuata, degli abitati costieri. La presenza di Triticum dicoccum, orzo, fava, ecc. a Luni e a Narce (L. settentrionale), resti di fauna domestica e selvatica negli stessi siti e a Colle San Magno (Frosinone), indicano ancora la caccia come forte componente accanto all'allevamento.
Nel L. settentrionale una continuità di occupazione nello stesso luogo si riscontra a Narce, a San Giovenale, a Monte Rovello, a Scarceta, come nel L. centrale e meridionale a S. Omobono, Pratica di Mare, Doganella di Rocca Priora. Un numero sempre maggiore di siti si dispone su itinerari legati alla transumanza, occupando aree complementari (di altura e di pianura costiera). Le testimonianze funerarie, accanto all'incremento della produzione metallurgica, indicano una progressiva differenziazione sociale; compaiono il seppellimento individuale e il rituale dell'incinerazione, che sostituiscono il precedente tipo di sepoltura, in crepaccio o in grotta. Una delle più antiche testimonianze d'incinerazione nel L. proviene dalla località Cavallo Morto, tra Anzio e Aprilia, dove alcune decine di tombe consistono in piccole urne cinerarie, coperte da scodelle carenate capovolte, con un corredo di oggetti di bronzo: fibule, rasoi, bracciali.
Bronzo Finale - Nel corso dei secoli 12°-10° aspetti culturali nuovi sono stati attribuiti alla facies protovillanoviana. Si assiste a una diversa organizzazione territoriale: a Sorgenti della Nova, per es., nella media valle del Fiora, l'abitato, posto su una serie di terrazzamenti, raggiungeva i 5 ha di estensione; di una certa ampiezza sono anche i siti di Torrionaccio, di Monte Rovello, Luni sul Mignone, San Giovenale, Scarceta di Manciano, Scarlino.
In questo periodo la produzione metallurgica ha uno straordinario incremento, con la comparsa di nuove classi di oggetti che rivelano contatti con l'Egeo e con tutta l'Europa continentale, contatti confermati, ancora una volta, dalla presenza di ceramica micenea (per es. a Casale Nuovo di Anzio e a Monte Rovello); una più articolata organizzazione della produzione è testimoniata dai ''ripostigli'' che, a partire dall'11° secolo, si rinvengono con una certa frequenza (i più ricchi sono quelli di Coste del Marano e Monte Rovello).
Per quanto riguarda gli aspetti funerari, a Crostoletto di Lamone una necropoli con tombe a tumulo e rito misto (deposizione e incinerazione) rappresenterebbe un momento di passaggio a quel rituale della cremazione che caratterizza le necropoli protovillanoviane (Ponte San Pietro Valle, Montetosto Alto, Sasso di Furbara, Poggio La Pozza); l'utilizzazione del vaso biconico come urna cineraria sarà affiancata, in un momento più tardo, dal modellino della capanna.
Nel L. a sud del Tevere questa facies appare scarsamente documentata: oltre al sito già citato di Casale Nuovo, sul fiume Astura, si conoscono gli abitati di Montecelio e quello di Doganella di Roccapriora, le necropoli di Campo del Fico (Ardea) e quella di Ficana. I confronti con l'Etruria meridionale si possono istituire per le forti somiglianze nella produzione metallurgica: per es. il ripostiglio del Rimessone (Ardea) presenta tipi molto diffusi nell'area tolfetana. Vedi tav. f.t.
Bibl.: Si veda innanzitutto Archeologia Laziale, Quaderni del centro di studio per l'Archeologia laziale, Roma (tra questi, Il Tevere e le altre vie d'acqua del Lazio antico, Atti del VII Incontro di Studio del Comitato per l'Archeologia Laziale, Roma 1986). V. inoltre: U. Rellini, La civiltà corsa in Italia, in Bull. Paletn. Ital., 1933; S. M. Puglisi, La civiltà appenninica, Firenze 1959; R. Peroni, L'età del Bronzo nella penisola italiana, i, L'antica età del Bronzo, ivi 1971; M. A. Fugazzola, Testimonianze di cultura appenninica nel Lazio, ivi 1976; AA. VV., Il bronzo finale in Italia. Atti XXI Riunione Scient. Ist. Ital. Preist. Protost., ivi 1979; AA. VV., Il Paleolitico e il Mesolitico nel Lazio, Atti XXIV Riunione Scient. Ist. Ital. Preist. Protost., ivi 1984; G. Barker, Ambiente e società nella preistoria dell'Italia centrale, Roma 1984; Preistoria e Protostoria nel territorio di Roma, a cura di A. M. Bietti Sestieri, ivi 1984; AA. VV., Roma e il Lazio dall'età della pietra alla formazione della città, ivi 1985; AA. VV., Il neolitico in Italia, Atti XXVI Riunione Scient. Ist. Ital. Preist. Protost., Firenze 1987; AA. VV., L'età del rame in Italia centrale, in L'età del rame in Europa, Rassegna di Archeologia 7, Piombino 1988; AA. VV., La media età del Bronzo nel territorio di Roma, in L'età del Bronzo in Italia nei secoli dal XVI al XIV a.C., Rassegna di Archeologia 10, ivi 1991-92; A. Gianni, Insediamento e territorio nel Lazio meridionale e in Campania tra XVI e XIV sec., ibid.; Italia preistorica, a cura di A. Guidi e M. Piperno, Bari 1992; M. Mussi, Il Paleolitico e il Mesolitico in Italia, in Popoli e Civiltà dell'Italia Antica, 10, Bologna 1992.
Archeologia. - L'aspetto e le dimensioni già ''protourbane'', al passaggio tra 2° e 1° millennio (e tuttavia apparentemente senza esiti in età storica), hanno conferito a centri come Sorgenti della Nova (v. sopra: Preistoria) un particolare peso nel dibattito sulla formazione della città. Centrato, peraltro, soprattutto sulle nuove scoperte del Latium Vetus, il dibattito si è sviluppato alla fine degli anni Settanta, quando all'esposizione autenticamente rivelatrice, Civiltà del Lazio Primitivo (1976), fece subito eco un Convegno su Lazio arcaico e mondo greco, seguito da seminari sulla formazione della città.
Nell'Etruria meridionale, il fenomeno urbano sembra prendere consistenza nell'età del Ferro, quando l'abbandono dei siti protovillanoviani comporta, nei centri maggiori, concentrazioni abitative su grandi pianori tufacei (Veio, Caere, Tarquinia, Vulci, anche Orvieto). Tuttavia, la lettura dell'evidenza si diversifica secondo prospettive di studio contrapposte: l'una riconosce una pluralità di villaggi distinti, la cui coesione sinecistica in un agglomerato urbano avverrebbe, vero atto di ''fondazione'', nel tardo 8° o nel 7° secolo, come conseguenza positiva del modello costituito dalle poleis coloniali greche, ovvero, al contrario, per la superiorità marinara, e tecnologica in genere, dei Greci, che avrebbe spinto gli indigeni a chiudersi in centri fortificati, concentrando le forze per imprese di grande portata come le opere di difesa; l'altra, che origina soprattutto dall'esperienza sul campo degli studiosi di pre- e protostoria, senza negare l'impatto della colonizzazione greca, sottolinea come la distribuzione diffusa del materiale archeologico sui pianori, riconosciuta recentemente per Veio e indiziata per altri tra i centri citati, attesti ab initio l'unicità dei comprensori protourbani e quindi delle future città. Questo fenomeno già dal 10°-9° secolo si accompagnerebbe a una sempre più marcata sperequazione della ricchezza, avvertibile nella differenziazione dei corredi tombali e nella persistenza di riti come l'incinerazione, altrimenti in via d'abbandono, e che per es. denotano significativamente i più ricchi corredi di guerrieri nella necropoli di Veio-Quattro Fontanili. Del pari, a Vulci la prossimità dei sepolcreti villanoviani al pianoro abitato (la cui estensione accertata da recenti indagini di superficie raggiungerebbe i 120 ha) ha fatto ipotizzare un abitato unitario fin dalla prima età del Ferro (per altre ricerche di grande importanza, v. cerveteri e tarquinia in questa Appendice). In tale contesto, si sono utilizzati modelli anche matematici di lettura del territorio, l'estensione comparata delle aree abitate, la determinazione della contrazione numerica degli insediamenti minori del Bronzo Finale, che spariscono per dar luogo alle nuove concentrazioni protourbane, l'estensione presunta del territorio pertinente a ciascun insediamento (metodo dei poligoni di Thiessen), ecc.
Tuttavia, l'affinamento dei metodi di ricognizione sul campo (surveys) e il moltiplicarsi di iniziative, in cui gli archeologi britannici hanno avuto un ruolo pionieristico e propulsivo, hanno consentito recenti proposte di lettura territoriale basate su ampie campionature, per es. nelle zone di Castro e Tuscania (rispettivamente nel retroterra di Vulci e di Tarquinia) al fine di comprendere una dinamica di popolamento che traduce una gradualmente acquisita capacità di gestione e sfruttamento di ampi territori da parte delle città-stato in formazione. Si assisterebbe dapprima alla fondazione di centri ''urbani'', ma evidentemente subalterni, a partire dalla fine dell'8° secolo (come Castro o Poggio Buco, Canale Monterano o Tuscania, in relazione a Vulci, Caere, Tarquinia) e quindi, nel corso del 7°, a un popolamento capillare del territorio, talvolta rioccupando siti abbandonati dell'inizio dell'età del Ferro, con nuclei rurali più o meno equidistanti, di dimensione più consistente a misura della lontananza del centro urbano. L'apogeo di tale operazione di sfruttamento territoriale, più precoce per l'entroterra di Caere fra Tolfa e Allumiere, si collocherebbe invece per Vulci negli ultimi decenni del 6° secolo, conoscendo ben presto, peraltro, un processo recessivo che conduce alla rapida scomparsa delle unità insediative minori, che si è voluta interpretare, per es. per Castro o Poggio Buco, come segno di una nuova politica della città che discioglie il potere locale dei clan gentilizi, costringendo all'inurbamento le minori comunità del proprio territorio.
A risultati parzialmente diversi sembra condurre invece l'indagine territoriale britannica detta Tuscania project; qui gli insediamenti preesistenti fin dall'età del Bronzo e dalla prima età del Ferro (16 in tutto) ricevono, analogamente, un'accelerazione intensissima a partire dall'8°-7° secolo a.C., raggiungendo in breve i 90 siti e culminando tra 4° e 1° secolo a.C., quando sono al massimo il numero dei country-sites e la ricchezza delle tombe ellenistiche; senza apparenti contraccolpi dalla romanizzazione, la floridezza agricola del territorio perdura anche durante l'impero. In questa cornice, forse, va compreso l'episodio di Musarna, dove, su un pianoro di m 450 × 110, nel 3° secolo a.C. un impianto regolarissimo, con decumano e due cardini e grande piazza centrale di m 81 × 18, delimita isolati divisi ciascuno in tre grandi domus con atrio, tablino, quartiere servile, ecc.; un piccolo impianto di bagni pubblici, del tardo 2° secolo a.C., reca mosaici, uno iscritto coi nomi dei donatori, appartenenti a una gens locale e a una di Tarquinia, che confermano il ruolo di Musarna nel triangolo Musarna-Norchia-Tuscania nel retroterra tarquiniese, dove ritornano gli stessi nomi familiari, e operano contemporaneamente officine di sarcofagi ellenistici al servizio di gruppi gentilizi dislocati nel territorio (Tomba dei Velisina a Norchia, ecc.). Può entrare nel medesimo quadro la tardo ellenistica tomba ''delle Statue'' di Respampani di Monteromano, ornata tra l'altro da una figura femminile nuda in funzione di cariatide.
