LAZIO (A. T., 24-25-26)
E uno dei compartimenti in cui è divisa l'Italia; affacciato sul Tirreno ha posizione centrale nella penisola stendendosi, nei suoi limiti amministrativi attuali, fra 41°12′ e 42°51′ lat. e fra 11°27′ e 14°2′ long. E.
Il nome. - Nell'antichità questo nome designò prima il paese occupato dai Latini al sud del Tevere e sui Colli Albani, poi tutta la regione fra l'Etruria, la Sabina, il Sannio e la Campania, cioè oltre il territorio Latino originario, quello, da Roma conquistato, degli Ernici, degli Equi e dei Volsci. Quando questa estensione del nome sia avvenuta non possiamo determinare, ma essa era certo pienamente stabilita già prima dell'epoca augustea, e fu riconosciuta da tutti i geografi (Strab., V, 228, 231; Plin., III, 5, 9; Ptol., III,1, 5-6). Plinio chiama il Lazio originario Latium antiquum e le parti aggiunte poi, specialmente il territorio del Liri, Latium adiectum. Quale sia l'origine e il significato del nome è incerto: gli antichi lo facevano derivare ingenuamente da lateo, qualche moderno invece da latus = πλατύς e altri dall'etnico Latini.
È possibile stabilire con sufficiente precisione i confini del Latium vetus, per mezzo del corso del Tevere a N. (a prescindere dal breve tratto sulla destra del fiume, che va dalla costa sotto Fregene allo sbocco del Cremera), dei Monti Cornicolani e Prenestini a E., dei Colli Albani (lasciandone però fuori Velletri), e del territorio ardeatino a S. (Plinio e Strabone fanno giungere il Lazio antico fino al Circeo, ed è certo che il confine tra i Latini e i Volsci subì molte fluttuazioni, ma Anzio, Satrico e Velletri sono essenzialmente città volsche nelle loro origini).
Il Lazio antico costituiva cosi un rettangolo di 40 miglia romane circa di lunghezza e di 30 di larghezza, con una superficie, cioè, di circa 2350 kmq. Sopra i più antichi centri cittadini della regione si hanno, oltre alle notizie che si riferiscono alle conquiste fatte dai re di Roma o nei primi tempi della repubblica, diversi elenchi (Plin., Nat. Hist., III, 69: catalogo dei triginta carnem in monte Albano soliti accipere populi Albenses; Dionys. Halic., V, 61: lista delle città latine federate al tempo della battaglia del Lago Regillo; Diod., VII, 5, 9: elenco delle colonie albane fondate dal re Enea Silvio; Cato, Orig., fr. 58 Peter: estratto della dedica dell'ara di Diana in nemore Aricino, contenente i nomi delle città costituenti la lega latina, quella, pare, con la quale i Romani strinsero il foedus Cassianum; cfr. Latini).
L'esame accurato di tutti gli elementi disponibili consente di ricostruire in modo soddisfacente la distribuzione urbana del Lazio antichissimo, ma qualche volta non è possibile indicare la posizione topografica di centri poi scomparsi e bisogna contentarsi di congetture e talora di semplici nomi. La più completa e recente indagine storico-topografica di questo genere è stata fatta dal Beloch nella Römische Geschichte.
Qui basti dire che il Lazio primitivo presentava un frazionamento politico assai maggiore di quello che si ebbe, quando le conquiste di Roma e anche quelle degli altri comuni latini, che crebbero in potenza, fecero scomparire molti dei centri minori come centri autonomi. Al tempo del foedus Cassianum invece non più di una dozzina, Roma compresa, sono gli stati indipendenti del Lazio, e cioè Gabii, Labicum, Pedum, Praeneste, Tibur, Nomentum, Tusculum, Aricia, Lanuvium, Ardea e i Laurentes con Lavinium. Erano città di remota antichità, quelle stesse che avevano costituito i centri maggiori del Lazio già durante il periodo monarchico di Roma. Parecchie di esse, come si vede, sorgevano sui Colli Albani attorno ai laghi di Albano e di Nemi, sotto la cima alta 950 metri del Monte Albano (M. Cavo), dove si celebravano le feriae latinae e dove, secondo alcuni, era sorta Alba Longa, che è meglio invece collocare presso Castel Gandolfo. A cinque chilometri da questo, a mezza strada tra i due laghi albano e nemorense, isolata su un'altura che si eleva a circa 400 metri, signora della sponda del lago di Nemi, ove fu il sacrario di Diana, sorgeva Aricia; a sei chilometri da questa, meno importante e in posizione meno elevata Lanuvio (Civita Lavinia); più a nord del monte e dei laghi su un'altura a circa 670 m. era la fortissima rocca di Tuscolo, sulla via che, attraverso il passo dell'Algido, mette in comunicazione il bacino del Tevere con quello del Liri. Ad occidente a sud del Tevere Lavinio, sul colle di Pratica di mare (qualcuno crede invece che il centro dei Laurentini fosse stato prima del sec. III a. C. Laurentum e che questo sia da collocarsi sul mare nella tenuta di Tor Paterno); più a sud ancora Ardea su un'altura a circa 36 m. s. m., e a cinque chilometri dalla costa. Al confine tra il Lazio e la Sabina, poco importante era Nomentum (Mentana), collocata non lungi da Fidene, che sorgeva dirimpetto allo sbocco del Cremera, e che era stata conquistata da Roma, pare sulla fine del sec. V a. C.; più a sud Tivoli in forte posizione su una delle vie principali dell'Italia centrale, e importantissima per estensione e fertilità di territorio, a sud Gabii (Castiglione) e Pedum (presso Gallicano) sulla via che da Roma conduceva a Preneste, un'altra cioè delle più cospicue città del Lazio fondata su un'altura salente a circa 750 m. s. m. La guerra latina nulla mutò nella costituzione del Latium vetus, se non che città fino ad allora indipendenti ebbero la cittadinanza romana (v. latini), e neppure tra la guerra latina e la guerra sociale si verificarono cambiamenti nelle condizioni territoriali di questa regione. Dopo la guerra sociale invece, e cioè certamente nell'epoca sillana, si ebbe una notevole riforma amministrativa, della quale i punti essenziali sono che Pedum perdette l'autonomia e fu attribuito a qualcuna delle città vicine, con ogni probabilità Preneste, e che sorse nel territorio delle antiche tribù rustíPhe tutta una serie di municipî: Bovillae. Caba, Castrimoenium, Ager Latiniensis, Ficulea, Fidenae, e in tal guisa il Latium vetus assunse quella fisionomia territoriale e amministrativa, che mantenne con Augusto e risulta nella descriptio Italiae di Plinio (Nat. Hist., III, 57 e III, 63).
Intanto il nome di Lazio era stato esteso ai territorî che originariamente erano appartenuti agli Ernici, agli Equi, ai Volsci e alla regione del Liri. I confini settentrionali erano rimasti invariati, mentre a oriente e a sud erano stati allargati, sì da toccare i Marsi, i Sanniti e la Campania.
Nel territorio degli Equi, conquistato sulla fine del sec. IV a. C. erano i municipî (dapprima senza suffragio) di Treba, Afilae e forse Trebula Suffenas, e le colonie di Alba e di Carseoli.
Sulla parte montuosa del territorio volsco erano le colonie latine di Signia, Cora, Norba, Setia; la valle tra i monti Volsci e Albani apparteneva a Velletri, a sud della quale era presso Cisterna, Suessa Pometia, sulla costa Anzio, colonia romana dopo la guerra Latina: un po' più a nord Satricum (Conca, attribuita poi da Augusto ad Anzio), sulla punta meridionale la colonia latina di Circei che a oriente confinava con Terracina, colonia romana dal 329. Anche Fondi e Formia son da considerarsi città volsche.
Nel territorio ernico Alatri, Ferentino e Veroli rimasero sino alla guerra sociale nella condizione di federate per non aver partecipato alla rivolta del 306, e Anagni invece, coi centri vicini, fu allora incorporata allo stato romano.
Nel territorio del Liri: Sora, Arpino, Atina (nel bacino del Melpis), Fregellae (nel cui territorio fu dedotta nel 124 la colonia di Fabrateria Nova; un po' a sud di Fabrateria vetus, Ceccano), Aquino, Cassino, e il territorio degli Aurunci, diviso dai Romani tra le quattro colonie di Suessa, Interamna, Minturnae e Sinuessa.
Nella divisione augustea, il Lazio formò con la Campania la regio I, ma da questa rimase tagliata fuori la porzione dell'antico territorio latino al nord dell'Aniene verso la Sabina e una parte di quello degli Equi ed Equicoli, comprendente Carsoli e la valle del Turano.
Il nome Lazio non si applicò mai al territorio sulla destra del Tevere, né durante l'evo antico, né per tutta l'età di mezzo, quando, anzi, cadde dall'uso, surrogato da quelli di Campagna di Roma per la pianura circostante alla città, Campagna (v.) e Marittima (v.) per i territorî meridionali soggetti al pontefice. Furono i geografi-umanisti dei secoli XV e XVI a rimettere in onore il nome classico, dandogli di solito la significazione più estesa corrispondente a quella di Latium adiectum, esclusi i territorî meridionali aggregati ormai al regno di Napoli. Tale è l'uso del termine Lazio presso Flavio Biondo, Leandro Alberti, presso il geografo Magini e anche presso A. Kircher autore della prima opera storico-corografica, dedicata al Lazio (Lattum, id est nova Latii tum veteris tum novi descriptio, Amsterdam 1671); la parte a destra del Tevere, nell'antichità paese etrusco, era detta Tuscia romana o più spesso Patrimonio di S. Pietro. Tale rimase l'uso anche nell'età moderna, e, dopo la breve parentesi del periodo napoleonico, pur nel sec. XIX finché durò il dominio pontificio.
Soltanto nel 1870, alla caduta di questo, si estese il nome Lazio a indicare tutto quanto a tale data rimaneva di quel dominio, diviso allora in 4 delegazioni (Viterbo, Civitavecchia, Velletri e Frosinone) oltre alla Comarca, o territorio attorno a Roma, costituito allora a provincia, diviso nei distretti di Roma, Tivoli e Subiaco. Il compartimento Lazio, in questa estensione fu costituito in un'unica provincia, divisa in 5 circondarî, corrispondenti all'incirca ai territorî delle 4 delegazioni e della Comarca di Roma.
Soltanto con le recenti leggi sull'assestamento territoriale dell'Italia, l'unica provincia fu divisa in tre (Roma, Viterbo e Frosinone) e ad esse si unì poi, quarta, la provincia di Rieti o Sabina, il che portò i confini del compartimento fin nel cuore dell'Appennino centrale. Nel 1927, per la soppressione della provincia di Caserta, il Lazio acquistò un'ulteriore estensione verso sud, fino a raggiungere di nuovo il Garigliano, per effetto dell'aggregazione di territorî che pur nell'antichità erano stati parte del Latium adiectum.
Nell'attuale estensione il Lazio ha un'area di 17.179,6 kmq. (14.441,3 senza la Sabina) e comprende 343 comuni (280 senza la Sabina). Il confine odierno è in quasi tutto il suo percorso convenzionale, salvo a est e sud-est, dove esso corre spesso sulle aspre giogaie che si sviluppano appunto nella direzione nordovest-sudest.
Caratteristiche morfologiche. - Il Lazio consta di regioni molto diverse tra loro per aspetto del paesaggio e per condizioni naturali in genere. Con l'estrema appendice nord-orientale della provincia di Rieti, il Lazio si spinge, come si è detto, fino a comprendere alcune sezioni tra le più elevate dell'Appennino abruzzese, ma per questa parte si rimanda in particolare alle voci sabina; rieti prov. di. All'Appennino calcareo appartengono peraltro anche la catena del Navegna (1506 m.) fra Salto e Turano, il gruppo dei Sabini meridionali (Pellecchia, 1368 m.), dei Lucretili (Gennaro 1271 m.) e più a sud i più elevati Simbruini (Autore, 1853 m.) ed Ernici (Viglio, 2156 m.; v. a queste voci), come pure il massiccio della Meta (2247 m.) sul quale corre ora l'estremo confine sud-orientale. Sono montagne formate da pile potenti di calcari di diversi orizzonti dal giurassico all'eocene, in genere assai fessurati e disturbati da faglie; aridi specialmente nelle zone più elevate, con una ricca circolazione di acque sotterranee. I boschi, che rivestivano un tempo i versanti esposti ai venti piovosi, sono in buona parte distrutti. La stessa struttura hanno in sostanza i Lepini (Semprevisa 1536 m.) e i monti Ausonî che li continuano (v. lepini), come pure l'isolato Circeo e, a nord, anche il Soratte.
Queste montagne, che formano il Lazio calcareo, talora scendono con un brusco gradino verso la pianura, come i Lucretili e i Tiburtini verso la Campagna Romana, i Lepini verso la pianura pontina; più spesso sono fasciati da più basse montagne e da colline costituite da depositi neogenici. Il miocene è soprattutto sviluppato nella media valle dell'Aniene a monte di Tivoli specie sulla sinistra del fiume, tutto intorno al massiccio ernico-simbruino, nella regione di Arsoli, nel gruppo dei Prenestini (Guadagnolo, 1208 m.), nelle colline di San Vito, Paliano, e in quelle di Anagni, Veroli e Frosinone. Anche sulla destra del medio Aniene il miocene si estende largamente sulle colline di Orvinio e sulla sinistra del Turano. Il paesaggio di basse montagne e di molli colline, caratteristico di questa formazione miocenica, contrasta col paesaggio calcareo, anche perché, specialmente dove l'acqua è abbondante, è rivestito di bella vegetazione con uliveti, vigneti, campi di cereali ecc. A nord invece, le montagne calcaree della Sabina sono fasciate da colline plioceniche (Mentana, Monterotondo, Poggio Mirteto, Magliano), che declinano verso la valle del Tevere. E la stessa formazione, accompagnata dallo stesso tipo di paesaggio, appare anche, per quanto più limitatamente, sulla destra del Tevere, fra questo fiume e il Soratte, poi nelle colline di Castelnuovo di Porto, Riano, Filacciano e anche nelle basse colline più vicine a Roma; ma qui le formazioni sedimentarie neogeniche sono più spesso ricoperte dai materiali eruttati dai grandi apparati vulcanici.
I rilievi vulcanici offrono un altro tipo di paesaggio. A prescindere dai Monti della Tolfa e dal gruppetto dei Ceriti, apparati vulcanici antichi, notevolmente smantellati, dei quali rimangono solo le parti più resistenti sotto forma di rupi trachitiche dall'aspetto bizzarro, si hanno nel Lazio i quattro grandi apparati dei Vulsinii (Poggio Evangelista, 683 m.), intorno al lago di Bolsena, dei Cimini (M. Cimino, 1053 m.; M. Fogliano, 963 m.), intorno al lago di Vico, dei Sabatini (Rocca Romana, 602 m.), intorno al lago di Bracciano e degli Albani o Laziali (Cima delle Faete, 956 m.; M. Cavo, 949 m.), i primi tre a nord del Tevere, l'ultimo a sud. Per la descrizione particolare di questi apparati, che sono in diverso stato di conservazione, v. alle singole voci. Le colate di lava e i materiali tufacei che li formano, costituiscono regioni collinose, o tavolati assai incisi e spezzettati oggi, dai brevi corsi d'acqua affluenti al Tirreno o al Tevere; in origine erano rivestiti di boschi nelle zone più alte (conservati in parte fino a oggi nel gruppo più elevato dei Cimini), di macchie nelle zone più basse; ora sono in gran parte coltivati e costituiscono aree di predilezione del vigneto, che dà prodotti eccellenti, e anche dell'uliveto; soltanto alcune distese, coperte di una coltre più dura, sono aride e occupate tuttora, come in passato, da pascoli.
La costa del Lazio, assai unita, è formata da una successione di cinque piatte falcature, e in complesso costituisce una delle sezioni più importuose della penisola; la più pronunziata di quelle falcature è l'ultima a sud, al fondo della quale è Terracina, ma oggi appartiene al Lazio, nei suoi confini amministrativi, il lunato seno di Formia, riparato dall'aspra punta di Gaeta, e Gaeta è, come porto naturale, il migliore, anzi l'unico del Lazio, essendo Civitavecchia un porto interamente artificiale.
