Le Arti cittadine
La storiografia annovera, a proposito delle associazioni artigiane medioevali, numerosi studi di qualità scientifica e di taglio ideologico e metodologico assai diversi (1). Basta passare in rassegna, con Elisa Occhipinti (2), la produzione storiografica del primo quarantennio del nostro secolo per rendersi conto delle strette implicazioni tra ricerca storica e ideologia in questo settore, a sua volta intrecciato con quello dello sviluppo delle istituzioni comunali. Il progressivo reinserimento dei cattolici nella vicenda politica italiana e la nascita della ideologia corporativa fascista - osserva la Occhipinti - stimolano nuovi studi e rinvigoriscono con inediti spunti di ricerca il tradizionale dibattito sulle origini delle Arti medioevali, che affonda le sue radici nella storiografia ottocentesca e, in parte, nell'erudita analisi muratoriana. Come sottolineano anche Antonio Ivan Pini e Lellia Cracco Ruggini (3) la questione più dibattuta fu quella della persistenza o meno di forme associative tardo-antiche in epoca medioevale e dell'originalità o meno di queste ultime rispetto alle precedenti esperienze dei collegia romani, delle scholae bizantine, dei ministeria longobardi e degli officia franchi. La discussione, legata per molti versi al problema delle origini del comune, inizia fin dal 1898 con Arrigo Solmi (4), viene ripresa nel 1905 da Gino Arias (5), ma conosce il suo acme negli anni Trenta, quando più acceso si fa lo scontro fra continuisti e soluzionisti, grazie ai noti lavori di Gennaro Maria Monti (6), di Pier Silverio Leicht (7) e di Filippo Carli (8).
Passati quegli anni, la polemica si smorza: frattura e continuità non appaiono più come due termini radicalmente contrapposti della questione; emergono realtà più variegate e complesse (9). Si fa strada la convinzione che la presenza di elementi simili in istituzioni romane, bizantine, longobarde e franche non presuppone necessariamente una continuità istituzionale, ma rappresenta invece una costante strutturale tipica di determinate forme associative. Gli studi compiuti anche in seguito su realtà circoscritte (10) non portano alla luce testimonianze documentarie tali da consentire di risolvere definitivamente e inequivocabilmente la questione, che rimane alla sistemazione "abbastanza definitiva" del Leicht (11). Anzi proprio l'approfondimento di talune vicende locali mi pare abbia chiarito agli storici un'esigenza: la necessità, quando si studiano le associazioni di mestiere così come quando si studia il comune, di rinunciare a grossolane generalizzazioni, incentrate soprattutto su analisi di tipo istituzionale condotte talvolta con ottica eccessivamente giuridica, e di esaminare concretamente l'evoluzione delle singole esperienze associazionistiche, prestando la massima attenzione ai minimi cambiamenti legati alla storia della realtà urbana entro la quale le corporazioni si collocano.
Di fronte all'emergere di nuovi obiettivi e argomenti di ricerca storiografica (12), perde interesse il tema della continuità o meno delle corporazioni medioevali con precedenti analoghe istituzioni, probabilmente perché si sono fatte meno assillanti per la coscienza politica degli storici le sollecitazioni ad un confronto costante con la realtà romana, presenti in epoca fascista. Rimane invece vivamente avvertito dalla storiografia il nesso talvolta dialettico tra istituzioni comunali e corporazioni, in quanto entrambe sono il frutto della spinta associazionistica che caratterizza i primi secoli del Basso Medioevo (13).
Poca fortuna incontrano - si è già osservato - le generalizzazioni e i tentativi di tipizzazione. In tal senso un po' anacronistica e poco centrata appare la sintesi più recente sul fenomeno corporativo, presentata nel 1973 da Victor Rutenburg (14), che cerca di incasellare le corporazioni italiane in uno schema costruito su cinque modelli tipici. Senz'altro più accettabile risulta invece un'analisi diacronica, che tenta di fissare alcune fasi di sviluppo in considerazione del peso economico e sociale e delle funzioni delle associazioni di mestiere all'interno della città in rapporto all'evoluzione istituzionale del comune (15).
Oltre tutto, questa rinnovata attenzione per l'evolversi della struttura corporativa attraverso il tempo elimina un altro rischio nel quale è incorsa certa storiografia. Si riscontra infatti in alcuni studi, spesso a dire il vero più di "appassionati" dilettanti o di cultori di altre discipline (16), l'accostamento e l'utilizzo di testimonianze documentarie assai distanti tra di loro sia cronologicamente sia tipologicamente. Così sei secoli di storia vengono appiattiti: documenti del secolo XVI vengono usati per "provare" discorsi riferiti a quattro secoli prima; testimonianze cronachistiche vengono riportate testualmente senza un minimo di esegesi e accostate a statuti e a rogiti notarili. Ne esce un quadro vagamente strutturalista, dove si perdono le specificità connaturate ai diversi periodi e ai differenti episodi (17). Viceversa l'utilizzo di testimonianze posteriori al periodo trattato può essere giustificato talvolta, ad esempio a proposito di storia della tecnica, un campo nel quale parlare di lunga durata ha un senso, visto che i cambiamenti intervengono raramente e lasciano generalmente traccia.
Ma per quanto riguarda la storia delle associazioni di mestiere, la situazione può cambiare nel volgere di pochi anni, come dimostra il caso veneziano.
Venezia ha avuto la fortuna di disporre molto precocemente dell'edizione degli statuti più antichi delle Arti cittadine. Tale edizione critica, condotta con metodo che oggi per certi versi può apparire discutibile, si sforza di ricostruire l'ordine cronologico, con il quale i capitolari sono stati approvati dall'ufficio della giustizia fino al 1261 e della giustizia vecchia dopo quella data, ed è corredata da un nutrito apparato esplicativo ad un testo spesso linguisticamente arduo, che evidenzia collegamenti e riferimenti.
Il Monticolo condusse la sua edizione su un registro ufficiale dell'archivio della giustizia vecchia, formato e materialmente scritto da un unico scrivano fra il maggio e il settembre del 1278, contenente però aggiunte, correzioni e nuovi capitolari fino al 1330. Nella convinzione che "l'opera dello scrivano [...> fu poco accurata" il Monticolo non rispettò l'ordine con il quale i vari capitolari compaiono nel registro, ma intervenne con un criterio rigidamente cronologico, talvolta eccessivo (18). Spesso accanto al testo statutario più antico giunto fino a noi il Monticolo collocò l'edizione di capitolari posteriori o di disposizioni legislative riguardanti le singole Arti.
La suddivisione dei capitolari in sette gruppi operata dall'editore è suggerita dall'evoluzione istituzionale dell'ufficio della giustizia, che il Monticolo aveva preliminarmente studiata insieme alle competenze e all'attività dei giustizieri e ai rapporti fra le Arti e il comune (19): ottica giustificata dal fatto che a Venezia le Arti e gli artigiani subirono sempre un rigido controllo da parte dello Stato.
Il primo gruppo raccoglie "i capitolari delle arti composti dall'ufficio della Giustizia innanzi la sua suddivisione in Giustizia Vecchia e Giustizia Nuova (febbraio 1219-22 novembre 1261)", in tutto 12 statuti: sarti (1219), giubbettieri (1219), numeratori e trasportatori di tegole e mattoni (1222), pescatori-pescivendoli (1227), misuratori di olio e miele (1227), fornaciai (1229), filacanape (1233), orefici (1233), robivecchi (1233), tintori (1243), medici (1258), cerchiai (1259). Al secondo gruppo appartengono quelli "di data incerta, ma probabilmente anteriori alla divisione dell'ufficio della Giustizia", in tutto 5 capitolari: venditori di lino, speziali, fabbricanti di balestre, custodi degli stai nel fondaco del comune, fabbricanti di pesi. La struttura compositiva dei capitolari anteriori al 1261 è molto semplice e il testo, contenente di solito solo prescrizioni tecniche e di correttezza commerciale, molto succinto. Dopo una frase introduttiva, che ricorda l'obbligo imposto ai singoli artigiani di giurare nelle mani dei giustizieri osservanza al capitolare e fedeltà al doge, il quale rappresenta e impersona l'honor Veneciarum (20) ("Nos Iusticiarii iurare fecimus omnes […>"), segue l'elenco degli impegni assunti con il giuramento, espressi in prima persona singolare del futuro indicativo ("salvabo", "faciam", "vendebo", ecc.). Questa tipologia espositiva, propria e caratteristica dei capitolari anteriori al 1261, rappresenta l'elemento spia che permette di datare, all'interno di un testo composito, i nuclei più antichi rispetto a quelli più recenti, espressi con formule impersonali ("ordinatum est quod", "statutum est quod") o impositive ("Nos Iusticiarii statuimus", "nemo audeat", ecc.). È il caso di alcuni capitoli del testo degli orefici, che il Monticolo attribuisce in blocco al 1233, ma che è composto da un nucleo più antico (capp. 1-4 e 10-17) e uno più recente (capp. 5-9) e uno ancora più tardo (cap. 18) (21).
Nel terzo gruppo sono inseriti sia capitolari composti ex novo, 3 in tutto (segatori 1262, carpentieri 1271, biadaioli 1271), sia riformati, 14 complessivamente (ternieri 1263, tessitori di tessuti serici 1265, barbieri 1270, vetrai 1271, pellicciai 1271, imbiancatori di pelli e di cuoi 1271, calzolai 1271, falegnami 1271, calafati 1271, muratori 1271, merciai 1271, fabbri 1271, pittori 1271, bottai 1271) tra il 1261 e il 1278. Nel quarto gruppo sono stati inseriti i capitolari "di data incerta redatti dall'ufficio della Giustizia Vecchia innanzi [...> al maggio-settembre 1278": sono uno nuovo (Arte dei panni vecchi) e due riformati (conciatori di pelli e corami, fustagnai). Il testo di questi due gruppi di capitolari si amplia e si articola, si arricchisce di elementi diplomatistici, quali narratio, arenga e datazione, espressi in modi complessi. Si distinguono due blocchi di intervento dei giustizieri: uno collocabile fra il 1262 e il 1265, l'altro concentrato alla fine del 1270 e al 1271. Nell'arco di dodici mesi - fra il dicembre 1270 e il dicembre dell'anno dopo - la giustizia vecchia riformò ben 13 capitolari e ne compilò altri 2. In effetti, però, quello dei venditori di biade e legumi, che il Monticolo afferma essere stato "stabilito dalla Giustizia Vecchia il 13 dicembre 1271" (22), può essere di molto anteriore, poiché in quella data i tre giustizieri in carica concedettero a Zanettino da S. Simeone Profeta "esse venditorem blave in Fontico Rivoalto et extra" e perciò lo fecero "iurare secundum formam capitularis inscripti". Il documento quindi non parla di un capitolare redatto nel 1271, ma registra il testo del giuramento in vigore a quella data, che come modulo espositivo e come contenuto è molto più simile a quelli anteriori al 1261 che ai successivi. Dei 14 capitolari riformati o redatti fra il dicembre 1270 e lo stesso mese del 1271 ben 9 si riferiscono a corporazioni che figurano nel gruppo delle 15 Arti che sfilarono nel 1268 per rendere omaggio al neo-eletto doge, il che farebbe pensare a un intervento repressivo delle forze antipopolari. Dal punto di vista economico, le corporazioni riformate raggruppavano un numero presumibilmente cospicuo di artigiani, tutti legati a settori produttivi importanti. Si possono ricordare i vetrai, gli addetti alla costruzione di case e barche e alla lavorazione del cuoio. La scansione cronologica delle riforme sembrerebbe denunciare un piano sistematico di intervento teso a mettere ordine, settore dopo settore, nelle aree economiche più vitali per l'economia cittadina. Si inizia, dopo i barbieri nel dicembre 1270, con i vetrai nel febbraio 1271, quindi si passa alle attività conciarie e di trattamento di pelli, pellicce, cuoio (i pellicciai il 22 ottobre, i calzolai il 17 novembre, i conciatori il 19 novembre, gli imbiancatori di pelli e cuoio nello stesso mese), poi ai costruttori di case e barche (i falegnami o "magistri domorum" il 23 novembre, i carpentieri il 24, i calafati il 25, i muratori il 26, i fabbri il 4 dicembre) e infine ai bottai il 17 dello stesso mese di dicembre.
Gli altri tre gruppi si riferiscono a capitolari o composti o riformati tra il 1278 e il 1330; quelli duecenteschi sono 12 nuovi (fabbricanti di corde di budello, renaioli 1280; cappellai 1280; berrettai 1281, fabbricanti di recipienti in legno 1283; fusai 1282; fabbricanti di campane e laveggi 1282; cristallai 1284; soprastanti alle ancore, perni e chiodi da nave di provenienza straniera 1289; fabbricanti di pettini e fusti di fanali 1297; fabbricanti di faldelle 1279-1280 e 1289; sovrastanti ai lavori in oro e argento 1278-1297) e 3 riformati (ternieri 1279; cerchiai 1279; venditori di biade e legumi 1282). I capitolari redatti o riformati dopo il 1278 riguardano in genere attività di minor impegno produttivo e di più ristretto giro commerciale, lavorazioni marginali o complementari ad altre, specializzazioni ritagliate all'interno di altri mestieri, corporazioni con un numero non elevato di iscritti. Il testo è succinto e per molti versi standardizzato. Molti dei capitolari che il Monticolo considera nuovi, in quanto non esistono testi anteriori registrati al momento della raccolta in unico codice di quelli esistenti nel 1278, contengono però formule introduttive simili o identiche a quelle che si trovano nei capitolari sicuramente riformati nel periodo 1261-1278 (23). La datazione proposta dall'editore (novembre 1278) e suggerita dai nomi dei giustizieri, scritti per altro su abrasione della pergamena (24), per il capitolare dei fabbricanti di corde di budello è da respingere; a parte l'abrasione, che fa pensare a una sostituzione meccanica dei nomi, così diffusa nella prassi di cancelleria, la forma espositiva del testo e il suo contenuto, molto simili a quelli riscontrabili prima del 1261, spingono a ipotizzare una redazione più arcaica. Identico al precedente è il "capitolare riformato" nell'aprile 1282 dei venditori di frumento; quasi uguale a quello del 1263 è il capitolare dei ternieri riformato il 15 maggio 1279, anche se i capitoli sono disposti in ordine differente e compaiono come aggiunte parti integranti del testo precedente.
L'edizione del Monticolo comprende impropriamente fra i capitolari delle Arti anche quelli dei custodi degli stai nel fondaco del comune, dei soprastanti alle ancore, perni e chiodi di navi di provenienza straniera e dei soprastanti ai lavori in oro e in argento, vale a dire di ufficiali del comune che non hanno nulla da spartire con gli artigiani. Cominciamo a ritroso. Il testo della parte del maggior consiglio che, l'8 dicembre 1269, istituisce due "utiles homines super facto auri et argenti" non lascia dubbi sulla fisionomia dei soprastanti. Si specifica inoltre che "eligantur sicut eliguntur alii officiales". Avevano diritto a un salario annuale di 65 lire e a ricevere come collaboratori uno scrivano e due inservienti ("pueri"). Il loro compito era di stare in un ufficio a Rialto per controllare la qualità dell'oro e dell'argento prodotti in città (25). È significativa la data della loro istituzione: nello stesso anno il comune veneziano creò i massari alla moneta, incaricati tra l'altro della vigilanza sulla qualità delle monete coniate in Zecca (26). La coincidenza dell'intervento legislativo a tutela della qualità del prodotto sia nel settore pubblico sia in quello privato non è casuale e rispecchia l'attenzione dello Stato veneziano per il settore dei metalli preziosi, la cui contrattazione animava il mercato internazionale di Rialto e rappresentava un cardine dell'economia cittadina (27). È da rilevare in proposito che, il 30 aprile 1268, il maggior consiglio aveva istituito i tre visdomini al fondaco dei Tedeschi, manifestando così la volontà di controllare assiduamente quell'importante settore mercantile.