Assai diversa la situazione in ampie zone dell'Etruria meridionale e nell'agro falisco, dove alle presenze di 4°-3° secolo segue un calo verticale nel popolamento; a Narce, per es., l'abitato si avvia a rapida estinzione, anche se il santuarietto sul Treia di Monte Li Santi mostra continuità per qualche tempo ancora dopo il 241 a.C. Tra 1977 e 1980 sono stati condotti saggi nel porto vulcente di Regisvilla, identificato nel 1960 in località Murelle: le mura a blocchi di tufo che delimitano il rettangolo dell'insediamento sono di età postclassica, ma è probabile ricalchino il percorso delle antiche; all'interno, resti di un edificio arcaico a cortile, fiancheggiante una strada, hanno rivelato un'organizzazione urbana regolare. La ceramica, in prevalenza attica, e le anfore da trasporto, in grande prevalenza greco-orientali, mostrano l'intensità dei rapporti con il mondo greco tra seconda metà del 6° e 5° sec. a.C. Incerta la data delle installazioni portuali a mare, anche perché il sito venne rioccupato da un'estesa villa romana. A Vulci stessa va segnalata la scoperta del santuario extramuraneo del Fontanile di Legnisina sul Fiora, formato da un edificio templare a tre celle in grande apparato murario a blocchi, con terrecotte architettoniche dal 5° al 4°/3° secolo a.C. e oggetti votivi, e, poco distante, da un grande altare a recinto, con sagome di base a movimento contrapposto, con ricca stipe di bronzetti di offerenti dallo stile severo in poi (uno con dedica a Uni) e di fittili anche anatomici, soprattutto femminili (con dediche a Vei). Ricchi i trovamenti nella necropoli dell'Osteria, con grandi tombe a fossa e, dalla fine dell'8° secolo a.C., a camera, con nuove attestazioni di quella produzione ceramica di artigiani di formazione euboica operanti a Vulci, che trasferiscono su forme locali il repertorio decorativo greco; una tomba a camera della stessa necropoli, più tarda, con ricca distribuzione di ambienti e interessante apparato architettonico (ambiente di fondo con soffitto a travicelli che si irraggiano dal columen), ha reso magnifiche ceramiche corinzie e greco-orientali, d'importazione e imitate in loco dal Pittore delle Rondini.
A Tuscania, nella necropoli di Ara del Tufo, al di sopra di un gruppo di tombe a caditoia e a camera con tumulo, del 7° secolo a.C., si è recuperato uno scarico di lastre fittili di rivestimento arcaiche, in cui sono esemplificati tutti i tipi noti a Tuscania stessa e ad Acquarossa; più che a un edificio sepolcrale, deve pensarsi a uno scarico da un tempio non lontano. Vera fisionomia architettonica ha invece l'eccezionale tomba di Pian di Mola (prima metà del 6° secolo) con prospetto costruito interamente a mo' di casa con triplice porta sul fondo (solo la centrale reale) preceduta da un vestibolo porticato tetrastilo con colonne tuscaniche tra ante, interamente costruito; sul culmine del tetto, scavato nel tufo ma realisticamente completato con acroteri a disco, sculture di sfingi e leoni al sommo, cippi e are di culto funebre propongono un esempio prototipico delle tombe a dado delle necropoli rupestri. Nel quadro del grande progetto scientifico di edizione di queste ultime sono continuati soprattutto a Norchia e a Blera scavi e rilevamenti. In altre località importanti, come Acquarossa e San Giovenale, gli scavi sono stati limitati a sondaggi funzionali a organici programmi di pubblicazione.
Per il periodo orientalizzante, è notevole il rinvenimento a Veio di alcune tombe a camera nella già nota necropoli di Monte Michele; la più ricca (''del principino'') si segnala per il rito incineratorio del principale occupante, entro un'urna bronzea su carro a quattro ruote con cassa lignea rivestita di lamine di bronzo sbalzato e ricchissimo corredo, con strette analogie con la ceretana tomba Regolini-Galassi. Ad ambito culturale meridionale si palesa legato, per la ceramica di 7° secolo, l'ambiente di S. Giuliano-Barbarano, più tardi gravitante su Tarquinia, dove l'iscrizione dipinta di un Larth Manthureie su di un pithos dipinto ionizzante, ha fatto ipotizzare connessioni tra il gentilizio e il nome Manturanum, toponimo medievale di Barbarano.
Meritorie appaiono, come conservazione almeno grafica di presenze archeologiche in rapidissima scomparsa, le sistematiche campagne di rilevamento condotte in zone periurbane con l'ausilio di organismi del C.N.R. (Collatia, Fidene, Crustumerium, Antemnae − dove sono stati condotti saggi di scavo − Ficulea) e dell'università. Esse hanno, per es., definito con chiarezza la configurazione di centri arcaici ancora non devastati, come Crustumerium, con una grandiosa opera artificiale di fortificazione con fossato e vallo, e in cui lo scavo di alcune tombe a fossa con loculo, del periodo orientalizzante, ha rivelato significative relazioni con il mondo falisco. Nei pochi lembi superstiti della devastata Fidene, una tomba di 5° secolo a.C. ha restituito una parure di gioielli in oro, affatto inconsueta nel L. di quel tempo, mentre l'eccezionale conservazione di una capanna, crollata su se stessa e concotta a seguito di incendio, permetterà forse un ''restauro'' scientifico di una struttura abitativa dell'8° secolo a.C.
Gli scavi più estesi si sono svolti nelle necropoli, i cui rituali funerari e i cui corredi, via via più ricchi nel passaggio dal 2° al 4° periodo della cultura laziale, si considera possano, in senso lato, costituire un eloquente riflesso della struttura sociale della collettività cui appartengono. Già negli anni Settanta si erano effettuate scoperte di grande momento soprattutto nella necropoli di Castel di Decima, ma anche a La Rustica e, soprattutto per le prime fasi laziali, a Lavinio e all'Osteria dell'Osa sulla Prenestina; in quest'ultimo sito pertinente, al pari della vicina Castiglione, a una delle piccole comunità che confluiranno poi nel centro urbano di Gabi, sono proseguite ricerche che hanno riportato in luce oltre 600 tombe, fino all'orientalizzante recente, ma concentrate soprattutto nel 2° e 3° periodo laziale. Gruppi di tombe del periodo IIA (ca. 900-830 a.C.) indicano legami di tipo parentelare, mentre il rituale sottolinea le caratteristiche delle ''persone sociali'' secondo il sesso e l'età; tombe a incinerazione (dove prevale, secondo tradizioni familiari differenziate, o l'olla con coperchio o l'urna a capanna) occupano il centro dei raggruppamenti e appartengono a maschi adulti (l'urna a capanna rappresenterebbe la domus, che individua il capofamiglia, e nei vasi e utensili miniaturizzati debbono ravvisarsi riproduzioni di quegli oggetti, segno delle sue prerogative e funzioni reali); attorno alle incinerazioni, tombe a fossa contengono donne adulte inumate, con corredo completo; incompleto invece nelle inumazioni di bambini, ma anche di adulti. Si assiste quindi alla progressiva perdita dei contenuti simbolici del rituale e alla generalizzazione dell'inumazione, nel generale processo di differenziazione sociale e di emergenza di una classe aristocratica, in concomitanza con il consolidarsi delle strutture socio-politiche della città.
L'Osa ha restituito rilevanti documenti epigrafici: tre segni apparentemente alfabetici incisi su un vaso del periodo IIB (primi decenni dell'8° secolo) costituiscono di gran lunga il più antico documento della scrittura in Italia; un'olla vinaria tardo-orientalizzante (620 ca. a.C.) con iscrizione salvetod Tita, che, confermando l'attribuzione alla donna della gestione familiare del vino, traduce in latino una tradizionale acclamazione simposiale greca, a dimostrazione della forte acculturazione ellenizzante delle aristocrazie locali.
Ancorché purtroppo decontestualizzato, va segnalata l'importanza del corredo dell'orientalizzante antico (700 ca. a.C.) parzialmente recuperato a Rocca di Papa (Vivaro): una sepoltura con carro, femminile a giudicare dai fermatrecce a filigrana e dalle fibule in oro, argento e ambra, che annovera nel corredo una coppa d'argento emisferica incisa a squame sull'orlo, una bronzea, una a doppia parete di tipo siriaco, e un distanziatore per cavalli lavorato a giorno − elementi comuni con le tombe principesche di Decima, ma soprattutto con quelle celeberrime della vicina Preneste, purtroppo parimenti carenti quanto a dati di scavo; il centro cui va riferito lo spettacolare complesso funerario non è ancora identificato con chiarezza.
Tra gli scavi di abitato, richiede particolare menzione quello di Monte Cugno, presso Acilia, a pochi km da Ostia e da Roma, località in cui, grazie a un'indicazione di Festo, si riconosce Ficana, una delle comunità precocemente investite dall'espansionismo romano (la conquista è attribuita dalla tradizione ad Anco Marcio). Come a Castel di Decima, all'Acqua Acetosa-Laurentina ecc., già nell'8° secolo a.C. un aggere con fossato largo 10 m e profondo 4 recingeva un'area di circa 6 ha con capanne, forse in gruppi isolati, di varia tipologia, cui sono correlati fosse per rifiuti, pozzi e tombe infantili, che consentono di determinare fasi costruttive e continuità di vita per tutto il 7° secolo.
Precocemente, sul pianoro e, contemporaneamente, sulle pendici fuori dell'aggere, compaiono edifici rettangolari a più ambienti, con basamenti in pietra e alzato a pali lignei, rivestiti di argilla, o mattoni crudi intonacati, e tetto di tegole, con più fasi edilizie fino al 6° secolo inoltrato; in relazione all'edificio sul pianoro un pozzo ha restituito un eccezionale ''servizio'' ceramico da banchetto, con holmoi, tazze-cratere, lebeti fittili a protomi di grifo, olle, ecc., del 660 circa, rendendo alla dimensione reale del simposio artistocratico arcaico tipologie di oggetti altrimenti noti solo in tombe principesche. Alla fine del 6° sec. il fossato dell'aggere pare già parzialmente colmato e perciò in corso di abbandono, forse sostituito, peraltro, da un altro fossato spostato al di là della sommità del Monte Cugno, su cui, dopo una parziale colmatura, verrà ad impostarsi un muro di cinta a blocchi. L'episodio va interpretato, come casi analoghi e coevi (la Giostra, piccolo centro fortificato presso la via Appia; Tusculum; forse lo stesso castrum di Ostia), nel quadro delle misure difensive romane contro il pericolo sannitico dopo le Forche Caudine. L'abitato vero e proprio di Ficana appare infatti, a questo momento, abbandonato, e il territorio redistribuito in villas, con impianti rurali abitativi mediorepubblicani estesi in tutto il vasto comprensorio di Monti S. Paolo−Dragoncello−Dragona, nel quadro di un ripopolamento dell'agro della colonia di Ostia.
Problemi analoghi presenta il piccolo centro di Acqua Acetosa-Laurentina, ancor più prossimo a Roma, di cui si è esplorata soprattutto la necropoli di inusitata ricchezza, specialmente nel periodo orientalizzante, lungo il percorso di una strada in uso fino a tutto il periodo repubblicano. Il rafforzamento delle strutture familiari si palesa, sul finire dell'8° secolo, con circoli scavati che delimitano recinti sepolcrali attorno alla tomba del capostipite; nell'orientalizzante medio, le tombe maggiori divengono vere camere (fino a m 5 × 4) con banchine e tetto a travi orizzontali, sormontate da tumulo, e con ricchissimo corredo, in cui talvolta figurano scudi bronzei alle pareti, il carro (anche in tombe femminili) e altri segni di status (anfore vinarie di tipo fenicio, holmoi, olle con protomi di grifo e tazze-crateri, servizi potori in bucchero sottile d'importazione, ecc.), nonché, in bronzo, vasi del repertorio usuale e sontuosi oggetti, legati forse a funzioni e prerogative ''pubbliche'' specifiche (incensiere, sgabello, cista, flabello, ecc.); stole trapunte di ambra e monili di argento e oro sono presenti nelle tombe femminili. Tale ricchezza principesca corrisponde a un centro abitato di soli 2 ha di superficie, recinto, fin dall'inizio dell'8° secolo, da un fossato con terrapieno alto 11 m con due accessi alle estremità; all'esterno, lungo una strada, è stato scavato una sorta di ''quartiere industriale'' con almeno tre fornaci, cui si sostituisce più tardi un quartiere di abitazione con case a più vani, tetto a tegole e coppi, recinti annessi (per animali?), utilizzate nell'avanzato 6° secolo e abbandonate all'inizio del 5°. La vicinanza da Roma del centro di Acqua Acetosa-Laurentina rende certa una precoce sua condizione di dipendenza dall'urbe, senza peraltro che questo si traduca subito in un abbandono del sito.