Il Lazio costiero si può dividere in tre parti. A nord i materiali vulcanici dei tre apparati settentrionali e quelli dei Monti della Tolfa sono orlati da una cimosa di depositi terziarî, con prevalenza del pliocene a nord, dell'eocene alle spalle di Civitavecchia, che formano pianori lievemente accidentati o collinette a sommità spianate, incise dalle numerose valli di fiumicelli (Marta, Mignone) e di fossi affluenti al Tirreno; sono ancora (e più erano fino a poco tempo fa) largamente ricoperti dalla macchia mediterranea. A nord di Civitavecchia si hanno tracce di terrazzi costieri, e tracce analoghe appaiono anche sui versanti di talune delle anzidette valli. La sezione mediana della costa laziale, tra Santa Severa e Anzio, ha al centro la sporgenza deltizia del Tevere, formatasi in età storica e costituita principalmente dalle alluvioni tiberine (v. tevere); la costa sabbiosa è orlata da molteplici cordoni di dune (tumoleti) di varia epoca. Frequente è, tanto a nord che a sud del Tevere, la comparsa di una formazione di calcare tenero (macco), che forse rappresenta il materiale di antiche dune (quaternarie) cementate. Anche questa zona è largamente coperta dalla macchia, con lembi superstiti di pinete litoranee. Vaste aree erano occupate fino a pochi decennî fa da stagni e acquitrini, ora in gran parte prosciugati; sul delta del Tevere vi è anche qualche area depressa sotto il livello del mare, prosciugata col sistema dei polders olandesi. La sezione meridionale del Lazio pianeggiante è formata da una costa a dune, alle spalle delle quali si succedono laghi dalle forme allungate e dalle rive spesso frastagliate, che sono probabilmente antiche insenature separate dal mare per mezzo di cordoni litoranei (per i due laghi maggiori, di Fogliano e di Paola, vedi le voci relative). Più indietro è una regione alquanto più elevata, formata dai già ricordati depositi quaternarî - antiche dune consolidate e cementate - rivestiti di fitta macchia oggi in corso di estirpazione; infine, alle spalle di questa, è l'area depressa costituente la pianura pontina vera e propria, oggi in via di bonifica definitiva (v. pontina, regione). Questa pianura si affaccia al mare tra il promontorio Circeo e lo sprone calcareo dominante Terracina; più oltre la regione costiera riprende con gli stessi caratteri, anzi alberga un altro lago, quello di Fondi, simile ai pontini; finché si affaccia al Tirreno la montagna calcarea che sporge con l'erta punta di Gaeta.
Tutta la costa laziale fu soggetta probabilmente in epoca geologica recente, a bradisismo positivo; trasformazioni notevoli sono avvenute anche in tempi storici, sia in corrispondenza al delta del Tevere, sia altrove, anche per opera dell'uomo.
Per quanto riguarda l'idrografia, il Tevere appartiene al Lazio in tutto il tronco a valle di Orte, ossia della confluenza col Nera, suo principale affluente. Quivi il fiume non è già più che a 44 metri sul livello del mare. La valle, dapprima abbastanza ampia, si ristringe poi fra il Soratte e i Monti Sabini in una specie di strozzatura (stretta di Torrita Tiberina) nella quale il fiume forma alcuni meandri incassati, poi si amplia di nuovo e sempre più verso mare, fiancheggiata qua e là da lembi di terrazzi abbastanza estesi. A monte di Roma il Tevere è raggiunto dall'Aniene, unico affluente laziale di notevole importanza; gli altri tributarî - come il Farfa e l'Almone a sinistra, il Fosso Valca, forse l'antico Cremera, e il Fosso di Galera a destra, sono fossi senza importanza. Degli altri tributarî del Tirreno appartengono al Lazio il corso inferiore della Fiora e per intero la Marta, emissario del lago di Bolsena, il Mignone, l'Arrone, emissario del lago di Bracciano, l'Amaseno e l'Ufente, corsi d'acqua della regione pontina. Il Lazio è assai ricco di bacini lacustri. Oltre ai cinque costieri già ricordati, numerosi sono quelli formatisi in seno agli apparati vulcanici, e cioè il lago di Bolsena (kmq. 114,53; profondità 146 m.), il secondo della penisola per estensione, quello di Vico (kmq. 12,1; prof. m. 49,5), quello di Bracciano (kmq. 57,47; prof. m. 160), e i due di Albano e di Nemi (v. alle rispettive voci), oltre ad altri minori (di Mezzano, di Monterosi, di Martignano ecc.); parecchi dei piccoli furono prosciugati artificialmente, come il lago di Stracciacappe, il lago Regillo, ecc. Tra i laghi carsici il più notevole è quello periodico di Canterno nel Subappennino Ernico, a 538 m. di altezza (area kmq. 0,65) che non ha emissarî superficiali, ma si svuota a intervalli irregolari per buche aperte nel fondo; le acque vanno forse al Sacco. Nell'altipiano reatino vi sono parecchi laghi, relitti di una superficie lacustre più estesa (lago di Ripasottile, di Cantalice, di Ventina ecc.).
Clima. - Rispetto alle condizioni climatiche, il Lazio non forma affatto una regione a caratteri unitarî, anzi presenta grandissime differenze, in relazione anche alla conformazione orografica e alla disposizione dei rilievi e dei solchi vallivi.
Per quanto riguarda il regime termico, l'influenza moderatrice del Tirreno è evidente specialmente d'inverno, in quanto in tutta la lunga regione costiera dominano temperature medie del gennaio intorno a 10° o poco meno; nel luglio invece si hanno temperature medie di 24°-25°; il periodo dei calori estivi dura nell'agosto e talora si prolunga anche in settembre. Procedendo verso l'interno diminuiscono le medie invernali, aumentano le estive, aumenta perciò l'escursione annua, che da 14-15 sulla costa sale a 20° e più. Notevole è peraltro l'influenza dell'altezza: ancora sulle regioni collinose dell'Antiappennino gl'inverni sono miti, ma nelle zone elevate dell'Appennino e Subappennino il periodo invernale è lungo e piuttosto crudo (alto Aniene, M. Ernici, Simbruini ecc.).
Nella regione laziale prevalgono nel tardo autunno e d'inverno venti di nord e nord-est, freddi e di solito asciutti; alcune località protette da questi venti, perché riparate da rilievi, come Tivoli, sono perciò in condizioni favorevoli. Nei mesi primaverili cominciano a prevalere venti dei quadranti meridionali - sud-ovest e sud - apportatori di piogge; a Roma e nel Lazio meridionale è molto segnalata la prevalenza dei venti meridionali anche in estate.
La Campagna Romana, come pure la regione pontina, hanno una quantità media di piogge inferiore a 600 mm.; sono perciò da annoverarsi tra le zone meno favorite della Penisola; a nord la zona maremmana di scarsa piovosità si prolunga anche nel bacino della Fiora; una zona con meno di 1 metro s'ingolfa verso l'interno in corrispondenza al solco tiberino. Per contro i monti agiscono da condensatori; già nelle aree culminali dei Cimini e sulle vette degli Albani la piovosità raggiunge m. ½ e bene inaffiati sono anche, per la loro postura, i Lepini. Nelle zone più elevate si raggiungono m. 1,8-2. Notevole è anche la relativamente alta piovosità della valle del Sacco e della regione collinosa che l'attornia (m.1-1,4). Le stagioni più piovose sono l'autunno e la primavera; poco piovoso è l'inverno; nell'estate la siccità è, in pianura, talora molto prolungata sì da destare preoccupazioni per i lavori agricoli. La neve in pianura e in collina è rara e dura poco; i rilievi sopra i 1800-2000 m. sono invece normalmente ricoperti di neve per 2-3 mesi.
Popolazione e suo movimento. - La popolazione del Lazio, distinta per provincie, alla data dell'ultimo censimento (21 aprile 1931), è dimostrata dalla seguente tabella:
È molto difficile calcolare, anche approssimativamente, la popolazione dell'attuale Lazio nelle epoche passate. Se si assume, secondo i computi del Beloch, che il territorio romano potesse avere, al tempo della guerra annibalica, una densità di 40 ab. per kmq., ne risulterebbe, per la nostra regione, una popolazione di poco inferiore ai 700.000 ab., cifra che è tuttavia da considerarsi certamente come troppo alta. Al tempo di Augusto, o meglio nel 28 d. C., quando fu fatto il censimento, si vuole che Roma avesse circa i milione di ab., e altrettanti almeno se ne debbono computare per il Lazio nel significato attuale. Per l'epoca del più tardo Impero le congetture sono ancora più vaghe e per il Medioevo si brancola addirittura nel buio; molti fatti stanno tuttavia ad attestare che il territorio laziale, come altre parti d'Italia, si depauperasse considerevolmente dal punto di vista demografico. Dai computi indiretti del Beloch si dovrebbe dedurre che nella prima metà del sec. XIV i territorî oggi compresi nel Lazio avessero una popolazione di 400-440.000 ab., ma anche questa cifra è probabilmente errata in eccesso, come pare confermato dal fatto che la stessa cifra a un dipresso si ritrova per la metà del sec. XVII. Ora nell'intervallo di tre secoli la popolazione dovette, in complesso, crescere alquanto, anche se si ebbero periodi di grave deperimento demografico, come quello seguito al sacco di Roma del 1527.
Dal 1656 datano i primi censimenti regolari, i cui dati sono stati raccolti e in parte illustrati da F. Corridore. Dai calcoli riassuntivi, che sono pur sempre da ritenersi come largamente approssimativi e possono perciò essere convenientemente arrotondati, si può dedurre che il Lazio negli attuali confini (esclusi però i comuni del Reatino ultimamente staccati dall'Abruzzo e quelli staccati dalla soppressa provincia di Caserta) aveva in quell'anno circa 420.000 abitanti, cresciuti a 520.000 nel 1701, a 560.000 nel 1736, a 590.000 nel 1769 e a 650-660.000 nel 1782.. In tutto questo periodo vi fu dunque un incremento, or più or meno lento. Invece il periodo della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche portò anche nel Lazio, come altrove, una notevole diminuzione: nel 1816 si potevano calcolare circa 605.000 ab.
L'aumento della popolazione negli ultimi cento anni è dimostrato dal seguente specchietto che dà, per tutti i censimenti anteriori al 1931, la popolazione del Lazio e del Reatino esclusi i comuni già aquilani e casertani, e sotto, tra parentesi, la cifra approssimativa, includendo anche questi ultimi (per confronto col 1931):
L'incremento è stato molto diverso nelle varie epoche ed è influenzato soprattutto dall'incremento di Roma; esso è stato del 50% circa nel primo cinquantennio, del 100% o poco meno, nell'ultimo trentennio. Nel decennio 1871-81 l'aumento invece è dato quasi solo da Roma e da alcune località del suo antico circondario. A prescindere da Roma, diversissimo è poi il modulo di incremento nelle varie parti del Lazio. Se confrontiamo i censimenti del 1871 e del 1921, si rileva che durante il cinquantennio si è avuta diminuzione della popolazione in una zona che abbraccia una quindicina di comuni montani del medio e alto bacino dell'Aniene (a monte di Mandela) e regioni contermini (anche dell'alto bacino del Cosa e Amaseno): Capranica Prenestina ha perduto in quel periodo la metà degli abitanti. Una zona a lieve diminuzione è rappresentata anche da alcuni comuni lepini, un'altra comprende parte della Teverina; isolato è il caso di Falvaterra. Causa principale della diminuzione è la scarsezza di risorse in territorî elevati, con poco suolo coltivabile, a economia prevalentemente pastorale; una parte notevole della popolazione emigrata è venuta a stabilirsi nel Lazio pianeggiante, là dove nuove aree si venivano acquistando all'agricoltura, o si è trasferita a Roma a esercitarvi diversi mestieri; altri sono emigrati fuori dei confini del Regno, per lo più oltre oceano. A quest'ultima corrente migratoria hanno cominciato a dare un notevole contributo, sin dai primissimi anni del sec. XX, alcuni comuni del Viterbese (Valentano, Montefiascone, Grotte di Castro, Gradoli, Bagnoregio), poi molti comuni montani dell'alto bacino del Sacco-Liri e regioni vicine (Alatri, Castro, Pofi, Frosinone, Torrice, Ferentino) e dei Lepini (Supino, Ceccano, Morolo, Prossedi, Sgurgola, Cori, Carpineto, Sezze, Segni, Vallecorsa ecc.) e anche altri fra i più elevati del Lazio calcareo. Nel Viterbese l'emigrazione tende a declinare verso il 1908-10, altrove perdura con notevole intensità fino alla guerra mondiale.
La densità della popolazione nel Lazio è dimostrata dall'annessa cartina. Se ne rileva che, a eccezione dell'estremo lembo meridionale, la regione costiera è poco popolata, anzi, soprattutto a nord del Tevere, comprende aree spopolatissime. Spopolati sono anche l'Appennino calcareo (compreso l'alto Reatino), dove le aree coltivate sono scarsissime e l'economia prevalente è quella dell'allevamento ovino; per analoghe ragioni sono spopolati i Lepini. Di regola nel Lazio al disopra di 6-700 m. la densità diminuisce col crescere dell'altezza. Le aree più densamente popolate sono quelle più fertili dei distretti vulcanici, in prima linea i Colli Albani, poi i Cimini; assai meno agiscono come condensatori della popolazione i Sabatini e i Vulsinî. Densamente popolata è anche la regione collinosa del bacino del Sacco-Liri, i cui caratteri, anche dal punto di vista demografico, ricordano quelli della Campania, tanto più quanto più si procede verso sud-est. Degna di rilievo è la notevole densità della conca reatina.
Si può qui accennare che lo spopolamento della Campagna Romana e della regione pontina, che la carta mette in vista tanto chiaramente, si va attenuando, sia pur lentamente, e per la prima di queste regioni apparirebbe sotto un diverso aspetto se si possedessero elementi adeguati per costruire la carta della densità nel comune di Roma.
Le condizioni economiche. - Come si è già veduto, il Lazio nei suoi confini attuali costituisce una regione poco omogenea e assai varia per caratteristiche morfologiche, idrografiche e climatiche, e tale è perciò anche per condizioni economiche. Ma la maggior parte dei dati statistici che si posseggono riguardo alle attività economiche (agricoltura, allevamento ecc.) sono ancora inquadrate nelle antiche circoscrizioni e solo approssimativamente si possono riferire alle nuove. Circa il 93% del territorio è classificato come superficie agraria e forestale e tale percentuale non varia molto nella ripartizione fatta dal Catasto agrario fra regioni di pianura (96%), di collina (92%) e di montagna (96%). Secondo l'ultima rilevazione il Lazio negli antichi confini (escluso il Reatino) aveva il 51% della superficie territoriale adibito a colture vere e proprie (34% a seminativi semplici, 5% a colture specializzate di piante legnose e 12% a colture miste), mentre aveva il 17% di superficie boscata (comprese le macchie e i castagneti) e il 25% di prati e pascoli permanenti. La percentuale della superficie coltivata è assai minore nella prov. di Rieti (41%); mentre è certo notevolmente maggiore nelle parti della soppressa prov. di Caserta aggregate al Lazio. Inoltre le trasformazioni avvenute nell'ultimo quindicennio nella Campagna Romana e nella regione pontina hanno condotto a larghe distruzioni di macchie e perciò a una diminuzione rilevante della percentuale dell'area forestale, e a un incremento della superficie coltivata a scapito dei pascoli, considerevolmente ridotti.
Nel Lazio prevalgono tuttora la grande e la media proprietà, e a ciò si accompagna il carattere estensivo dell'agricoltura; ma anche a questo riguardo si va attuando negli ultimi tempi una profonda trasformazione in seguito al frazionamento del latifondo in piccole proprietà, all'appoderamento e alla colonizzazione della Campagna Romana e della regione pontina. (Per queste due regioni, che hanno perciò una posizione a sé, si vegga alle rispettive voci).
Tra le colture erbacee hanno il primo posto i cereali, e tra essi il grano, che nel 1930 fu coltivato su circa 2668 kmq. pari al 15,5% dell'intera superficie (confini attuali), con un massimo nella provincia di Frosinone (oltre 20% dell'area) e un minimo in quella di Roma (12%); l'area coltivata tende ad aumentare specie nella provincia di Roma, che è alla testa per il rendimento medio per ettaro (12.5 q.), seguita da Viterbo (11 q.); all'ultimo posto è Rieti (6,4). Nel complesso il Lazio è al di sotto del rendimento medio del regno; questo è superato solo nella provincia di Roma. Tra gli altri cereali è coltivato largamente solo il granturco (1075 kmq. nel 1930), ma l'area tende a contrarsi; il rendimento è mediocre (12,4 quintali per ettaro) inferiore alla metà di quello che dànno i compartimenti del nord (Veneto, Piemonte). L'avena occupa circa 343 kmq.; scarsa estensione hanno l'orzo e la segale. La patata è coltura limitata alle regioni montane del Lazio calcareo, all'alto Reatino, ad alcune zone del Viterbese; dà una produzione mediocre e piuttosto in declino.