Analoghe considerazioni si possono fare a proposito dei soprastanti alle ancore, perni e chiodi di navi di provenienza straniera che, il 23 settembre 1289, i giustizieri vecchi decisero di nominare per proteggere l'industria delle costruzioni navali dall'immissione sul mercato di materiali di scarsa qualità (28). I soprastanti avevano le caratteristiche più di ufficiali del comune che di capi di corporazioni. È pur vero che in un'aggiunta non datata si parla di mercanti "dicte artis", il che farebbe pensare che i commercianti di quei prodotti avessero costituito un sodalizio, sul quale erano chiamati a vigilare i soprastanti. Ma non vi è accenno alcuno nel capitolare circa il funzionamento di un'eventuale corporazione. Qualche incertezza in proposito può suscitare il fatto che la prima volta sono designati non dal maggior consiglio ma dai giustizieri e che, allo scadere del mandato annuale, devono provvedere alla loro successione tramite la scelta di cinque elettori idonei.
Arriviamo infine ai custodi degli stai nel fondaco del comune, sulla cui elezione nulla si sa, perché è conservato solo il conciso testo del giuramento. Certo non possono essere una corporazione, piuttosto anch'essi ufficiali del comune che agiscono alle strette dipendenze dei giustizieri. È noto come, in epoca di particolarismo metrico, ogni comune curasse con vigoroso interessamento il rispetto sul mercato delle misure ufficiali garantite dal potere pubblico (29). E proprio il rigore nel garantire la giusta misura costituiva elemento di prestigio per il comune. A Venezia i venditori di biade e di legumi dovevano servirsi degli stai costruiti sotto la sorveglianza dei giustizieri, regolarmente bollati e assegnati loro, sempre per ordine degli ufficiali della giustizia, dai custodi dei recipienti da usare per la misurazione nel fondaco comunale.
Il tipo di documentazione disponibile per il XIII secolo è quindi di natura statutaria e normativa e rischia di deformare l'ottica di chi, attraverso di essa, voglia studiare il fenomeno corporativo. I pericoli di questo tipo di fonte sono già stati sufficientemente evidenziati dalla storiografia e non vale la pena di sottolinearli nuovamente (30). Purtroppo gli eventuali correttivi, costituiti in prevalenza da rogiti notarili, se offrono uno spaccato più vivo del mondo del lavoro nella Venezia duecentesca, rischiano però di sviare il discorso dall'esame delle strutture corporative all'analisi del peso sociale ed economico dei singoli lavoratori. La mancanza di matricole impedisce inoltre di effettuare riscontri con gli atti notarili per verificare se effettivamente tutti gli artigiani si iscrivevano alla corporazione, come prescritto dai capitolari.
Un altro problema circa la fonte: già il Monticolo si era posto l'interrogativo se il registro del 1278 contenesse "gli statuti di tutte le Arti che allora dipendevano dalla Giustizia Vecchia" (31). E vi aveva risposto negativamente, sostenendo che alcune Arti, ad esempio quella dei pollaioli, dei fruttivendoli, dei travasatori e portatori di vino, dei venditori di legname, "non ancora avevano raccolte le loro consuetudini statutarie in un codice". Viceversa la ragione dell'assenza di capitolari per certe Arti si può forse spiegare con il fatto che esse non si erano ancora costituite in corporazione, il che - si noti bene - non significa che non esistessero operatori economici del settore. Non a caso le Arti che non hanno capitolare a tutto il Duecento rientrano nell'area del rifornimento e della distribuzione delle derrate alimentari o di quell'importante materia prima, specie per Venezia, che è il legname: gli operatori in tali settori commerciali erano più rigidamente controllati dall'autorità statale e giunsero all'organizzazione corporativa più tardi di altri e solo nelle forme limitate consentite dallo Stato. Bisogna preliminarmente sgombrare il campo da due equivoci che pervadono soprattutto gli scritti che - si è già accennato - appiattiscono sei-sette secoli di storia corporativa. Le Arti non nascono tutte nello stesso periodo: costituirsi in corporazione rappresenta per certi lavoratori un traguardo legato al ruolo economico svolto, al prestigio sociale raggiunto, al clima politico generale dello Stato in cui sono inseriti. Inoltre lo statuto è un complesso normativo non rigido e non definitivo, il quale viceversa si modifica sotto la spinta di fattori diversi in evoluzione continua.
L'insopprimibile esigenza di risolvere il problema annonario e di garantire un costante rifornimento di derrate alimentari alla popolazione urbana costrinse i comuni medioevali a particolari e rigide forme di controllo sugli addetti al vettovagliamento e ai trasporti (32).
Anche Venezia affrontò il problema e nel novembre 1173 il doge Sebastiano Ziani emanò una legge annonaria, che stabiliva le modalità di vendita dei principali prodotti alimentari, sanciva il livello qualitativo delle merci e fissava i prezzi del mercato (33).
La realtà veneziana non si discosta dall'esperienza di altre città precomunali e comunali dell'Italia centro-settentrionale. Antonio Ivan Pini ha constatato e dimostrato che "gli addetti ai trasporti e al vettovagliamento [...> risultano da sempre sotto la sorveglianza e il controllo e a volte l'iniziativa dell'amministrazione pubblica" (34), proprio perché si tratta di professioni legate all'esistenza stessa della città. Tale controllo si esplica o nell'associazione coatta e strettamente vigilata dallo Stato degli esercenti tali professioni o nel divieto assoluto di costituire corporazioni di mestiere tra addetti al vettovagliamento e ai trasporti (35).
La rassegna sulla condizione subalterna di quei lavoratori rispetto allo Stato, che il Pini fa partendo dal tardo-antico per arrivare all'epoca comunale, appare convincente e può venir adottata anche per Venezia. La situazione lagunare risulterebbe perciò strettamente legata ad esperienze politiche ed istituzionali italiche più che bizantine, come invece sostiene ad esempio Giuseppe Marzemin (36).
Difatti l'attenzione dell'autorità dogale si è rivolta in primo luogo al controllo del commercio dei generi alimentari. Il diritto di mercato e la vigilanza sullo svolgimento delle contrattazioni sono una delle prerogative sovrane dello Stato medioevale, che Venezia esercita con maggior accanimento e per le quali non permette interferenze di alcun tipo (37). Ma la vigilanza sui mercati, strettamente connessa tra l'altro con l'esazione fiscale, è obiettivo integrante della politica dei giusdicenti sia in epoca feudale sia in epoca comunale.
L'ufficio della giustizia nacque proprio nel 1173 per controllare i venditori di biade, di vino, di pesce, di frutta e di polli, i fornai, i macellai e i ternieri. L'epoca di emanazione del provvedimento e il suo autore, il doge che sceglie l'Occidente a discapito dell'Oriente, confermano le analogie della situazione veneziana con il mondo dei comuni dell'Italia centro-settentrionale, in cui inizia nell'ultimo quarto del XII secolo il processo di sistemazione giurisdizionale e di organizzazione della vita cittadina.
I giustizieri appaiono fin dal 1173 dotati di potere giurisdizionale: hanno l'autorità di punire i colpevoli, requisendo loro la merce e imponendo pene pecuniarie. Il fatto che in seguito i giustizieri controllassero le Arti ha spinto gli storici a parlare di "controllo sulle Arti" già riferendosi al 1173. È vero che nelle città comunali la nascita delle corporazioni artigiane risale in genere alla fine del XII secolo; ma nei documenti veneziani non ci sono espressioni che giustifichino questa affermazione. Il controllo dei giustizieri si esercita sui singoli produttori e distributori di generi alimentari e non vi è alcun cenno di associazioni corporative che riunissero gli addetti al vettovagliamento ricordati nella legge annonaria dello Ziani. Tanto meno si può parlare di corporazioni fra artigiani esercenti altri mestieri che pure sono attestati anche in precedenza (38).
La vicenda del fabbro Giovanni Sagornino (1026-1043), che ricorse al doge per reclamare il suo diritto a non sottostare al gastaldo ducale e a non lavorare nell'atrio del palazzo Ducale, prova l'esistenza, ancora nell'XI secolo, di obblighi degli artigiani verso lo Stato. Un secolo prima, nel 982, i mugnai del monastero di S. Giorgio Maggiore erano obbligati alla guardia del palazzo Ducale, onere analogo a quello dei brentatori bolognesi di contribuire allo spegnimento degli incendi e connesso al concetto di munera che lo Stato esigeva da certi collegia romani (39). La natura di tali obblighi rientra, secondo il Pini (40), nel sistema degli officia longobardi dipendenti dal gastaldo ducale. Cadono in proposito tutte le interpretazioni che ipotizzerebbero, sulla scorta dei documenti relativi al Sagornino, la presenza di una corporazione di fabbri già sviluppata nella prima metà dell'XI secolo. Viceversa è innegabile un rapporto di dipendenza degli artigiani nei confronti dello Stato, al quale il lavoratore deve obbligatoriamente alcune prestazioni, attestate nelle promissioni ducali anche in epoca successiva (41).
Numerose testimonianze di regalie od "honorificentie" si trovano nei capitolari posteriori al 1270 ed è possibile confrontarle con i due elenchi di quelle da tributare al doge registrati nel Libro delle promissioni ducali agli anni 1253 e 1268 (42). I1 gastaldo dei vetrai doveva ricevere dagli iscritti alla corporazione "pro honorancia" un paio di calze di "saga" oppure 12 grossi (cap. 27). Ciascun maestro dell'Arte dei "blancarii" doveva dare al suo gastaldo ogni anno a Natale 2 denari grossi. Ogni padrone di fornace per la fusione del vetro doveva versare 4 denari grossi di dazio al doge (cap. 29); poiché la somma riscossa era rilevante, fu deciso di devolverne una parte alla Scuola (cap. 35). Lo stesso si verifica con i calzolai, ognuno dei quali doveva versare annualmente "pro honorancia domini Ducis facienda" 5 soldi, pari a 60 denari: il cap. 49 prescrive di riscuoterne solo 30, 6 dei quali da dare ai poveri e gli altri 24 da utilizzare per la "honorancia". La tassa di 5 soldi sostituiva la consueta regalia in natura consistente in 60 paia di calzari da 5 soldi il paio ricordata nel testo delle promissioni ducali (cap. 71). La regalia richiesta ai falegnami consisteva invece nella prestazione d'opera di 15 uomini per il periodo necessario alla sistemazione del palazzo Ducale. Durante il loro lavoro il doge era tenuto a fornire il vitto, tre pasti d'estate e due d'inverno (cap. 14). L'obbligo è registrato anche nel codice delle promissioni (43). Inoltre i falegnami, pur dedicandosi normalmente a lavori legati alla erezione di case, potevano essere utilizzati in caso di necessità per costruire le navi del comune; allora erano obbligati ad anteporre l'attività pubblica a quella privata, ma avevano diritto alla retribuzione corrente di mercato (cap. 15). Le esigenze dello Stato sospendevano anche l'obbligo del riposo festivo (cap. 23). La regalia richiesta ai carpentieri era una vecchia tradizione, che affondava le sue radici nell'epoca in cui gli artigiani dovevano all'autorità statale impersonata dal doge un certo numero di giornate lavorative ("omnia illa servicia de arte predicta que hactenus facta fuerint dominis Ducibus Veneciarum ratione ducatus"). In seguito l'obbligo di prestazione di servizi venne sostituito dal versamento di una somma di denaro: annualmente ogni "magister navium" e ogni segatore dovevano versare 12 denari piccoli "secundum consuetudinem hactenus observatam" (cap. 1). Data però l'importanza che le costruzioni navali rivestivano per l'economia e per la sopravvivenza stessa della città, il doge e i giustizieri si riservavano il diritto di richiedere "secundum consuetudinem" ai maestri carpentieri di compiere "servicia Comunis". L'insistente richiamo alla consuetudine, spesso invocato dalla storiografia come prova di un'origine antichissima delle Arti, testimonia viceversa la soggezione di taluni gruppi artigianali allo Stato, al quale dovevano prestazioni analoghe a quelle più volte ricordate per le altre città (44). Un ulteriore gravame era imposto a carpentieri e segatori per la costruzione del Bucintoro, la sfarzosa imbarcazione ducale: i primi dovevano annualmente ciascuno tre giornate lavorative, i secondi una, in cambio unicamente del vitto. In più, se le giornate lavorative fornite dai maestri non bastavano per terminare l'opera, il gastaldo doveva provvedere a sua cura e a sue spese, rivalendosi poi sugli eventuali iscritti momentaneamente assenti da Venezia, che dovevano versare il corrispettivo in denaro delle giornate di lavoro secondo i prezzi correnti (cap. 5). Come ulteriore regalia carpentieri e segatori dovevano impegnarsi a riattare la flotta del Ducato (cap. 7). Le "honorancie" dovute dai carpentieri e dai calafati compaiono anche negli elenchi in coda alle promissioni ducali (45). "Tota ars fabrorum facere teneatur domino Duci et pallacio integre omnes fabricationes pertinentie sue artis" (cap. 1): la prestazione d'opera al doge e al palazzo, che costituisce la regalia dei fabbri è - come dice il Monticolo (46) - "obbligo [...> di origine molto antica; anzi è molto anteriore alla costituzione del libero sodalizio dei fabbri". Difatti proprio sulle modalità di erogazione delle giornate lavorative nacque la vertenza dei Sagornino. Totalmente differente da quello del capitolare è il testo del Liber promissionum (47). Come sostitutivo di un servizio in natura si configura il versamento al gastaldo di 30 denari piccoli che ogni maestro bottaio doveva fare ad agosto "sine murmuratione": la somma era dovuta "pro opere sive servicio" e come tale veniva riscossa dal gastaldo che poi la consegnava alla curia del doge. Una volta pagata quella quota, nessun membro della corporazione poteva essere ulteriormente angariato dal gastaldo. All'epoca dello Zeno e di Lorenzo Tiepolo è attestata, nelle promissioni, una "honorificentia" in natura (48). Il gastaldo dei conciatori doveva ricevere ogni anno alla festa di Ognissanti 5 soldi da ciascun maestro (cap. 38); in seguito il tributo fu ridotto a 3 soldi, dei quali 6 denari andavano alla Scuola e gli altri 30 alla "honorancia domini Ducis" (cap. 52). Si torna invece all'omaggio di un oggetto concreto, frutto del lavoro degli artigiani con i fustagnai, che ogni anno a Pasqua dovevano offrire al doge una pezza di fustagno vergato di doppia altezza (cap. 45), regalia non ricordata nel Liber promissionum. Ribadire in questo gruppo di capitolari relativamente tardi l'obbligo delle regalie al doge equivale significativamente a ribadire che sugli artigiani, benché riuniti in corporazione, continua a gravare un sistema vincolistico di indiscutibile soggezione al potere statale. Anzi si registrano esazioni di nuove regalie in natura o in prestazioni d'opera che non compaiono nel 1253 e nel 1268: l'Arte delle faldelle, ad esempio, doveva ogni anno 4 libbre di pepe (cap. 23). Il 6 febbraio 1287 si impose ai venditori ambulanti dell'Arte dei ternieri di offrire ogni Natale come "honorancia" al doge 100 libbre di formaggio (cap. 56). La sostituzione della "honorancia" in forma di prestazione d'opera con il versamento di una somma in denaro, pur confermando la soggezione dell'artigiano al doge, svincola il lavoratore dallo stato di completa dipendenza testimoniato in epoche più antiche e risalente come concezione a modelli longobardi.