Accurate campagne di scavi in comprensori vicini al Laurentino, parimenti destinati a grandi progetti edilizi di zona (Casale Massima, Casal Brunori, Tor de' Cenci, Torrino, ecc.), hanno rintracciato lembi ancora intatti dell'arcaico paesaggio laziale, in un susseguirsi di fasi e momenti di discontinuità, che attestano un ambiente sempre densamente popolato, e pure non precisamente agglutinato in veri centri abitati di qualche rilevanza. Questo modello di insediamento sparso è stato riferito all'organizzazione gentilizia della società romano-latina arcaica, dove i tumuli che si ergono sul piano in prossimità degli incroci rappresentano segni visibili del controllo territoriale permanente che vi si esercita, e con essi una garanzia responsabile sul transito: in tal ottica, potrebbe forse riassorbirsi senza fratture il fenomeno della continuità di vita anche in centri, come quelli citati, di cui le fonti narrano la conquista, la distruzione e l'incorporazione degli abitanti nella popolazione di Roma.
A Sud, il territorio in esame si estende verso Lavinio (v. in questa Appendice) e Ardea, località la cui importanza, ribadita dai trovamenti recenti, non ha però sollecitato adeguate misure di tutela. Le ricognizioni accertano una pari diffusione di ceramiche di 3° periodo laziale su acropoli e Civitavecchia, e, conseguentemente, una definizione in senso ''urbano'' del pianoro dal pieno 8° sec. Almeno quattro edifici templari sono ormai noti (uno, in località Banditella, individuato da frammenti di un altare arcaico in tufo), con una così equilibrata distribuzione nell'ambito della città, da far pensare a quegli episodi di colonizzazione che la tradizione ricorda. Sul Colle della Noce sono stati scavati i pochi resti di un tempio, la cui planimetria ha lasciato chiare impronte nel banco di tufo, che reca inoltre i segni e i resti di due grandi capanne a canale circolare con più periodi tra fine 9° e 7° secolo a.C., e tombe a fossa correlate, tutte, tranne una, di bambini e infanti, dal IIB al IVB, con cospicui corredi. Preceduto da edifici di 7° e 6°, il tempio, con colonne disposte tra i prolungamenti in facciata delle ante laterali, presenta una singolare pianta allungata, quasi con un raddoppiamento del pronao in profondità; le terrecotte architettoniche hanno suggerito una data alla metà del 5° sec. a.C., in concomitanza con la deduzione coloniaria romano-latina del 442 a.C. È da chiedersi se vada considerata nello stesso contesto la grande villa rustica di S. Palomba (km 23.400 dell'Ardeatina) con complessi e vasti impianti agricoli (vasche, cisterne, dolia) e materiali di 5°-4° sec. a.C.
Di grande importanza gli scavi in corso a Le Ferriere di Nettuno (antica Satricum) che una suggestiva ipotesi proporrebbe ora d'identificare con Suessa Pometia (v. satricum, in questa Appendice).
Per definire le caratteristiche dello habitat volsco, si sono avviati progetti di surveys con ''transetti'' disposti tra l'area pontina e la pendice dei Monti Lepini, mirati a cogliere il trapasso nel paesaggio antropico fra la piana e i suoli calcarei del preappennino. Qui una ridefinizione del perimetro e dell'assetto urbano di Norba ha evidenziato la regolarità dell'impianto e contribuito ad assegnare ai primi anni della repubblica non la sola acropoli, ma l'intera estensione del comprensorio urbano (38 ha circa), in cui si sono altresì evidenziate tracce di presenze anteriori; al tempo stesso è emersa chiaramente la contrapposizione dialettica con l'abitato di Monte Carbolino, correlato alla sottostante necropoli di Caracupa-Valvisciolo, straordinaria organizzazione di un intero costone roccioso in terrazze plurime di opera poligonale, apparentemente abbandonato in concomitanza con la deduzione della colonia latina.
A Circei, sull'estremità del promontorio in località Monticchio, antefisse figurate di inizi 5° secolo, in una stipe con materiali mediorepubblicani, sembrano dare sostegno alla tradizione che la vuole colonia latina coeva di Norba.
Nel L. meridionale interno, l'area ernica, fin qui scarsamente indiziata da presenze arcaiche significative, nelle due stipi di Anagni (Osteria della Fontana e soprattutto S. Cecilia poco fuori Porta S. Maria) sta rivelando inattesi contatti con il mondo etrusco, cui riconducono, oltre a numerosi oggetti di importazione, graffiti vascolari del 7° e 6° secolo a.C., che attestano presenze di elementi chiusino-volsiniesi, spiegabili nel quadro degli interessi ''meridionali'' delle grandi città tiberine, adombrati in più luoghi dalla tradizione.
Precedute da capanne con più fasi, tra il periodo III/IVA e IVB avanzato, le ricche stipi di S. Cecilia attesterebbero un luogo di culto (di Cerere?) con spazi aperti per il deposito di offerte a partire almeno dalla fine del 7° secolo a.C. e per tutto il 5°, dove, accanto a prevalenti importazioni etrusche, compaiono elementi caratteristicamente laziali (figurine ritagliate in lamina bronzea) e anche italico-orientali (soprattutto ornamenti personali femminili), che segnalano prevedibili contatti transappenninici. Nel contesto acquisiscono rilevanza alcune attestazioni (Frosinone, Veroli), significative anche se non puntualmente localizzabili, che inseriscono l'area ernica entro quel perimetro in cui la diffusione di terrecotte templari figurate agli inizi del 5° secolo attesta una inequivocabile influenza politico-culturale di Roma; così un frammento verulano con testa di guerriero si confronta con una simile testina trovata recentemente a Castel Savelli (Albano), che ha suggerito di localizzare in quella località il lucus Ferentinae, dove si riuniva la Lega Latina, e ipotizzare un edificio cultuale ridecorato in concomitanza con quella rinnovata alleanza del 493 a.C. (foedus Cassianum), che, stando alle fonti, includeva anche gli Ernici.
Una messa a punto degli aspetti della Sabina arcaica si è avuta per la prima volta negli anni Settanta con la mostra Civiltà arcaica dei Sabini, che espose materiale da tombe, a fossa e a camera (queste anche con tipologie architettoniche), del tardo 7°-prima metà del 6° secolo, da Poggio Sommavilla e Colle del Forno (Eretum?); scavi clandestini hanno disperso a Copenaghen (Ny Carlsberg Glyptotek) un corredo principesco con oreficerie e un magnifico carro bronzeo sbalzato tardo-orientalizzante. La cultura mista di quest'area, sollecitata da convergenti influenze culturali, si evidenzia in una produzione ceramica locale, con manifestazioni anche peculiari (impasti buccheroidi incisi, excisi o con impressioni a cilindretto, di forme particolari) su una matrice veiente-capenate, ma con riverberi fino alla Sabina interna e al Piceno, laddove i bronzi (placche di cinturone, pendagli a oinochoe, ecc.) appaiono di provenienza capenate e/o medioadriatica.
Meno ben documentato, ma certamente più importante, il centro di Magliano Sabina possedeva nuclei di tombe a camera (una con carro), donde provengono materiali tipologicamente simili a quelli di P. Sommavilla, e, analogamente, con decorazioni animalistiche incise e iscrizioni in un alfabeto italico con affinità ''picenti''. A queste, che costituiscono le più antiche attestazioni epigrafico-linguistiche della zona (7° secolo a.C.) si accompagna ora il primo testo pubblico della Sabina tiberina (5° secolo a.C.?) inciso su tre facce di un cippo di calcare trovato nel fiume Farfa, forse un'iscrizione di confine pertinente a Cures, che menziona la Touta (dei Sabini); l'alfabeto è di tipo sud-piceno. Non è un caso che questi centri, precocemente alfabetizzati, siano quelli che presentano reale consistenza ''urbana''; è da prevedere che si rivelerà importante la scoperta di un centro arcaico a Cretone (Palombara) posto vicino a un passaggio del Tevere, e su un percorso che doveva collegare l'Agro Falisco a Tivoli; per ora, Magliano trova confronto solo con Cures, oggetto di un'indagine topografica negli anni Settanta e, più di recente, di scavi con sequenze stratigrafiche variamente articolate dalla prima metà dell'8° secolo alla fine del 7° e un grande edificio arcaico con struttura a telaio ligneo e copertura in tegole, con due fasi di 6° e 5° secolo a.C. Segni di precoce apertura a contatti esterni sono frammenti di skyphoi euboici con uccelli, dell'8° secolo a.C., che, in rapporto ai frammenti originali di Roma-S. Omobono e agli skyphoi di Veio-Quattro Fontanili, e alle imitazioni forse veienti, diffuse parimenti dal territorio falisco al Torrino e a Castel di Decima, ribadiscono il ruolo di via commerciale dell'asse tiberino. In questo contesto è certamente importante l'insediamento dell'età del Ferro, individuato in località Campo del Pozzo (e cui corrisponde uguale continuità di insediamento sino in età imperiale sull'opposta riva di Nazzano), vero avamposto fluviale su un luogo di traghetto del Tevere alla confluenza con il Farfa, che costituiva un'antichissima strada di penetrazione verso il territorio di Trebula Mutuesca (Monteleone Sabino), dove l'area acculturata in senso etrusco-falisco della Sabina tiberina trapassa nei comprensori ad economia prevalentemente pastorale del preappennino; a Trebula terrazzamenti poligonali recentemente individuati costituiscono sistema con altri simili a distanze regolari, a saldarsi con quelli dell'area palombarese e con le cinte di sommità sui Monti Lucretili e nel Cicolano. Un bell'esempio di sepoltura multipla in questa zona a insediamento di tipo pagano-vicanico è offerto dal tumulo (in corso di scavo) di Corvaro di Borgorose, nella Valle del Salto, gigantesco monumento di m. 50 di diametro, sorretto all'interno da una struttura radiale di muretti a secco, che contiene tombe a fossa (scavate finora una trentina) quasi senza vasi ma con armi e ornamenti personali di tipo medioadriatico (come nella vicina Scurcola Marsicana), scaglionate dalla fine del 9° al 6°-5° secolo a.C., forse con una ripresa ancora in età mediorepubblicana; a breve distanza dal tumulo significativamente sorgono due templi, con cui è in relazione una stipe votiva, probabilmente da rapportare alla colonizzazione latina di Carsoli o a quella viritana del territorio degli Equicoli dopo il 290. Altri tumuli, correlati con cinte poligonali di altura, sono in corso di rilevamento in tutta la Valle del Salto e altrove nel Cicolano.
Il periodo mediorepubblicano si caratterizza in primo luogo per un potente impulso alla rioccupazione di siti già abitati in età arcaica, e allo sfruttamento del territorio: le installazioni di questa epoca hanno un predominante carattere agricolo, talvolta, come nel citato caso del terrritorio ostiense, nel quadro di ampi riassetti fondiari.
Nel L. meridionale, dove deduzioni coloniarie e divisioni agrarie seguono immediatamente la conquista, un esempio molto antico, testè rilevato, è l'estesa limitazione subito prima di Terracina, ma da questa indipendente, con orientamento astronomico e basata su quadrati di 10 actus, anteriore alla Via Appia che l'interseca in diagonale: la si è messa in relazione con le assegnazioni viritane nel 340 a.C., da cui si costituisce la tribù Ufentina.