Notevole importanza hanno nel Lazio le colture orticole, alle quali erano in passato dedicate anche aree considerevoli del suburbio di Roma, ora in parte assorbite dal dilatarsi della città e compensate da una crescente diffusione nella Campagna Romana, in una striscia alle falde dei Lepini e nella regione di Terracina, nella valle del Sacco, in alcune aree del Viterbese ecc. Tra gli ortaggi di grande coltura primeggiano i carciofi, i pomodori, gli asparagi, i fagioli; la fava è coltura antichissima, tradizionale e molto diffusa.
Per la superficie dedicata alle colture foraggere (5384 kmq. nel 1930) il Lazio viene ora settimo fra i compartimenti italiani e lo stesso posto ha per la produzione, che è in aumento e supera i 12 milioni di quintali.
Tra le piante industriali scarsissima diffusione hanno le tessili, mentre la barbabietola è coltivata nella valle del Sacco, e nell'agro reatino; ma il Lazio è con le Marche all'ultimo posto per la produzione, che dopo un periodo di incremento, tende ora decisamente a contrarsi; il Lazio è di fatto al limite meridionale della zona ove si hanno in Italia condizioni favorevoli per questa coltura. Qualche estensione va prendendo la coltura del tabacco nel Lazio meridionale e anche qua e là nella Campagna Romana, in piccole aree di recente bonificate.
Tra le colture arboree massima importanza hanno la vite e l'olivo. La vite ha, come si è già detto, la sua sede egregia nelle colline vulcaniche; la coltura è intensiva e specializzata (vigneto esclusivo) soprattutto nei Colli Albani e qua e là nei Vulsinî, meno nei Cimini e nei Sabatini. Diffusa è anche nei colli prenestini e tiburtini e nella prov. di Frosinone; ma quivi, come nella vicina regione campana, la vite è per lo più associata ad altri alberi. La viticoltura guadagna terreno anche nella regione litoranea (Terracina; Maccarese). Nel complesso si hanno nel Lazio circa 510 kmq. di coltura specializzata e 1560 di coltura promiscua; la produzione è stata di oltre 4,3 milioni di quintali di uva nel 1930 (pari a 2⅓ milioni di ettolitri di vino). Vi sono nel Lazio vini localmente molto pregiati e di largo consumo (Castelli romani, Montefiascone); ma nessun tipo ha un raggio di smercio molto ampio fuori della regione. L'olivo è pure diffuso nelle pendici più basse dei rilievi vulcanici, ma prospera bene anche nei terreni calcarei (Monti Sabini, Tiburtini, Ernici, Lepini); è molto più diffuso come coltura promiscua (765 kmq.) che specializzata (270 kmq.); la produzione dell'olio (oltre 150-175 milioni di ettolitri annui in media) pone il Lazio al quarto o quinto posto fra i compartimenti italiani.
Discreta importanza ha la produzione delle castagne; mediocre invece quella della frutta, nonostante la presenza di un enorme centro di consumo quale è Roma, onde il problema della estensione dei frutteti nelle regioni in corso di bonifica è degno di molta attenzione. Per gli agrumi ha importanza solo l'estrema fascia litoranea meridionale (Formia e dintorni).
L'allevamento del bestiame è, dai tempi più remoti, un altro importante fondamento della vita economica nel Lazio. Ma sia la montagna calcarea, brulla, scarsa di acqua e perciò coperta di pascoli magri, sia le pianure della Campagna Romana e le altre litoranee si prestano assai più all'allevamento degli ovini che a quello dei bovini. Di fatto il censimento del bestiame eseguito nel marzo 1930, mentre trovava nel Lazio 1.496.000 pecore (e 67.500 capre), onde questa regione veniva seconda in Italia (dopo la Sardegna), noverava meno di 182.000 bovini (ottavo posto tra le regioni italiane). Gli ovini trascorrono i mesi estivi in montagna e scendono da metà settembre a giugno nelle pianure volte al Tirreno, dove peraltro convengono anche, in buon numero, greggi e pastori dell'Abruzzo e dell'Umbria, Le pecore dimorano all'aperto, in recinti circondati da reti (v. abruzzo). Le antichissime abitudini pastorali si vanno tuttavia modificando col progresso della bonifica agraria, che riduce sempre più i pascoli naturali e aumenta quelli artificiali, sui quali i greggi trovano nutrimento migliore e più abbondante. Aumenta in pari tempo il patrimonio bovino, col diffondersi delle stalle e dei prati da foraggio, e anche agli ovini si cerca di risparmiare i periodici trasferimenti dal piano al monte, trattenendoli anche durante l'estate sui pascoli, migliorati col sussidio dell'irrigazione. Abbastanza numerosi sono nel Lazio i maiali (172.000), dei quali l'allevamento è diffuso in tutti i paesi della montagna calcarea e anche nel Viterbesc. I cavalli (48.700) sono invece allevati in pianura, anzi l'allevamento è antico e tradizionale nelle tenute della Campagna Romana. Gli asini sono 86.000, i muli appena 24.000.
La pesca ha notevole importanza nel Lazio: il centro principale è Gaeta, con i paesi vicini (834 barche e battelli nel compartimento); seguono Civitavecchia (545 barche e battelli), Anzio e Terracina. Lungo tutta la costa attendono alla pesca numerose famiglie napoletane trasferitesi da alcune generazioni (soprattutto dai paesi del Golfo di Napoli). Il prodotto concorre in notevole misura all'alimentazione di Roma; inoltre alimenta una modesta industria di pesce conservato (sardine ad Anzio).
Il sottosuolo del Lazio è povero di risorse minerarie, nonostante la grande varietà geolitologica dei terreni. Si possono ricordare l'allumite dei Monti della Tolfa, i cui giacimenti, scoperti nel 1462, hanno dato vita al paese di Allumiere (v.) e, dopo un periodo di grande sviluppo, producono oggi intorno a 6000 tonn. annue di minerale; la leucite dalla quale si estraggono sali potassici e oggi anche alluminio, i numerosi e varî prodotti delle cave: il famoso travertino (lapis tiburtinus) del corso inferiore dell'Aniene, alcune varietà di marmi (Cottanello di Rieti), l'alabastro di Filettino e di altre località dell'alto Aniene, il gesso della Tolfa, le lave, le pozzolane, i peperini dei Colli Albani e di altre regioni vulcaniche, che forniscono ottimo materiale da costruzione. Qualche importanza hanno conservato le saline di Tarquinia. Le ricerche di petrolio fatte negli ultimi anni nel Lazio meridionale (Ripi, San Giovanni Incarico) non hanno dato finora risultati rilevanti.
Numerose e varie le sorgenti minerali, tra le quali hanno fama quelle di Fiuggi, quelle termali, sulfuree di Bagni, e quelle dei dintorni di Viterbo.
Il Lazio è finora in complesso una regione nella quale le attività industriali sono poco sviluppate, nonostante la presenza di un grande centro di consumo anche dei prodotti manifatturati, quale è Roma. Le energie idrauliche utilizzabili non sono molto copiose, perché il Tevere ha regime irregolare e dalla confluenza col Nera, dove entra nel Lazio, fino al mare, non scende che di 44 m., largamente utilizzabili sono invece l'Aniene, nel gradino col quale scende bruscamente in pianura presso Tivoli e anche in molti altri luoghi, più a monte; inoltre il Liri e parecchi affluenti, e anche la Fiora. Nel complesso esistevano, al 10 gennaio 1931, 37 centrali idroelettriche con una potenza istallata di circa 150.000 kW. (oltre a 3 centrali termoelettriche capaci di sviluppare 47.000 kW.). La più grande centrale è quella di Acquaria Nuova (Aniene) con una potenza installata superiore a 25.000 kW. Ma, non bastando queste risorse alle necessità della regione, sia per le industrie, sia per la trazione elettrica, notevoli quantità di energia vengono fornite dall'Umbria (Terni, Narni) e dall'Abruzzo (impianti sul Sagittario). L'industria più sviluppata è quella della carta; importanti cartiere sono a Ceprano, Isola Liri, Monte S. Giovanni Campano, Tivoli, Subiaco, Grottaferrata ecc. Importanza notevole hanno anche lo zuccherificio (Rieti, Segni), talune industrie chimiche, come l'estrazione dell'acido solforico e anche dell'alluminio (Aurelia presso Civitavecchia), la produzione di esplosivi, concimi chimici e altri prodotti a Segni, e anche a Roma, le fabbriche di laterizî, molto diffuse (Frosinone e altri luoghi della provincia, Monterotondo ecc.). A Roma, dove si va costituendo un quartiere industriale presso il porto fluviale, le industrie più diffuse sono le tessili (cotonificio e lanificio), la lavorazione delle pelli e dei cuoi, la fabbricazione di saponi, di fiammiferi, ecc., le industrie poligrafiche, la fabbricazione di attrezzi agricoli (Ostia).
Non si accenna qui in particolare alle industrie alimentari vere e proprie (vinificio, oleificio, fabbricazione di paste alimentari, di dolci, ecc.); tra esse merita peraltro speciale menzione il caseificio, che trasforma il rilevante prodotto dell'allevamento ovino.
La ripartizione percentuale della popolazione di età superiore ai 10 anni secondo le occupazioni era nel 1921 la seguente (in cifre tonde): agricoltura (con la caccia e la pesca) 25%; industria 15,5%; commercio 4%; amministrazioni pubbliche e private 7,5%; culto, professioni e arti liberali 3,5%; addetti a servizî domestici 3%; occupazioni non professionali (proprietarî, benestanti, addetti a cure domestiche, studenti ecc.) 41,5% (di cui circa 4/5 donne).
Per il commercio il grande centro di convergenza è naturalmente Roma, che è essenzialmente un mercato di importazione. A servirlo concorre in piccola misura il traffico marittimo: unico porto di notevole movimento è Civitavecchia (v.), che serve anche alle comunicazioni con la Sardegna e la cui efficienza è stata di recente molto accresciuta; segue Gaeta, che per quanto migliore come porto naturale, ha un raggio di traffici molto limitato; Terracina e Anzio hanno solo importanza locale. La navigazione sul Tevere, che si fa per Fiumicino, concorre in proporzioni finora modeste al rifornimento di Roma per alcuni prodotti.
La viabilità. - Le comunicazioni fra Roma, centro del Lazio, e i paesi circostanti sono agevolate da alcune caratteristiche naturali della regione, già segnalate: la presenza dei grandi solchi convergenti segnati dalla valle del Tevere, da quella dell'Aniene e da quella del Sacco-Liri (Valle Latina) continuata dalla soglia prenestina; inoltre la facile accessibilità del litorale a nord del Tevere e la presenza della pianura pontina. Meno agevole per le comunicazioni è la zona situata direttamente a nord di Roma, per la presenza degli apparati vulcanici assai profondamente incisi da ventagli di valli irraggianti in ogni direzione. Le grandi vie consolari romane profittarono di tali condizioni, onde si ebbero l'antichissima Salaria per la valle dell'Aniene, l'Appia traverso la regione pontina, la Casilina per la Valle Latina, la Valeria per quella dell'Aniene, l'Aurelia lungo il litorale; ad esse si aggiunsero la Flaminia, la Cassia, più tardiva, la Prenestina ecc. Queste strade, rinnovate ed ampliate secondo le esigenze del traffico moderno, costituiscono tuttora le massime arterie rotabili; ad esse se ne aggiungono altre numerosissime, che nelle immediate vicinanze di Roma vanno assumendo la forma di anelli concentrici intorno alla città, più lontano allacciano le maggiori strade fra loro, o si dipartono a raggiungere i centri abitati più appartati. Non vi sono ormai in tutto il Lazio che cinque o sei capoluoghi di comune non raggiunti da strada rotabile. Sulle strade sono larghissimamente sviluppati i servizî automobilistici (circa 220 servizî pubblici per uno sviluppo di quasi 5000 km.); alcuni di essi, assai lunghi, servono anche al collegamento con le regioni finitime (Toscana, Abruzzo, Campania). Centri notevoli d'irradiazione sono, oltre a Roma, Viterbo e Frosinone. Sei linee ferroviarie principali irraggiano da Roma, delle quali quattro di primaria importanza (Roma-Pisa; Roma - Orte - Firenze; Roma - Orte - Ancona; Roma - Formia - Napoli) e due di minor traffico (Roma - Pescara e Roma - Cassino - Napoli); altre numerose hanno importanza locale, pur essendo talora raccordate alle maggiori, come la Roma-Viterbo-Orte e la Roma-Fiuggi-Frosinone. Notevole è la mancanza di linee non irradianti da Roma, con la sola eccezione della Civitavecchia-Orte, che finora ha limitata importanza commerciale.
Roma è anche centro (il massimo d'Italia) di servizî aerei ad essi servono l'aeroporto del Littorio e l'idroscalo di Ostia. Non esistono tuttavia finora collegamenti fra Roma e altri centri del Lazio.
I Centri abitati. - Si può calcolare che poco meno del'80% della popolazione del Lazio viva raccolta in centri, appena il 20% sparsa nelle campagne; quest'ultima percentuale si eleva notevolmente (fino al 33-35%) nel Reatino. Ma, all'infuori della capitale, non vi sono grandi città, nessun altro centro tocca i 30.000 ab., salvo Civitavecchia (30.169 ab. nel centro e 34.382 nel comune), che è perciò la seconda città del Lazio. Ciò può dare una misura del modesto sviluppo industriale. Ventisette comuni soltanto hanno più di 10.000 ab., e di essi appena undici raggiungono questa cifra nel centro urbano. Tre di questi appartengono alla zona marittima meridionale e sono Terracina (13.454 ab. nel centro e 18.562 nel comune), Fondi e Formia; Gaeta, che supera tutti e tre per popolazione globale del comune (22.882 ab.), risulta dalla fusione del vecchio centro, che ha meno di 7000 ab., col sobborgo di Elena, in rapido incremento (vedi gaeta). Altri tre centri con più di 10.000 abitanti appartengono al complesso poleografico dei Colli Albani, o sono Albano, Frascati e Velletri; quest'ultimo, che è il maggiore, ha 20.710 abitanti (30.145 nel comune). All'infuori di questi, la provincia di Roma non novera che Tivoli (15.312 abitanti; 19.223 nel comune), centro che, forse più di ogni altro del Lazio, va debitore del suo recente incremento all'attività industriale. Degli altri capoluoghi di provincia, Rieti, in mezzo a un'ampia, fertile conca ricca di acque, ha 18.471 ab. (32.152 abitanti nel comune), ed è la quarta città del Lazio, Viterbo, che è la terza (19.473 ab. e 37.059 nel comune) è su un vasto piano ondulato alle falde dei Cimini, all'incrocio della Via Cassia con un passaggio obbligato delle comunicazioni tra Civitavecchia e Orte. In entrambe le provincie nessun altro centro tocca i 10.000 abitanti. E questa cifra è raggiunta soltanto da uno dei centri della provincia di Frosinone, l'antichissima Cassino (11.419 ab. e 18.773 nel comune), dominante la via dalla valle del Liri alla Campania; gli altri comuni della provincia - dieci - che superano i 10.000 ab., ivi compreso lo stesso capoluogo, hanno numerosa popolazione sparsa in campagna o riunita in piccoli centri fuori dei capoluoghi, che sono spesso antiche città in postura elevata, ora ravvivate dalla fiorente agricoltura o da piccole industrie (Alatri, Anagni, Arpino, Ferentino, Pontecorvo, Sora, ecc.; Frosinone ha 16.475 ab. nel comune, ma di essi solo la metà circa raccolta nel centro; v. per tuttì alle rispettive voci).