Nelle promissioni ducali ricorrono, a partire dal 1229, alcuni accenni alle scuole artigiane. Giacomo Tiepolo, il primo doge "popolare" (49), si impegna nel 1229 a "nihil amplius servitii inquirere" dalle scuole artigiane, eccetto per volontà del minor consiglio; si accontenterà di quanto richiesto in passato dai suoi predecessori e di quanto le scuole erano abituate a fare nel palazzo Ducale. Si tratta in sostanza di un arginamento, anche in questo caso, dell'autorità del doge, che per quanto riguarda gli artigiani potrebbe essere paragonata a quella esercitata in città della terraferma dal feudatario, laico od ecclesiastico, prima e dal comune poi (50). Il doge si impegna poi a conservare come gastaldi delle scuole artigiane i "gastaldiones qui per diversas artes erunt ordinati [...> [e aggiunge> sicut predecessores nostri facere consueverunt" (51). Il testo della promissione quindi attesterebbe l'esistenza di gastaldi nominati dalle Arti, a differenza di quanto verificato nei capitolari, nei quali non compaiono mai gastaldi o rappresentanti delle corporazioni artigiane prima del 1258, né eletti dai soci né nominati dal governo.
Prima di quella data tutto quanto riguarda l'artigianato passa per le mani dei giustizieri, che provvedono personalmente al controllo della produzione e alla repressione delle frodi.
Gli impegni giurati dal Tiepolo vengono ribaditi nel 1249 da Marino Morosini, che rinforza il concetto promettendo di non rimuovere dal loro ufficio i gastaldi, se non per decisione dei consiglieri ducali (52).
Nella promissione di Ranieri Zeno del 1252 (53) la rubrica ricompare tale e quale, ma con un'aggiunta interessante "nec aliquem gastaldionem in aliqua Arte que non consuevit habere gastaldionem hactenus constituemus nisi de consilio et voluntate nostrorum Consiliariorum vel maioris partis ipsorum". Il doge quindi si impegna a non imporre, se non per volere dei consiglieri, un gastaldo a quelle Arti che non l'avevano mai avuto: formula che contraddice quanto dichiarato in precedenza nelle promissioni e che indicherebbe l'esistenza di gastaldi di nomina governativa. Quest'ultima situazione sarebbe più in linea con quanto riscontrato nei secoli precedenti, durante i quali si può ipotizzare sui gruppi artigianali veneziani un esercizio indiscusso dell'autorità di vigilanza dello Stato secondo modelli longobardi. Tale autorità si sarebbe esplicata attraverso l'esazione di regalie e la nomina di gastaldi ducali (54). Nel 1268 Lorenzo Tiepolo giura nella sua promissione un paragrafo più o meno identico a quello del suo predecessore. L'unica variante di rilievo riguarda gli organi statali ai quali è possibile interferire con la volontà ducale e precisamente l'inserimento del maggior consiglio accanto ai consiglieri del minore. Iacopo Contarini invece aggiunge al testo tradizionale della promissione relativo alle Arti un pezzo interessante: il doge si impegna a non nominare suo gastaldo chi già ricopre tale carica in una corporazione, a non convocare e a non tollerare che compaiano dinanzi a lui rappresentanti delle corporazioni in armi "occasione alicuius deffensionis vel scandali quod evenerit occasione Comunis vel specialis persone, nec alia quacumque causa nisi de voluntate nostrorum Consiliariorum vel maioris partis eorum". Nel caso si verificasse tale evenienza, il doge deve "eum vel eos licentiare instanter" (55). Le allusioni ai pericoli corsi durante il governo tiepolesco sono pesanti e circostanziate. Per il futuro si vuole evitare che il doge utilizzi come forza di manovra politica la massa degli artigiani, che - come si apprende anche da Martin da Canal - era armata e quindi in grado di partecipare attivamente ad eventuali scontri di piazza. Si vuole poi evitare che rappresentanti del "popolo" occupino posti di potere all'interno delle strutture comunali e soprattutto per volontà del doge, che disporrebbe perciò di un appoggio personale pericoloso proprio all'interno del comune. Difatti anche in alcuni capitolari compare il divieto per il gastaldo di occupare altre cariche (56). Il testo permane poi cristallizzato nella forma giurata dal Contarini anche nelle promissioni degli altri dogi duecenteschi, Giovanni Dandolo nel 1280 (57) e Pietro Gradenigo nel 1289 (58).
Il maggior consiglio intervenne per tutto il Duecento a regolamentare importazione ed esportazione di merci e svolgimento dei mercati, specie nei settori alimentare, tessile e dell'abbigliamento. Un particolare controllo esercitò sulla lavorazione della canapa, di cui vietò l'incetta il 26 agosto 1263, perché materiale indispensabile per il funzionamento di quella grande industria di Stato che fu l'Arsenale. Difatti il capitolare dei filacanape del febbraio 1233 contiene prescrizioni simili a quelle rinvenibili negli statuti di altri comuni. A Venezia però le norme sulla corretta fabbricazione delle funi di canapa, sull'approvvigionamento di materia prima, sul prezzo della mano d'opera, sulla qualità dei manufatti sono molto più dettagliate che altrove per l'importanza che la produzione di sartiame per imbarcazioni rivestiva nel settore della cantieristica cittadina (59), sul quale la tutela del governo si esplicava in diverse direzioni anche nel corso del Duecento (60).
Nel settore della filatura della canapa si manifesta una delle caratteristiche dell'organizzazione artigianale veneziana, ben diversa da quella comunemente diffusa in altre località. Sia i maestri veneziani sia gli altri avevano lavoratori dipendenti; ma, mentre in altre zone il sistema della distribuzione del lavoro a domicilio assicurava un'assoluta preminenza del mercante-imprenditore sugli artigiani addetti alle differenti fasi lavorative, a Venezia la vigilanza progressivamente sempre più minuziosa e severa dello Stato sulla qualità dei cordami di canapa obbligava i maestri ad esercitare il mestiere, insieme con i dipendenti, solo nelle loro case o nelle loro botteghe (61). Questa diversa organizzazione della produzione dei cordami di canapa, comune anche ad altri settori tessili, fu tra le cause che evitarono tensioni verticali fra lavoratori delle varie fasi di lavorazione e lo scoppio di rivolte popolari sul modello di quella fiorentina dei Ciompi (62).
L'intervento più significativo del maggior consiglio sulle corporazioni si verificò nel 1264. Il 5 ottobre 1264 "capta est pars in Maiori Consilio et ordinatum quod gastaldiones omnium arcium de Veneciis de cetero mutari debeant quolibet anno et illi qui nunc sunt debeant manere et esse gastaldiones usque ad complementum unius anni": si cercava così di evitare che esponenti del ceto artigiano potessero costituirsi con ripetute gastaldie un potere personale. La decisione del maggior consiglio veniva assunta come ordinanza dai giustizieri il 30 novembre dell'anno successivo e inserita nel capitolare dei ternieri (cap. 47) e successivamente negli altri fino al 1275 (63). Così pure un'altra del 6 ottobre dello stesso anno, che ordinava ai gastaldi di accettare il capitolare imposto dalla giustizia vecchia ("Ipsi gastaldiones in capite sui anni teneantur accipere suprascriptum capitolare quod eis dederint Iusticiarii") e vietava loro di emettere ordinanze ("et dicti gastaldiones non possint nec debeant facere aliquod ordinamentum inter se nisi cum voluntate dominorum Iusticiariorum"), pena la perdita della gastaldia e il pagamento di lire 30 e soldi 12 1/2 (cap. 48). Veniva così ribadita l'incapacità legislativa e normativa della corporazione, implicita nel divieto di alterare in qualsiasi modo il capitolare, infrazione fra le più gravi anche dal punto di vista ideologico, punita con la pena "banni integri" (64).
Si limitava poi la libertà di riunione dell'Arte, i cui membri si potevano radunare, oltre alle due occasioni destinate ogni anno alla lettura del capitolare, solo con il permesso dei giustizieri (65). Ma soprattutto il cap. 49 dei ternieri esprime la diffidenza dello Stato veneziano verso le associazioni artigiane, che si temeva potessero degenerare in forme di aggregazione sociale così forti da costituire quasi uno schieramento politico capace di perseguire un'alternativa al potere della classe dominante e di sovvertire con complotti le strutture istituzionali (66). Nessun iscritto doveva "facere aliquod ordinamentum vel conpagnia seu comilitatem aut conspirationem per sacramentum vel per fidanciam aut per aliquam aliam promissionem contra honorem domini Ducis et eius Consilio ac Comunis Veneciarum seu contra aliquam aliam personam, in pena banni integri". È di particolare interesse l'enunciazione stessa della norma, con il dettagliato elenco delle varie forme di associazione, tutte temute, specie quelle armate, perché basate su un reciproco rapporto giurato, che rappresentava in definitiva il fondamento della costituzione comunale. In altri termini il comune non tollera forme di associazione ad esso concorrenziali e contrapposte, favorisce invece quelle subalterne nelle quali il giuramento non lega tra loro componenti di pari peso, ma vincola il singolo alla obbedienza verso le strutture statali. L'associazione al di fuori delle direttive statali è considerata reato politico ed è punita con la pena più grave, quella "banni integri", pari a una multa di lire 30 e soldi 12 1/2. Già in capitolari precedenti, ad esempio quello dei giubbettieri del 1219, esisteva la prescrizione di "nullam conpagnia⟨m> vel raxam vel conspiracio [facere>", ma si specificava "contra aliquem [...> ut sit detrimentum contra aliquem" (cap. 1): si trattava in quel caso di tutelare gli interessi prevalentemente economici dei singoli dalla minaccia costituita da accordi illeciti fra artigiani. Invece la parte del maggior consiglio del 6 ottobre 1264 intende proteggere lo Stato comunale, frutto dell'evoluzione istituzionale subita dalla carica ducale e richiamata implicitamente anche dall'elenco degli organi statali da tutelare (doge, minor consiglio e comune); solo in subordine la protezione si estende ai privati cittadini.
Le due deliberazioni del maggior consiglio costituiscono una precisa presa di posizione dello Stato nei confronti delle corporazioni artigiane, la cui libertà d'azione s'intendeva così inequivocabilmente arginare. Non si conoscono le motivazioni ufficiali che portarono ad assumere tali provvedimenti, perché la documentazione non li registra (67). Certo il ceto artigianale, abbastanza disincantato anche se forse non ancora totalmente disilluso, colse l'autentico significato degli interventi legislativi e avvertì quanto pesante fosse l'ingerenza dello Stato nella vita delle corporazioni (68). Nell'agosto 1266 il "populus", esasperato dalle ristrettezze e dai sacrifici imposti dalla guerra contro Genova e dalla decisione di eseguire costose opere pubbliche, quali la selciatura di piazza S. Marco, che richiedevano aumenti della tassa sulla macina, attuò alcune forme di protesta violenta. La "plebs" si adunò davanti al Palazzo e lanciò pietre contro il doge, poi assalì alcune case di nobili e le depredò. Finito il tumulto, il doge fece impiccare sulla piazza gli "auctores sceleris" (69). La connotazione del "populus", della "plebs" ricordati dall'aristocratico Dandolo non lascia equivoci. Un altro cronista, raccontando l'elezione del doge Lorenzo Tiepolo, parla di "populus totus, idest scole artificum" (70): si rinforza quindi la convinzione che intorno agli anni Sessanta del XIII secolo a Venezia con il termine "populus" si designasse il ceto artigiano, che si veniva progressivamente contrapponendo al ceto aristocratico. Quest'ultimo, anche se alcuni suoi componenti, quali lo stesso doge Lorenzo Tiepolo, si proclamavano "populares", perseguiva una politica economica a tutto vantaggio dei mercanti e a scapito degli artigiani (71).
L'alleanza politica fra il Tiepolo e l'elemento popolare trova il suo momento di massima, fastosa ed esteriore celebrazione nella "processione delle Arti", descritta con dovizia di particolari da Martin da Canal (72).
In effetti i provvedimenti legislativi e l'atteggiamento dello Stato veneziano nei confronti delle corporazioni dal 1265 in poi preparano la definitiva esclusione del ceto artigianale dalla gestione del potere che si concluderà con la Serrata (73).
Fondamentale per la compressione delle Arti e per la definitiva affermazione degli aristocratici contro ogni velleità da parte degli artigiani fu - secondo il Mackenney - l'ondata di revisioni statutarie attuata dai giustizieri nel 1270-1271. In particolare egli richiama l'attenzione su Marco Badoer (74), che identifica senza alcuna esitazione con il membro del ramo da S. Giustina la cui biografia è ampiamente nota (75), anche se non sono sufficientemente chiarite alcune zone d'ombra (76).
Nel dicembre 1270, quando inizia l'opera di revisione in blocco dei capitolari, sono giustizieri Giovanni Morosini, Albertino da Molin e Marino Belegno. Il primo appartiene a famiglia "di sicura ascendenza aristocratica", ricca e potente, i cui membri sono sempre presenti numerosi fra gli eletti in maggior consiglio e ricoprono spesso cariche podestarili in terraferma, una famiglia di "monsignori", che già nel XI-XII secolo ascrive dei giudici e che alla fine del XIII fa parte del gruppo delle grandi casate vittoriose (77). Tra gli elettori del doge nel 1229 c'è un Paolo Morosini; nel 1268 vi è Giovanni detto Petigno, forse identificabile con quello che è giustiziere nel 1270. Albertino da Molin, che compare come giustiziere sia nel dicembre 1270 sia nel febbraio successivo, appartiene a una cospicua famiglia ma di estrazione popolare, la quale troverà la sua definitiva e incontestabile collocazione fra i "grandi" nel 1296-1297, dopo essere stata presente per tutto il secolo in maggior consiglio e fra gli elettori del doge (78). Anche i Belegno sono dei popolari: la famiglia appartiene a quello che il Cracco definisce popolo vecchio, ha "ricchezze più o meno rilevanti sia mercantili che fondiarie", sviluppa notevoli interessi in terraferma, ascrive membri in maggior consiglio e fra gli elettori del doge Marino Morosini (79). Pur essendo popolari parteggiano nel 1268 per il Dandolo tant'è vero che un Filippo Belegno è membro del minor consiglio e svolge un ruolo importante per sottrarre l'elezione del doge agli umori e alle pressioni della piazza. Marino Belegno "ebbe una cavalleria in Candia del 1250" (80).
