Spallanzani, Lazzaro
Il padre della biologia sperimentale
Lazzaro Spallanzani, il grande naturalista italiano vissuto nel 18° secolo, s’impose rapidamente per le sue straordinarie capacità di sperimentatore e diventò uno scienziato noto e stimato in tutta Europa. Si occupò di minerali, di vulcani, di piante, di anguille e di pipistrelli, delle funzioni digestive, respiratorie e riproduttive. In quest’ultimo campo fu il primo a effettuare in laboratorio la fecondazione artificiale negli Anfibi e nei Mammiferi
Lazzaro Spallanzani nacque nel 1729 a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia. Primo di nove fratelli, era stato destinato dal padre giurista a studi di legge e poi alla carriera ecclesiastica. A quindici anni per seguire studi classici entrò nel Collegio dei gesuiti di Reggio, dove la sua intelligenza e il suo acume si manifestarono subito, tanto che fu soprannominato dai compagni l’astrologo.
Finì gli studi a Bologna, dedicandosi alla matematica, all’astronomia e alla fisica, che apprese da Laura Bassi, membro dell’Accademia delle scienze e famosa divulgatrice della fisica newtoniana in Italia.
Nel 1754 Spallanzani prese gli ordini minori e iniziò la sua carriera d’insegnante prima di filosofia e in seguito di matematica e fisica. Dato che il padre alla fine gli aveva permesso di rinunciare agli studi giuridici, Lazzaro poté da allora dedicarsi completamente alle sue amate scienze naturali.
Nel 1770, a nome dell’imperatrice austriaca Maria Teresa, fu offerta a Spallanzani la cattedra di storia naturale dell’Università di Pavia. Spallanzani accettò e vi rimase per trent’anni, conducendo una vita molto metodica (esperimenti prima e dopo la messa, lezioni all’università di pomeriggio, stesura di un diario scientifico dopo cena), interrotta da almeno 13 importanti viaggi ed esplorazioni, da cui riportò campioni di piante, animali, minerali, tutti oggetti di studio e di collezione per il Museo di storia naturale della città.
Nel 1772 esplorò le Alpi lombarde e svizzere, nel 1780 visitò Genova, il Golfo di Levante, Marsiglia, Portovenere, dedicandosi alla biologia marina. Nel 1784 partì da Venezia alla volta di Costantinopoli: durante il viaggio la nave rischiò il naufragio e Spallanzani corse il pericolo di essere gettato in mare dalla ciurma perché ritenuto una specie di stregone.
Dopo dieci mesi riprese la strada del ritorno – questa volta via terra – ma, giunto a Vienna, venne a sapere che un suo collaboratore lo aveva accusato del furto di alcuni reperti dal Museo di Pavia (pesci, serpenti, un armadillo). Le dichiarazioni di costui inoltre erano state confermate da alcuni colleghi di Spallanzani: ne nacque una accesa disputa conclusasi con la completa discolpa dello scienziato.
Rientrò quindi a Pavia con un resoconto del viaggio in cui riferiva degli aspetti naturali e antropologici, biologici e geologici che lo avevano colpito oltre che con molti oggetti curiosi e interessanti, alcuni dei quali (vestiti, mobili, reperti naturalistici) sono ancora oggi visibili nel Palazzo dei Musei di Reggio Emilia, dove si trova una parte della prestigiosa Collezione Spallanzani.
Dopo un periodo di sosta, Spallanzani fece un importante viaggio in Italia meridionale (1788) di cui ci ha lasciato una straordinaria opera naturalistica: Viaggio alle due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino (1792) dove, tra l’altro, confronta il Vesuvio all’Etna: «Quantunque il Vesuvio debba dirsi un insigne vulcano […] pur nondimeno ove vogliasi all’Etna paragonare, perde assaissimo di sua fama e si rimpicciolisce di guisa che oserei quasi nomarlo un vulcano da gabinetto (nel senso di salottino) […] la bellezza e la grandiosità del vulcano etneo, la sublime sua elevatezza […] hanno invaghito i curiosi di ogni età a salirlo e contemplarlo». Otto anni dopo il suo giro tra i vulcani, Spallanzani si ammalò di un tumore alla vescica, ma rimase attivo fino alla fine (morì a Pavia nel 1799). Secondo l’abitudine del tempo, data la fama dello scienziato, ne fu eseguita l’autopsia e tuttora la sua vescica e l’uretra si conservano nel Museo per la storia dell’Università di Pavia.