Per molti dei minori centri del Lazio è caratteristica la postura sull'alto di dossi, colline o anche cocuzzoli, spesso assai isolati e appartati dalle vie di comunicazione, ovvero, nella regione antiappenninica, la situazione su ristrette platee ricinte da due lati da solchi torrentizî profondamente incisi che si riuniscono in basso in un'unica valle: talché l'abitato sorge in alto come su una penisoletta spianata limitata da cigli molto ripidi e accessibili solo da un lato, quello per il quale si riattacca, con uno stretto collo, al resto della platea. Tale posizione, che ha il vantaggio della facile difesa, è tipica di molte antiche città etrusche (Veio, Civita Castellana, Cerveteri, Nepi, Bieda, ecc.), ma si ritrova peraltro anche nell'antico Lazio (Labico, Valmontone, Gallicano, ecc.). Prescindendo dal territorio reatino, per il quale v. la voce sabina, il più alto centro abitato del Lazio è Guadagnolo (1218 m.); altri due superano i 1000 metri (Cervara 1053, Filettino 1062); ve n'è poi ancora una dozzina sopra gli 800 m. I fondivalle, anche lungo i maggiori solchi, sono in genere sfuggiti; gli abitati sorgono su terrazzi, a 150-200 m. sul fondo (come il tipico gruppo alla destra del Tevere fra Torrita e Fiano) o su poggi e dossi affacciati alla valle. Per molti dì quelli posti in alto, un po' fuori dalle vie di comunicazione, si osserva la tendenza a dar vita a borgate nuove, quasi filiali, più in basso, lungo le strade principali o intorno a una stazione ferroviaria, ecc.; questa influenza accentratrice delle nuove arterie di comunicazione si è fatta sempre più evidente negli ultimi tempi. Una azione di richiamo esercitano spesso anche i vecchi casali, intorno ai quali si vanno formando piccoli centri.
Centri interamente nuovi e con caratteri peculiari si vanno poi costituendo, oltre che sulla costa, nelle zone di recente bonifica; la fisionomia demografica di queste zone va perciò modificandosi rapidamente (vedi roma; pontina, regione).
Bibl.: Per il nome vedi: W. Gsell, Topography of Rome and its Vicinity, voll. 2, Londra 1834 e 2ª ed. del primo, ivi 1846; A. Nibby, Analisi storico-topografica antiquaria della carta dei Dintorni di Roma, voll. 3, 2ª ed., Roma 1849; ; A. Bormann, Altlatinische Chorographie und Städtegeschichte, Halle 1852; E. H. Bunbury, in A Dictionary of Greek and Roman Geography, II, Londra 1873, p. 131segg.; H. Nissen Italische Landeskunde, I, Berlino 1883; II, ivi 1902, pp. 346, 485 segg. e 550 segg.; Th. Ashny, Classical Topography of the Roman Campagna, nei Papers of the British School at Rome, I (1902 segg.); G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, p. 180 segg.; G. Tomassetti, oltreché in varî scritti nei volumi dell'Archivio della Società romana di storia patria, nell'opera La Campagna romana, I-IV, Roma 1910 segg.; J. Weiss, in Pauly-Wissowa, Real-Encyl., XII, col. 940 segg.; K. J. Beloch, in Der Italische Bund, Lipsia 1881, e in Römische Geschichte, Berlino e Lipsia 1926, specialmente a pp. 144 segg., 522 segg.; A. De Tournon, Études statistiques sur Rome et la partie occidentale des états romains, Parigi 1881 (con atlante); E. Abbate, Guida della prov. di Roma, Roma 1890; 2ª ed., 1894; F. Porena, Il compartimento Lazio o la Prov. di Roma, in Riv. geogr. ital., 1895; id., Il Lazio, in La Terra, di G. Marinelli, IV, pp. 1033-88; F. Corridore, La popolazione dello stato romano (1656-1901), Roma 1906; G. Marocco, Monumenti dello Stato pontificio e relazione topografica d'ogni paese, Roma 1833-36 (i 14 volumi pubblicati riguardano esclusivamente il Lazio, la Sabina e il Patrimonio); V. Procaccini-Ricci, Viaggi ai vulcani spenti dell'Italia centrale nello Stato Romano, ecc., Firenze 1814; Monografia della Città di Roma e della Campagna Romana presentata all'Esposizione univers. di Parigi del 1878, Roma 1879, voll. 4 (con bibliografia geol. e paleontol. dell'intera provincia di P. Zezi); A. Palmieri, Topografia statistica dello Stato Pontificio (1857-1859) (4 volumi dell'opera sono dedicati al Lazio in senso attuale); E. Caputo e F. Romero, Il Lazio, 6ª ed., Torino 1931; Touring Club Italiano, Guida d'Italia: Italia centrale (voll. 4); Istituto di studi romani, Le scienze fisiche e biologiche in Roma e nel Lazio, Roma 1933 (collana di scritti tra i quali uno di R. Almagià su La geogr. nel Lazio).
Dialetti.
Le parlate del Lazio, specialmente meridionale, conservano parecchi tratti arcaici; mentre, a cominciare dal principio del sec. XVI, il dialetto di Roma s'è venuto accostando al tipo letterario o toscano e ha perduto parecchi di questi tratti.
Vocalismo. - La figura più antica della metafonesi laziale, è quella che si usa dire "napoletana" (v. campania: Dialetti) e che consiste nello sviluppo di ê e ó??? in ie o uo in sillaba libera e in posizione, quando la finale sia -ŭ o -ī (per esempio dęnte "dente", plur. diénti; masch. viécchiu, femm. vęcchia). In eguale condizione, é??? e ó??? si fanno rispettivamente i e u (p. es. vidi "vedi", vinti "venti"; vui "voi", munno "mondo"). Questa metafonesi ci è rivelata soprattutto dalla celebre Vita di Cola di Rienzo, testo scritto a Roma nel sec. XIV e, per quanto riguarda lo sviluppo di ę e di ǫ, dagli altri testi antichi romaneschi; invece, la metafonesi di ẹ e di ọ è scomparsa di buon'ora a Roma, ma si è continuata nel Lazio insieme con quella di e ę e ǫ, la quale ha assunto una duplice figura: sia con l'elemento vocale del dittongo pronunciato chiuso (ié e uó, come a Velletri, Nemi, Ariccia, Albano, Genzano, ecc.), sia con un ulteriore sviluppo di ié in é e di uó in ó, come a Subiaco, Alatri, Castro dei Volsci, Amaseno, Valmontone, Zagarolo, Segni, Carpineto, ecc. (metafonesi detta "ciociaresca"), p. es. dęnte, ma dẹnti; vẹcchiu, ma vęcchia; nui, vidi, munnu, ecc. Per questo fenomeno, i dialetti laziali, considerati nel loro complesso, salvo ricostruzioni recenti sporadiche, vanno insieme con quelli dell'Umbria, dell'Abruzzo, della Campania, ecc. (v. italia: Dialetti; abruzzo; campania; marche; puglie; umbria).
A Castro dei Volsci, inoltre, l'a, per metafonesi di -i volge a e, fenomeno che abbraccia una zona limitata da una linea che da Castro giunge fino a Vasto (Abruzzo) e da Vasto sale sino a Petritoli (Ascoli Piceno) per ricongiungersi a Castro, p. es.: frate; plur. frète, kènte "tu canti", ecc. (ad Arpino si ha ie: pièrle "tu parli"). A Castro restano (o restavano sino a qualche tempo fa) tracce metafoniche di a per influsso di -u (Tummèse, Kèstru "Castro", stèu "stanno", eu "hanno", fèu "fanno", dèu "dànno"). Nel linguaggio plebeo di Roma, anteriormente al sec. XVI, il ditt. uo metafonetico da ǫ era scaduto a ué, com'è dimostrato da esempî di testi antichi (nel Diario di Nepi, in un registro del 1457, in un poemetto sulla Biblioteca di Sisto IV [ms. Vat. lat. 4832], ecc.). Nel Belli abbiamo ancora muecco "baiocco" e ue oggidì suona a Terracina, p. es. fueke "fuoco", lueøe "luogo", kuerne, uesse, ueje "oggi", uémene "uomini", ecc.
Il dialetto di Roma ha perduto altresì la distinzione fra -o e -u alla finale, distinzione che si osserva ancora a Canterano, a Poli, a Palombara, a Marcellina, ecc., per es. saććo "so", ma kasu "caso". Altrove, questo fenomeno ha subito notevoli trasformazioni, in quanto l'-u da -ŭ e l'-o da -o si sono unificati dapprima in -o, ma poi quest'-o è divenuto -u quando la vocale tonica era un i, un a, o un u, mentre è rimasto, quando la tonica era e od o (p. es. primu, issu, diku; ma sevéro, tempo, ecc.). Ciò è avvenuto a Cervara, Roccagiovine, Subiaco, Marano Equo, Anticoli. Le condizioni toscane (-o) si trovano non solo a Roma, come abbiamo detto, ma a Trevi, Ienne, Affile, ecc. Roma ha altresì sostituito la forma letteraria (lingua, ecc.) a quella comune laziale nei casi di ẹ e ọ dinnanzi a velare o palatale (lengua, gionge, ecc.).
Consonantismo. - Sono ben fermi, anche nell'odierno dialetto di Roma, gli sviluppi di ragione italica di -nd- in -nn- e di -mb-nv- in mm (p. es. quanno "quando", annà "andare"; gamma "gamba", palomma "colomba", ecc.). Inoltre, d + v si riduce a b, bb: cobelle (quod vellem "nulla"), abbelena(re) "avvelenare", ecc. e -rb- volge a -rv- (varva "barba") e, in qualche parlata, a -rev- con epentesi di -e- (vareva "barba"). Il b- iniziale (e così anche br-) viene a v- (vocca "bocca", vraććo "braccio"), che, come il v- primario, può anche cadere (occa "bocca", al pari di eregoña "vergogna", urria "vorrei"). Non mancano nei dialetti laziali vestigia di un rafforzamento di v- in b- e bb-, come bba "va", bbedé "vedere", ecc. Una larga sezione dei dialetti del Lazio appartiene all'area in cui -ī- e -ū- latini interni e ī e -ŭ finali hanno il potere di palatalizzare un l o ll e ridurli qui a ù (gli) e là a i, p. es. a Cervara: iuna "luna", iura "scintilla" (prelat. lura?), iubru ["pozzanghera" (lat. lubrum). Si può dire che tutti i dialetti dell'Aniene, in maggiore o minore misura, abbiano la palatalizzazione di questo l, ll, eccettuato quello di Tivoli, che deve averla avuta; invece non risulta che l'abbia avuta l'antico romanesco. Hanno poi un interesse particolare gli sviluppi di l implicato. È fenomeno romanesco e, in genere, laziale, -ld- in -ll- (p. es. kallo "caldo", reskallare, ecc.), che si ha naturalmente nei testi antichi (falla "falda", Ranallo "Rinaldo", ecc.). Dinnanzi a gutturale e labiale, l si è fatto r (sarvo "salvo", sipurkru "sepolcro"), ma negli antichi testi troviamo spesso i (coipo "colpo", aicuno "alcuno", saivo "salvo"), come dinnanzi a dentale (moito "molto i), aitro "altro", ecc.). Merita anche considerazione il riflesso di pj: Accia "Appia". saccio "so" negli antichi testi e nei dialetti laziali moderni (saććo). Il nesso bj nel romanesco antico dava j e jj (dejo "debbo", ajo "ho", rajja "rabbia"). Nei dialetti odierni abbiamo anche ǵǵ (aććo "ho") e persino ù (aglio "ho"). Di gh- in j- restano tracce anche nel romanesco moderno: janna "ghianda", jotto "ghiotto".
Morfologia. - Siano ricordate le forme atone me te se (di fronte ai tosc. mi ti si), p. es. dimme "dimmi", te vedo "ti vedo", ecc. E così: ce (per ci) anche col significato di gli e le. L'infinito dei verbi non appare, salvo a Roma, apocopato, quando sia seguito da particella pronominale enclitica (konzoláreme, presentárese, ecc.). Si conservano le finali -amo -emo; e nei dialetti della valle dell'Aniene, per lo meno, la finale -é???te sostituisce -ate (p. es. sté???te "state"). Il gerundio in -énno ha sostituito, salvo a Roma, -anno. Il condizionale è in -ia, ma, soprattutto a Roma, la forma letteraria è andata e va prendendo piede. Il perfetto della I con. (3ª sing.) in -au -ao, che nei testi del sec. XV compare allungato in -avo, è scomparso (nel passato, abbracciava tutto il Lazio e l'Abruzzo, ora è limitato all'Italia meridionale, compresa la Sicilia).
Roma, insomma, presenta oggi condizioni linguistiche ben diverse da quelle antiche, che permangono negli altri dialetti laziali. E sono condizioni letterarie o toscane, che si spiegano, dal sec. XVI in poi, così per influsso della lingua della letteratura, come per l'efficacia esercitata dalla corte pontificia, oltre che dall'afflusso continuo di genti di altre regioni, che, venute a Roma, si valsero della lingua letteraria. La quale, soprattutto dopo l'assunzione dell'urbe a capitale del regno, preme sul dialetto con sempre più viva energia.
Bibl.: L. Ceci, Dial. di Alatri, in Arch. glott. ital., X, p. 157 segg.; E. Monaci, Sul codice angelico V. 3. 14 della Mascalcia di L. Rusio, in Rend. della R. Acc. dei Lincei, Cl. di sc. mor. stor. e fil., II (1893), p. 185 segg.; id., Le Miracole de Roma, in Arch. della società rom. di st. patria, 1915; C. Merlo, Gli italiani "àmano", "dicono" e gli odierni dialetti umbro-romaneschi, in Studj romanzi, VI, p. 69. Ancora di l palatalizzata nei dial. della campagna romana, in Zeitschr. f. roman. Phil., XXXIII, p. 85; A. Lindsstrom, Vern. di Subiaco, in Studj romanzi, V, p. 237; C. Vignoli, Il vernacolo di Castro dei Volsci, in Studj romanzi, VII, p. 112; id., Vernacolo e canti di Amaseno, Roma 1920; G. Crocioni, Il dialetto di Velletri e dei paesi finitimi, in Studj romanzi, V, p. 27; C. Merlo, Fonologia del dial. della cervara, Roma 1922; id., Dial. della Valle dell'Aniene, Roma 1930; id., Vicende storiche della lingua di Roma, in Italia dialettale, V (1929) e VII (1931); B. Migliorini, Dial. e lingua nazionale a Roma, in Capitolium, luglio 1932; G. Bertoni, La lingua della Vita di Cola di Rienzo, in Lingua e pensiero, Firenze 1932.
Folklore.
Il folklore del Lazio si differenzia da provincia a provincia, e specie da città a campagna. L'agro romano con le grotte, i carri-capanne, i "procoi" (locali per l'allevamento dei cavalli e dei buoi) e i casali recinti da palizzate e muriccioli, offriva fino a qualche anno fa e in parte offre ancora uno spettacolo singolare per la primitività dei tipi e dei costumi. Le stampe di Bartolomeo Pinelli ritraggono efficacemente le figure e le fogge romanesche del passato, ma la varietà pittoresca degli abiti laziali si è potuta ammirare in tutta la sua estensione nella Mostra del costume, tenuta in Roma nel 1927. Tipici per gli uomini il giubbetto di velluto, il panciotto di panno rosso o a righe, le brache, l'ampia fascia attorno alla vita; e per le donne i manichini staccati, le "cartonelle" per il capo e i cappelli a forma di tuba (ramoschì), adorni di nastri e fiori. La tradizione popolare ricorda riti arcaici nelle nozze della Sabina: il ceppo infioccato che i genitori della sposa collocano sul limitare, nel momento in cui la coppia si reca alla chiesa; la ciambella che la suocera spezza sul capo della nuora; la "scampanacciata" per i vedovi e la consecutiva rottura della "pila" (pentola). Per le fanciulle piantate in asso vi è l'ellerata (si cosparge la soglia di ellera e altre erbe). Nel territorio romano era l'usanza di offrire alla fidanzata l'anello in un "maritozzo" (specie di focaccia), con figure simboliche. Alla puerpera si manda il trionfino, un canestro con uova, galline, fettuccine di pasta. Si crede che l'ammucchiare sassolini sulle tombe vada a suffragio delle anime; e che l'anima sia all'inferno, se nel trasporto la cassa cada.
Manifestazioni caratteristiche della vita popolare nel Lazio sono, nel canto, lo stornello, che è più in voga del rispetto; nella danza, il saltarello; nei giuochi, le bocce, la morra, la passatella; negli svaghi le ottobrate.