Nel febbraio 1271 esce di scena Giovanni Morosini: l'ufficio passa a Pietro Baseggio, che lo conserverà per tutto l'anno. Anche i Baseggio appartengono alla cerchia di famiglie "di sicura ascendenza aristocratica" i cui membri siedono spesso e in numero discreto in maggior consiglio e partecipano alla scelta del doge; sono in definitiva dei "monsignori" e alla fine del secolo vedranno definitivamente sancito il loro potere di "grandi" (81).
Infine nel periodo cruciale delle revisioni statutarie, cioè nell'ottobre-dicembre 1271, sono giustizieri due fidatissimi campioni del partito aristocratico, il Badoer e il Baseggio, insieme a Leonardo Dotto, esponente popolare.
L'arginamento del potere degli artigiani e il controllo rigido sulle Arti attuato attraverso la minuta regolamentazione della loro attività non vanno però focalizzate al solo intervento di revisione dei capitolari effettuato dai giustizieri nel 1270-1271. Difatti i testi elaborati in quel biennio ricalcano con somiglianze massicce il capitolare dei ternieri del 1263: il che significa che la compressione degli artigiani comincia all'inizio degli anni Sessanta in concomitanza con contingenze economiche e demografiche sfavorevoli, che impongono una selezione degli operatori e un più rigido controllo di questi da parte dei mercanti. Significativamente la prima Arte riformata è quella dei ternieri, una categoria di lavoratori del settore alimentare e addetta non alla produzione di beni, ma al commercio al minuto di generi necessari alla popolazione. La minuziosa regolamentazione dell'attività commerciale e della vita associativa trasforma la corporazione in un misto di strumento di controllo politico e di istituzione sociale; i capi delle Arti espletano non solo funzioni di rappresentanza e di tutela degli iscritti, ma anche funzioni di vigilanza per conto dello Stato.
Talvolta i giustizieri vecchi intervengono con le loro sentenze a porre fine a vertenze tra corporazioni, ad esempio nel 1276-1277 quelle tra calzolai e segnatori di suole e tra falegnami e carpentieri. Le due vicende evidenziano uno degli atteggiamenti tipici dello Stato veneziano verso le associazioni di mestiere, la spinta all'estrema frammentazione, che costituirà una costante nella storia del sistema corporativo veneziano anche nei secoli successivi (82). La politica dello spezzettamento dei gruppi artigiani, in conseguenza della quale le Arti fioriscono numerose e si suddividono al loro interno in colonnelli, vuole evitare la costituzione di corporazioni con troppi iscritti, pericolose sul piano politico, e soprattutto in grado di controllare tutte le fasi di lavorazione del prodotto, quindi potenti economicamente. La delimitazione rigida e puntigliosa delle competenze delle diverse Arti, che si accentua dopo il 1278, obbedisce a questa logica: così chi fabbrica gli strumenti per preparare le fibre tessili viene distinto e separato da chi le lavora e da chi le utilizza per confezionare gli indumenti; si dividono cappellai da berrettai, bottai da cerchiai, fabbricanti di faldelle da giubbettieri, vetrai da cristallai; i filacanape si specializzano in opera grossa e opera sottile, i calzolai in arte vecchia e arte nuova.
Il 17 ottobre 1274 un'ordinanza dei giustizieri blocca la tradizionale mobilità fra carpentieri e falegnami, contribuendo così ad un ulteriore irrigidimento del sistema corporativo.
In genere le ordinanze dei giustizieri riguardano la regolamentazione dei prezzi dei prodotti oppure l'ubicazione dei laboratori e si intensificano, diventando sempre più minuziose, dopo il 1280.
Già il Monticolo notava, ma senza sottolinearlo adeguatamente, che nei capitolari anteriori al 1261 nella formula di giuramento "non v'è traccia di ricordi di corporazione, società o diritto statutario di sodalizio, perché essa si intende giurata da ciascun artigiano per proprio conto verso lo Stato in via diretta e non verso alcuna autorità intermedia che ci rappresenti dinanzi al Comune e ai suoi legittimi magistrati e funzionari l'insieme di coloro che esercitavano il medesimo mestiere" (83). In effetti fin verso il Sessanta non vi è traccia di alcuna struttura corporativa, non si parla di ufficiali dell'Arte né di Scuola dell'Arte e neppure della destinazione delle multe, che compaiono non nel nucleo originario del capitolare, quello, come già detto, espresso in prima persona singolare del futuro indicativo ("salvabo", "fatiam", "vendebo", ecc.), ma nelle aggiunte - sia pure già conglobate nel testo più antico - espresse con formule impositive, del tipo "ordinatum est quod" oppure "statutum est quod" (84).
Anche il cap. 18 del capitolare degli orefici, nel quale i giustizieri prevedono per l'inosservante, oltre alla pena pecuniaria, l'espulsione perpetua dall'Arte ("Et insuper expulsus fuerit de Arte aurificum"), non è, per le ragioni già esposte, attribuibile al 1233, ma sicuramente posteriore al 1261.
Solo nel 1258, nel capitolare degli speziali, si riscontra la presenza di ufficiali dell'Arte, chiamati "examinatores" scelti dai giustizieri tra i membri del sodalizio (cap. 4: "Item, si ego ero electus examinator per Iusticiarios, non recusabo"). Per la prima volta nei capitolari veneziani si trova traccia di strutture corporative e di loro rappresentanti, anche se in questo caso sono nominati non dai colleghi, ma dagli ufficiali statali che esercitano la vigilanza (85). Un altro segnale in tal senso si ha nel gennaio dell'anno successivo nel capitolare dei cerchiai. Invece della formula consueta ("omnes [...> iurare fecimus"), si legge "Nos [Iusticiarii> [...> providimus animo diligenti quomodo homines Artis cerclarie bene et legaliter possint facere artem suam". Viceversa non si trovano altre tracce simili negli altri quattro capitolari di data incerta, ma sicuramente anteriori al 1261.
Quindi il termine del 1261, scelto per periodizzare la storia delle corporazioni veneziane con un preciso riferimento istituzionale allo sdoppiamento dell'ufficio della giustizia, andrebbe forse più realisticamente spostato al 1258, quando nei capitolari appare per la prima volta qualche traccia di strutture corporative. Potrebbe non essere privo di significato il fatto, finora inspiegabile (86), che dal 1258 al 1261 i giustizieri, in precedenza in numero di cinque, fossero ridotti a tre proprio alla vigilia della suddivisione e specializzazione dell'ufficio, che presuppone un aumento delle competenze e delle attività. La parte del maggior consiglio del 21 novembre 1261 potrebbe aver formalizzato una realtà sperimentale durata un triennio.
Attorno al 1260 anche nel settore delle corporazioni si verificano a Venezia sostanziali cambiamenti (87) e le notizie sulla struttura e sul funzionamento delle Arti si moltiplicano.
Nelle addizioni, datate maggio 1262, al capitolare degli orefici, compaiono strutture corporative: quattro decani, due per l'oro, due per l'argento, dovevano ispezionare le botteghe almeno una volta al mese e potevano imporre multe, delle quali un terzo andava ai giustizieri e due terzi alla Scuola.
Vere e proprie novità si riscontrano l'anno dopo, nel settembre 1263, nel capitolare dei ternieri. I venditori di olio, miele, cacio e carni suine fresche e salate possedevano già un capitolare; ma la tradizionale attenzione dello Stato per il settore del commercio dei prodotti alimentari indusse i giustizieri vecchi ad accogliere la supplica dei gastaldi dell'Arte perché venissero aggiunti nuovi capitoli al vecchio testo. Perciò i giustizieri ordinarono "statuta nova et vetera in unum [...> copulari" in modo da accontentare i membri della corporazione "ne de cetero aliqua inter eos materia scandali oriatur". Il Monticolo nel presentare il nuovo testo spiega l'esigenza di un rifacimento col "bisogno di riordinare la materia per le addizioni che via via v'erano state fatte" (88). Ma non è agevole verificare l'ipotesi perché non è conservato il capitolare precedente. Certo, rispetto a norme anteriori relative ad altri mestieri, queste dei ternieri sono estremamente innovative e serviranno da modello per la redazione di un nutrito gruppo di capitolari posteriori.
Il capitolare si dilunga sul funzionamento dell'Arte, sulle competenze giurisdizionali del gastaldo e dei decani e della giustizia vecchia, sul rapporto fra Arte e Scuola.
L'esistenza di Scuole artigiane nella prima metà del Duecento è documentata dal testamento (89) di un certo Bernardo, orefice di nazionalità tedesca ("Teotonicus"), abitante nel confinio di S. Salvador, notevolmente ricco, tanto che tra i beni lasciati in eredità compare una cospicua quantità di argento lavorato ("totum meum argentum laboratum quod computo valere libras novem mille"). Tra i numerosi legati ce n'è uno di venticinque lire alla Scuola degli orefici (righe 11a-12a) che aveva sede presso la chiesa di S. Salvador a Rialto e alla quale apparteneva Bernardo ("scole mee aurificum"). È ricordata (riga 22a) anche la Scuola dei pellicciai ("Sancte Marie Cruciferorum dimito libras venetorum centum et lectum unum cum plomatio et linteo et eiusdem loci scole videlicet de pelipariis libras venetorum viginti quinque").
Nessuna notizia si possiede però sul funzionamento e le finalità delle scuole artigiane per il periodo anteriore al 1260 ed è ingiustificato ricorrere a testimonianze posteriori relative al periodo in cui esistevano anche le corporazioni per ricostruire la loro attività precedente. Difatti il Monticolo non adduce, parlando di scuole artigiane nella prima metà del XIII secolo, nessun'altra testimonianza oltre il testamento di Bernardo orefice. Afferma poi che "possono essere studiate soltanto in via indiretta per mezzo dei riflessi eventualmente rimasti nelle testimonianze posteriori alla metà del secolo decimoterzo [...> che probabilmente riflettono usi anteriori" (90): supposizione che lascia perplessi e che contraddice l'invito, espresso in altre occasioni dallo stesso Monticolo, ad attenersi alle peculiarità e ai fatti dei singoli periodi.
Nel capitolare dei ternieri, accanto alla consueta norma relativa al giuramento nelle mani dei giustizieri, si introduce l'obbligo, per poter esercitare il mestiere, di iscriversi alla Scuola (cap. 6). L'obbligo sussiste anche per i barbieri (capp. 7 e 19), per i vetrai (cap. 2) e per i calzolai (cap. 45) ed è talvolta rafforzato da una serie di sanzioni: chi non fa parte della Scuola dei barbieri, ad esempio, non può ricevere né aiuto né consiglio da nessuno (cap. 7) e può essere costretto dal gastaldo ad iscriversi (cap. 19). Però chi risulta iscritto alla Scuola e non esercita il commercio deve cedere i propri diritti e spazi mercantili ai colleghi (cap. 7). I due capitoli in esame portano alla ribalta il complesso rapporto esistente tra Arte e Scuola (91). In testi statutari posteriori, relativi ad altre attività artigianali, è ben chiara la distinzione fra le due forme associative: esistono difatti un gastaldo dell'Arte e un gastaldo della Scuola, ognuno con competenze e funzioni ben specificate; vi sono due casse separate nelle quali confluiscono in misura differente i proventi delle multe e soprattutto sono enunciate in modo esplicito e dettagliato le attività assistenziali della Scuola, che nel capitolare dei ternieri del 1263 rimangono nel vago, se si eccettua l'accenno alla consuetudine di effettuare ogni anno un pranzo comunitario tra i confratelli (cap. 22). La Scuola dei ternieri è la beneficiaria esclusiva della tassa d'entrata versata dagli apprendisti e dai nuovi iscritti (capp. 40, 42, 44). Anche il testo dei due capitoli 6 e 7 però conferma la netta separazione tra Arte e Scuola e, sia pure indirettamente, la funzione esclusivamente assistenziale di quest'ultima. Per i lavoratori dell'epoca la Scuola costituiva la garanzia di non essere abbandonati nel momento del bisogno, della malattia e della solitudine, vale a dire nei casi di maggior debolezza individuale. Ma la Scuola rappresentava anche per lo Stato una forma di sicurezza contro lo scontento dei ceti subalterni e uno strumento di coesione sociale; pertanto veniva rispettata e le sue attività per quanto possibile agevolate e sorrette, ad esempio con l'assegnazione di parte delle multe, in modo da esonerare lo Stato da quei pur minimi e insopprimibili doveri di assistenza degli individui più deboli (92). Per questi motivi si richiede obbligatoriamente l'iscrizione alla Scuola e si tollera che vi rimanga iscritto anche chi non esercita il mestiere, purché ceda i propri diritti di mercato (93). Nell'ambito della Scuola il confratello ha poi la sensazione di potersi organizzare in qualche modo autonomamente, al contrario di quanto avviene nella corporazione.
A capo dell'Arte c'era un gastaldo, affiancato da giudici, chiamati anche soprastanti o decani; la procedura per la loro nomina è grosso modo simile in tutte le corporazioni: gli ufficiali uscenti, alla scadenza del loro mandato, sceglievano fra gli iscritti "utiliores et legaliores" alcuni uomini che designavano i successori. Gli elettori erano di solito cinque (94), ma anche tre (95) o sette (96).
Questo sistema di elezione degli ufficiali, introdotto per la prima volta nel capitolare dei ternieri e riscontrabile pure negli altri testi statutari fino al 1271, perdura in certe corporazioni anche dopo (97). Pian piano però si fanno strada alcune tendenze elitarie e discriminatorie nei confronti di alcuni membri del sodalizio. Già nel 1271 il gastaldo dei fabbri doveva essere nativo di Venezia o averci abitato per almeno 25 anni (cap. 48), e nel 1275 per essere eletto gastaldo dei fustagnai bisognava essere veneto e abitare a Venezia da almeno vent'anni (cap. 28) e per diventare consigliere essere veneto e abitare a Venezia da quindici anni (cap. 29). Non si poteva correre il rischio che una corporazione così rilevante dal punto di vista economico venisse governata da elementi non saldamente radicati nella città. E - cosa che non si trova in altre corporazioni - se gli elettori non si accordavano per nominare la persona idonea, gli iscritti dovevano accettare come gastaldo quella designata dai giustizieri.
In seguito l'esclusione dei neo-immigrati toccò anche gli elettori: dal 1287 presso i calzolai avevano diritto al voto solo gli iscritti residenti a Venezia da almeno quattro anni (cap. 72). Progressivamente vennero esclusi dall'elettorato attivo, oltre che passivo, anche gli apprendisti. Fra i vetrai, fin dal 1271, potevano essere eletti gastaldi solo i maestri e i padroni (cap. 40), norma che già precocemente, rispetto ad altre corporazioni, distanzia in senso gerarchico le varie categorie di lavoratori. A partire dal 1248 si diffonde un sistema di elezione degli ufficiali misto, dove designazione e sorteggio si combinavano richiamandosi a modelli prettamente statali. Iniziano nell'aprile del 1284 i vetrai: il gastaldo uscente, alla fine del suo anno di incarico, doveva scegliere 20 uomini fra i quali venivano estratti a sorte i cinque incaricati di eleggere il nuovo gastaldo ma non al loro interno (cap. 54). Anche i calafati dal marzo 1295 sostituirono il vecchio metodo di elezione del gastaldo con la nomina da parte di nove elettori estratti a sorte fra gli iscritti di età superiore ai 25 anni e residenti a Venezia da almeno 10 anni (cap. 65). Una procedura più o meno simile era in uso dal 1287 presso i calzolai (cap. 70), dal 1286 presso i fabbri (cap. 79), dal 1294 presso i bottai (capp. 109-110) e forse dal 1281 presso i pannivecchi (cap. 24).