Al territorio equo (ma sono state anche espresse opinioni diverse) probabilmente apparteneva l'attuale Artena, dove scavi belgi in corso mettono in luce un abitato con tracce di frequentazione già dal 6° secolo, ma le cui strutture insediative, più tarde, appaiono distrutte per un incendio agli inizi del 3° secolo. La poderosa cinta muraria, precedentemente scavata, era stata datata anch'essa al 4°-3° secolo a.C., in concomitanza con una grossa opera di sistemazione interna con impianto ortogonale, apparentemente peraltro non più occupata da case di abitazione; l'interpretazione del fenomeno potrà forse superare tali aporie, prendendo in considerazione anche l'estesa divisione agraria per strigas, imperniata sul percorso della via Latina, individuata di recente e che sembrerebbe ricondurre all'intervento romano la riorganizzazione dell'intero comprensorio. Anche in territori rimasti estranei al processo di urbanizzazione, la presenza romana si manifesta, non solo, come a Cures, in divisioni agrarie regolari, ma con la comparsa di stipi votive composte da fittili (teste, statue, anatomici, ecc.) caratteristicamente romano-latini e collegate, in territori come la Sabina interna e l'agro di Equi ed Equicoli, probabilmente a vici, su cui si organizza la colonizzazione viritana dopo il 290 a.C. (Trebula Mutuesca, Corvaro di Borgorose, mentre il santuario di Crepadosso tra Artena e Segni presenta significative presenze più antiche), ovvero rapportabili direttamente alle città del Latium Vetus e alla colonizzazione latina dopo il 338 a.C. (ponte di Nona sulla Prenestina, Casal Monastero a Ficulea sulla Nomentana, Albano, Palestrina-santuario di Ercole a P.za Ungheria, acropoli di Segni, Fregelle-tempio di Esculapio, ecc.). Questa a sua volta si accompagna alla sistematica adozione di modelli edilizi precisi, con voluta imitazione di forme arcaiche (tipiche le modanature a cuscini contrapposti) adottate non solo per altari, ma per interi podi di templi di dimensioni anche grandiose, come quello, di eccezionale conservazione, fortunosamente individuato sotto la cattedrale di Sora (nell'area sacra, altare dedicato a Marte, e thesaurus litico bivalve, conservante il cappuccio di bronzo con dedica a Minerva da parte di due quattuorviri di età immediatamente post-sillana) in rapporto con la deduzione coloniaria del 303 a.C., o quello, presumibilmente contemporaneo, identificato sotto la cattedrale prenestina di S. Agapito.
A Palestrina, a parte l'importantissimo complesso extraurbano sacro a Ercole, parzialmente salvato, sciagurate vicende di abusivismo edilizio, nonostante qualche tentativo di controllo a opera della Soprintendenza nei primi anni Settanta, hanno, nella latitanza dei poteri pubblici, portato all'annientamento dell'intera città bassa di Praeneste, in cui era ancora riconoscibilissimo l'impianto della colonia di Silla. A questa apparteneva altresì una vasta centuriazione con origine dall'arce della città, recentemente individuata, con forse 115 centurie dal lato di 20 actus (710 m), da cui si ricava un'idea concreta della portata della deduzione coloniaria, ipotizzabile del resto dalle fonti.
Agli esempi di edilizia abitativa medio e tardorepubblicane, qui riscontrati, e agli altri sopra citati, occorre aggiungere le due domus, di dimensione e carattere quasi palaziale, che si vanno mettendo in luce a Privernum, con pavimenti musivi geometrici e figurati, dove una soglia policroma con mosaico nilotico e un emblema figurato con cornice a festoni e maschere, di eccezionale finezza e schietto sapore ellenistico, riecheggiano l'attività della bottega dei mosaici prenestini e pompeiani, in un'omologa temperie di ellenizzazione dei maggiorenti dei municipi italiani alla vigilia della Guerra Sociale.
Prendendo in esame le scoperte riguardanti l'età imperiale, si considereranno qui di seguito, e nell'ordine, il suburbio romano, Ostia e il suo territorio, e, brevemente, il resto del Lazio.
Nel suburbio romano, l'enorme accumulo di nuovi dati non ha sempre corrisposto a un parimenti approfondito tentativo di storicizzazione delle testimonianze. Il tratto più appariscente è rappresentato dall'estensione della rete stradale, imperniata non solo sulle vie maggiori, ma su un sistema capillare di diverticoli che si va via via mettendo in luce, spesso altrettanto ben conservati che le strade principali. Anche delle vie consolari sono venuti in luce tratti di ottima conservazione, bordati da mausolei sepolcrali e necropoli più povere, in rapporto con le ville e gli insediamenti rurali circostanti.
L'ampia organizzazione delle infrastrutture (piazzali di carico, luoghi di sosta, mansiones) rivela l'intensità della frequentazione. Importante al riguardo è la statio di Ad Vacanas (Baccano) al bivio tra la Cassia e l'Amerina; gli edifici in reticolato, con rifacimenti in opera listata, mostrano un funzionamento senza cesure tra Augusto e il 5° secolo d.C.; l'impianto comprende tra l'altro uno stabilimento termale, e soprattutto una serie di taberne, che si ripetono anche nel tratto iniziale della ben conservata Via Amerina. Va altresì ricordato il bel tratto della Flaminia tra Grotta Rossa e Prima Porta; in questa località si sono ripresi con successo gli scavi della Villa di Livia, e, sotto la torre medievale, si è individuato un possibile avamposto veiente di età arcaica rioccupato da un edificio (di culto? villa?) in blocchi, con intonaci di I stile; più oltre, è stato acquisito e restaurato l'arco di Malborghetto, con nuovi dati per la sua assegnazione ad età costantiniana. Anche la Tiburtina è venuta in luce in vari tratti, tra Rebibbia e Settecamini-Marco Simone (viii-ix miglio), splendidamente conservata nel suo riassetto augusteo, dove gli edifici di servizio e prospicienti la strada, generalmente rifatti e ampliati nel 2° secolo, conoscono interventi di ripristino per tutto il 3° e 4° secolo, per essere poi demoliti nel 5°. La strada stessa resta in uso; un tratto dismesso in età moderna, accuratamente investigato, ha rivelato una serie ininterrotta di battuti dall'età romana al 17° secolo. La presenza generalizzata di torcularia, dolia, vasche di decantazione e altre istallazioni mostra come non venga mai meno il collegamento con un'agricoltura produttiva, anche se l'estensione generalmente limitata degli scavi e le condizioni stesse dei trovamenti impediscono in genere di comprendere le modalità dello sfruttamento dei suoli. Tracce cospicue, anche qui di difficile valutazione economica, di attività estrattivo-produttive legate all'edilizia dell'urbe, sono venute ugualmente in luce (cave di tufo e di pozzolane; fornaci per laterizi, ecc.). Scarsissime invece le attestazioni di attività artigiane di altra natura; lontana da Roma, ma forse legata al mercato suburbano via Tevere, è la fabbrica di terra sigillata di Vasanello, inaspettata succursale delle officine di Arezzo in territorio di Orte.
Tra i trovamenti rilevanti per interesse storico-artistico, si citano solo, tra i moltissimi pavimenti venuti in luce, in signino decorato, in mosaico, in sectile, i bei tessellati geometrici di età cesariana della villa della Marcigliana in territorio clustumino; e le pitture della villa di Castel di Guido sull'Aurelia (Lorium?), grande edificio solo parzialmente investigato e praticamente inedito, da un ambiente del quale, presso il peristilio, è stata recuperata e accuratamente restaurata la decorazione di III stile, con quadri mitici di tema amoroso entro delicate architetture, di intonazione raffinatamente letteraria e di alta qualità decorativa, che indicano una committenza al più alto livello sul finire dell'età augustea. Un'altra villa dalla lunghissima storia edilizia, e certamente importante, è quella, ancora poco nota, di Torre Maura sulla Labicana, dove compaiono strutture a blocchi, pavimenti in signino che ne certificano l'origine repubblicana, con aggiunte via via nel tempo, anche con diversa orientazione, mentre una fistula plumbea ha restituito il nome di un liberto di Commodo morto nel 217, e vi sono indizi di rifacimenti più tardi; di qui, trovato frammentario in giacitura secondaria, proviene un grande sarcofago di età costantiniana, con scene di caccia con le reti.
In territorio di Palombara, la grande villa in località S. Lucia, con basamento in opera poligonale, costituisce un esempio precoce della predilezione dei Romani per l'agro tiburtino; ricostruita in bel reticolato augusteo con severi mosaici geometrici bianchi e neri, si organizza attorno a un'area porticata terminata, sembra, da una vastissima esedra curvilinea, ornata da repliche di originali classici di buona fattura, tra cui sono stati fortunosamente recuperati uno Zeus e una copia al vero della Eirene e Pluto cefisodotea. Una replica della testa dell'Armadio è stata ritrovata nella villa tiburtina detta di Cassio.
Quest'area tra Salaria e Tiburtina (tra Crustumerium, Nomentum, Ficulea, Corniculum e Tibur) e alcuni comprensori-campione nella bassa, media e alta valle dell'Aniene, sono stati oggetto di tentativi di sistematizzazione dei dati, apprezzabili in vista dell'estrema complessità del quadro. Al di fuori del vero e proprio tessuto urbano di Roma (che si estende, ramificandosi, lungo le vie consolari senza soluzione per almeno 5-7 km), una sequenza ininterrotta di ville e pagi occupa la pianura, favorita dal reticolo delle vie minori, fino alle prime pendici dei Monti Tiburtini; un diagramma degli interventi edilizi mostra una presenza già molto elevata in età repubblicana, il massimo della crescita in età augustea, mantenendosi poi costante il livello dal 1° secolo all'età severiana; poi nel 3° secolo avanzato, si assiste a una caduta brusca sino a livelli quantitativamente inferiori a quelli repubblicani, che si dimezzano ulteriormente nel 4°, 5°, 6° secolo. Il rilevamento accurato dei resti esistenti ha posto in pieno risalto un fenomeno determinante per comprendere le vicende della storia agraria romana della tarda repubblica, e cioè che nell'età di Catone il popolamento agricolo tra Roma e la Sabina è già consolidato nel sistema delle ville rustiche come descritte nel trattato catoniano; parecchie fra di esse, anzi, appaiono anteriori (4°-3° secolo a.C.), e il bello scavo della villa di Torre Angela sulla via Gabina può dare un'idea dell'aspetto di questi ancora molto modesti edifici rurali di 3° secolo, con pochi ambienti preceduti da un'ampia corte con un portico antistante il fabbricato. Solo con il 1° secolo a.C. si accentua e organizza anche la parte residenziale conformemente alle indicazioni varroniane; laddove le vere ville di otium, che sorgono nel 2° secolo a.C. in una fascia limitata nell'immediato suburbio di Tibur e Praeneste, rappresentano un fenomeno tutto considerato abbastanza limitato. Il quadro che ne risulta è, generalmente parlando, quello di un pronunziato frazionamento dei fondi, che non significa necessariamente parcellizzazione della proprietà. Dal 4° secolo d.C. (e, in zone collinari, anche dal 3°), si assiste alla rapida concentrazione degli insediamenti in grandi ville (massae) che, nel 5° secolo, diverranno centri di comunità cristianizzate con chiese e monasteri; il fenomeno è più chiaro e rilevante là dove la chiesa subentra nella proprietà di tenute imperiali, come nel distretto sublacense. Complessivamente, in tutta l'età imperiale, il settore di maggiore intensità abitativa risulta quello orientale dell'agro romano, tra le vie Nomentana e Latina; relativamente dense restano ancora le presenze sulle due sponde del Tevere; diminuiscono invece in tutto il settore a sud di Roma e appaiono al minimo in quello nord-occidentale, da Porto verso la costa etrusca.
A Ostia, ci si è limitati a sondaggi di accertamento (saggi lungo la via Severiana all'altezza della Sinagoga, con conferma dell'attestarsi della strada a Ostia stessa e della datazione all'età di Settimio Severo), talvolta con ampliamenti e nuovi rinvenimenti (mosaici policromi con busti di atleti in una termetta sulla stessa Severiana; un notevolissimo mosaico bianco e nero con scene di palestra e di gare circensi in un ambiente termale del cosiddetto Palazzo Imperiale). Fuori dell'area demaniale, gli scavi clandestini hanno imposto interventi, specie nella necropoli meridionale (Pianabella).