Bibl.: G. Zanazzo, Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma, Torino 1908; A. Lancellotti, Il Lazio, Roma 1927; E. Metalli, Usi e costumi della campagna romana, 2ª ed., Roma s. a.; L. Huetter, A. Scaccia-Scarafoni, O. Amato, D. Sansoni, L. Palmegiani, A. De Sanctis, in Capitolium, II (1927), nn. 11-12; F. Iacovacci, Eco Sabina, in Il Folklore ital., VII, 1932, pp. 21-41, 137-151, ....; v. anche G. Pitrè, Bibliografia delle trad. pop. d'Italia, Torino 1894.
Musica popolare.
La musica popolare del Lazio è più affine a quella della Toscana, fra le regioni limitrofe, che a quella della Campania. Ciò non soltanto per i contatti più intimi con l'antico territorio etrusco, ma anche per l'affinità del paesaggio del Lazio con quello della Maremma Toscana. I canti del Lazio hanno lo stesso carattere grave e melanconico di quelli delle regioni desertiche e pianeggianti.
Il canto popolare del Lazio, più che quello delle altre regioni, appare, nelle sue espressioni più genuine, influenzato dal gregoriano. Così fra alcune canzoni, raccolte nel territorio di Anagni da Luigi Colacicchi e tuttora inedite, una è nel V modo (lidio); una ninna-nanna nel III:
Ma forse più che nelle antiche modalità, nell'influenza del gregoriano è da vedere la sopravvivenza dell'arte greco-romana. E a dimostrare la persistenza di certe formule etniche, basterà ricordare che il Pervigilium Veneris, canto popolare del III sec. d. C., come la ballata militare Saltatiuncula in Adrianum, sono nello stesso ritmo trocaico-del saltarello (v. danza; saltarello), ballo caratteristico della campagna romana, affine alla tarantella.
La prima raccolta di melodie popolari romanesche fu pubblicata da A. Parisotti nel 1878, ma in molte Romanesche del '600 è da identificare qualche antica canzone popolare; notevole fra queste una riportata da G. Caccini nello scritto introduttivo alle Nuove Musiche, pubblicate nel 1601. Una delle espressioni più tradizionali del canto popolare in genere è costituita dalla ninna-nanna. Nei canti romaneschí, come appare dall'esempio riportato, questa è di solito una melopea uniforme in tempo 6/8 (che raramente, come si osserva in una ninna-nanna trascritta nella raccolta di G. Nataletti e G. Petrassi, contiene melismi). Non molto differente doveva essere la nenia con la quale le antiche madri romane addormentavano i figliuoli, di cui ci sono rimaste le parole: lalla, lalla, lalla, aut dormi aut lacta.
La forma più diffusa del canto popolare romanesco è costituita dallo stornello o ritornello, simile a quello toscano, che si dice così perché nel canto si ripete iI primo verso; e si distingue in stornello "col fiore" e "senza fiore". Gli stornelli romaneschi presentano di solito un carattere piuttosto uniforme e sono meno agili di quelli toscani, ma alcuni di essi, che hanno un senso di rimprovero o di dispetto, e che si chiamano "canzoni a intenne" sono caratteristici per il loro cupo e accorato lirismo.
E questi canti rivelano meglio di tutti gli altri il carattere fiero e rude dell'antico popolo del Lazio, presso il quale avevano gran parte le canzoni d'ímproperî e d'infamia. E poi anche da notare un terzo tipo, di carattere rustico e gioioso.
Circa le danze, abbiamo ricordato il saltarello. Esso, come si rileva da un'incisione di G. B. Piranesi, fino al secolo scorso era accompagnato dalla cornamusa e dal tamburello; oggi per lo più dalla fisarmonica. Ma il ritmo e il carattere sono rimasti tuttora immutati in tutta la campagna romana.
Bibl.: A. Parisotti, Melodie popolari romane, in Rivista di Lett. Popolare, Roma 1878; E. Levi, Fiorita di canti tradizinali del popolo italiano, Firenze 1895; F. Marchetti, Canti popolari romaneschi, Milano s. a.; G. Nataletti e G. Petrassi, Canti popolari della campagna romana, Milano 1930.
Preistoria.
Si noti anzitutto che, dovendosi qui considerare la regione nei suoi attuali confini, essa viene a comprendere due territorî ben distinti dal punto di vista archeologico: la bassa Etruria (a nord e sulla destra del Tevere) e il Lazio più propriamente detto, il quale, con il recente ingrandimento fino al Garigliano, ha riconquistato approssimativamente l'antica estensione del Latium secondo la divisione regionale augustea.
Il quadro del primitivo incivilimento della regione laziale è oggi abbastanza completo, in seguito alle molte campagne di scavo effettuatesi nel sec. XIX, e più nel primo scorcio del XX, quasi esclusivamente rivolte tuttavia all'esplorazione di abitati e di necropoli dell'età del ferro; infine il quadro è reso più sicuro, nella sua parte più antica, da recentissime scoperte.
Le prime vestigia umane rimontano all'età paleolitica e sono costituite da numerosi ritrovamenti di strumenti silicei di tipo moustériano, raccolti per la prima volta nella bassa valle del Tevere, fra le ghiaie alluvionali di Ponte Molle, sui Monti Corniculani (Inviolatella, Fosso del Cupo), sotto Monte Porzio Catone, nella località Frattocchie (tra Roma e Albano), in più luoghi del Viterbese e della valle del Liri, nell'ex-Terra di Lavoro (Alvito, Arce, Casalvieri, Sora).
L'industria degli amigdaloidi, o chelléo-acheuleana, se si eccettuano uno sporadico esemplare fluitatissimo raccolto a Ponte Molle e un altro conservato nel British Museum e senza assoluta certezza dato come proveniente da Cerveteri, non è rappresentata nella bassa Etruria e nella vallata tiberina, e neppure nel territorio compreso fra i monti Prenestini e il mare: essa è invece ben presente nella valle del Liri, con più esemplari, provenienti soprattutto da Casalvieri e da Palazzolo-Castrocielo, e con i recenti reperti di Pignataro-Interamna, dove fu riscontrata l'associazione con fauna pleistocenica di clima caldo (v. italia: Preistoria).
Per le selci moustériane laziali, si sollevarono in passato forti dubbî circa la loro reale appartenenza ai tempi pleistocenici; ma nondimeno molti paleoetnologi le ritennero qual documento della presenza dell'uomo paleolitico. Ora, la scoperta del cranio neanderthaloide, avvenuta nell'aprile 1929 alle porte di Roma, a tre km. da Porta Pia (tenuta Saccopastore sull'Aniene), in uno strato alluvionale contenente resti fossili di fauna tipica (Elefante antico, Rinoceronte, Ippopotamo, Cervo, Bue primigenio, ecc.) illumina positivamente la questione delle selci laziali, provando in modo irrefutabile ormai che l'uomo visse nel Lazio insieme con i grandi mammiferi del Pleistocene medio, i cui resti si rinvennero anche in molte altre località, nell'interglaciale riss-wurmiano, e fu certo testimone delle ultime grandi eruzioni vulcaniche.
La presenza dell'uomo è anche bene attestata per la fine dei tempi pleistocenici, in virtù delle indagini eseguite da U. Rellini negli antri falisci (cavernette e ripari del Rio Treia, in territorio di Civita Castellana; e soprattutto in quelli del Rio Fratta in quel di Corchiano), dove in strati profondi e ben distinti si raccolsero lame e lamelle, raschiatoi, punte e bulini, lavorati secondo una tecnica in gran parte affine a quella dell'Aurignaciano. Siffatta industria silicea, cui s'accompagna scarsamente l'osso lavorato, costituisce, unitamente a quella rinvenuta a Grotta Romanelli nel Leccese, la più bella documentazione della civiltà grimaldiana, caratteristica del nostro paese (v. italia: Preistoria; miolitica, civiltà). E in qualche cavernetta (es. Caverna della stipe) il deposito litico, assai probabilmente testimonio di antichi laboratorî, era separato per mezzo di uno strato sterile dai superiori depositi dei tempi geologici attuali; in qualche altra invece (es. Riparo Lattanzi) l'industria silicea era unita e cementata con pezzi di rozza ceramica d'impasto, uguale a quella dei più antichi "fondi di capanna" neolitici.
La medesima industria, presente anche in una grotta presso Fiano Romano, fu rinvenuta dall'Indes nel 1868-69 alle porte di Roma, presso il Ponte Salario, in una grotta del cosiddetto Monte delle Gioie, collinetta di travertino che andò distrutta durante l'attività edilizia svoltasi dopo il 1870. Ma, la ricchezza dei ritrovamenti nell'Agro Falisco, e più ancora la presenza di questa industria delle lame, sfumante come civiltà nel Neolitico, alle porte di Roma, rendono giustificabile l'idea che analoghi depositi si poterono formare anche in antri consimili delle stesse colline romane, quale ad esempio il favoleggiato antro del Lupercale, sulle falde del Palatino.
Per i tempi geologici attuali le vestigia si fanno più abbondanti, ma, come s'è detto sopra, le campagne di scavo si sono rivolte esclusivamente agli abitati e ai sepolcreti protostorici; quindi prevalgono le reliquie della prima età del ferro.
La civiltà neolitica, alla pari di ciò che si nota per quasi tutta la penisola, il più delle volte è difficilmente distinguibile dalla successiva eneolitica, specie per quanto si riferisce agli abitati. Inoltre, le vestigia neolitiche, benché siano numerose, non sono mai state il frutto di scavi sistematici.
Tracce di stazioni abitate si ebbero un po' dappertutto: a cominciare dal Viterbese e, scendendo al sud, nell'Agro Falisco (Fabrica, Corchiano), sui Monti Corniculani (Fosso del Cupo), sui Monti Albani (Monte Porzio Catone, Campo d'Annibale presso Nemi, Monte Cagnolo di Lanuvio), ad Ardea, presso Anagni, in quel di Segni e di Cori, nella Caverna della catena a Terracina, a Sora di Campagna, altrove. Ma, a causa della già lamentata mancanza di scavi, è impossibile poter definire i caratteri intrinseci, nonché l'estensione, di questi abitati neolitici, i quali possono soltanto congetturarsi analoghi agli altri peninsulari e noti da esplorazioni regolari. Una grotta funeraria scoperta presso Montecelio potrebbe riferirsi a questa prima età, almeno in parte; ma le sepolture più note appartengono alla fine dell'età della pietra, cioè all'Eneolitico. Se ne rinvennero, e non sempre con precisi e fruttiferi ragguagli, presso Montefiascone (Monte Rinaldone), a Montecelio (Le Caprine), presso Ponte Galera (Malnome) e Grottaferrata (Vigna Schiboni), a Velletri, presso Cantalupo-Mandela (Prato di S. Cosimato), presso Sgurgola, fra Alatri e Frosinone, presso Casamari, a Campanaro di Ceccano, presso Roccasecca (Cavone). Rito costante: l'inumazione, con giacitura del cadavere o distesa o rannicchiata, per quanto ci è dato ricostruire dalle notizie per lo più incerte; accompagnamento di bel corredo litico (pugnali e cuspidi di freccia in selce finemente ritoccati, coltelli silicei, accette di pietra verde levigata, martelli forati, talvolta unitamente ad asce piatte e pugnaletti triangolari di rame), a cui in molti casi si aggiunge una ceramica nerastra con forme più regolarizzate e di un impasto più curato, rispetto alle stoviglie neolitiche.
Varia la forma dei sepolcri, costituiti o da fosse terragne come a Casamari, o da cassoni di lastre di pietra come presso Alatri; ovvero ricavati in grotticelle naturali e artificiali paragonabili ai sepolcri di tipo siculo, come risulta con certezza dalle più importanti scoperte di Sgurgola e di Cantalupo-Mandela. Quivi è probabile che esistesse un'estesa necropoli. La tomba di Sgurgola, col cranio tinto d'ocra rossa, insieme con qualche cuspide silicea, ha dato la prova per sostenere il costume della scarnitura del cadavere prima del suo definitivo seppellimento; a Casamari è stato rinvenuto, per la prima volta in Italia, un cranio trapanato dopo morte. Mentre queste circostanze si accordano con le costumanze e i riti riscontrati in altri paesi d'Europa per la medesima età, in complesso si può dire che i materiali eneolitici laziali, componenti un'indiscutibile omogeneità, concordano con quelli della restante penisola, soprattutto in ciò che riguarda l'armamentario litico e il metallico.
Con l'abbondanza dei reperti neo-eneolitici, i quali attestano l'alto sviluppo raggiunto da quella civiltà, con una relativa densità di popolazione, contrasta la penuria degli oggetti caratterizzanti l'età del bronzo, per la quale non si possono indicare stazioni né sepolcreti. All'infuori di qualche deposito di sole ceramiche, attribuibili per il loro carattere all'età enea, ma che egualmente potrebbero riferirsi all'alba della susseguente, incontrato negli strati superiori delle cavernette falische (Corchiano, Fabrica), la documentazione si riduce a poche asce con margini rialzati raccolte sporadicamente qua e là e a due soli ripostigli: quello di Cervara Alfina presso Bagnoregio (pugnali di bronzo in numero imprecisato) e quello di Canterano nella valle dell'Aniene (sette asce a margini rialzati). Ben poca cosa per affermare la consistenza di una civiltà, così potentemente documentata altrove nella penisola e nelle isole maggiori; quindi l'età del bronzo nella regione costiera tosco-laziale rimane ancora problematica.
Ma, con l'alba dell'età protostorica le condizioni mutano e le reliquie, attestanti un continuo e graduale progresso nell'incivilimento, s'infoltiscono sempre più. Al periodo di transizione al ferro va attribuito l'importante deposito rinvenuto nel 1880 a Coste del Marano (Tolfa) comprendente più di centoventi pezzi, nuovi o perfettamente usabili, fra cui spiccano due tazze di bronzo laminato. Un poco più tardo è, forse, l'altro ripostiglio scoperto nel medesimo territorio, a Monte Rovello (Allumiere), comprendente oltre una ventina di pezzi. Ma, l'importanza del territorio dei monti della Tolfa consiste nella presenza di un folto sepolcreto degl'inizî dell'età del ferro e intimamente collegato ai ripostigli suddetti, scavato tra il 1880 e il 1890 da A. Klitsche de la Grange, e più tardi illustrato anche da G. A. Colini che ne dimostrò il valore straordinario per lo studio del principio della nuova fase civile. Le tombe, tutte a incinerazione, formavano varî gruppi sopra una considerevole estensione (nelle località: Poggio la Pozza, Valle del Campaccio, Forchetta di Palano, Trincere, Poggio Umbricolo); esse anzitutto documentano una notevole densità di abitati, certo determinata dallo sfruttamento minerario del territorio; costituite da pozzetti o in casse di lastroni e raggruppate fittamente, con le loro stoviglie d'impasto e con la povertà dei corredi rappresentano la fase più arcaica del "villanoviano" tosco-laziale, collegandosi da una parte ai sepolcreti a incinerazione di tipo terramaricolo (v. ferro, civiltà del) e dall'altra alle necropoli più evolute sotto l'influsso della civiltà proto-etrusca ed etrusca. Per l'identità del rito, per il carattere delle stoviglie di rozzo impasto e per la sobrietà dei corredi, da cui per tutta la prima fase dell'età è quasi assolutamente assente il ferro, si raggruppano con le antichità di Tolfa-Allumiere le piú arcaiche tombe a incinerazione scoperte a Palombara Sabina, a Grottaferrata (Boschetto), a Marino (Campofattore), a Bisenzio, ad Anzio. Man mano che, dopo il 1000 a. C., si procede nel tempo, avviene lo straordinario sviluppo delle necropoli dei centri costieri dove si affermerà la civiltà più propriamente etrusca (Vulci, Tarquinia, Cerveteri), e anche di quelle dei territorî più interni sul Tevere (Agri Falisco, Capenate, Veiente). Purtroppo, lo studio delle vestigia funebri non è corroborato da quello delle abitazioni ché poche tracce di capanne furono notate a Monte S. Angelo (Narce) e a Conca, l'antica Satricum; alle quali si aggiungono i resti di un piccolo e modesto villaggio presso Ischia di Castro, più recente delle prime. Ma lo sviluppo delle necropoli, studiato non solo nei grandi centri come Vulci, Tarquinia, Cerveteri, Veio, ma anche nelle dense necropoli falische (Narce, Falerii) e capenati (Leprignano, Castelnuovo di Porto), e in quella di Poggio Montano a Vetralla, offre un quadro sicuro dell'ascensione civile.