Sempre riallacciandosi a modelli comunali, venne introdotta la contumacia di due anni per il gastaldo dei vetrai e di cinque per quello dei calzolai.
Le elezioni avvenivano in periodi dell'anno diversi a seconda della corporazione; spesso in occasione della festa del santo protettore, ad esempio s. Luca, il 18 ottobre, per i conciatori oppure s. Lucia, il 13 dicembre, per i calzolai, o di qualche altro santo particolarmente significativo per la religiosità veneziana, ad esempio s. Michele il 29 settembre, quando fabbri e fustagnai sceglievano i loro ufficiali, una data importante per il calendario amministrativo del comune.
Anche gli ufficiali delle corporazioni, come del resto gli altri della Repubblica, non potevano rifiutare la carica, che dovevano comunque assumere nonostante il rifiuto, dopo aver pagato una multa. L'unica eccezione si registra fra i bottai: l'eletto poteva non ricoprire l'ufficio per un anno, però dopo aver versato 5 lire il gastaldo e 40 soldi gli ufficiali. Gastaldo e giudici dovevano giurare al doge e al comune di Venezia di essere "soliciti et intenti previdere utilia et necessaria hominibus dicte artis pro bono statu prefacte artis" (98).
Compito primario del gastaldo era assicurarsi che tutti gli iscritti prestassero il dovuto giuramento (99), punire con una multa gli inadempienti e mantenere inalterato il capitolare. La vigilanza sull'inalterabilità del capitolare conferma che il potere normativo restava attributo dello Stato: solo i giustizieri infatti potevano cambiare i testi statutari delle Arti cui competeva solo una funzione propositiva, con un'unica eccezione: al gastaldo e agli ufficiali della corporazione dei calzolai era concessa la "licentia" di fare "statuta et ordinamenta in dicta arte que sint ad bonum Veneciarum"; ma prima di entrare in vigore tali "statuta et ordinamenta" dovevano essere "approbata et confirmata" dai giustizieri vecchi (cap. 17).
Due volte l'anno il gastaldo doveva convocare tutti gli iscritti e leggere il testo statutario: "quod gastaldus teneatur convenire cum omnibus suis fratribus in unum et facere legere omnia ordinamenta que continentur in hoc capitulari". L'inadempimento del gastaldo era punito con una multa, che confluiva - significativamente - nelle casse della giustizia vecchia. Tutti gli iscritti dovevano partecipare alla riunione; gli assenti senza una giusta causa pagavano una multa, devoluta alla Scuola dell'Arte (100).
Nei capitolari posteriori al 1263 l'impegno di curare con sollecitudine l'amministrazione degli affari del sodalizio è solennemente preso di fronte allo Stato ed è finalizzato sì al benessere e al profitto degli iscritti ma soprattutto al buon funzionamento e alla conservazione delle strutture statali: "ad honorem" o "cum honore domini Ducis et Comunis Veneciarum et Iusticiariorum". La sollecitudine amministrativa si concretizzava nel fornire i consigli tecnici richiesti dai giustizieri, nell'osservare e far rispettare il capitolare, nel denunciare ogni illecito e ogni stortura all'ufficio della giustizia vecchia. Ognuno doveva collaborare secondo le sue capacità e possibilità, i "samitarii" e i conciatori anche nel "custodire [...> bona huius artis sive scole", "bona fide sine fraude". L'accentuato statalismo che si coglie in questi obblighi è avvertibile anche nei proemi di alcuni capitolari, nei quali l'intervento dei giustizieri è ispirato dall'intenzione del funzionario di contribuire lealmente e fattivamente al bene dello Stato ("pro bono et honore Veneciarum", "pro bono et honore Comunis Veneciarum et utilitate ipsius artis"): in sostanza l'utile e il profitto della corporazione rimangono incardinati e subordinati agli interessi generali del comune.
L'attività istituzionale degli ufficiali delle Arti si esplicava in due direzioni: la vigilanza sul lavoro svolto dagli iscritti e la definizione delle controversie interne al sodalizio.
Il gastaldo doveva ispezionare le botteghe degli iscritti, in genere una volta al mese, per verificare che gli artigiani lavorassero secondo le norme dettate dal capitolare e che i prodotti avessero le caratteristiche richieste. Talvolta - è il caso dei fabbri a partire dal 30 marzo 1275 - il gastaldo doveva poi denunciare ai giustizieri ogni frode riscontrata durante le ispezioni alle officine.
Analoghe funzioni di controllo qualitativo del prodotto svolgevano nel 1258 gli "examinatores", nominati dai giustizieri, per i farmacisti. Già nel maggio 1262 tale compito era affidato per l'oro a due stimatori ("electi ad extimacionem") designati dagli orefici all'interno della loro corporazione (101). Stimatori sono attestati anche dal capitolare dell'Arte dei pannivecchi, che il Monticolo data al 1264-1265 (102). Ogni anno il gastaldo e il decano della corporazione designavano fra gli iscritti ben otto "homines bonos et legales" che "debeant esse extimatores super rebus que pertinent ad artem predictam". Venivano remunerati in proporzione al lavoro svolto, due denari ogni lira stimata, uno dei quali andava agli "extimatores" e uno veniva devoluto "ad utilitatem pauperum dicte scole". Di compensi parla solo, per l'Arte delle faldelle, un'addizione dell'ottobre 1292, che obbligava ogni iscritto a versare ai soprastanti un grosso annualmente alla festa di Ognissanti. Il gastaldo dei fabbri offriva a ciascuno dei giudici della corporazione due doni del valore di 20 soldi, uno a Natale e uno a Pasqua (cap. 11).
Talvolta il prodotto poteva essere commercializzato solo dopo l'approvazione degli ufficiali dell'Arte, soprattutto se si trattava di stoffe e di capi d'abbigliamento: i drappi di seta ("samitarii", cap. 26), le pezze di fustagno, i cappelli, ma anche le campane e i recipienti in legno. La sorveglianza era resa possibile dalla presenza obbligatoria sui prodotti di un particolare contrassegno, che permetteva di risalire al produttore dell'oggetto, e si intensificò dopo il 1278 in concomitanza con l'accentuarsi negli ufficiali delle Arti del carattere di controllori, in vece dei giustizieri, del corretto esercizio del mestiere da parte degli artigiani. In altri casi ancora l'attività di vigilanza degli ufficiali delle arti fu intensa: il gastaldo dei fabbri controllava tutto il commercio di ferramenta e doveva requisire tutte le chiavi provenienti da fuori Venezia, la cui importazione era vietata per non invadere il mercato con prodotti di qualità scadente, non all'altezza dell'accurata produzione lagunare (cap. 47).
I1 potere giurisdizionale del gastaldo e dei giudici, già di per sé limitato a controversie relative all'esercizio del mestiere e di ammontare inferiore a determinate cifre, era ulteriormente arginato da una serie di garanzie a favore degli iscritti, introdotte per la prima volta nel 1263 e presenti nella normativa fino al 1275 circa. Queste costituivano, secondo Mackenney (103), un'arma dell'oligarchia mercantile e aristocratica, nelle cui mani si concentrava il potere politico, per controllare eventuali rivolte popolari e per offrire al ceto artigiano la sensazione di vedere tutelati i propri diritti, di essere ascoltato e accontentato. Il membro della corporazione che intendeva lamentarsi del gastaldo poteva rivolgersi ai giudici, che avevano l'obbligo di sottoporre a giudizio, come un qualsiasi altro iscritto, il gastaldo stesso; a sua volta il gastaldo poteva esigere che un giudice, di cui un iscritto si fosse lamentato, fosse giudicato dai colleghi (104). Tale norma instaurava sia un controllo dal basso sia un controllo reciproco tra gli ufficiali dell'Arte. I giudici dovevano sì consigliare il gastaldo e sostituirlo in caso di assenza e di impedimento ma anche sorvegliare che egli osservasse scrupolosamente il capitolare, richiamarlo per eventuali inadempienze e, in caso di persistenza nell'atteggiamento di mancata osservanza, denunciarlo ai giustizieri (105). Gastaldo e giudici non potevano sottrarsi ai loro compiti giurisdizionali ("quod, si aliquis vadit ad petendum rationem coram gastaldo, gastaldus teneatur dicere officialibus suis 'Facite rationem homini isto et eum intelligite'") (106), entrambi rispettosi della reciproca autonomia d'azione e di giudizio (107): "gastaldio non intromittat se de ea que iudices habent ad faciendum". Il cap. 11 del capitolare dei merciai, inusualmente, richiede che le sentenze vengano pronunciate con una maggioranza di tre giudici su quattro; in caso di parità, la decisione ultima spetta al gastaldo, che comunque deve ratificare e sottoscrivere tutte le sentenze. La maggioranza era richiesta anche dal cap. 16 del capitolare dei "blancarii". Il gastaldo d'altro canto era obbligato a dare esecuzione alle sentenze dei giudici (108), avvalendosi di strutture e personale amministrativo diversi a seconda delle Arti. C'era quasi sempre un "preco", vale a dire un messo, adibito al recapito delle ingiunzioni (109), qualche volta anche uno scrivano (110). Il gastaldo dei pellicciai (cap. 21) utilizzava i messi del doge e quelli dell'ufficio della giustizia. Gastaldo e giudici dovevano espletare i loro doveri giurisdizionali con la massima correttezza e imparzialità, senza farsi influenzare da sentimenti personali e senza sfruttare la propria posizione per estorcere doni e favori: "bona fide sine fraude diffinire et iudicare omnia placita que ante eos venerint; in hoc autem inimicum non nocebit nec amicum iuvabit per fraudem; precium vel dona per se vel per aliquem aut per aliquod ingenium non recipient nec recipi facient occasione huius offitii" (111). L'assimilazione degli ufficiali delle Arti ai dipendenti comunali è in molti casi evidente, anche nell'uso lessicale. Il cap. 54 del capitolare dei conciatori di pelli prescrive che il gastaldo deve, all'inizio del suo gastaldato, presentarsi ai giustizieri "ac dictam gastaldiam tenere pro camera lusticie": una conferma di come gli uomini eletti dagli iscritti fossero considerati dipendenti dello Stato ed esecutori delle sue norme e non rappresentanti ed organizzatori di interessi di un gruppo di artigiani. Inseriti in questo quadro, considerati ufficiali dello Stato, gastaldo e giudici dovevano assicurare quell'imparzialità, di cui tanto si vantava il comune per costruire il suo mito e che diventava talvolta più un richiamo giuridico astratto che una reale e assoluta prassi quotidiana. Si spiega così l'ulteriore divieto per gli ufficiali dell'Arte di "dare alicui habenti placitum ante ipsos consilium facienti preiudicium aliquod parti adverse" (112).
Un'ulteriore limitazione del potere giurisdizionale degli ufficiali dell'Arte era costituita dalla possibilità offerta ad ogni artigiano, insoddisfatto o sospettoso nei confronti del tribunale dell'Arte, di ricorrere a quello della giustizia vecchia: se il placito non era ancora iniziato davanti agli ufficiali della corporazione, questi ultimi non dovevano interferire; in caso contrario, procedevano nel giudizio, data l'inammissibilità del ricorso (113). Esistevano poi limiti minimi dell'ammontare della causa al di sotto dei quali non era possibile appellarsi ai giustizieri: 10 lire per i ternieri, 20 soldi per i barbieri, 40 soldi per falegnami, carpentieri, calafati e merciai, 5 lire per pittori e fabbri. La stessa competenza del tribunale dell'Arte era circoscritta alle controversie tra iscritti alla corporazione (114), a materie legate all'esercizio del mestiere e a questioni relative a somme ben definite sodalizio per sodalizio (115), dopo di che la causa andava rimessa al tribunale della giustizia. La possibilità di ricorso ai giustizieri da un lato limitava il potere degli ufficiali dell'Arte, eliminando eventuali interessi privati nella gestione degli affari del sodalizio e scongiurando la creazione di gruppi di controllo all'interno dell'associazione, e d'altro lato rafforzava la fiducia dell'artigiano nelle istituzioni statali, che acquistavano a livello ideologico connotati garantistici. In effetti i reali poteri degli ufficiali della corporazione in genere si limitavano, anche nel periodo di maggior espansione dei tentativi autonomistici delle Arti, all'esercizio della giustizia amministrativa, il che equivaleva a sorvegliare per delega dello Stato che le norme contenute nel capitolare venissero puntualmente osservate. Con il passare degli anni furono poi introdotte norme tese a scoraggiare il ricorso al tribunale della giustizia vecchia: già il cap. 35 del capitolare dei calafati stabiliva che chi era stato condannato dal tribunale dell'Arte poteva ricorrere ai giustizieri, che erano obbligati ad esaminare il caso, e citare davanti a loro il gastaldo e i giudici; ma la parte giudicata colpevole doveva rifondere spese e danni. Si potrebbe osservare che l'addebito delle spese processuali è norma corrente nella procedura. Fra il 1285 e il 1286 però si introdusse nella normativa l'obbligo per il ricorrente che avesse perduto la causa di pagare, oltre le spese e i danni, anche quanto ritenuto opportuno dai giustizieri (116).
A partire dagli anni Ottanta si assiste per certi versi ad uno sbiadimento della figura degli ufficiali: nei dieci paragrafi del capitolare dei "sablonarii", che risale al 25 febbraio 1280, gastaldo e giudici non vengono mai nominati, chi non pagava le multe veniva citato davanti ai giustizieri e non davanti agli ufficiali dell'Arte, sulla cui esistenza sorgerebbe qualche dubbio se non fosse per attestazioni di poco posteriori (cap. 11 del 1281). Del resto in tutti i capitolari posteriori al 1278 scarseggiano o mancano norme sul funzionamento del tribunale dell'Arte, che continua però sicuramente la sua attività (117).
Si fa strada e si afferma viceversa, sempre nello stesso periodo, la punizione delle ingiurie e degli insulti agli ufficiali dell'Arte, quasi a voler sottolineare la loro assimilazione a funzionari dello Stato (118). Significativa si presenta l'evoluzione lessicale: intorno al 1271 si parla di 'vilania', 'ingiuria'; di 'vilania vel demencia' per i conciatori di pelli; dopo il 1280 di 'rusticitas' in tutti i casi, ad eccezione dei "sablonarii" ('dedecus et vituperium'), dei cristallai ('iniuria') e dei fabbricanti di pettini ('rusticitas sive iniura').
Compare nel 1275 per la prima volta nel capitolare dei fustagnai (cap. 73) e nel 1283 in quello dei "sablonarii" (cap. 14) l'obbligo per il gastaldo e i giudici di fornire, alla fine del loro anno di incarico, un dettagliato rendiconto finanziario. La norma fu estesa nell'agosto 1285 alle altre corporazioni e anche ai gastaldi delle scuole (119). In questo caso un principio ampiamente diffuso nell'ordinamento comunale veneziano, quello della responsabilità dei titolari degli uffici, viene assunto come modello dalla normativa delle corporazioni e conferma la progressiva crescente assimilazione degli ufficiali delle Arti con i magistrati del comune.