Voltaire considerava Spallanzani «le meilleur observateur de l’Europe» («il più grande osservatore scientifico d’Europa»). Per capire la grandezza e l’originalità di Spallanzani occorre ricordare che il 18° secolo – il secolo dell’Illuminismo, dell’Enciclopedia e della Rivoluzione francese – vide l’affermarsi della scienza in tutto il mondo. Anche nelle scienze naturali si moltiplicavano le ricerche per trovare sui vulcani, sul tavolo di dissezione dell’anatomista, attraverso la lente di un microscopio, le risposte ai tanti perché della natura. È in questo variegato panorama che deve essere inserita l’attività di Spallanzani, in parte astrologo e in parte scienziato moderno.
Dal 1760 per il nostro abate inizia infatti il periodo degli esperimenti che lo resero ovunque celebre: osservò al microscopio gli «animaletti delle infusioni» (Protozoi Infusori), passando poi agli studi riguardanti la rigenerazione animale, la circolazione del sangue, la digestione, la riproduzione, la respirazione, l’orientamento nei pipistrelli, la migrazione delle anguille, e ad altri ancora portati avanti con un acume e un fiuto sperimentale da lasciare sbalorditi. È impossibile parlare di tutte le sue imprese scientifiche, ma tra le tante brillano le scoperte sulla fecondazione negli animali e, per cominciare, su quella degli Anfibi.
Ai tempi di Spallanzani non era stata ancora chiarita la funzione svolta nella riproduzione dalle uova e dagli spermatozoi. Si parlava, per esempio, di «animaletti spermatici» per indicare le cellule (gli spermatozoi) talvolta osservate al microscopio e nuotanti nel liquido spermatico, ma a cosa queste servissero nessuno lo sapeva esattamente. René-Antoine de Réaumur, grande naturalista francese, da anni cercava per esempio di comprendere la funzione dello sperma negli Anfibi, peraltro senza mai riuscire a raccoglierlo. Attorno al 1735 Réaumur pensò quindi di cucire dei ‘calzoncini’ da infilare alle rane maschio, in modo da non perdere il liquido biancastro che emettevano durante l’accoppiamento, ma non ebbe successo. Infatti, riferendo dei suoi esperimenti, così scrisse: «Esse piegano le cosce , le ritirano nei calzoncini, poi spingono e se ne liberano». Perfezionò allora l’invenzione aggiungendo ai calzoncini un paio di bretelle per cui alle rane diventava impossibile uscire dalla gabbia di stoffa. Ancora niente: nemmeno così rimaneva nei calzoncini sperma sufficiente da poter essere studiato bene e l’esperienza rimase a un punto morto.
Ci riprovò anni dopo Spallanzani che – sembra senza sapere degli studi di Réaumur – reinventò i calzoncini per rane aggiungendoci però una sua nota personale: durante l’accoppiamento apriva l’addome dei maschi, notando che lo sperma proveniva dalle vescichette seminali. Quindi, prelevate dalle ovaie delle femmine alcune uova vergini, e bagnatele con lo sperma, dopo qualche giorno poté osservare l’inizio dello sviluppo degli embrioni.
Non solo Spallanzani aveva finalmente cominciato a capire il ruolo svolto negli Anfibi dalle cellule riproduttive dei due sessi e quale fosse il significato della fecondazione, ma anche a realizzare la prima fecondazione artificiale in laboratorio della storia della biologia: erano gli anni Settanta del 18° secolo.
A Spallanzani si aprirono le porte di un mondo inesplorato: si chiese infatti se fosse possibile riprodurre artificialmente anche i Mammiferi.
I primi tentativi li eseguì su una cagnetta in calore, una barboncina. Da un maschio della stessa razza prelevò «diciannove grani» (un’unità di misura) di liquido seminale che iniettò nelle vie genitali della femmina e aspettò. Dopo circa un mese la gravidanza divenne visibile e, passati due mesi, la barboncina partorì tre cuccioli: «Così a me riuscì di fecondare quel quadrupede, e la contentezza ch’io ne ebbi posso dire con verità che è stata una delle maggiori della mia vita, dappoché mi esercito nella sperimentale Filosofia».
Occorse ancora molto tempo perché si capissero in modo definitivo tutte le complesse fasi che portano alla nascita di un nuovo essere, tuttavia, anche se il percorso della riproduzione non era stato del tutto spiegato, l’esperimento di Spallanzani sulla barboncina funzionò da apripista per un nuovo, inimmaginabile, settore della biologia sperimentale, quello che porterà alla fecondazione artificiale dei Mammiferi, compresa la specie umana.