I corredi funebri si arricchiscono; i vasi si decorano sempre più con motivi geometrici e infine con figurazioni d'influsso orientale; si moltiplicano le loro forme e anche si usa un impasto più raffinato, rossiccio, accanto al vecchio e rozzo pseudo-bucchero; aumentano gli oggetti d'ornamento, fra cui compaiono ben presto i prodotti esotici importati.
Ma, il fenomeno più rilevante è dato dalla contemporanea apparizione del rito inumatorio in fosse, col cadavere disteso; rito che gradatamente guadagna terreno, fino a diventare, con la fine del sec. VIII e il principio del VII, prevalente e talora esclusivo.
Si distinguono perciò nella bassa Etruria due fasi, caratterizzate dalla diversità del rito prevalente oltre che dal progresso industriale: ma senza scosse o radicali sostituzioni in fatto di civiltà e di popolazione.
Il territorio più propriamente latino presenta anch'esso le due fasi ben distinte: nella prima, col predominio quasi assoluto dell'incinerazione, si ha il massimo sviluppo della civiltà specificamente laziale, o prisco-latina, con una considerevole densità di sepolcreti, e quindi di abitati, specie sui Monti Albani.
Le tombe (in dolî, in semplici pozzetti, in custodie di pietre) contengono materiali di tipo schiettamente indigeno, assai arcaico o primitivo, che si collegano in parte con veri tipi villanoviani, mostrando inoltre rapporti stretti con quelli delle necropoli campane. Vi manca assolutamente la vera urna biconica villanoviana che non oltrepassa Veio, e frequente invece vi si trova l'urna-capanna.
Numerosi i ritrovamenti: nei territorî di Grottaferrata, Marino, Castel Gandolfo, Albano (Vigna Giusti, Villa Cavalletti, Castel de' Paolis, Campofattore, Vigna Tomassetti, Pascolare, Villa Monteverde, Villa Cibo, Vigne Batocchi e Marini, Fontana di Papa), a Lanuvio e a Velletri (Vigna d'Andrea). Lunga durata ebbe certo questa prima fase che può datarsi dal sec. X fin verso la fine dell'VIII, in cui si comincia a notare una trasformazione analoga al fenomeno verificatosi nella bassa Etruria. L'importante sepolcreto di Villa Cavalletti, a Grottaferrata, che in complesso mantiene numerosi gli antichi aspetti, mostra già i segni della novità, indicata dagli oggetti enei di tipo progredito, dalla presenza di stoviglie d'argilla figulina, dai primi prodotti d'importazione oltremarina. Ma la novità è segnata soprattutto dalla pratica del rito inumatorio. Il sepolcreto arcaico dell'Argileto, scavato sapientemente da G. Boni sotto il piano repubblicano del Foro Romano tra il 1902 e il 1911, e nel quale i due riti diversi si mescolano (13 tombe a incinerazione contro 27 a inumazione, più 2 di bambini o suggrundaria) appartiene in gran parte ai tempi di transizione dalla fase più antica alla più recente.
A questa seconda fase appartengono le necropoli romane dell'Esquilino e del Viminale, quelle albane delle Vigne Del Sette, Caracci, Trovalusci, Meluzzi, Limiti, Testa, Cittadini, l'importante sepolcreto della Riserva del Truglio (Marino), le tombe del Campo d'Annibale, di Ariccia, Cecchina, Monte Giove, Pratica di Mare, Ardea, le fosse del sepolcreto di Anzio, e infine, nella pianura pontina, la necropoli di Caracupa.
Le ultime indagini, come hanno potuto provare che nessun seppellimento di tombe avvenne da parte di eruzioni vulcaniche, così hanno pure dimostrato che la trasformazione civile, indicata dal rito mutato e dai corredi progrediti, fu generale anche sui Monti Albani, pur se con qualche ritardo rispetto alle zone della bassa Etruria. E l'aspetto mutato delle necropoli laziali viene a coincidere più o meno con la fase detta "orientalizzante" della civiltà etrusco-italica e con i tempi, quindi, a cui si ascrive la più ricca tomba scoperta in territorio laziale, la tomba Bernardini dí Preneste, ricca di ori, argenti e bronzi artistici (v. etruschi: Arte). Ma gli aspetti meno lussuosi dei materiali laziali, aspetti dovuti allo spirito rude e conservatore del popolo, nonché alle condizioni economiche proprie di agricoltori, dati i riscontri numerosi e stringenti che li legano alle coeve antichità dei territorî situati a nord sulla destra del Tevere, non si oppongono al riconoscimento di una uniformità di cultura, costumanze, riti, esistente in tutta la regione laziale, come è qui considerata: uniformità di vita che sarà la base sostanziale per la rapida conquista di Roma.
Bibl.: G. Pinza, Le civiltà primit. del Lazio, in Bullett. comm. arch. comun. Roma, 1878; id., Monum. primit. di Roma e del Lazio ant., in Mon. Lincei, XV (1905) (opera fondamentale); G. A. Colini, Le antich. di Tolfa e di Allumiere, ecc., in Bull. paletnol. ital., XXXV (1909), pp. 104-149, 177-284; XXXVI (1910), pp. 96-149; id., Necrop. di Poggio Montano (Vetralla), in Notizie scavi, 1914, pp. 297-362; A. Della Seta, Museo di Villa Giulia, I, Roma 1918; U. Rellini, Cavernette e rip. preistor. nell'Agro Falisco, in Mon. Lincei, XXVI, 1924; F. von Duhn, Ital. Graeberk., I, Heidelberg 1924, passim; D. Randall-Mac Iver, Villanovans a. early Etruscan, Oxford 1924; V. Groh, Latium, ecc., in Obzor praehistoricky, III, Praga 1924; U. Antonielli, Appunti di paletn. laziale, in Bull paletn. ital., XLIV (1924), pp. 154-192 (cfr. Notizie Scavi, 1924, pp. 429-506, e Studi Etruschi, I, pp. 5-42); W. R. Bryan, Italic Hut Urns, ecc. (Papers a. Monogr. American Acad. Rome, IV), Roma 1925; L. A. Holland, The Faliscans in prehist. Times (Papers a. Monogr. Amer. Acad. Rome, V), Roma 1925; L. Pareti, Le origini etrusche, Firenze 1926, pp. 254-324; R. Vaufrey, Le Paleolith. italien (Inst. de Paléont. hum., Mém. 3), Parigi 1928, pp. 30, 37-44, 95-98; U. Antonielli, Le orig. di Roma, ecc., in Bull. paletn. ital., XLVII (1927), pagine 166-180; id., Commerci paleogreci nel Lazio vet., ibid., L-LI (1930-31), pp. 189-200; S. Sergi, Antropol laziale (nel vol. Le scienze fisiche e biologiche in Roma e nel Lazio, dell'Ist. di studi romani), Roma 1933.
Storia.
La storia dell'antico Lazio in epoca preromana e romana è in parte svolta alla voce latini; ulteriori notizie, in funzione della storia del nome e delle sorti politico-amministrative della regione sotto Roma, sono date sopra, a pp. 681-682.
Alla fine del sec. VI la Chiesa possedeva, nel territorio press'a poco corrispondente all'odierna regione del Lazio, alcuni dei suoi "patrimonî", ma i diritti della sovranità erano esercitati, nella circoscrizione militare del ducato romano, dall'Impero d'Oriente il cui potere nel ducato declinava nel sec. VIII. Nel 727 l'exercitus, ridotto a forza armata locale e in rapporti economici col pontefice, si ribellava all'imperatore. In quel tempo medesimo (728) il papa otteneva da Liutprando il castello di Sutri e Zaccaria con la convenzione di Terni (742) aveva, tra le altre terre, Ameria, Orte, Polimarzo, e Blera. Queste cosiddette "restituzioni), importavano sulle terre restituite l'accentuarsi del potere pontificio e, in generale, gli attribuivano ufficialmente quel carattere politico che il viaggio di Stefano II in Francia, il conseguimento dell'autonomia tributaria e la donazione di Pipino riconoscevano definitivamente. La Sancta Respublica s'era formata; cominciano ora nel suo interno le lotte tra gli elementi autonomi locali e la volontà sintetica del potere centrale. L'urto si rivela a proposito delle domus cultae (v.), che Zaccaria e Adriano I avevano organizzato numerose nell'agro e che servivano come armatura di sostegno alla signoria della Chiesa, e come punto di partenza per un ingrandimento ulteriore a spese della proprietà privata.
Contemporaneamente allo sviluppo monastico nei sec. VIII e IX, alcune famiglie laiche vanno acquistando potenza. In Roma occupano gli uffici cittadini; nelle campagne s'infiltrano nei chiostri, si impadroniscono dei seggi abbaziali; spadroneggiano nelle città insieme col vescovo, che è ora un potente signore fondiario. Ma in quelle città, numerose specialmente nella Campagna e nella Marittima, vanno mutandosi gli ordinamenti. L'evoluzione rurale vi si ripercuote; il crescente prezzo dei fondi contribuisce alla ricchezza dei grandi proprietarî ed essi si sostituiscono ai nobili, formando a lor volta un'aristocrazia locale. Sono i domini, sui quali il pontefice si appoggerà contro la classe nobiliare durante la lotta delle investiture. Alla fine del sec. XI e più ancora nel XII i papi si dànno con energia a riorganizzare il loro dominio, messo in pericolo da torbidi e ribellioni. Callisto II nel 1120 muove con le armi contro Arnaria e Ticchiena; Onorio II s'impadronisce di Segni, di Trevi e di Maienza, tra il 1125 e il 1126, e incendia Posterzo, Roccasecca, Giuliano, S. Stefano, Prossedi; Eugenio III ricupera Terracina, Sezze, Norma, Fumone.
Come nell'Italia settentrionale, così anche nella regione i comuni e il papa si prestavano aiuto in nome degl'interessi reciproci. Ma non soltanto per mezzo delle forze locali si esercitava il massimo sforzo; ché Alessandro III si giovava anche di elementi estranei, normanni, a soggiogare il Lazio, mentre il card. Giovanni, suo vicario, domava la Sabina ribelle (1165). Dopo la pace di Venezia (1177) anche Cristiano di Magonza veniva a prestare man forte al papa contro Roma e il Patrimonio.
La rivolta del 1143 e la renovatio senatus (v. roma: Storia) costituiscono un avvenimento della massima importanza per la storia della regione. Esse servirono a tenere uniti, pur tra i contrasti delle fazioni, gli elementi del governo cittadino, dando loro una nuova unità d' intenti riguardo alla conquista del territorio e una più definita posizione di concorrenza rispetto all'autorità pontificia.
Contro questo forte nucleo di resistenza rappresentato dal comune romano, i metodi di Alessandro III non potevano avere effetti durevoli. Lo provano la reazione dei Romani contro Albano, distrutta nel 1168, le devastazioni dei territorî di Tuscolo e del Lazio (1184), e, soprattutto, le pessime relazioni della città con i successori di quel pontefice.
Una concezione diversa animava però Clemente III in quegli anni di vive preoccupazioni per la perdita della Sicilia, quando concludeva col comune di Roma l'accordo che gli assicurava la fedeltà del senato e l'uso delle milizie cittadine. Nel 1198 il senato cadeva ancor più sotto l'autorità d'Innocenzo III, che faceva sue le pretese di quello sui beni del territorio.
I feudatarî della Campagna, della Marittima e della Tuscia riconoscevano la sovranità pontificia. Viterbo si legava al senato con l'obbligo del tributo e del vassallaggio. La successione di Riccardo dei Conti, fratello del papa, nei nove castelli della frontiera laziale e sabina già della famiglia Poli, creava la signoria familiare del papa. Innocenzo dunque vinceva, e anche la parte democratica, che in Roma adesso era avversa al pontefice, non sembrava temibile. Il parlamento generale di Viterbo (1207) convocato da Innocenzo ad accrescere l'autorità dei rettori, segnalava il consolidamento d'un potere al di là degl'interessi partigiani.
Le provincie divengono adesso, e più ancora con Gregorio X (1271-1276), l'insieme delle terre soggette al rettore. Tra di esse, il patrimonio di Tuscia riceveva da Innocenzo III il primo ordinamento. Il rettore, quando non ne avesse ricevuta espressa limitazione, aveva la somma del potere sovrano che, per il carattere spirituale dell'autorità papale e per assecondare le autonomie locali, veniva così decentrato nelle provincie.
I parlamenti generali erano rari. Per lo più essi erano provinciali, convocati e presieduti dal rettore; e la loro vita era antica, fin dal sec. XI e XII. Ma ora, anche se non si può ancora parlare del parlamento come di un'istituzione definitivamente ordinata nello stato, la potestà a esso attribuita di resistere alle ingiuste pretese del rettore ne faceva un organo di sorveglianza e per questa via lo trasformava vieppiù in un organo amministrativo statale. E poiché del conflitto tra parlamento e rettore, unico giudice era il papa, così gli elementi locali finivano sempre per ridursi sotto l'autoritȧ della Chiesa. Il riordinamento interno era completato dalla delimitazione degli esterni confini dello Stato della Chiesa, fissati a Neuss (8 giugno 1201) e a Spira (22 marzo 1209). Le prepotenze di Ottone IV a Montefiascone, ad Acquapendente, a Viterbo, a Radicofani ecc. erano condannate nella conferma rilasciata da Federico II ad Onorio III riguardo allo stato. La politica innocenziana mostrava i suoi eńetti decisivi sulla posizione del pontefice come signore territoriale. Anche se il senato romano e il papa entravano ancora in conflitto (1229) durante la lotta tra Gregorio IX e Federico II, e se il senato esprimeva la volontà di proseguire per conto proprio la soggezione della Tuscia e del Lazio con la spedizione fino a Montefortino e ad Anagni (1232), il papa non fu più tagliato fuori totalmente dalla politica cittadina. Nel 1232 era anzi invitato a tornare a Roma.
Ma in parte si rinnovava la situazione anteriore a Innocenzo III. Gl'interessi delle città libere, come Viterbo e Corneto nella Tuscia, Tivoli, Velletri, Terracina. e Anagni nella Campagna, nonostante le interne ostilità contro i privilegi del clero, collimavano con quelli del pontefice contro le mire del comune romano. Nemica naturale di Roma era anche la nobiltà feudale delle provincie e perché d'investitura papale e perché bramava l'acquisto delle città.
Gli avvenimenti del 1234 sono sufficientemente chiari: lo sforzo supremo di Roma contro la dominazione pontificia fallì. L'opera di Luca Savelli in Tuscia e nella Campagna si fiaccò contro l'offensiva degli avversarî, forti delle piazze di Radicofani, di Montefiascone, di Viterbo soprattutto e dell'aiuto imperiale. Il papa ricuperava la Sabina e la Tuscia e riceveva l'omaggio del senato (1235).
Il conflitto tra Federico II e Gregorio IX riconduceva il disordine, ma non modificava durevolmente la posizione del pontefice. Poiché, se gl'imperiali invadevano la Sabina e la Tuscia col favore di Viterbo, di Corneto e della fazione ghibellina di Tivoli e nel maggio del 1243 distruggevano Albano, il loro operato gettava presto il discredito sul partito imperiale, dando così la prevalenza ai già potentissimi avversarî che, alla morte di Celestino IV, trionfavano a Roma con l'elezione di Matteo Rosso Orsini a senatore. Così che, morto l'imperatore, si vide come la volontà di dominio del comune romano non servisse ad altro che a stringere intorno al pontefice tutte le forze provinciali. Innocenzo IV ebbe dalla sua, con le città, i Colonna, gli Orsini, i Savelli, i Conti, gli Annibaldi, i Frangipani, i Capocci.
Con Urbano IV le forze locali del Lazio in genere si opponevano a Manfredi; e la battaglia di Tagliacozzo risollevava le sorti del partito pontificio, scosso dai torbidi democratici del 1267 e dal governo di Angelo Capocci e di Arrigo di Castiglia in Roma, con il conseguente assoggettamento della campagna.
Col tramonto della potenza del papato e dell'impero, anche il potere temporale pontificio prendeva una più decisa fisionomia e si riduceva a un'espressione politica regionale più concreta. Tale appare lo Stato della Chiesa alla coronazione di Gregorio X (1272), rafforzato dal ristabilimento del feudo di Sicilia, allietato dal favore di Rodolfo d'Asburgo. A Nicolò III Rodolfo rinnovava, il 4 maggio 1278, i trattati di Losanna che confermavano lo stato. Il 18 luglio 1278 una costituzione pontificia escludeva dalle cariche pubbliche di Roma gli stranieri, compreso Carlo d'Angiò, ristabilendo su esse, cioè praticamente sulla nobiltà, il controllo del pontefice. Finalmente la pace tra Rodolfo d'Asburgo e Carlo d'Angiò (1280), conchiusa sotto gli auspici del papa, toglieva i pretesti alle lotte interne e l'aiuto straniero alle fazioni. Il pontefice può dirsi ora veramente un monarca. La politica favorevole alla formazione della potenza principesca della propria famiglia, intrapresa da Innocenzo III, era ripresa da Nicolò III con la concessione del castello di Soriano al fratello Orso.