Si avvertono in altri casi alcuni sintomi della burocratizzazione e dell'irrigidimento della struttura: il gastaldo e i consiglieri dei fustagnai dovevano riporre il denaro delle multe in una cassetta munita di cinque chiavi, conservate ognuna separatamente dai cinque ufficiali (cap. 71), i quali singolarmente non potevano ricevere alcun versamento (cap. 72).
La consuetudine del rendiconto del gastaldo diventa una necessità dal momento in cui gli ufficiali delle corporazioni iniziano a riscuotere anche la quota di multe spettante alla giustizia vecchia, uso attestato esplicitamente per berrettai (cap. 23) e "galedarii" (cap. 21) ma probabilmente diffuso presso tutte le Arti. Le somme riscosse venivano poi consegnate alla giustizia al termine dell'anno di incarico dei gastaldi.
Nella corporazione dei calafati compare anche la figura del massaro, che doveva registrare su un apposito quaderno le entrate e le uscite del sodalizio e ricevere il giuramento di chi proveniva da fuori Venezia (capp. 36 e 41). Le sue registrazioni contabili venivano probabilmente riscontrate con quelle del gastaldo.
In qualche caso gli ufficiali espletavano, oltre alle funzioni di vigilanza e giurisdizionali, funzioni commerciali a favore degli iscritti: ad esempio, i soprastanti dei costruttori di campane e laveggi, contrattavano, a partire dal 1286, l'acquisto di rame "bonum et legalle" proveniente da Bergamo per conto degli appartenenti all'Arte (capp. 10-11), assicurando così il reperimento delle materie prime e la loro giusta ripartizione fra tutti gli artigiani interessati. Tra le competenze degli ufficiali dei calafati vi era quella di effettuare, insieme al protomaestro, stime del lavoro compiuto dagli iscritti all'Arte (cap. 16).
Il Mackenney ha sottolineato la presenza nelle corporazioni veneziane di due componenti: l'associazione di artigiani praticanti tutti lo stesso mestiere, finalizzata soprattutto al coordinamento economico e alla regolamentazione tecnica dell'attività produttiva, e la Scuola dell'Arte, una confraternita di ispirazione religiosa avente lo scopo di fornire assistenza materiale e spirituale ai confratelli bisognosi (120). Spesso le due strutture, almeno fin verso il 1260, tendono a confondersi, complicando l'indagine sulla loro nascita ed evoluzione. Appare però accettabile l'ipotesi formulata dal Monticolo circa la probabile genesi delle corporazioni vere e proprie dalle associazioni di reciproca assistenza e di devozione comunitaria (121), entro le quali potevano anche svilupparsi forme di collaborazione in campo economico. Quando le due componenti si distinguono tra loro in modo netto, hanno perciò gastaldi diversi e casse separate, la Scuola, anche per specifiche direttive statali, limita il suo campo d'azione all'esercizio della carità, che si concretizza nell'assistenza ai fratelli poveri e malati (122), e alle pratiche devozionali che, legate al culto di un santo protettore, si svolgevano presso una chiesa o un altare ad esso dedicato (123). In tal modo non si lascia spazio agli artigiani per organizzarsi in campo economico e soprattutto politico al di fuori degli spazi regolamentati delle corporazioni. Verso la fine del secolo l'insistenza con cui i capitolari richiamano l'obbligo dei confratelli di partecipare alla vita comunitaria (124) rivela l'interesse dello Stato a canalizzare lo spirito associativo degli artigiani verso attività che, alleviando situazioni di disagio materiale e spirituale, placano eventuali spinte di protesta e sollevano la comunità cittadina da compiti di assistenza sociale. La forma di appoggio più scoperta e più cospicua dello Stato alle scuole artigiane è l'attribuzione ad esse di parte delle multe riscosse (125). Il denaro serviva a sovvenzionare le attività variamente attestate. Nel capitolare dei vetrai si parla di "luminaria mortuorum" alludendo all'uso di lasciare accesa una lampada giorno e notte presso la sepoltura dei confratelli (cap. 28). La Scuola dei falegnami spendeva le proprie risorse per tenere costantemente una candela accesa davanti all'altare di S. Maria nella chiesa di S. Maria del Tempio, per assistere i poveri infermi e per provvedere alla loro sepoltura (cap. 21). Oltre ad una parte delle multe, di solito un terzo salvo disposizione contraria, la Scuola incassava anche la tassa d'entrata degli iscritti, la cui consistenza variava caso per caso e a seconda delle epoche. Talvolta ad essa venivano devolute entrate extra, ad esempio presso i vetrai il surplus del dazio versato dai padroni di fornace al doge (cap. 35). Pagavano una tassa d'entrata i forestieri che volevano esercitare il mestiere in Venezia (126).
Nel capitolare dei ternieri riformato nel 1279 si ribadisce l'obbligo di iscrizione alla Scuola, conditio sine qua non per l'esercizio del mestiere (cap. 48), di partecipazione al pranzo sociale, dal quale erano esentati solo i poveri e i malati (cap. 25) e di versamento della tassa annuale di 1 grosso (cap. 47). Il 3 aprile 1283 si prescrisse la partecipazione ai funerali anche delle mogli degli iscritti (cap. 54), norma suggerita forse dalla considerazione dell'importante ruolo economico svolto dalla donna nell'ambito di tale commercio. I "sablonarii" intervenivano alla sepoltura dei confratelli (cap. 12) e "ad pastum sive caritatem sue scolle" (cap. 18); chi mancava senza un valido motivo - malattia o assenza dalla città - pagava una multa. I cappellai si riunivano a partire dal 1290 per il pasto sociale e per "unam caritatem" la prima domenica di febbraio (cap. 46), mentre il 1° del mese si svolgevano le elezioni per il rinnovo delle cariche corporative. Anche i cristallai effettuavano il loro banchetto e l'elemosina la domenica successiva all'elezione dei soprastanti, cioè ad Ognissanti, e usavano la quota di multe destinata alla Scuola "pro visitando infirmos et mortuos sepelire" (cap. 10). Un pranzo comunitario l'anno e una "carità" il giorno di s. Michele erano i doveri sociali dei berrettai (cap. 35). Tutti i fabbricanti di barili andavano al funerale dei maestri; la multa di soldi 5 pagata dagli assenti ingiustificati veniva suddivisa 1/3 ai giustizieri e 2/3 alla Scuola (cap. 24). I cristallai invece andavano a quello di tutti i confratelli (cap. 21). Le due riunioni annuali dei fusai fissate dal cap. 15 potevano essere i due incontri obbligatori destinati alla lettura del capitolare, ma anche banchetti comunitari: il testo non lo specifica e non aggiunge altro sulla vita della Scuola. Al funerale dei soci i preparatori di faldelle dovevano portare in mano ognuno un cero del valore di denari 4 (cap. 25).
Dal 1281 i barbieri si riunivano per il loro banchetto annuale in una stanza del monastero dei SS. Filippo e Giacomo (capp. 45-46); in quell'occasione si faceva un'imponente luminaria e si mangiava tutti assieme (cap. 62). I fabbri celebravano i loro pranzi annuali a S. Maria del Tempio (cap. 50). I maestri giubbettieri si riunivano tre volte l'anno "pro melioramento dicte artis" (cap. 18) e tutti gli iscritti si recavano ai funerali dei confratelli (cap. 19). Le entrate della Scuola servivano per visitare gli infermi e i poveri (capp. 33-34) e per tenere accesa giorno e notte una lampada nel tempio di S. Maria Assunta, tenuto dai Templari, dove venivano sepolti i giubbettieri. Oltre alla partecipazione alle esequie e all'assistenza agli infermi, ribadite nel 1290, fu deciso nel 1297 di elargire un'elemosina "pro anima fratrum et hominibus dicte artis" in occasione del pranzo comunitario che si svolgeva la domenica successiva al Natale (cap. 44). "Unam caritatem pro pauperibus et per se" dovevano compiere ogni anno a metà settembre, a partire probabilmente dal 1286, i pescatori-pescivendoli (cap. 26), mentre un terzo delle multe era destinato all'assistenza degli infermi e dei poveri dell'Arte (cap. 27).
Le funzioni delle Arti in campo economico sono molteplici: talune risentono dei condizionamenti imposti dai gruppi mercantili che a Venezia, come in altre città comunali, controllano il mondo artigianale (127). Una grossa fetta di disposizioni statutarie riguarda la tutela del consumatore da frodi commerciali circa la qualità e il peso dei prodotti, la rispondenza fra contenuto dichiarato e contenuto reale, il rispetto dei prezzi imposti (128). In base a una norma già presente nel primo capitolare e inserita nei testi di tutto il secolo, gli artigiani giurano di lavorare "bona fide sine fraude", di compiere le varie operazioni tecniche "recte et legaliter", di vendere i prodotti "suo nomine" (129). L'esattezza delle misurazioni talvolta era garantita dallo Stato stesso, che forniva ad esempio i recipienti bollati ai misuratori di olio e di miele e i piatti tarati ai "sablonarii" oppure imponeva ai fabbricanti di tegole e mattoni di attenersi alla forma e alle dimensioni riportate su una colonna di Rialto, secondo una consuetudine molto diffusa nelle civiltà comunali. Alcuni funzionari, si pensi ai custodi degli stai nel fondaco del comune, vigilavano sulla correttezza delle misure e, a partire dal 1263, anche gli ufficiali delle Arti, come si è già visto, ispezionavano i luoghi di produzione e di smercio per rilevare le contraffazioni. Anche la qualità di certi prodotti era assicurata dal comune tramite l'apposizione di un marchio particolare: le leghe metalliche recavano il sigillo ducale e le pezze di fustagno, una volta terminate, dovevano essere portate entro tre giorni ai sovrastanti ai fustagni in Rialto, sottoposte a ispezione e convalidate dalla bolla del comune (cap. 48). Alcune categorie di artigiani erano obbligate a contrassegnare i loro prodotti per facilitare i controlli; l'uso del contrassegno si estende sempre più verso la fine del secolo. A regolamentare il mercato provvedevano prescrizioni igieniche, norme tese ad evitare incette e ad assicurare un costante rifornimento specie di derrate alimentari e di prodotti primi, disposizioni sugli orari da rispettare e sulla occupazione degli spazi destinati alle contrattazioni. Così ad esempio si trovano parecchie norme, sempre molto dettagliate, relative alla vendita di alimenti (pesci, formaggi, carni, olio, miele), ma anche altre destinate ai barbieri che, effettuando interventi di piccola chirurgia e salassi, maneggiavano e dovevano eliminare con particolari modalità e attenzioni il sangue (capp. 9 e 36), elemento inquinante, facilmente deperibile e veicolo di infezioni e di contagi, oltre che psicologicamente recepito come sporco dalla mentalità medioevale (130). Per sventare il pericolo di contagio i barbieri dovevano radere i lebbrosi di S. Lazzaro con rasoi diversi da quelli usati per gli altri clienti (cap. 11). Alcune lavorazioni inquinanti vengono estromesse dal centro urbano e relegate in aree marginali: gli imbiancatori di pelli e cuoio sono concentrati alla Giudecca presso SS. Biagio e Cataldo (capp. 1 e 2) e nella stessa isola sono confinati, intorno alla chiesa di S. Eufemia, i conciatori (cap. 1), obbligati a non lordare i canali (cap. 53) e a non cercare allume nell'isola di Rialto (cap. 51). Un altro caso di allontanamento dalla città di lavorazioni pericolose: i vetrai vengono trasferiti nel 1291 a Murano per deliberazione del maggior consiglio onde evitare gli incendi, pericolo gravissimo e non tanto remoto nel Medioevo, che si cerca di scongiurare vietando agli artigiani di tenere acceso il lume dopo il tramonto (ad esempio, ternieri cap. 45 del 1263 e bottai cap. 30 del 1271) (131).
Per capire lo spirito delle disposizioni anti-incetta basti ricordare l'obbligo imposto ai pescatori-pescivendoli nell'ottobre 1227, ma già presente nella legge annonaria dello Ziani, di portare tutto il pescato e gli uccelli di palude "al palo" dove andavano all'incanto - come accade ancor oggi in taluni grossi mercati ittici - e dove lo Stato riscuoteva il dazio. Ma disposizioni analoghe si trovano anche per i cerchiai (capp. 22 del 1282 e 31 del 1290), che non potevano "incanipare" troppi cerchi e manovrare artificiosamente il mercato. Per analoghi motivi era interdetta ai falegnami qualsiasi forma societaria con i venditori di legname (cap. 6).
Quando poi l'attività di un gruppo artigianale, come quello dei fabbri e in parte quello degli orefici, dipendeva dalla disponibilità di carbone per alimentare i forni, diventava necessario adottare regole per l'approvvigionamento e precauzioni per evitare l'accaparramento arbitrario da parte di alcuni membri del sodalizio (capp.13-15, 39, 59, 63).
Gli spazi e i tempi del lavoro e del commercio erano rigidamente determinati. I capp. 37 e 38 dei ternieri costituiscono l'esempio anche per altre categorie: ogni titolare occupava con il suo banco il posto assegnatogli per sorteggio (132). Le norme in merito diventano con il passare degli anni sempre più rigide e inderogabili. Le ore lavorative del giorno erano solitamente scandite dalle campane cittadine (133). La determinazione dei giorni festivi, durante i quali era interdetta l'attività artigianale e commerciale, varia da Arte ad Arte (relativamente poche per barbieri e carpentieri, numerose per falegnami e calafati) e all'interno di un'Arte da epoca a epoca, con la tendenza ad aumentarne il numero con il passar del tempo (significativo l'inserimento, a partire dal 1276, della festa del Venerdì Santo fra quelle obbligatorie: barbieri, cap. 43, calzolai, cap. 55). Era comunque garantito il servizio alla popolazione in casi di emergenza: i barbieri potevano derogare dall'obbligo del riposo festivo, fissato dai capp. 1, 2, 33, per effettuare salassi in bottega o al domicilio del malato (capp. 34 e 35) e per radere gli infermi (cap. 1); i calzolai potevano accomodare le scarpe rotte (cap. 29). Nel 1296 si fissarono i periodi che i vetrai dovevano dedicare alla produzione, i cinque mesi invernali, e al commercio, gli altri sette. Già nel 1289 doveva essere usuale lavorare d'inverno e smerciare i vetri d'estate, poiché era possibile ai padroni di fornace ingaggiare maestri e apprendisti solo dopo agosto (cap. 76).
Talvolta la corporazione si assume, dopo il 1270, il compito di difendere i propri iscritti: è vietato agli iscritti compiere lavori per chi non ha pagato opere eseguite in precedenza da altri maestri dell'Arte (134). A loro volta gli artigiani si impegnano a terminare i lavori iniziati e a non assumere nuovi incarichi prima di aver concluso i precedenti (135). Le controversie tra lavoratori e committenti possono essere risolte dall'intervento del gastaldo (136). Chi affida un lavoro a un maestro può, se è insoddisfatto, licenziare l'artigiano assunto dopo avergli pagato le giornate di lavoro svolte (137). Gli iscritti non possono terminare lavori iniziati da colleghi e fare concorrenza sleale ai compagni "adescando" l'acquirente che sta già trattando a un altro banco o sottraendo con lusinghe lavoratori e apprendisti già ingaggiati in un'altra bottega (138).