Qui, su una traversa della cosiddetta via Laurentina, che i battuti sovrapposti al basolato mostrano in uso fino al Medioevo, è stato rimesso in luce un tratto di necropoli con tombe familiari di età imperiale, cui si è sovrapposta un'ampia chiesa a navata unica absidata con portico, con destinazione cemeteriale (rettangolo con 100 formae in quattro ordini, attorno a una tomba in evidenza sulla corda dell'abside). Costruita in opera listata attorno al 400 d.C., restaurata nel 495 dal vescovo Bellator, la sala ecclesiale continuò a essere occupata da poliandri e tombe singole fino in età carolingia; l'abbandono e lo spoglio sono del 10° secolo, il crollo nell'11°; il rinvenimento di parte di una parete in posizione di caduta ha restituito l'alzato con finestre arcuate. La necropoli comprende edifici di 1° e 2° secolo, ma restati in uso fino alla tarda antichità, come di consueto succedendo alle incinerazioni le inumazioni in forme e arcosoli; vari sarcofagi marmorei apparivano frugati e riutilizzati, tra i quali un superbo esemplare di circa il 160 d.C., decorato con scene della morte e compianto di Achille, clandestinamente scavato e trafugato all'Antikensammlung di Berlino, e recuperato infine al Museo ostiense. In posizione omologa a quella di Pianabella, la chiesa di S. Aurea ha parimenti rivelato la sua prossimità a un incrocio stradale e contemporanei rifacimenti altomedievali. All'Isola Sacra, un'accurata ricognizione, rilievo e riscavo hanno permesso l'acquisizione di notevoli informazioni sulla già nota necropoli, rivelando centinaia di sepolture di svariata tipologia sfuggite alle indagini precedenti, ritrovando le posizioni stratigrafiche relative dei complessi, identificando camere ipogee non raggiunte, tra cui una contenente bei sarcofagi figurati; in una tomba di recente scavo, di ampiezza inconsueta, un mosaico bianco e nero reca al centro, in grandi proporzioni, la scena di Ercole e Alcesti e attorno, su due lati, una serie di riquadri con scenette relative alla semina e al raccolto del grano d'indubbio significato escatologico. Nella medesima necropoli, poco più a monte, sono proseguiti gli scavi della basilica di S. Ippolito, che nei primi anni Settanta avevano ritrovato il sarcofago attribuito al santo e, smontato e deposto al di sopra, lo splendido ciborio scolpito, opera del vescovo Stefano nell'età di Leone iii; si è meglio chiarita la cronologia dell'edificio basilicale a tre navi, portico davanti la facciata, schola cantorum, presbiterio a gradini e cattedra episcopale, e la sua collocazione sopra un edificio, forse pubblico, in bell'apparato laterizio di età antonina, che si è supposto assegnato in dotazione alla chiesa in età damasiana. Dell'ultima fase (13° secolo), cui pertiene il campanile romanico, si è ritrovata la vasca battesimale nella navata sinistra e recuperata in crollo la parte alta finestrata della navata centrale.
A Porto, dov'è in corso un vasto programma di espropri e restauri, rivolti anche all'acquisizione in pubblico del colossale complesso portuale, accurati sondaggi hanno gettato luce sulle più tarde fasi di occupazione e sulla data di costruzione delle mura (fine 4° sec. d.C., non costantiniane come si riteneva; parziali distruzioni al tempo della guerra greco-gotica), mentre è in corso di scavo il cosiddetto Xenodochio di Pammachio, la cui ubicazione era perduta dopo gli sterri ottocenteschi. Sul canale di Fiumicino sono stati ripresi gli scavi del cosiddetto Iseo portuense (v. ostia, App. IV, ii, p. 697). Nel retroterra di Ostia, a parte la situazione di Ficana e Dragoncello, già menzionata, una ricognizione sistematica dell'area di Malafede ha rivelato, in un lembo di campagna romana ancora intatto, ma minacciato a brevissimo da un'incontrollata edificazione, una sequenza insediativa di straordinaria continuità, dal neolitico al tardoantico, con alcune ville di particolare rilevanza.
Un intervento di ampia portata, non solo ricognitiva, è in corso nella Tenuta di Castel Porziano. Il complesso termale di Tor Paterno e relativo acquedotto sono stati restaurati, ed esplorate altre parti della grandiosa villa di proprietà imperiale. A Grotte di Piastra, nella cosiddetta Villa Magna, una serie di sondaggi, mirati a suffragare un'ipotesi d'identificazione con il celebre Laurentinum pliniano, hanno accertato la conservazione di pavimenti in mosaico e opus sectile, rilevato più fasi edilizie, la maggiore di età adrianea, e soprattutto scoperto un'iscrizione metrica dedicata a Silvano da Antonio Balbo, proconsole d'Africa in età severiana, che si dice nato nella casa medesima. Nella medesima località, più a nord, è in corso un'indagine sul vasto comprensorio identificato con il vicus Augustanus, scavato nell'Ottocento e rimasto sostanzialmente inedito fino agli anni Settanta; la superficie finora ricognita è di circa un ettaro, con tre edifici termali, complessi residenziali, due tempietti, ecc., ma non si tratta che di una frazione dell'insieme; la stratigrafia mostra che l'occupazione inizia verso la metà del 1° secolo d.C., con rifacimenti alla fine del secolo stesso, e interventi più importanti nella prima e seconda metà del 2° secolo e ancora in età severiana. Rifacimenti costantiniani, poi ancora nel 4° e 5°, pongono l'interrogativo se il comprensorio, già del demanio imperiale, venne privatizzato; in età altomedievale è attestato il riuso (a scopo cultuale?) di un solo vano absidato, quando tutti i fabbricati erano ormai diroccati. La datazione della via Severiana si conferma, qui come a Ostia, al tempo di Settimio Severo; il tracciato però utilizzò anche tratti più antichi, come dimostrano i mausolei presso il Lago di Paola (Cala dei Pescatori), e, tra il lago di Fogliano e il Monaci, la tecnica in reticolato degli edifici pertinenti alla statio ad Turres Albas, individuata di recente.
Di altri interventi nel L., per lo più determinati da circostanze occasionali al di fuori di veri programmi di ricerca, si accenna solo brevemente ai principali. Limitati sono stati quelli su edifici pubblici, come l'anfiteatro di Fabrateria (S. Giovanni Incarico), simile per dimensioni a quello frusinate e tuttavia ritenuto anteriore, perché si inserisce nel reticolato urbano della colonia, che si data al 124 a.C. A Bolsena il completamento dello scavo e il riesame dei resti portati in luce hanno ben stabilito la cronologia del Foro, non l'originario, bensì una piazza monumentale creata, per evergetismo privato, poco prima della metà del 1° secolo d.C. Tra i santuari, sono in corso da tempo lavori e rilievi nel santuario di Ercole a Tivoli, acquisito al demanio nel 1982, ma non ancora analizzabile scientificamente; quello di Diana a Nemi è stato affrontato in recenti saggi, che hanno accertato l'estensione del complesso, la sopravvivenza di elementi arcaici nell'alzato del vero e proprio tempio, l'articolazione a porticati della terrazza.
In Sabina, notevolissimo è il complesso di Cutiliae, apparentemente un edificio termale, in primo luogo per la grandiosa natatio (m 60 × 24) che occupa la seconda terrazza, ma forse da interpretare come parte del santuario sabino, un tempo federale, di Vacuna; l'opus incertum di calcare (2°-1° secolo a.C.?), preceduto da strutture in blocchi, non contraddice l'ipotesi.
Le numerose ville imperiali del L. sono state solo occasionalmente teatro di lavori; elementi indicativi sono emersi sia dalla villa domiziana di Castel Gandolfo, sia da quella di Sabaudia, dove il prospetto a esedre curvilinee prospiciente il lago è stato riscavato ricostruendo con successo la decorazione pavimentale in sontuosi sectilia dai complicati motivi. Tra le ville marittime, esemplare appare la struttura della Villa Prato, presso Sperlonga, e sempre sulla costa si segnala la grande villa di Marina di S. Nicola, presso Ladispoli; nella medesima area, la villa di Piane di Vaccina va citata soprattutto per una rioccupazione tardoantica, con tombe con gioielli barbarici (ostrogoti?) di 5° secolo d.C., eccezionali in Italia e con confronti in Europa orientale. Per l'impianto d'insieme fa spicco la villa di Castro dei Volsci in territorio di Fabrateria, con resti repubblicani e di 1° secolo, una ricostruzione di 2° secolo e rifacimenti nel tardo 3° secolo d.C. Si cita per la singolarità della forma l'edificio ottagono di Asinello (a km 3 a SO di Viterbo), in bel reticolato della prima età augustea, di uso certamente agricolo (torchio per olio, ambienti con dolia) pertinente a una villa non lontana; si è supposto avesse funzione di ''torre di mezza via'' sul percorso tra Roma e Chiusi, e se ne è suggerita un'ispirazione architettonica dalla Torre dei Venti di Atene.
Anche l'archeologia sottomarina ha avuto episodi significativi. Nel mare di S. Severa è stata localizzata una oneraria della metà del 1° secolo a.C., con anfore vinarie, in navigazione per la Gallia; vi appare il bollo di un Cornelio Lentulo, identificato con il Crus console nel 49 a.C., a prova del coinvolgimento nel commercio marittimo di un senatore di spicco al suo tempo. Appena anteriore il relitto di Ponza, Secca dei Mattoni. Al 1° secolo iniziale appartiene invece la nave vinaria di Ladispoli, accuratamente investigata, attrezzata con dolia e con carico complementare di anfore, con ben conservati elementi dell'imbarcazione (pompa di sentina, ecc.). Infine, la preziosità del carico fa degno di menzione il relitto di Ventotene, purtroppo molto saccheggiato, con rivestimenti in avorio e osso per klinai e mobili di lusso. Vedi tav. f.t.
Bibl.: L'organo ufficiale dell'archeologia di scavo italiana, le Notizie degli scavi (NSc), non risponde attualmente allo scopo di un'informazione scientifica rapida ed esaustiva. Preziose, ma ovviamente settoriali sono, al riguardo, le rubriche e rassegne periodicamente approntate da Studi Etruschi (SE) per quanto attiene al mondo etrusco-italico; il Bullettino Comunale (BC) pubblica rassegne che interessano il suburbio di Roma. A colmare tale lacuna è intervenuta un'iniziativa del CNR − Istituto per l'archeologia etrusco-italica, che promuove incontri annuali dedicati all'archeologia laziale, i cui atti sono pubblicati in volumi con lo stesso titolo (1-13, 1977-93, in seguito abbreviati AL), intercalati a volumi monografici interessanti comunque l'argomento (Il commercio etrusco arcaico, 1985; Il Tevere, 1986; Etruria e Lazio arcaico, 1987; La Via Appia, 1991; I Volsci, 1992). Due voll. sono usciti della collana omologa Archeologia della Tuscia (1982 e 1986). Collane di volumi che raccolgono le testimonianze antiche ancora evidenti, nell'imminenza della loro distruzione, sono quella dello stesso Istituto del CNR, di L. e S. Quilici, su Antemnae (1978), Fidenae (1986), Crustumerium (1980), Civita di Artena (1982), Ficulea (in stampa), e quella della tradizionale collana della "Forma Italiae" (Vicus Matrini, M. Andreussi, 1977; Praeneste, M.P. Muzzioli, 1977; Bovillae, G.M. De Rossi, 1979; Cures S., M.P. Muzzioli, 1980; Ardea, C. Morselli, E. Tortorici, 1982; Tibur iii e iv, Z. Mari, 1983 e 1991; Astura, F. Piccarreta, 1987). Nella serie "Lavori e studi di archeologia pubblicati dalla Soprintendenza Archeologica di Roma", alcuni interessano il L.: G. Messineo et al., La Villa di Livia a Prima Porta, 1984; A.M. Bietti Sestieri et al., Preistoria e protostoria nel territorio di Roma, 1984; A.M. Reggiani, Santuario degli Equicoli a Corvaro, 1988; T. Potter, Una stipe votiva da Ponte di Nona, 1989; G. Messineo, L'arco di Malborghetto, 1989; Id., La via Flaminia, 1992. Soprattutto per l'età arcaica, di grande importanza sono state alcune mostre, talvolta seguite da convegni: Civiltà arcaica dei Sabini, i-iii, 1974-1977; Civiltà del Lazio primitivo, 1976; Enea nel Lazio, 1981; I primi abitanti d'Europa, 1984 (per il paleolitico); Architettura etrusca nel Viterbese, 1986; La grande Roma dei Tarquini, 1990; Archeologia a Roma, 1990.