Il ritorno della potestà senatoria a Carlo d'Angiò, lo stabilimento del suo conte a Tivoli, dei suoi vicarî a Barbarano, Vitorchiano, Monticelli, Rispampano, Civitavecchia; la deviazione, insomma, dalla politica di Nicolò, operata da Martino IV, era annullata dai Vespri Siciliani e dalla strage di Forlì (1282). Onorio IV e Nicolò IV seguitarono la via del grande predecessore.
Ma più di tutti Bonifacio VIII (1294-1303) si adoperò alla costruzione dello stato. In nome degl'interessi di questo e insieme della sua famiglia (Caetani), nulla tralasciò per abbattere i più forti antagonisti, i Colonna (v. bonifacio viii; colonna, X, p. 849 segg.). Tuttavia la politica nepotistica del papa, a cui fa riscontro l'aperto favore concesso alla classe popolare nei comuni regionali, se rappresentava un buon mezzo di semplificazione del governo col riunire in poche mani dominî vastissimi, aveva il proprio punto debole nella mancanza di continuità dovuta al carattere elettivo del pontificato.
Con Clemente V (1305-1314) che conservava in Roma, a prova della posizione conquistata, la potestà senatoria, s'iniziava quel papato avignonese che doveva contribuire, in un primo tempo, al decadere dell'autorità del pontefice sul Lazio oltre che sulle altre regioni dello Stato della Chiesa. È vero però che con lo spezzamento delle classi nobiliari, logoratesi in lotte continue, l'autorità e il potere dei papi dovevano riprendere novello vigore.
Il popolo vedeva di mal'occhio il predominio dei Colonna e degli Orsini; e tormentato dalla crisi economica, pronto a volgersi favorevole a Enrico VII prima, poi a Luigi di Baviera, finiva per desiderare il ritorno del papa Giovanni XXII (nel 1326 e specialmente nel 1329). Neppure il malgoverno dei rettori guasconi e francesi fu bastevole a coinvolgere nell'indignazione provinciale contro di essi anche la persona del pontefice. La forza politica del quale si fa ancora più sensibile con Benedetto XII (1334-1342), e per il tramontare di quella che Roberto d'Angiò aveva sino allora avuto in Roma, e per il dominio sulla parte democratica dimostrato con l'elezione senatoria di Tebaldo di S. Eustachio e di Martino Stefaneschi. Il papa era ormai il solo capace di restituire l'ordine alla città, e dalla città all'intera regione. Con Clemente VI (1342-1352) i nobili patirono la soppressione del senato e il governo dei Tredici. Il tentativo medesimo di Cola di Rienzo rappresentava, nel quadro della crisi nobiliare italiana, la crisi della nobiltà locale. Il papato era veramente il solo che si sarebbe giovato di quell'editto di restituzione dei diritti sovrani a Roma per cui le terre della Campagna e della Marittima, della Sabina e della Tuscia romana si riconoscevano vassalle della città. Così doveva essere anche di ogni altro atto o azione che riunisse vieppiù a Roma le terre circostanti.
L'opera dell'Albornoz in Sabina e in Tuscia, era la logica conseguenza di quegli avvenimenti, così nella generale opera di riordinamento come nella politica favorevole alla democrazia comunale e nell'esclusione della nobiltà locale dagli uffici della repubblica.
In definitiva, quando Roma venne a trovarsi al centro di una rete che, amministrativamente, le dava le redini dell'intera regione, popolo e nobiltà si erano, lottando, distrutti scambievolmente le forze e si erano resi inetti al governo della città e al predominio sullo stato. Il pontefice capì che l'ora era decisiva per il dominio temporale e tornò, circondato dal favore di tutta l'Italia (1377).
I disordini che caratterizzarono gli anni dello scisma non furono sufficienti a demolire la monarchia pontificia. Alla soppressione dei ribelli bastò a Bonifacio IX l'aiuto di re Ladislao. E i provvedimenti del 1398, che esautoravano le corporazioni e al governo riponevano il senatore forestiero e i tre conservatori della camera civica; la vittoria di Onorato conte di Fondi, signore della Campagna e della Marittima (1399); l'armistizio chiesto da Giovanni di Vico (1399); la crociata e la sottomissione dei Colonnesi; quella di Viterbo; infine il favore degli Orsini e dei Caetani e la potenza creata ai nipoti, dimostravano chi fosse veramente il più forte. Certo, anni non lieti furono quelli di Innocenzo VII (1404-1406) e di Gregorio XII (1406-1417), soverchiati dalla potenza del re di Napoli. Ma se le terre della provincia si legavano sempre al più forte e permettevano l'entrata nel Patrimonio alle truppe di Ladislao, altrettanto si mostravano arrendevoli verso Alessandro V (1409-1410) quando venne, sorretto dall'esercito federale: Viterbo, Montefiascone, Corneto prestamente si arresero.
Mai come ora, specialmente da Martino V in poi (1417-1431), la lotta per il predominio fu questione di prevalenza militare. Entrano in scena, come elemento decisivo, le milizie mercenarie. L' azione energica del Vitelleschi prima, poi dello Scarampo, riaffermava i diritti pontifici. Per primo il prefetto di Vico, che resisteva in Vetralla, scontò con la morte le lunghe ribellioni della famiglia che si estingueva con lui. Antonio di Pontedera era vinto a Piperno e poi giustiziato. I Colonna vedevano l'incameramento dei loro beni di Palestrina, Zagarolo, Gallicano, Castelnuovo, Civitalavinia, S. Giorgio, Passerano e S. Pietro in Formis. Nicolò V (1447-1455) e Pio II (1458-1464) coronavano l'opera; quest'ultimo, specialmente che, per mano di Federico d'Urbino, assoggettava la Sabina e vedeva con la capitolazione di Palombara la decadenza dei Savelli e il Piccinino cacciato da Alessandro Mirabelli, dallo Sforza e da Federico. Con la vittoria di Paolo II (1464-1471) sugli Anguillara la Chiesa diventò signora di tutto il Patrimonio.
Dal sec. XVI in poi vengono meno gli elementi che hanno permesso di tracciare, fino a tale epoca, una storia del Lazio. Il quale, se ha qualche carattere comune nella vita delle sue città e nel comportamento delle sue aristocrazie, deve però la sua individualità storica alla pressione che forze esteriori ed extra-regionali, principalmente il papato, esercitarono sugli elementi locali e centrifughi. Questo contrasto costituisce la storia dell'odierna regione; cessato, gli avvenimenti che nel Lazio seguirono devono riferirsi, per il loro significato storico, alla vita dello Stato della Chiesa, o, addirittura, d' Italia.
Rimane soltanto da accennare a una certa unità nei caratteri economici e nella condizione delle terre. L'economia del Lazio, che conobbe soltanto piccole e magre industrie, dipende quasi totalmente dall'agricoltura. Lo stato dei terreni era, da secoli, miserrimo; le vaste plaghe malariche, le pestilenze, i saccheggi, gli arbitrî dei potenti, avevano provocato lo spopolamento delle campagne. Alla decadenza delle colture contribuivano anche la distribuzione della terra tra pochi latifondisti, il loro disinteresse per le opere agricole, la scarsezza dei capitali. Le terre, anche quelle un tempo fertili, come ad es. l'agro cornetano, si trasformavano in pascoli.
Leggi che tentassero di rimediare a questi mali non mancarono. Sisto IV emanava una costituzione (i marzo 1476) per incoraggiare i coltivatori del territorio di Roma, del Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, della Campagna e Marittima; e altrettanto faceva Clemente VII (i agosto 1524). Ma il male era profondo e qualche volta peggiorato dai provvedimenti stessi dell'autorità, come quando, per rimediare alla miseria crescente, si obbligavano i proprietarî a vendere il grano sotto costo, o quando se ne proibiva il libero commercio e l'esportazione per evitare le frequenti carestie, danneggiando così ancor più coloni e proprietarî e svalutando i terreni.
Le tristi condizioni delle classi agricole inceppavano il funzionamento degli uffici della Camera e dell'Annona ordinati sotto Clemente X (1670-1676) a istituti di credito agrario.
Un certo sollievo portò la legge di Clemente XI (2 aprile 1719), che permise la vendita del grano fuori dello stato; e con Pio VII l'agricoltura ebbe qualche giovamento dai nuovi provvedimenti diretti a stabilire nell'Agro il sistema della colonia, a concedere facilitazioni e a dare incoraggiamenti all'agricoltura (Motu proprio 24 marzo 1804).
Ma il problema più grave era costituito dalle vaste plaghe malariche. Già Pio VI aveva cercato di provvedervi; ma i buoni risultati del Motu proprio del 14 gennaio 1777 si perdevano per l'indolenza dei successori. Dopo l'unificazione del regno, Vittorio Emanuele II, con decreto del 20 novembre 1870, istituiva una Commissione per gli studî e per le proposte di provvedimenti utili al bonificamento e all'irrigazione dell'Agro; e nel 1878 una legge stabiliva l'inizio della bonifica.
Un deciso impulso a quest'opera è stato dato di recente dal governo fascista, col perfezionamento e col completamento della legislazione in materia di bonifiche. Si è cominciato con i decreti del 17 dicembre 1922, che costituivano i Consorzî obbligatorî di bonifica agraria nelle diverse zone dell'Agro Romano, e si è seguitato di poi con altri provvedimenti che hanno trovato pronta attuazione. Il ritmo dei lavori si è andato sempre più accelerando anche in riguardo alle Paludi Pontine, sulle quali è fiorita in tempo brevissimo Littoria, nuovo centro di vita agraria.
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Arte.
Antichità. - Al passaggio dalla protostoria alla storia e per i primi secoli dell'età storica, la civiltà prevalente nel Lazio è l'etrusca, che ha il suo centro di fioritura a settentrione del Tevere, dove le più notevoli reliquie di essa si trovano a Vulci, Tarquinia, Cerveteri, Veio, e nell'agro falisco, direttamente sotto l'influenza etrusca, ma i cui riflessi si colgono copiosi anche nelle terre a mezzogiorno del fiume, specie in alcuni centri, come Preneste, e a Roma stessa. Fuori della cultura etrusca restano i paesi dei Volsci e degli Ernici, dove monumenti insigni del periodo anteriore all'affermarsi della civiltà romana sono le potenti cinte poligonali di Segni, Norma, Ferentino, Alatri, Arpino, Montecassino.
Perché si possa parlare di arte romana, per quanto essa appaia già pervasa da derivazioni ellenistiche, occorre scendere al principio del sec. I a. C., all'età sillana. È in questo tempo una fervida attività edilizia per tutto il Lazio: i templi più venerati a Preneste (Fortuna), a Tivoli (Ercole, e templi detti di Vesta e della Sibilla), ad Anxur-Terracina (Giove), a Gabi (Giunone), a Lanuvio, a Cori vengono ora rinnovati e ampliati: in gran parte a questo stesso periodo appartengono, almeno nello stato in cui ci sono pervenuti, i molti ponti dell'Etruria meridionale (ponte di Bieda, ponte dell'Abbadia presso Vulci), e del Lazio (ponte di Nona sulla via Prenestina). Dell'ultimo secolo repubblicano sono le prime ville superstiti della campagna, che massima diffusione e splendore acquisteranno nell'impero, quando la città popolosa e affaccendata farà più che mai sentire vivo il bisogno del riposo sui colli e sul mare.
È d'altro lato l'età imperiale quella che naturalmente ha lasciato nelle città: a Ostia, a Tuscolo, a Boville, e in alcune delle città etrusche, risorte a nuova vita, come Cerveteri e Veio, ma soprattutto nelle campagne del Lazio le maggiori vestigia: dalle strade, che, se pur di origine antica, subirono nell'impero molteplici rifacimenti e restauri e sui fianchi delle quali si allineavano sepolcri pagani e catacombe cristiane, agli acquedotti recanti a Roma le acque dei Colli Albani e dei monti tiburtini, dai porti di Ostia e di Terracina alle ville, sia quelle imperiali di Adriano nell'agro tiburtino, di Domiziano sui monti albani, di Augusto a Prima Porta sulla via Flaminia, dei Gordiani sulla via Prenestina, di Nerone ad Anzio e a Subiaco, sia quelle di privati cittadini, di cui particolarmente ricchi erano naturalmente i luoghi più favoriti dalla natura: le spiagge di Laurento, di Anzio, di Formia, i Colli Albani, i monti di Tivoli e della Sabina.
Né possono dimenticarsi i residui più modesti dal punto di vista monumentale, ma non meno significativi a compiere il quadro della vita intensa data e riflessa da Roma alla regione a lei più vicina: opere di drenaggio e di raccolta delle acque, piccole fattorie agricole, umili sepolcreti che hanno resistito alla distruzione del tempo e degli uomini, ma di cui non sempre è facile determinare con precisione l'età in cui sorsero: ché i più semplici e più comuni sistemi costruttivi sfuggono ad ogni determinazione cronologica, quando non soccorrano altri elementi.
Col trionfo del cristianesimo sorgono sulle cripte cimiteriali e nelle città le basiliche: più tardi edifici pagani vengono adibiti al culto cristiano: numerosissimi le une e gli altri a Roma, possono ricordarsi fuori di questa S. Maria della Stella e la Rotonda di Albano, le cattedrali di Palestrina e di Terracina, ecc.
Medioevo ed età moderna.
Nel Medioevo, mentre Roma lo irradiava della sua arte, il Lazio ebbe anche altri minori centri di attività, non dipendenti in tutto da Roma, o perfino estranei alle sue tradizioni: i quali a lor volta estesero all'intorno la propria influenza su aree ben distinte. A intervalli, l'operosità artistica divenne intensa in alcune delle città laziali - a Tivoli, ad Anagni, a Tuscania, a Viterbo -; fu più continua, se pur talvolta ristretta alle arti minori, nei grandi monasteri sparsi nella regione: a Subiaco, a Farfa, per ricordarne i più celebri; e i monasteri furono tramite a relazioni d'arte remota, come attestano i monumenti della badia greca di Grottaferrata, e quelli delle filiazioni di Cîteaux, a Fossanova, a Casamari, a S. Martino al Cimino.
L'architettura rende manifesta la prevalente diffusione dell'arte medievale romana nel Lazio e quanto sia stata limitata e contrastata qua e là da altre correnti. Per il periodo più antico, le pratiche fossorie delle catacombe di Roma si ritrovano nei cimiteri cristiani sotterranei della regione (Albano, Bolsena, Nepi, Sutri, ecc.); le comuni forme basilicali, nei ruderi di S. Agapito a Palestrina, in quelli della basilica di Pammachio a Porto, non senza particolarità icnografiche.
Procedendo nel Medioevo, anche a non ammettere del sec. VIII le parti più antiche del S. Pietro a Tuscania - le ultime campate verso l'abside e questa, attribuite perfino al secolo XII - bisogna riconoscere in esse il primo spiegarsi della penetrazione di quell'architettura "lombarda" che nell'Alto Lazio contrastò l'influenza di Roma, lasciandovi grandi monumenti in tutto diversi dalle coeve basiliche romane nella decorazione e nella struttura, spesso in vòlte su costoloni e su pilastri (Montefiascone, San Flaviano; Tarquinia, S. Maria di Castello, ecc.; Viterbo, San Sisto), oppure mescolandosi con le forme romane (Castel S. Elia, S. Elia; Viterbo, S. Giovanni in Zoccoli, S. Maria Nuova, duomo, ecc.). D'altronde, sui limiti settentrionali del Lazio, s'intrecciarono nell'architettura e nella decorazione anche altre correnti: lo dimostra in modo cospicuo la facciata (sec. XIII) di S. Pietro a Tuscania, dove il portale maggiore fu composto da un marmoraro romano, la parte superiore centrale da un maestro umbro, a giudicare dallo stile, e nelle arcature dei lati riecheggiano modi pisani. Anche nel Lazio meridionale, ma assai meno, vi furono infiltrazioni lombarde (Anagni, absidi del duomo), e inoltre dalla Campania (Terracina, campanile del duomo). Nello stesso tempo, i maestri romani, che davano per tutto portali, pavimenti, suppellettili marmoree, affermavano anche la propria architettura in campanili (Albano, Ninfa, Tivoli, Palestrina), in chiese minori (Orte, S. Silvestro; Palombara, San Giovanni in Argentella; Tivoli, S. Andrea) e trionfalmente a Civita Castellana nell'atrio del duomo, di Iacopo di Lorenzo "civis romanus" e del figlio Cosma; a Subiaco, nel chiostro di S. Scolastica, di questi stessi marmorari e di Iacopo e di Luca figli di Cosma; a Terracina, nell'atrio della cattedrale.