Per arginare i danni derivanti da furti di materiali si ordina, a partire dal 1263, agli iscritti di trattenere la merce di provenienza sospetta e di denunciarne la presenza al gastaldo in modo che il derubato possa riottenere quanto era suo (139). Il gastaldo ha ampi poteri per punire i colpevoli: nella corporazione dei conciatori i ladri rischiano l'espulsione dall'Arte (cap. 45); in quella dei calafati il responsabile di furto la prima volta è redarguito e punito, la seconda espulso dal sodalizio per un anno (cap. 4).
Scarsa è la normativa sugli apprendisti nei capitolari anteriori al 1263; per avere qualche notizia bisogna interrogare altri documenti (140).
Nel 1203, il 6 giugno, a Murano Pietro Vitaliano, figlio del fu Antolino Vitaliano del confinio di S. Martino di Murano, si pone al servizio di Nicolò Martino del confinio di S. Andrea sempre di Murano come apprendista (141). Nel contratto (142) Pietro si impegna a stare al servizio di Martino "tam in die quam in nocte" per quattro anni completi, ad abitare con lui, a servirlo "fideliter [...> sine fraude et malo", ad obbedirgli in tutto e per tutto "secundum [dice il ragazzo> meum scire et posse". In cambio Martino gli deve fornire vitto, vestiti e calzature secondo le sue possibilità e soprattutto deve insegnargli il mestiere ("Et insuper michi monstrare debes de tua arte" dice Pietro). Il documento non dichiara il mestiere esercitato da Martino; visto che l'atto è rogato a Murano e tra Muranesi si può ipotizzare che fosse un vetraio. Comunque è importante rilevare che il contratto viene stipulato direttamente dai due interessati, forse anche perché l'apprendista è orfano di padre, che non ci sono riferimenti espliciti a disposizioni e controlli da parte del comune o di associazioni di mestiere e che il periodo di apprendistato dura quattro anni.
Dopo il 1263 l'Arte detta norme dettagliate in materia di apprendisti (143). Quella più diffusa prescrive il reciproco rispetto dei patti: l'apprendista da un lato non può abbandonare il maestro prima che sia trascorso il periodo prefissato né quest'ultimo può cacciare l'apprendista senza giusta causa. Oltre a una pena pecuniaria è prevista di solito l'esclusione del colpevole da ogni altra contrattazione: il ragazzo non può essere preso a bottega da altro maestro e il maestro non può ingaggiare un altro apprendista; gli inadempienti talvolta pagano multe devolute alla Scuola. L'obbligo della registrazione del contratto entro tre giorni dalla stipula in un apposito quaderno tenuto dal gastaldo - procedura che consente alla struttura corporativa di controllare il mercato della formazione professionale e del lavoro - compare isolatamente nel 1271 nel capitolare dei merciai e si estende sempre più dopo il 1280. Il gastaldo è competente per qualsiasi controversia in materia di apprendistato e talvolta è incaricato di controllare che l'addestramento si svolga in modo regolare. Altre volte il gastaldo deve approvare l'utilizzo di apprendisti per l'assolvimento di determinate funzioni (ad esempio, la vendita della merce o certi lavori destinati ai maestri). La durata dell'apprendistato varia da Arte ad Arte: 12 anni per i barbieri, 7 per i muratori, 5 o 8 per gli orefici, a seconda che il "puer" sia veneto o no, e riducibile per i parenti dei maestri, 6 per i berrettai, 4 per i fusai, non espressa negli altri casi. L'età minima richiesta è generalmente fin verso il 1280 di 14 anni (ad esempio, "blancarii" e calafati), con qualche concessione ai figli e ai nipoti degli artigiani; dopo invece, dai pochi dati disponibili, si ricava l'impressione di un abbassamento da 14 a 8 anni dell'età degli apprendisti accettati a bottega (cristallai e fabbricanti di pettini). Talvolta si trovano limitazioni al numero di apprendisti assunti da un maestro: i calafati non possono tenerne più di due per volta, eccettuati i propri figli e quelli dei fratelli e delle sorelle; i bottai non più di uno. Le condizioni di privilegio accordate ai figli e ai parenti degli iscritti per l'accesso all'Arte si accentuano e si intensificano verso la fine del secolo, secondo una tendenza comune ad altre aree geografiche che si svilupperà ulteriormente in seguito. Fino al 1278 è vietato al maestro assumere il "puer" come lavorante-socio ("ad partem") per ridurre l'insegnamento del mestiere a puro utilizzo della forza lavoro del giovane (144). In seguito si differenziano nei testi dei capitolari due figure di apprendista: uno salariato ("ad solutionem"), che sta con il maestro per il periodo fissato dal contratto, e uno mantenuto ("ad panem et vinum"), che vive e lavora con il maestro per tutto il tempo necessario ad imparare il mestiere (145). Terminato l'addestramento, il "puer" diventa maestro a sua volta e può iscriversi all'Arte e alla Scuola, pagando una tassa d'entrata di differente ammontare a seconda dei sodalizi e talvolta ridotta per i figli dei maestri (146).
La funzione di controllo e di coordinamento della forza lavoro, che si esplica nella regolamentazione del reclutamento della mano d'opera e dell'addestramento delle nuove leve, si inquadra in una più generale politica protezionistica del mercato. Misure esplicitamente protezionistiche della produzione veneziana adottate per taluni settori (147) si abbinano al divieto per certi lavoratori specializzati di emigrare all'estero: verso la fine del secolo la repressione delle fughe fuori città dei vetrai, ad esempio, diventa sempre più intransigente (cap. 80 dell'8 giugno 1295), nel tentativo di bloccarne l'esodo verso le concorrenti fornaci sorte a Treviso, Vicenza, Padova, Bologna, Mantova, Ferrara e Ancona (148).
Le disposizioni statutarie circa l'esecuzione dei lavori artigianali prescrivono genericamente di agire "legaliter", di non rovinare i materiali forniti dai committenti - le stoffe nel caso di sarti e giubbettieri -, di non rubare gli avanzi, di usare, senza mischiarle arbitrariamente fra di loro, materie prime di buona qualità: raccomandazioni diffusissime anche fuori Venezia. Talvolta però si apre qualche squarcio sull'organizzazione del lavoro, sulle tecniche di esecuzione, sugli strumenti usati; la lettura di questo tipo di testimonianza acquista particolare vivezza se affiancata dalle rappresentazioni dei mestieri del portale di centro della basilica di S. Marco (149). Nel fissare, in rapporto alle misure delle travi le tariffe dei segatori, che la scultura marciana riprende mentre si servono di una sega per eseguire il loro lavoro (tavola 90), il capitolare elenca le qualità di legno disponibili in città: abete, "zapin" e larice provenienti dal Cadore e dalla Valsugana, larice da Bassano, qualità non specificata da Trieste (150). I problemi di approvvigionamento di legname destinato all'edilizia emergono in tutta la loro urgenza nel capitolare dei falegnami (cap. 20 e tavola 89): il settore entrava infatti in concorrenza con la cantieristica, alla quale precise disposizioni comunali assicuravano la fornitura della materia prima più pregiata che non poteva essere sprecata in usi vili. Perciò anche i bottai (tavola 88) non potevano estendere più di tanto la loro produzione (cap. 35) e non potevano utilizzare roveri destinati alla costruzione di barche (cap. 33) e materiali provenienti da Trieste e dal Trevigiano (cap. 31). I legni usati per preparare doghe e fondi erano l'abete, il rovere, il castagno (capp. 27-28) e il salice (cap. 75). Bigonci e barili erano costruiti con abete, larice e faggio (capp. 5, 15); i fusi con sambuco e ontano (capp. 8, 11) debitamente stagionati (cap. 9). Di legno, oltre che di bosso e di corna di bue, erano pure i pettini (cap. 4). Il legno costituiva anche il supporto delle "arcelle" su cui talvolta i pittori applicavano il colore (cap. 26), che più spesso però ricopriva il cuoio di scudi, cappelline e selle (capp. 16, 18, 22, 25-27). Per la concia della pelle e del cuoio, che si raccomanda ben eseguita anche nei capitolari di pittori, calzolai (tavola 85) e imbiancatori di pelli, le imposizioni ai conciatori sono minute e dettagliate: non usare acqua salsa (cap. 30) né foglia cotta di sommaco (cap. 33), che dà risultati apparentemente simili ma qualitativamente inferiori alla corteccia del rovere, né "folia salvatica" (cap. 69), né acquistare pelli su bestie vive da scorticare in città (cap. 34), utilizzare allume di buona qualità secondo metodi ben precisi (cap. 37).
L'arte del vetro appare, a giudicare dalle prescrizioni statutarie, già notevolmente sviluppata (151). Numerose le notizie sulla struttura delle fornaci e sull'organizzazione del lavoro. Nel tipo più diffuso di bottega attestato a Venezia nel corso del Duecento lavoravano assieme maestri, apprendisti e lavoratori dipendenti; nelle vetrerie invece c'era anche il padrone delle strutture e dei macchinari, un uomo quindi dotato di capitali propri, dal quale dipendevano le altre tre categorie. Dato che il padrone della fornace era impegnato unicamente per l'esborso del denaro necessario a mettere in piedi l'attività, talvolta poteva anche trattarsi di una donna (cap. 34). Tra le sue incombenze rientrava l'organizzazione delle vendite del vetro lavorato, della cui qualità e perfezione era chiamato a rispondere (cap. 34). Difatti sui contenitori in vetro usati come misure di liquidi, l'artigiano era obbligato ad apporre il bollo del comune che garantiva l'esattezza della misura (cap. 36). Non esistevano invece limitazioni circa la quantità di prodotto smerciata (cap. 10). La produzione, per le note esigenze tecniche legate alla natura stessa del vetro, era a ciclo continuo: si lavorava di giorno e di notte, senza quelle limitazioni che verranno introdotte a fine secolo (cap. 37). Le fornaci, che usavano un fornello a tre bocche (cap. 5), alimentato da legno di ontano e di salice (cap. 7), erano concentrate a Murano già prima del 1291, quando il maggior consiglio decise il loro trasferimento nell'isola per evitare incendi nel centro urbano. Attraverso le sentenze del podestà di Murano si rileva quanto l'economia isolana fosse prevalentemente incentrata sulla produzione vetraria.
Una sola prescrizione tecnica, ma molto importante per la nascente produzione di cristallo: non lavorare materiale contraffatto (cap. 4) e in particolare vetro bianco che poteva essere spacciato per cristallo (cap. 3).
Ben delineate sono le diverse fasi produttive dei fustagni. Il cotone, proveniente dalla Grecia, dalla Siria, dalla Piccola Armenia e dalla Puglia, veniva battuto dai battitori e consegnato ai filatori, che preparavano i fili. Subentravano poi i tessitori e le tessitrici che dovevano usare solo un determinato tipo di pettini (cap. 27) e scartare nella preparazione della stoffa cavezzi troppo corti (cap. 41). Le pezze di fustagno dovevano essere di misura regolamentare e di buona fattura per superare il controllo e ottenere la bollatura comunale di approvazione (cap. 40).
I proprietari di squeri (152) potevano vendere pece e stoppa per calafataggio (capp. 31, 34); ma non tutti i calafati possedevano uno squero e dovevano perciò avvalersi delle strutture altrui (capp. 29, 31). Non vengono menzionati nel capitolare gli altri attrezzi da lavoro presenti nell'iconografia (tavole 77-78).
La scultura marciana (tavole 86-87) mostra due strumenti di lavoro dei barbieri: il rasoio per radere la barba e le tenaglie per estrarre i denti; ma il capitolare (cap. 44) ricorda anche la boccia in vetro con l'indicazione delle once usata per la raccolta e la misurazione del sangue salassato seguendo le prescrizioni del medico.
Il fabbro, colto dallo scultore marciano nel momento iniziale della sua opera (tavole 92-93) mentre batte con un martello un pezzo di ferro grezzo appoggiato sull'incudine e tenuto fermo da una grossa tenaglia, si riforniva di materia prima a Forni (153), in Cadore, a Villach o in Lombardia (cap. 35); per alimentare i forni usava carbone (capp. 13-15, 19) e produceva una vasta gamma di serrature (capp. 29-32) e di chiavi (capp. 24-28), di perni e di chiodi (cap. 35), dettagliatamente descritti dal capitolare (154).
Il bronzo delle campane si faceva con 18 libbre di stagno ogni centenaro di rame (cap. 6); per i laveggi invece si mettevano 10 libbre di stagno ogni centenaro di rame di Bergamo, che era più scadente, e 4 libbre di piombo (cap. 2).
Il Duecento è un secolo importante per l'associazionismo artigiano. Nella prima metà del secolo gli artigiani appaiono riuniti in Scuole, organismi con finalità religiose e assistenziali e forse con qualche altra funzione di natura economica, comunque non documentata dalle fonti, spesso dotati di larghi mezzi economici derivanti dalla liberalità degli iscritti e dei privati in genere e dalla gestione di beni patrimoniali e non - come sarà in seguito - dall'assegnazione da parte dello Stato di una quota delle multe: in sostanza quindi associazioni di tipo privato, cui il singolo aveva la possibilità, non l'obbligo, di aderire. Nella documentazione non compaiono fin verso il 1258 ricordi di corporazioni; le norme dei capitolari sono prevalente espressione della volontà del comune, interprete delle esigenze mercantili della sua classe dirigente, di salvaguardare la qualità dei prodotti, l'esattezza delle misurazioni, la correttezza delle transazioni e dei rapporti commerciali.
Dopo il 1258 compaiono strutture corporative articolate e complesse, cui gli artigiani devono obbligatoriamente iscriversi. A partire dal 1263 il comune interviene con controlli sempre più serrati sullo spirito associazionistico e sulle attività comunitarie, impone norme rigidissime sul funzionamento delle Arti e delega agli ufficiali delle corporazioni funzioni di vigilanza sulla produzione e sul mercato, assolte in precedenza dai giustizieri. In un periodo, quello precedente l'elezione di Lorenzo Tiepolo, caratterizzato da forti tensioni sociali e politiche, ripetuti interventi del maggior consiglio escludono le corporazioni dalla lotta politica e tolgono loro ogni possibilità di intervento nelle scelte economiche, riducendole a strutture amministrative e burocratiche intermedie tra il comune e gli artigiani, usandole in certi casi come strumenti di espressione del consenso.
L'aumento demografico, che espande il numero di artigiani attivi in città, e qualche avvisaglia di crisi in campo economico impongono la necessità di un riordino generale e pianificato delle attività produttive, dell'utilizzo delle materie prime e del reclutamento, addestramento e gestione della forza lavoro. Una prima ondata di riorganizzazione, ispirata da criteri protezionistici dei prodotti veneziani, si concentra nel biennio 1270-1271 e interessa i settori più vitali economicamente e più consistenti quanto a numero di addetti. Di conseguenza corporazione e Scuola si burocratizzano e si specializzano, la prima come strumento di coordinamento economico e di controllo della produzione artigianale, la seconda come struttura assistenziale in senso lato.