Per la protostoria e la storia arcaica della regione, importanti gli Atti dei convegni: La formazione della città nel Lazio (Dialoghi di Archeologia, n.s. 2, 1980); Aspetti delle aristocrazie tra VIII e VII sec. a.C. (Opus, iii, 2, 1984) e soprattutto M. Rendelli, Città Aperte, Roma 1993; cfr. anche vari contributi nei 3 voll. dei British Archaeological Reports (BAR) 245: Papers of Italian Archaeology (PIA), Oxford 1985, e le rassegne in T.C.R. Rasmussen-T. Cornell, in Archaeological Reports, 32 (1985-86), pp. 102, 120, 121, 133. Per il periodo medio-repubblicano: AA.VV., La colonizzazione romana tra la guerra latina e la guerra annibalica (Dialoghi di Archeologia, iii s., 6, 2, 1988). Particolarmente importanti alcune delle esposizioni per l'anno degli Etruschi (1985), e segnatamente i cataloghi: Civiltà degli Etruschi, a cura di M. Cristofani; Case e palazzi d'Etruria, a cura di S. Stopponi; Santuari d'Etruria, a cura di G. Colonna; Artigianato artistico, a cura A. Maggiani; La romanizzazione dell'Etruria, a cura A. Carandini, Milano 1985.
Per le singole località: Campo del Fico (Sasso di Furbara): M.A. Fugazzola, in Arch. Tuscia, i, 1982, pp. 76-94. Cavallo Morto: S. Tusa, in AL, 5(1983), pp. 21-27. Campo del Fico (Ardea): F. Delpino, in AL, i (1978), pp. 26-27; R. Peroni, in AL, 2 (1979), pp. 173-75, 189. Colle Rotondo: L. e S. Quilici, in AL, 6 (1984), pp. 107-32. Casale Nuovo: M. Angle et al., in Atti Convegno. Un millennio di relazioni Sardegna-Mediterraneo (Selargius 1987), Cagliari 1992, pp. 265-303. Sorgenti della Nova: Sorgenti della Nova, Catalogo della mostra, cura N. Negroni Catacchio, Roma 1981; Museo di preistoria e protostoria della valle del fiume Fiora, a cura di N. Negroni Catacchio, Manciano 1988; F. Di Gennaro, in Etruria Meridionale, Atti del Convegno (Viterbo 1985), Roma 1988, pp. 59-82. Tuscania: G. Barker, T. Rasmussen, in Papers British School Rome, 56 (1985), pp. 25-42. Castro: M. Rendeli, in PIA, 4, 1 (=BAR int. s. 243-46, 1985), pp. 261-73; G. Gazzetti, ibid., pp. 275-80; M. Rendeli, in AION, 13 (1991), pp. 9-46. Tolfetano: A. Ziffirero, A. Naso, in PIA, 4, 1 (1985), pp. 239-59; AA.VV., in Arch. Mediev., 12 (1985), pp. 517-34; G. Gazzetti, A. Ziffirero, et al ., ibid., 17 (1990), pp. 435-71. Musarna: H. Broise, V. Jolivet, in SE, 51 (1983), pp. 226-28 e 398-401; Id., in Mélanges Ecole Française Rome, notiziario dal 1983 al 1992; G. Barbieri, in Boll. d'Arte, 70 (1985), pp. 29-38, e 72 (1987), pp. 61-70. Norchia: G. Colonna, in Arch. Tuscia, i (1982), pp. 23-36 (Tomba di Velisina); E. Di Paolo, G. Colonna, ibid., pp. 17-22 (necropoli rupestri). Respampani (Monteromano): in SE, 54 (1986), p. 344. Narce: M. De Lucia Brolli, La civiltà dei Falisci, in Atti XV Conv. St. Etr. It. 1987, Firenze 1990, pp. 173-95. Regisvilla: C. Morselli, E. Tortorici, in Quaderni Istituto Topografia Antica, 9 (1981), pp. 151-64; Id., in Il commercio etrusco arcaico, Roma 1985, pp. 27-40. Vulci, Legnisina: Massabò, in Boll. d'Arte, 70 (1985), pp. 17-20; Necropolili: A.M. Sgubini Moretti, in Arch. Tuscia, 2 (1986), pp. 73-89; P. Pelagatti, in Atti II Congr. Inter. Etr., 1989, pp. 302-23; L. Ricciardi, in Boll. d'Arte, 58 (1989), pp. 27-52. Tuscania, Ara del Tufo: A.M. Sgubini Moretti, in Arch. Tuscia, i, 1982, pp. 133-48; Pian di Mola, Id., in Boll. d'Archeol., 7 (1991), pp. 23-38. Veio: per la topografia, M. Guaitoli, in Quad. Ist. Top. Ant., 9 (1981), pp. 79-87; P. Liverani, in Papers British School Rome, 39 (1982), pp. 36-48. Tombe Monte Michele: F. Boitani, in Arch. Tuscia, i, 1982, pp. 95-103. Barbarano: I. Caruso, in Arch. Tuscia, ii, 1986, pp. 127-44. Trevignano: C. Adinolfi et al., in Boll. d'Archeol., 3 (1990), pp. 71-77.
Latium Vetus, Antemnae: L. Quilici, S. Quilici Gigli, Antemnae, cit., 1978; E. Mangani, in AL, 9 (1988), pp. 124-31. Crustumerium: L. Quilici, S. Quilici Gigli, Crustumerium, cit., 1980; F. Di Gennaro, in Arch. a Roma, cit., 1990, pp. 68-78. Fidene: L. Quilici, S. Quilici Gigli, Fidenae, cit., 1986; Tomba con oreficerie: F. Di Gennaro, in La grande Roma dei Tarquini, cit., 1990, pp. 260-62; Capanne preistoriche: F. Di Gennaro, in BC, 91 (1986), pp. 694-96; A.M. Sestieri, in AL, 10 (1990), pp. 115-120. La Rustica: C. Morselli et al., in BC, 90 (1985), pp. 118-28. Osteria dell'Osa: A.M. Bietti Sestieri, A. De Santis, La necropoli laziale dell'Osteria dell'Osa, Roma 1992; iscrizioni: G. Bartoloni-G. Colonna, in AL, 3 (1980), pp. 43-55; A. La Regina, in Scienze dell'Antichità, 3-4 (1989-90), pp. 83-88. Vivaro di Rocca di Papa: B. Martellotta, G. Ghini, in AL, 8 (1987), pp. 208-17. Ficana: F. Zevi, in Civiltà del Lazio primitivo, cit., 1976, pp. 250-51; L. 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Cretone di Palombara: Z. Mari, M. Sperandio, in AL, 10 (1990), pp. 302-06. Campo del Pozzo-Nazzano: G. Filippi, in AL, 2 (1979), pp. 111-18; M.P. Muzzioli, Cures, cit., 1980; Id., in Arch. Tuscia, i, 1982, pp. 158-62. Cicolano: G. Filippi, in AL, 6 (1983), pp. 165-77; G. Alvino, in Comunità indigena, cit., pp. 217-26. Corvaro di Borgorose: A.M. Reggiani, in AL, 4 (1980), pp. 195-200; G. Alvino, ibid., 7 (1985), pp. 99-105; 8 (1987), pp. 333-39; 10 (1990), pp. 320-29; Id., in SE, 54 (1986), pp. 344-47; A. Staffa, in Xenia, 13 (1987), pp. 45-84; A.M. Reggiani, Il santuario degli Equicoli a Corvaro, Roma 1988. Terracina e Agro Pontino, centurazione: M. Cancellieri, in Boll. Ist. St. Arch. Lazio Mer., 12 (1987), pp. 41-104 (con bibl.); G. Chouquer, M. Clavel et al., Structures agraires en Italie centro-meridionale, Coll. Ec. Fr. Rome 100, Roma 1987. Cures, centuriazione: M.P. Muzzioli, in Misurare la terra, cat. mostra, Modena 1985, pp. 48-52; G. Chouquer, M. 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Arte. - La tutela e la valorizzazione del patrimonio artistico nel L. hanno registrato un sensibile incremento a partire dalla fine degli anni Settanta grazie alle molteplici iniziative promosse da parte di vari organismi, che si sono affiancate a quelle istituzionali della Soprintendenza per i Beni artistici e storici di Roma e del L., la quale esercita la propria competenza su un vasto territorio indiviso, estremamente ricco di testimonianze culturali.
Con la creazione nel 1981 (l.r. 18, 24 luglio 1981) del Centro regionale per la documentazione dei Beni culturali e ambientali, la Regione (cui erano stati già demandati, con la l. 382 del 1975 e il d.P.R. 616 del 1977, compiti quali la salvaguardia dei musei d'interesse locale e delle biblioteche) ha intrapreso un'attività di censimento e catalogazione, promossa in raccordo con la Soprintendenza.
Già verso gli anni Trenta era stata curata dalla Soprintendenza una schedatura capillare di quasi tutti i centri del L., con la descrizione manoscritta delle opere esistenti nelle varie chiese e nei palazzi pubblici, che costituisce oggi un ricchissimo archivio storico consultabile. Dopo la creazione dell'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione che ha formulato una regolamentazione unitaria in questo settore, è stata elaborata, quale strumento di censimento, una scheda tipo, attualmente anche in via di informatizzazione, che registra un numero pressoché completo di dati (stato di conservazione, note sulla proprietà, vincoli, bibliografia) ed è corredata di fotografia. Questa attività è a uno stadio relativamente avanzato, e per le cinque province in cui è diviso il L. esistono circa 60.000 schede, con punte più alte per il Viterbese e il Reatino (rispettivamente circa 15.000 e 17.000). Per la provincia di Latina la ricognizione può dirsi completata e, a dimostrazione della collaborazione instaurata tra enti che l'incremento dell'attività di tutela ha comportato, anche l'amministrazione provinciale ha ricevuto copia delle schede, oltre alle curie vescovili, ai parroci e all'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione che ne sono gli usuali destinatari. Tutto questo materiale è consultabile presso l'Ufficio Catalogo della Soprintendenza che fornisce al pubblico, a pagamento, anche un servizio di duplicazione del materiale fotografico.
Accanto al Centro regionale per la documentazione dei Beni culturali di cui si è detto, si deve segnalare, nell'ambito dei rapporti tra istituzioni che la normativa recente ha contribuito a istituire e incrementare, la presenza della ix Comunità montana del L. (l. istitutiva 1002 del 1971) con sede a Tivoli, di cui fanno parte ben 22 comuni tra i quali Tivoli stessa, Montecelio, Capranica, Poli, S. Gregorio di Sassola, tutti centri in costante sviluppo. Anche la Comunità montana ha per legge e per statuto costitutivo (1975) tra i suoi compiti fondamentali quelli relativi ai servizi culturali a livello intercomunale. Per far fronte a questi ha affidato a personale specializzato, ingaggiato a contratto, la ricognizione completa del patrimonio artistico, oltreché naturalistico, architettonico e ambientale, presente nelle chiese e nei palazzi dei vari comuni, creando quindi un ulteriore archivio di dati cui attingere.