Intanto i cisterciensi importavano nei proprî monasteri le forme gotiche di Borgogna: prima a Fossanova, nella regione pontina, e a Casamari, le cui grandi chiese furono consacrate nel 1208 e nel 1217, poi a S. Martino al Cimino presso Viterbo. E nelle loro costruzioni si educarono al nuovo stile le maestranze locali, come provano la badia di Valvisciolo, le chiese di Amaseno, di Ferentino, di Piperno ma soprattutto l'architettura gotica viterbese dei secoli XIII e XIV.
Il bel tufo poroso di cui i costruttori romanici di Tarquinia e di Tuscania avevano formato massicce torri e grevi vòlte, non consentiva finezza d'intaglio: e fu modellato dai lapicidi gotici viterbesi in sagome robuste, a ornati in vigorosi contrasti d'ombra e di luce, bene consoni al senso pittorico dell'architettura, gotica ma distinta da caratteri proprî, che ha lasciato a Viterbo il palazzo e la loggia papale (1266-1268), case in cui il tipo delle costruzioni rustiche con scala esterna è raffinato squisitamente a dimora signorile, fantastiche fontane - su tutte la "grande" (1279) e quella di Pianoscarano -, chiostri fioriti di trafori nelle arcate come quello di S. Maria della Verità. A Vitorchiano, a Tuscania, a Tarquinia operavano le medesime maestranze viterbesi, mentre l'architettura gotica si improntava in vario modo ad Anagni, nel palazzo di Bonifacio VIII e nel palazzo del comune, a Subiaco nelle pittoresche costruzioni del Sacro Speco.
Nella scultura e nella pittura medievale il predominio di Roma nel Lazio fu quasi senza contrasto. Non differiscono da quelli di Roma i marmi decorati a ornati piatti - transenne, frammenti di ciborî, ecc. - la cui data non è sempre accertabile più che tra lati termini, dal sec. VII al XI: a Bolsena, a Civita Castellana, a S. Elia di Nepi, a S. Oreste al Soratte, a Subiaco, a Tuscania, per rammentarne alcuni. Dal sec. XI al XIII i marmorari romani provvidero tutto il Lazio di opere d'ogni genere: mosaici di pavimenti, amboni, ciborî, portali; e la loro attività non si può ricomporre senza le grandi opere sparse nella regione: a Tarquinia, dove lavorarono i discendenti del marmoraro Ranuccio (S. Maria di Castello); a Santa Maria di Falleri e nella cattedrale di Civita Castellana, decorate da Lorenzo e dai suoi discendenti; ad Anagni, coi pavimenti di maestro Cosma e dei figli, con la cattedra episcopale del Vassalletto, in duomo; a Ferentino, col ciborio di maestro Drudo; a Viterbo, con le tombe papali del S. Francesco tra cui quella di Adriano V è probabile opera del fiorentino Arnolfo allora nel suo periodo romano. Pure, anche nella scultura si trovano nel Lazio le tracce dell'opera di maestri non romani: lombardi, a Montefiascone, a Nepi, a Capranica, e altrove; umbri a Tuscania e a Tarquinia; campani a Terracina, nell'ambone del duomo. Un gruppo a sé, che finora non ha riscontro in Roma, ma invece ha rapporti con la vasta scultura romanica e del sec. XIII, formano le statue lignee di Acuto (Roma, Palazzo Venezia), del duomo di Alatri, di S. Maria in Volturella presso Tivoli, e la Deposizione della cattedrale di Tivoli, capolavoro di una produzione che fu probabilmente molto attiva e della quale il Toesca ha ritrovato altri saggi nel Museo di Cluny a Parigi.
La pittura nel Lazio dipese tutta da Roma. Questo si vede fin nei rari suoi più antichi avanzi: negli affreschi delle catacombe di Albano, dei ruderi di S. Martino a Farfa, nel Sacro Speco di Subiaco (Madonna). Dal sec. XI al principio del secolo XIV tutti i suoi maggiori monumenti (a non ricordare i dipinti più scadenti, come quelli di Rignano Flaminio in S. Abbondanzio, di Magliano Pecorareccio, di Vallepietra) hanno luce quando siano inseriti fra i romani, la cui serie essi integrano in modo necessario. Alla scuola pittorica, che ha lasciato i suoi capolavori negli affreschi dell'antica chiesa di San Clemente al Celio (fine del sec. XI), sono da riferire i dipinti del presbiterio di S. Pietro a Tuscania e, nella cattedrale di Tivoli, il trittico del Salvatore (usavano nel Lazio grandi iconi del Redentore su tavola, forse processionali; e del secolo XIII ne restano a Sutri, a Tarquinia, a Trevignano), ch'è tra le cose più ammirevoli e più originali della nostra pittura medievale; gli affreschi (fine del secolo X) di San Sebastiano sul Palatino preparano la maniera dei fratelli romani Giovanni e Stefano che affrescano, col nipote Niccolò, nella chiesa di Sant'Elia presso Nepi, poi seguiti con lunga tradizione, fino al secolo XIII, dai pittori del San Silvestro a Tivoli, e da quello della parte absidale della cripta della cattedrale di Anagni. Questi affreschi di Anagni, da attribuire alla metà del sec. XIII, occupano davvero il centro dello sviluppo della pittura a Roma nel Duecento, perché in quella parte dipendono dal passato, in altra mostrano il ristagno della maniera bizantineggiante, come gli affreschi dell'oratorio dei Ss. Quattro Coronati in Roma ma in altra più nuova (da unire ai dipinti della cappella di S. Gregorio, nel Sacro Speco di Subiaco) manifestano un ben diverso apprendimento dei modi bizantini, così da preparare l'arte di Iacopo Torriti e di Pietro Cavallini: e già il puro stile bizantino si era affermato nel mosaico dell'arco trionfale (fine del secolo XII) della chiesa di Grottaferrata. Poi, immediati riflessi dell'arte del Cavallini, per opera di un suo seguace, si trovano nel vasto ciclo di affreschi a S. Maria di Vescovio presso Stimigliano.
Nel Trecento diminuì gravemente anche nel Lazio, come a Roma, l'attività artistica e il suo valore. In più luoghi la vita municipale e gli ordini monastici sostennero ancora l'architettura: a Viterbo, a Tarquinia, a S. Martino al Cimino, nei monasteri di Subiaco, a Velletri, ad Alatri. A Viterbo, come altrove, si vedono persistere le precedenti tradizioni locali, specialmente nelle costruzioni civili, ma vi appariscono anche influenze dell'architettura gotica senese (campanile della cattedrale; porta di S. Maria della Salute). Notevoli i resti di rocche e di castelli, poi in gran parte ampliati o ricostruiti (Bolsena; Castel S. Pietro di Palestrina; Sermoneta). La scultura non ha lasciato nessun monumento importante: è di un mediocre decoratore, attardato, anche la tomba del generale dei minori, fra Marco, morto nel 1369 (Viterbo, S. Francesco). La pittura, finito l'ultimo seguito del Cavallini (Anagni, Madonna, duomo: del 1325), se s'innalzò qualche volta dalla produzione dozzinale di affreschi votivi, fu specie per influssi dell'arte senese, alla quale appartenne quel Matteo Giovannetti da Viterbo, operoso nel palazzo papale di Avignone. Negli affreschi che rivestono le chiese e gli anditi del Sacro Speco di Subiaco le parti più antiche, di un maestro Consolo e di altri pittori romani, ricordano ancora il Cavallini e Cimabue; la decorazione dell'intera chiesa superiore, e le altre parti ad essa affini, in cui la curiosità iconografica non basta a nascondere l'incapacità di espressione artistica, sono prodotto di carattere popolare con larghe influenze senesi.
Il Rinascimento, mentre aprì il Lazio a nuovi rapporti, specialmente con la Toscana e con l'Umbria, ridiede a Roma la sua funzione, poi non più interrotta, di essere il massimo centro incitatore dell'attività e delle opere d'arte in tutta la regione. In parte del sec. XV l'architettura si mantenne nelle forme gotiche, risentendo anche del complesso goticismo meridionale, come si vede nel palazzo del cardinale Giovanni Vitelleschi (1439) a Tarquinia, e più tardi in parti del monastero di S. Scolastica a Subiaco. Ma già nella porta maggiore del palazzo Vitelleschi, nella decorazione donatellesca e nella forma, si afferma la nuova arte che, richiamata a Roma dall'intensa ripresa di lavori promossi dai papi, trovò presto anche nel Lazio molte occasioni di operare in ogni modo, e soprattutto nell'architettura, per i comuni, per i signori, per i pontefici. Tra le nuove costruzioni sacre primeggiano il tempietto ottagono di Vicovaro, iniziato goticamente da Domenico di Capodistria, S. Maria della Quercia presso Viterbo, fondata nel 1470, l'elegante piccola chiesa presso la rocca d'Ostia, la facciata di S. Cristina a Bolsena; tra castelli e rocche, il castello degli Orsini a Bracciano, la rocca di Tivoli, la rocca d'Ostia di B. Pontelli, la fortezza di Civita Castellana iniziata coi bastioni e col grande cortile da Antonio da Sangallo il Vecchio per Alessandro VI, compiuta da Giulio II: grandi opere cui s'accompagnano molte altre minori costruzioni, improntate tutte al Rinascimento. Anche nella scultura durarono alquanto gli ultimi strascichi gotici nell'opera di umili lapicidi (Capranica, S. Francesco: mausoleo Anguillara; Vicovaro, tempietto: statuette del portale); poi si diffuse generosamente il Rinascimento: terrecotte robbiane ornarono la cattedrale di Montefiascone, la tomba di S. Cristina a Bolsena, a Viterbo la chiesa di S. Maria della Quercia; questa ebbe da Andrea Bregno il grande tabernacolo, da altri scultori lombardi i portali; e già (circa il 1464) Giovanni Dalmata aveva scolpíto la grande lunetta del tempietto di Vicovaro. La pittura della prima metà del sec. XV fu molto attiva nel Lazio per opera di modesti decoratori, dipendenti soprattutto dall'arte umbro-marchigiana (affreschi di Pietro Coleberti da Piperno, a Roccantica; di anonimi nel palazzo Vitelleschi di Tarquinia, nella SS. Annunziata a Cori, a Subiaco nel Sacro Speco e in S. Scolastica; trittico di Antonio da Alatri, ad Alatri), tra cui si distingue l'autore degli affreschi della SS. Annunziata (1422) a Riofreddo, attribuiti a Piero di Domenico da Montepulciano, e quello di alcune figure nella SS. Annunziata di Cori. Lo stesso Gentile da Fabriano aveva lasciato a Velletri (Museo della cattedrale) non soltanto una opera, ma un seguace, Lello di Velletri, non troppo mediocre (polittico nella Galleria di Perugia). Intanto incominciarono a diffondersi anche nel Lazio, dalla Toscana e da Roma, opere della pittura rinnovata: Filippo Lippi dipingeva (1437) per il cardinale Vitelleschi una mirabile Madonna (Tarquinia, museo); Benozzo Gozzoli eseguiva (1453) in Santa Rosa a Viterbo affreschi, poi distrutti, inviava opere a Sermoneta, a Piperno; da Siena giungevano dipinti di Sano di Pietro a Bolsena, a Civita Castellana, a Tivoli. Gli affreschi delle cappelle dell'isola Bisentina nel lago di Bolsena sono in tutto prossimi al Gozzoli; quelli (1469) del viterbese Lorenzo di Iacopo in S. Maria della Verità a Viterbo rivelano un maestro educato anche all'arte di Piero della Francesca e di Melozzo da Forlì. Poi, neglì ultimi decennî del sec. XV, prevalsero le influenze della scuola umbra, cui è da associare Antonio da Viterbo (suoi affreschi nel duomo di Tarquinia, a Montefiascone, ecc.) e della umbro-romana: Antoniazzo lavorava per Subiaco (S. Francesco, 1467) e per altri luoghi del Lazio, affrescava con aiuti nel castello di Bracciano e nel San Giovanni a Tivoli, dove forse egli stesso si elevò più in alto, ma non ad uguagliare Melozzo da Forlì. L' architettura del Cinquecento nel Lazio, assai più che chiese, costruì fortezze, palazzi e ville, promossa dai pontefici e dai signorì con l'opera degli stessi maestri che li servivano a Roma.
Tra i palazzi, i più singolari e grandiosi sono il castello del cardinale Alessandro Farnese a Caprarola (v.), secondo il Vasari disegnato come fortezza da Antonio da Sangallo il Giovane, ma "nato dal capriccio" del Vignola; quello del cardinale Ippolito d'Este a Tivoli, costruito da Pirro Ligorio; la villa Mondragone a Frascati; e intorno a queste e ad altre minori costruzioni, come la villa Lante a Bagnaia presso Viterbo, l'arte dei giardini compose miracoli di macchie d'alberi e di giuochi d'acque. Ma sono pure da ricordare, tra gli edifici minori, i palazzi farnesiani di Gradoli e di Capodimonte sul lago di Bolsena, il palazzo Orsini di Bomarzo, il palazzo ducale di Gallese. Tra le costruzioni militari sono importanti la fortezza di Civitavecchia, iniziata per Giulio II da Antonio da Sangallo il Giovane, e il maschio della fortezza di Civita Castellana.
La pittura e la scultura del sec. XVI hanno nel Lazio soltanto due capolavori, oltre qualche opera che segna il passaggio di qualche artista (del Pordenone ad Alviano, di fra Bartolomeo a S. Andrea de flumine, presso Nazzano): la grande marmorea Pietà di Michelangelo nel sepolcreto dei Barberini in S. Rosalia a Palestrina, la Pietà di Sebastiano del Piombo, ora nel museo di Viterbo; ma schiere di stuccatori e di pittori, tra cui primeggiavano F. e T. Zuccheri, ornarono ville e palazzi, a Caprarola, a Tivoli e altrove.
Ugualmente, dal sec. XVII in poi l'arte nel Lazio s'irradiò tutta da Roma. Ricordiamo per l'architettura le ville di Frascati - Aldobrandini, Falconieri, Lancillotti, Rufinella -, il palazzo papale di Castel Gandolfo, il palazzo Doria a Valmontone; le chiese dell'Ariccia, di Castel Gandolfo, di Galloro, il duomo di Frascati, la facciata del duomo di Sutri; le costruzioni di Leone XIII a Carpineto Romano, ecc. Mentre non mancavano artisti della provincia come F. Romanelli (che d'altronde operò tanto lontano), i pittori che lavoravano a Roma mandarono opere, o eseguirono affreschi, per tutto il Lazio: il Domenichino, G. Reni, M. Preti, il Berrettini, L. Maratta, A. Pozzo, il Ghezzi, ecc.; né altrimenti gli scultori, dal Bernini coi suoi scolari al Canova.
Nei tempi più recenti, ora superati, l'attività artistica nel Lazio non ha avuto uno sviluppo comparabile al passato: e questo ha contribuito a conservare alle città e ai borghi della regione quella impronta d'arte che vi è intimamente segnata, talora in grandi linee come nel quartiere medievale di Viterbo o nello scenografico impianto (sec. XVIII) di Genzano, più sovente nel sovrapporsi e nel concorde sussistere di piccole o di grandi tracce del passato, come a Terracina dove sulla platea del foro antico sorge la cattedrale, a Palestrina, dove l'enorme ossatura delle costruzioni classiche è coronata dal palazzo dei Barberini. La nuova attività dell'arte, rispettosa del passato, potrà trovare in avvenire il suo campo sulle nuove libere aree dell'attività nazionale: e già dove le malsane capanne ricordavano il prisco Lazio, o dove il solitario castello segnava l'abbandono, sorge in armonia di vita operosa e di forme Littoria.
V. tavv. LXXIX-XCIV.
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