L'attività di restauro, che a partire dall'immediato dopoguerra ha tentato di porre argine ai gravissimi danni bellici subiti dalle opere d'arte, con interventi talvolta esemplari messi a punto dall'Istituto centrale per il restauro appena fondato (1939), si è andata intensificando nel corso degli anni, interessando quasi tutti i luoghi, laddove le urgenze erano più pressanti.
Un esempio della prima attività operata dall'Istituto centrale è costituito dall'intervento (1944-50) sugli affreschi di Lorenzo da Viterbo della Cappella Mazzatosta in S. Maria della Verità a Viterbo, distrutti dalla guerra. I restauratori dell'Istituto, dopo avere personalmente raccolto i frammenti delle pitture rispettandone l'assetto compositivo, li hanno rimontati come un puzzle, reintegrando le parti mancanti ad acquerello a tratteggio, metodo questo di grande rigore, messo a punto proprio in quel periodo, per il trattamento delle zone a lacune. Altre volte i danni bellici sono stati riparati in modo meno rigoroso come nel caso, sempre a Viterbo, in S. Francesco, dei monumenti funebri trecenteschi di Clemente iv e di Adriano v, distrutti quasi completamente durante la guerra, che sono stati ricomposti utilizzando i frammenti in maniera meno filologica, con l'inserimento di pezzi nuovi o talvolta non pertinenti al monumento. Nel caso dell'Abbazia di Montecassino i danni arrecati agli affreschi sono stati invece irreparabili.
Da allora l'attività di restauro è stata potenziata, coadiuvata spesso dalla normativa recente e comunque dalla collaborazione fra vari enti: la Soprintendenza, responsabile della direzione dei lavori, l'Istituto centrale per il restauro e, recentemente, il Laboratorio provinciale di restauro di Viterbo, istituito con legge regionale nel 1978, che, dopo un avvio incerto, è oramai impegnato attivamente su beni provenienti da enti pubblici ed ecclesiastici della provincia di Viterbo. Sono qui operative, oltre a quella archeologica, due sezioni specialistiche, una per il trattamento dei dipinti su tela, l'altra dei materiali cartacei (disegni, stampe, manoscritti, codici) che hanno dato conto, già nel 1983, della propria attività in una mostra di opere restaurate.
Molto spesso i finanziamenti per i restauri sono scaturiti dalle leggi connesse a eventi sismici: per es. la l. 115 del 1980, relativa al terremoto del settembre 1979, e la l. 363 del 1984, relativa al sisma dell'aprile 1984, entrambe rifinanziate. Queste leggi hanno interessato un gran numero di centri; nel primo caso ben 41, distribuiti tra le province di Rieti, Viterbo e Roma; nel secondo 27 paesi, tutti della provincia di Frosinone.
Va in primo luogo osservato che questa disponibilità di fondi ha permesso interventi talvolta capillari, inconsueti nelle procedure correnti, con il conseguente recupero del patrimonio di beni artistici conservati nelle varie chiese (affreschi, quadri, sculture, pulpiti, cantorie, arredi sacri, ecc.) di un comune considerato terremotato dalla legge e quindi beneficiario dei fondi da questa erogati. È il caso di Artena (Roma), di Monte S. Giovanni Campano (Frosinone), di Leonessa (Rieti), di Barbarano Romano (Viterbo). In alcune circostanze poi a quest'impegno della Soprintendenza, cui era demandata la gestione dei finanziamenti, ha corrisposto il manifestarsi di una partecipazione civile e di un consenso popolare che sono la garanzia più solida per una successiva opera di attiva tutela del proprio patrimonio culturale. Ai finanziamenti straordinari, uniti a quelli ordinari che annualmente vengono impegnati dallo stato nell'esercizio del restauro, si devono molti recuperi significativi, di grande rilievo. A Viterbo è stato curato il delicatissimo restauro degli affreschi di Lorenzo da Viterbo nella Cappella Mazzatosta, già salvaguardati dall'Istituto centrale dopo la guerra; l'intervento (1991), senza rimuovere questo ormai storico restauro, ne ha risolto i problemi conservativi di carattere soprattutto ambientale cui si dovevano i recenti danni.
Sempre a Viterbo è stato restaurato (1991) il fregio ad affresco del salone del Palazzo Vescovile, opera di Baldassarre Croce; a Montefiascone, nella basilica di S. Flaviano, i pregevolissimi affreschi del 14° secolo (1984-86); a Rieti (1980), nella chiesa di S. Francesco, gli affreschi della prima metà del Trecento, raffiguranti Scene della vita di S. Francesco, rinvenuti nel 1953 dietro gli stalli del coro, estremamente importanti nel panorama della pittura trecentesca perché riprendono l'iconografia del ciclo di Assisi; a S. Maria in Vescovio, l'intera decorazione ad affresco, sempre trecentesca, che ricopre le navate della chiesa (1992).
L'attività di recupero si è estesa anche al patrimonio di argenti e di arredi liturgici, come nel caso del Tesoro della Cattedrale di Anagni (1963-64), che conta oggetti preziosissimi del 13° secolo, e di tutti gli arredi sacri del Duomo di Tuscania, danneggiati dal terremoto e perfettamente restaurati, esposti poi in una mostra a Roma nel 1983.
Talvolta il restauro va di pari passo con un importante ritrovamento o una scoperta, come si è verificato per la grande tavola dell'Assunzione della Vergine, rinvenuta a S. Lorenzo a Pisciarelli, vicino Bracciano. Nascosto sotto una tela settecentesca alla quale faceva da supporto, il dipinto su tavola si è rivelato nel corso del restauro operato dai tecnici del Laboratorio della Soprintendenza stessa ed è stato attribuito allo Pseudo-Bramantino; oggi è esposto nella Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini a Roma. Analogo il caso della tela di S. Pietro a Carpineto, raffigurante San Francesco in meditazione, che è stata confermata nella sua attribuzione a Caravaggio.
In collaborazione con la Soprintendenza, l'Istituto centrale per il restauro ha curato alcuni interventi significativi per la gamma delle problematiche affrontate, connesse soprattutto con i fattori di degrado ambientale. Si ricordano i grandi dipinti su tavola di Sebastiano del Piombo del Museo Civico di Viterbo, la Pietà e la Flagellazione, restituiti nel 1992 e provvisoriamente ricoverati nella Cappella del Palazzo comunale, e inoltre gli affreschi del Domenichino in Palazzo Giustiniani, ora Odescalchi, a Bassano Romano, dei quali è in corso di completamento un primo consolidamento (1992).
Le opere recuperate, esposte in mostre a carattere territoriale (nel 1956 a Latina, nel 1954 nel Viterbese, nel 1957 in Sabina, nel 1961 nel Frusinate), hanno spesso offerto l'occasione per mettere in evidenza congiunture e intrecci di culture che trovano verifiche e motivazioni nell'analisi storico-artistica, che è il naturale momento finale del corretto esercizio di tutela. Esemplare, in questo senso, è stata la mostra di Gaeta (1976), in cui è emerso chiaramente l'orientamento meridionale della pittura locale, rappresentata da opere di Cristoforo Scacco, Filippo Criscuolo, Luca Giordano.
Alle mostre di restauri che sono il filo conduttore dell'attività della Soprintendenza, si aggiungono le iniziative che affrontano le problematiche secondo le più diversificate angolature: tematiche, cronologiche, topografiche, e altre ancora. Grazie alla collaborazione fra enti e istituzioni, a partire dal 1981 è stato organizzato un ciclo di mostre sul Quattrocento nel L., curato dalla Soprintendenza e dall'Istituto di Storia dell'arte dell'università di Roma ''La Sapienza'', con la partecipazione degli enti locali, che ha visto indagato per la prima volta un periodo poco studiato delle vicende figurative della regione. Le mostre si sono succedute nei vari centri presi in considerazione (Fondi, Bracciano, Rieti, Viterbo), mettendo a fuoco rapporti di committenza e riscontri stilistici e iconografici delle opere analizzate. Sempre allo studio dei rapporti fra committenti e artisti sono legate due iniziative di grande interesse per la storia della cultura artistica della provincia di Roma. La prima, nel 1980, è stata una rassegna documentaria, Villa e Paese. Dimore nobili di Frascati e del Tuscolo, che ha illustrato in modo completo, attraverso un ricco catalogo di materiali e documenti inediti, la storia delle ville tuscolane, in rapporto ai personaggi dell'aristocrazia romana che patrocinarono la costruzione e la decorazione di quelle ville. Dieci anni più tardi, nel 1990, questa mostra di tipo documentario è stata idealmente completata da un'esposizione di opere provenienti da quegli stessi luoghi e commissionate dalle grandi famiglie romane, che di quei centri avevano la signoria, tra cui i Chigi, i Barberini, i Rospigliosi, i Colonna e altri. Tra i dipinti esposti molti erano poco noti o addirittura mai esposti al pubblico, come quelli provenienti da Palazzo Chigi di Ariccia (S. Rosa, C. Maratti, Baciccia), che grazie all'intelligente politica del comune sono stati acquistati insieme al palazzo nobile della famiglia per una destinazione pubblica. Questa operazione è nata anche grazie al rapporto di proficua collaborazione e d'intesa fra i rappresentanti dell'ente locale e quelli della Soprintendenza, che hanno sollecitato questa soluzione attraverso consulenze e perizie sull'opportunità dell'acquisto di un così importante bene.
Altre notevoli acquisizioni al patrimonio pubblico sono state effettuate alla fine degli anni Settanta dalla Provincia di Roma che ha finanziato i lavori di restauro dei monumenti acquisiti e ne ha promosso il riuso, in accordo con l'ente locale comunale, dando vita a un'operazione rimasta esemplare per il raccordo delle varie competenze e le finalità sociali dell'iniziativa. Tutta questa attività è stata illustrata nel 1981 in una mostra intitolata Dall'abbandono al riuso. Per citare solo qualche esempio si ricorderà il recupero di Palazzo Rospigliosi a Zagarolo, del Castello Savelli a Palombara Sabina, di Palazzo Canali a S. Oreste e del Castello Colonna di Genazzano, da allora divenuto sede di importanti mostre internazionali di arte contemporanea, fra cui l'ultima sulla collezione del barone Franchetti, Sogno italiano, nel 1986.
Non sempre l'attività scientifica è però collegata alle mostre, e va segnalato che sono stati pubblicati studi specifici su vari argomenti inerenti la valorizzazione del patrimonio artistico del Lazio. Ne sono un esempio l'esauriente trattazione sulle Abbazie nel L. (1970) e il repertorio sugli affreschi del periodo 1295-1431, ricchissimo di materiale illustrativo e di bibliografia (1992). Sempre nell'ambito dei repertori è recentemente uscito (1991) quello sulla pittura barocca a Rieti.
Alle problematiche più propriamente storico-artistiche si affiancano quelle connesse con la gestione e l'organizzazione più generale del patrimonio artistico. È di grande interesse in proposito la ricerca, finanziata dalla Regione, sui musei locali effettuata dall'Istituto di Storia dell'arte della Facoltà di Magistero, pubblicata nel 1985 in un supplemento del Bollettino d'Arte in cui per ogni museo analizzato è redatta una dettagliata scheda.
Per quanto concerne i musei, si deve considerare che nel L. la maggioranza riveste un interesse archeologico; molti poi di quelli esistenti sulla carta, elencati nelle guide, non sono aperti al pubblico, né regolarmente funzionanti. Spesso l'origine dei musei risale addirittura alla metà del 19° secolo e va inquadrata nel particolare clima morale e culturale del periodo, favorevole allo svilupparsi di sentimenti di senso civico e di virtù locali. Tra i musei più antichi del L. vanno ricordati quelli di Viterbo, Rieti, Fondi, Velletri, Anagni. Purtroppo tali solide radici storiche non sono riuscite a garantire uno sviluppo costante a queste istituzioni che hanno subito alterne vicende, con chiusure spesso di lunga durata. I musei più importanti sono infatti attualmente chiusi. Così il Civico di Viterbo, provincia la più ricca di istituzioni museali, nel quale sono in corso lavori di ristrutturazione e di riallestimento il cui termine è previsto per la fine del 1993. I costi sono stati affrontati dalla Regione, responsabile per la tutela, che dal 1989 ha redatto appositi piani triennali di intervento. La chiusura del museo di Viterbo, che si protrae dal 1985, impedisce al pubblico di visitare una collezione ricchissima che ospita tra l'altro opere di Sebastiano del Piombo, Salvator Rosa, Giovan Francesco Romanelli. Anche il Museo Civico di Rieti, riallestito nel 1974 dalla Soprintendenza per i Beni artistici, che conta dipinti di Antoniazzo Romano, Antonio Gherardi e altri importanti autori, è chiuso per inadeguatezza dei locali; ne è prevista la riapertura, appena ultimato il restauro, finanziato dalla Regione, delle sale del Palazzo Comunale in cui il museo ha sede. La maggior parte dei musei locali nasce dalla necessità di raccogliere un patrimonio erratico, proveniente spesso da chiese distrutte o sconsacrate, da conventi riutilizzati, cui si aggiungono donazioni o lasciti. I musei diocesani sono un esempio di tale tipologia e il L. ne conta alcuni estremamente importanti. Tra questi quello di Orte, recente per costituzione (1966), che conserva opere di grande valore, come la Croce reliquiario di Vannuccio di Viva da Siena e il frammento musivo dell'Oratorio di Giovanni vii in S. Pietro; i musei diocesani di Velletri, di Rieti, di Sermoneta e quelli, recentemente riallestiti, del Tesoro del Duomo ad Anagni e a Veroli, tutti di grandissimo interesse artistico, la cui gestione riesce a mettere a punto una collaborazione tra l'ente religioso, proprietario, e la Soprintendenza cui spetta la tutela.
Bibl.: I. Faldi, L. Mortari, La Pittura viterbese dal XIV al XVI secolo, Viterbo 1954; I. Faldi, Museo Civico di Viterbo, ivi 1955; L. Mortari, Opere d'arte in Sabina dall'XI al XVII secolo, catalogo della mostra (Rieti 1957), Roma 1957; Id., Museo Civico di Rieti, ivi 1960; AA.VV., Tutela e valorizzazione del patrimonio artistico di Roma e del Lazio, vii Settimana dei Musei, ivi 1964; L. Mortari, Museo Diocesano di Orte, Viterbo s.d.; AA.VV., Attività della Soprintendenza alle Gallerie del Lazio, xii Settimana dei Musei, Roma 1969; AA.VV., Mostra dei restauri 1969, xiii Settimana dei Musei, ivi 1970; C. D'Onofrio, C. Pietrangeli, Abbazie del Lazio, ivi 1970; I. Faldi, Pittori viterbesi di cinque secoli, ivi 1970; AA.VV., Restauri della Soprintendenza alle Gallerie e alle Opere d'arte medioevali e moderne per il Lazio (1970-1971), ivi 1972; M. L. Casanova, Relazione sulla catalogazione nella provincia di Latina, in Bollettino d'arte, 1972, p. 237; I. Faldi, Restauri e acquisizioni al patrimonio artistico di Viterbo, catalogo della mostra (Viterbo 1972), Roma 1972; L. Mortari, Il Tesoro del Duomo di Rieti, ivi 1974; AA.VV., Rieti e il suo territorio, Milano 1976; M. L. Casanova, Arte a Gaeta. Dipinti dal XII al XVIII secolo, Gaeta 1976; AA.VV., Villa e Paese. Dimore nobili del Tuscolo e di Marino. Mostra documentaria, 1980; AA.VV., Il Quattrocento a Roma e nel Lazio, ivi 1981 [Fondi e la Signoria Caetani; Aspetti dell'arte del Quattrocento a Rieti; Il Quattrocento a Viterbo]; AA.VV., Un'antologia di restauri. 50 opere d'arte restaurate dal 1974 al 1981, Roma 1982; A. M. Pedrocchi, Argenti romani. Restauro di arredi sacri del Duomo di Tuscania, ivi 1983; AA.VV., I Musei locali del Lazio, in Bollettino d'Arte, 1985, supplemento 30; Quaderni degli Istituti culturali della provincia di Viterbo. Laboratorio di restauro, 1, 1988; AA.VV., L'Arte per i papi e per i principi nella campagna romana. Grande pittura del '600 e del '700, Roma 1990; L. Barroero, L. Saraca Colonnella, Pittura del '600 a Rieti, Rieti 1991; AA.VV., Seminario interregionale sui musei locali. Problemi di gestione e prospettive di sviluppo, Atti, Gaeta 1991; S. Romano, Eclissi di Roma. Pittura murale a Roma e nel Lazio da Bonifacio VIII a Martino V (1295-1431), Roma 1992.
Tutela dei beni architettonici. - Gran parte degli interventi volti alla tutela e al restauro architettonico nell'ambito del L. hanno avuto per oggetto il patrimonio architettonico della capitale, che per vastità e complessità richiede ingenti sforzi e attenzioni. A Roma, infatti, negli anni del dopoguerra, dopo il restauro della chiesa di San Lorenzo fuori le Mura, gravemente danneggiata dai bombardamenti nella parte anteriore, si sono compiute molte opere a carattere conservativo nel campo delle antichità, soprattutto nel Foro Romano e sul Palatino, mentre per la chiesa di Sant'Eligio degli Orefici è stato operato un notevole consolidamento delle fondazioni. Su numerosi monumenti romani sono stati eseguiti interventi di risanamento delle fondazioni, a causa dei danni provocati da cedimenti fondali dovuti a inconsistenza del sottosuolo.
Fra questi ricordiamo, negli anni Sessanta, le chiese di San Rocco a Ripetta, Santa Maria del Popolo, Santa Maria in Cosmedin e Santa Maria in Vallicella (quest'ultima interessata anche da altri interventi di manutenzione straordinaria); e, negli anni Settanta, Santa Maria dei Miracoli, Santa Maria di Montesanto e San Nicola da Tolentino. Meritano una menzione particolare, per mole e complessità dei lavori eseguiti, gli interventi riguardanti il recupero del complesso architettonico del San Michele (a partire dal 1973), del complesso conventuale di San Francesco a Ripa e della Basilica di Santa Cecilia (entrambi a partire dal 1979). Nei primi due il grave stato di fatiscenza, dovuto principalmente al lungo periodo di abbandono, si evidenziava nei crolli di gran parte delle coperture e dei solai in legno; nel degrado delle murature interessate da lesioni causate da cedimenti fondali; in aperture di nuovi vani nelle strutture originarie. Più circoscritto ma altrettanto delicato è stato l'intervento compiuto in Santa Cecilia, consistito principalmente nel consolidamento delle armature portanti del tetto e del soffitto ligneo settecentesco.
Durante gli anni Settanta attiva è stata anche l'opera di restauro dei monumenti nel resto della regione. Sono da citare tra questi gli interventi in Santa Maria delle Rose e in San Pietro a Tuscania, in San Luca a Guarcino e in San Domenico a Sora.
Intensa è stata l'attività svolta dalla Soprintendenza per i Beni ambientali e architettonici del L. nell'ultimo decennio con l'intento, non sempre raggiunto, di osservare il rispetto del monumento, indirizzando gli interventi verso un restauro di tipo conservativo. Sotto questo aspetto si è avuto a Roma il consolidamento delle strutture murarie (volte e pareti) del Collegio Romano, il restauro del transetto e della zona del vestibolo in Santa Maria degli Angeli, il consolidamento e restauro con irrigidimento delle strutture verticali del palazzo Antici-Mattei e della Basilica di San Clemente, i cui lavori hanno interessato la revisione dei prospetti esterni e il ripristino della copertura. Nell'ambito regionale, sempre a cura della stessa Soprintendenza, sono stati intrapresi il restauro a Civitavecchia del Forte Michelangelo, danneggiato da eventi bellici; a Fondi della chiesa di Santa Maria del Soccorso; nella zona limitrofa a Roma il restauro ad Ariccia della chiesa di Santa Maria Assunta, consistente nel consolidamento statico delle arcate interne e della parte esterna del portico, e ad Albano del palazzo Vescovile. Più radicali risultano i lavori eseguiti nella chiesa di San Flaviano a Montefiascone e nell'ex convento di Sant'Agostino a Tuscania. In ambedue i casi, insieme a opere di manutenzione straordinaria, sono state eseguite demolizioni di murature fortemente lesionate o giudicate di scarso valore storico-artistico.
Una dimensione notevole hanno assunto negli ultimi anni gli interventi di restauro e conservazione delle facciate di moltissimi monumenti romani, che spaziando dalla pulitura e trattamento dei materiali lapidei alla coloritura degli intonaci, hanno investito problematiche varie e controverse. Fra le realizzazioni più importanti di questo tipo troviamo, per le facciate in travertino, il palazzo di Giustizia e le chiese di San Luigi dei Francesi, Santa Maria dell'Orto (paramento in travertino e cortina laterizia), San Girolamo degli Schiavoni, Santa Susanna, Santa Maria in Via e Sant'Andrea delle Fratte; per le facciate intonacate, sono da annoverare il restauro del palazzo di Montecitorio, di palazzo Chigi, del palazzo del Quirinale e di tutti gli edifici prospicienti la piazza omonima. Vedi tav. f.t.
Tutela dei beni ambientali. - Fino ai primi anni Settanta la Regione L. non aveva ancora provveduto a fornirsi di strumenti legislativi atti alla regolamentazione della tutela ambientale. Risale infatti al 2 luglio 1974 la prima legge (n. 30) sulla "Disciplina di salvaguardia per l'esecuzione di costruzioni ed opere lungo le coste marine e le rive dei laghi nonché in alcuni territori della regione", cui fa seguito il "Documento per la deliberazione programmatica sull'assetto del territorio regionale" approvato il 3 agosto 1974, in riferimento alla risoluzione dei problemi relativi alla tutela dell'ambiente. Ma è solo più tardi, nel 1977, che vengono emanate altre due importanti leggi regionali: la n. 44 del 18 novembre "Studi, indagini ed interventi anche sperimentali per la difesa della costa laziale e la formazione di un piano generale di opere portuali di competenza della Regione"; e la n. 46 del 28 novembre sulla "Costituzione di un sistema di parchi regionali e delle riserve naturali". Rilevante, ai fini della tutela dell'ambiente, è la legge del 24 giugno 1980 n. 80 sulla "Formazione del piano regionale dei parchi e delle riserve". In seguito alla citata l. 46 del 1977, sono state istituite fino a oggi 24 aree protette di notevole interesse paesaggistico, floro-faunistico e storico-culturale tra le quali sono da menzionare il Parco regionale naturale dei Monti Simbruini, che con i suoi 38.000 ha di territorio rappresenta la maggior area protetta del Lazio, il Parco suburbano dei Castelli Romani e il Parco regionale dell'Appia Antica, noti per le loro emergenze storiche.
Per quanto riguarda i piani paesistici, molti comuni stanno provvedendo alla loro redazione anche se non è stata ancora approvata la legge relativa alla loro regolamentazione.
Bibl.: Catalogo della ii Mostra Internazionale del Restauro Monumentale, a cura di M. Dezzi Bardeschi e P. Sanpaolesi, Venezia 1964; C. Ceschi, Teoria e storia del restauro, Roma 1970; Restauro e cemento in architettura, a cura di G. Carbonara, ivi 1981; Tre interventi di restauro, a cura della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Lazio, ivi 1981; Resoconto annuale dei lavori svolti dalla Soprintendenza per i BB.AA. e AA. del Lazio, a cura della Soprintendenza per i BB.AA. e AA. del Lazio, ivi 1982, 1983, 1984,; M. Di Fidio, Tutela dell'ambiente naturale, Milano 1987; Parchi, riserve e monumenti naturali della regione Lazio, a cura della Regione Lazio, Assessorato al Bilancio, Programmazione economica e Parchi, Roma 1991.