La riorganizzazione si estende progressivamente e tocca dopo il 1278 anche le attività più minute, favorendo anzi la frammentazione delle Arti e incanalando nella vita delle Scuole le spinte associazionistiche. Le due strutture, che si modellano su esempi comunali, si irrigidiscono progressivamente: all'interno delle corporazioni si manifestano verso la fine del secolo sintomi di chiusura nei confronti dei neo-immigrati, degli estranei non imparentati con gli iscritti, dei dipendenti e degli apprendisti, categorie che vengono progressivamente emarginate. Tendenza alla suddivisione minuta delle Arti, regime di privilegio per i Veneziani e i parenti dei soci, difesa ad oltranza del prodotto locale sono le eredità consegnate al secolo successivo.
1. Un esempio è offerto dalla rassegna Collegi professionali e corporazioni d'arti e mestieri della vecchia Milano. Catalogo, a cura di Caterina Santoro, Milano 1955; la conferma viene da Roberto Greci, Un saggio bibliografico su corporazioni e mondo del lavoro, in Id., Corporazioni e mondo del lavoro nell'Italia padana medievale, Bologna 1988, pp. 45-92.
2. Elisa Occhipinti. Quarant'anni di studi italiani sulle corporazioni medievali tra storiografia e ideologia, "Nuova Rivista Storica", 74, 1990, pp. 101-174. Si veda anche Roberto Greci, Un ambiguo patrimonio di studi tra polemiche, inerzie e prospettive, in Id., Corporazioni e mondo del lavoro nell'Italia padana medievale, Bologna 1988, pp. 11-43.
3. Antonio Ivan Pini, Potere pubblico e addetti ai trasporti e al vettovagliamento cittadino nel Medioevo: il caso di Bologna, "Nuova Rivista Storica", 66, 1982, pp. 253-281 (ora ristampato con il titolo Alle origini delle corporazioni medioevali: il caso di Bologna, in Id., Città, Comuni e corporazioni nel Medioevo italiano, Bologna 1986: le citazioni successive faranno riferimento alle pagine dell'articolo); Lellia Cracco Ruggini, Le associazioni professionali nel mondo romano-bizantino, in AA.VV., Artigianato e tecnica nella società dell'alto Medioevo occidentale (Spoleto, 2-8 aprile 1970), Spoleto 1971, pp. 59-193 e anche Carlo Guido Mor, Gli artigiani nell'alto Medioevo (con particolare riguardo ai riflessi giuspublicistici), ibid., pp. 195-213, ai quali rinvio per la nutrita bibliografia sull'argomento. Una probabile eccezione alla situazione più generale è illustrata da Roberto S. Lopez, Continuità e adattamento nel Medioevo. Un millennio di storia delle associazioni di monetieri nell'Europa medievale, in AA.VV., Studi in onore di Gino Luzzatto, II, Milano 1949, pp. 74-117. Il Centro italiano di studi sull'alto Medioevo di Spoleto curò anche l'allestimento della mostra Arti e corporazioni nella storia d'Italia, il cui Catalogo della mostra con Prefazione di Ernesto Sestan, pubblicato a Spoleto nel 1966, contiene uno studio di Maria Francesca Tiepolo, Le arti vetrarie a Venezia, pp. 31-36.
4. Arrigo Solmi, Le associazioni in Italia avanti le origini del Comune, Modena 1898.
5. Gino Arias, Il sistema della costituzione economica e sociale italiana nell'età dei Comuni, Roma-Torino 1905, le cui tesi suscitarono vivaci dissensi specie da parte di Gioacchino Volpe e di Enrico Besta.
6. Gennaro Maria Monti, Le corporazioni nell'evo antico e nell'alto medioevo. Lineamenti e ricerche, Bari 1934.
7. Pier Silverio Leicht, Corporazioni romane e arti medievali, Torino 1937, che sosteneva la tesi continuista, ripresa un ventennio più tardi, ma in forma più articolata e flessibile, in Operai, artigiani, agricoltori in Italia dal secolo VI al XVI, Milano 1959. Al Leicht si deve anche una panoramica sintetica sul problema in Storia del diritto italiano. Il diritto pubblico, Milano 19723, pp. 240-253.
8. Filippo Carli, Il mercato nell'alto Medioevo, Padova 1934; Id., Il mercato nell'età del Comune, Padova 1936.
9. Si veda in proposito il più recente ed originale contributo alla soluzione del problema della continuità o meno in A.I. Pini, Potere pubblico. Comunque, che il problema della continuità sia passato di moda è quanto afferma Roberto S. Lopez nel Discorso inaugurale, in Artigianato e tecnica (p. 20), aggiungendo: "il nocciolo della questione non è la continuità ma la persistenza" (p. 32).
10. E quanto ribadisce anche E. Sestan nella prefazione al catalogo spoletino Arti e corporazioni (pp. 5-6). Per citare solo i più rilevanti, Alfred Doren, Le arti fiorentine, Firenze 1940; Augusto Gaudenzi, Le società delle arti in Bologna nel secolo XIII: i loro statuti e le loro matricole, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano", 8, 1889, pp. 7-126; Gina Fasoli, Le compagnie delle arti a Bologna fino al principio del secolo XV, Bologna 1936; Luigi Simeoni, Gli antichi statuti delle arti veronesi, Venezia 1914; Giuseppe Micheli, Gli statuti delle corporazioni parmensi, Parma 1913 e via dicendo per le numerose edizioni di statuti corporativi.
11. Il giudizio è in Antonio Ivan Pini, L'associazionismo medievale. Comuni e corporazioni, Bologna 1976, p. 9.
12. Si veda a titolo di esempio Roberto Greci, Forme di organizzazione del lavoro nelle città italiane tra età comunale e signorile, in Le città in Italia e in Germania nel Medioevo: cultura, istituzioni, vita religiosa, a cura di Reinhard Elze-Gina Fasoli, Bologna 1981, pp. 81-117, ora ristampato in Id., Corporazioni e mondo del lavoro nell'Italia padana medievale, Bologna 1988, pp. 129-255. Sull'interesse, rinnovatosi negli ultimi anni, per il mondo del lavoro v. gli atti dei convegni Artigiani e salariati. Il mondo del lavoro nell'Italia dei secoli XII-XV (Pistoia, 1-13 ottobre 1981), Pistoia 1984; Lavorare nel Medioevo, Perugia 1983 e le serie di "Studi & Notizie" e "Quaderni" pubblicate dal Centro di studio sulla storia della tecnica del CNR presso l'Università di Genova e in genere la bibliografia citata da Maria C. Billanovich e da Giorgetta Bonfiglio Dosio nei due contributi apparsi in Viridarium floridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, Padova 1984.
13. A.I. Pini, L'associazionismo, p. 4 con rinvio alla bibliografia citata; Gigliola Soldi Rondinini, A proposito di A.I. Pini, Città, Comuni e corporazioni nel Medioevo italiano (Bologna 1986), "Nuova Rivista Storica", 70, 1986, pp. 637-664.
14. Victor Rutenburg, Arti e corporazioni, in AA.VV., Storia d'Italia, V, 1, I documenti, Torino 1973, pp. 613-642.
15. A.I. Pini, L'associazionismo, pp. 10-13; Id., Dal comune città-stato al comune ente amministrativo, in AA.VV., Comuni e Signorie: istituzioni, società e lotte per l'egemonia, Torino 1981 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, IV), pp. 541-543 (pp. 451-587 [ora in Id., Città, Comuni e corporazioni>).
16. E qui cito, per non essere travolta dai dati, solo quelle pubblicazioni relative a Venezia: Giuseppe Marzemin, "Il libro del prefetto". Sistema corporativo romano di Costantinopoli e di Venezia, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 94, 1934-1935, pp. 381-406; Silvia Gramigna-Annalisa Perissa, Scuole di arti, mestieri e devozione a Venezia. Itinerari di storia e arte, Venezia 1981 (escluso però il bel Saggio introduttivo di Giovanni Scarabello).
17. Ad esempio, Bartolomeo Cecchetti, Le industrie in Venezia nel secolo XIII, "Archivio Veneto", 4, 1872, pp. 211-257.
18. V. I Capitolari delle Arti Veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, I-II, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1896-1905; III, a cura di Enrico Besta, Roma 1914 (Fonti per la storia d'Italia, 26, 27/1-2, 28). Per la citazione di Monticolo v. ibid., I, p. XXI. Sul limite di certe edizioni e sulla necessità di "smontare" la fonte si veda l'esemplare lezione metodologica offerta dal paragrafo 3 (pp. 497-510) di Silvana Collodo, Signori e mercanti. Storia di un'alleanza a Padova nel Trecento, "Nuova Rivista Storica", 71, 1987, pp. 489-530, ora ristampato in Ead., Una società in trasformazione. Padova tra XI e XV secolo, Padova 1990, pp. 329-403 (le citazioni successive sono dall'articolo).
19. Giovanni Monticolo, L'ufficio della Giustizia Vecchia a Venezia dalle origini sino al 1330, Venezia 1892. Usciva un anno dopo un altro suo contributo preliminare al lavoro di edizione Studi e ricerche per l'edizione dei capitolari antichissimi delle arti veneziane (1219-1330), "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano", 13, 1893, pp. 9-93.
20. Incidentalmente si può notare il persistere della centralità della figura del doge, quale impersonificazione dello Stato, e l'autocoscienza di essere Stato evidenziata dall'uso costante e diffuso di quella che il Bartoli Langeli chiama "formula d'onore" nella significativa enunciazione "ad honorem domini Ducis et Comunis Veneciarum" o "civitatis Veneciarum" non inquinata da riferimenti ad altre autorità, laiche o ecclesiastiche, sacre o profane. Sul tema Attilio Bartoli Langeli, La formula d'onore. Un esperimento notarile per il Comune di Perugia, "Il Pensiero Politico", 20, 1987, pp. 121-135. Si noti poi come verso la fine del secolo e all'inizio del successivo compaiano nella formula d'onore dei capitolari veneziani riferimenti alla Vergine o alla divinità: ad esempio, nel capitolare dei tagliapietra del 1307, "ad laudem Dei [...> et beatissime Matris eius, honorem domini Ducis et iusticie".
21. Non va considerata fra le norme originarie o comunque anteriori al 1260 quella del capitolo 18, che è chiaramente aggiunta in epoca successiva. Difatti il capitolo 17 termina con la consueta formula conclusiva ("Hec omnia suprascripta [...> observabo"). Nel capitolo 18 la disposizione è espressa in prima persona plurale in quanto è ordine dei giustizieri ("Statuimus [...>"), a differenza dei capitolari precedenti, nei quali è usata la prima persona singolare dell'indicativo futuro ("faciam", "observabo", ecc.) o la terza persona singolare del congiuntivo presente ("audeat", "debeat", ecc.). Inoltre nel testo inviato al comune di Brescia dal doge Giovanni Dandolo nel febbraio 1281 e trascritto negli statuti cittadini tale capitolo non compare: I Capitolari, I, pp. XL-XLI; Andrea Valentini, Gli statuti di Brescia dal secolo XII al XIV illustrati e documenti inediti, "Nuovo Archivio Veneto", 15-16, 1898, pp. 54-55 (pp. 5-98, 370-391; pp. 188-203); Statuti bresciani del secolo XIII, a cura di Federico Odorici, in Leges municipales, II, Augustae Taurinorum 1876 (Historiae patriae monumenta, 16), coll. 221-224; Gaetano Panazza, L'arte romanica, cap. IV, Le arti applicate dal secolo XI all'inizio del secolo XIV, in AA.VV., Storia di Brescia, I, Brescia 1963, p. 816 (pp. 813-822). Infine nel capitolo in questione è comminata tra l'altro una pena pecuniaria, elemento che non si riscontra nella normativa più antica perché viene introdotto in epoca successiva.
22. I capitolari, II, pp. 391-396.
23. Ibid., III, pp. 41, 55, 85, 157: "sablonarii", cappellai, "galedarii" e in parte fabbricanti di pettini.
24. Ibid., I, p. LXIV n. 3.
25. Ibid., III, pp. 291-322.
26. Giorgetta Bonfiglio Dosio, Controllo statale e amministrazione della Zecca veneziana fra XIII e prima metà del XVI secolo, "Nuova Rivista Storica", 69, 1985, p. 474 e sul capitolare dei massari alla moneta p. 464 (pp. 463-476).
27. Frederic C. Lane-Reinhold C. Mueller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, Baltimore - London 1985.
28. Sul controllo dei materiali destinati all'Arsenale Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 192-195: La riorganizzazione del potere marittimo.
29. Witold Kula, Metrologia storica, in Id., Problemi e metodi di storia economica, Varese-Milano 1972, p. 505 (pp. 497-538): "Sovrintendere alle misure è attributo del potere presso tutte le società ben organizzate. L'attributo del potere consiste nel conferire vigore alle misure e nel custodire i modelli, che, a volte, assumono carattere sacrale. Le funzioni del potere in questo campo si manifestano anche nella tendenza ad unificare le misure in uso e nel comminare pene a coloro che hanno compiuto infrazioni nell'impiegarle".
30. Cito, a titolo di esempio, una recente frase di Silvana Collodo (Signori e mercanti, p. 490) "l'impostazione economico-giuridica non dà spazio adeguato ai dinamismi socio-politici".
31. I capitolari, I, p. XXVIII.
32. A.I. Pini, Potere pubblico, soprattutto p. 258.
33. Il testo della legge figura pubblicato da Candido Trevisanato in Bartolomeo Cecchetti, Programma dell'I.R. Scuola di Paleografia in Venezia, Venezia 1862, pp. 48-54.
34. A.I. Pini, Dal comune città-stato, p. 541; Id., Potere pubblico, p. 257; E. Sestan, Prefazione, p. 9.
35. Si vedano in proposito gli esempi riportati da A.I. Pini, Potere pubblico, p. 258.
36. G. Marzemin, "Il libro del prefetto".
37. I capitolari, II, pp. LIII-LVII, che nelle densissime note descrive con dovizia di particolari i mercati veneziani.
38. L'esistenza di produzioni artigianali fiorenti e specialistiche in epoca anteriore al XIII secolo è ampiamente dimostrata da Girolamo Zanetti, Della origine di alcune arti principali appresso i Veneziani libri due, Venezia 1841 (ma si noti che "arti" è usato dallo Zanetti per denominare i mestieri, le attività creative, non le corporazioni). Numerosi artigiani compaiono nei documenti fino al 1199, editi nel Codice diplomatico veneziano di Luigi Lanfranchi (dattiloscritto presso 1'A.S.V.). Ma non basta la presenza documentata di artigiani per parlare di corporazioni, come ha fatto qualcuno retrodatando a periodi improponibili una struttura associativa ben definita e tipica di altri secoli (Agostino Sagredo, Sulle consorterie delle arti edificatine in Venezia: studi storici, Venezia 1856, in particolare le pp. 46-52, che pecca di scarsa precisione cronologica). Il fatto, ad esempio, che sulle basi delle colonne della Piazzetta siano raffigurati artigiani all'opera non significa che all'epoca della loro realizzazione (1175) esistessero già le corporazioni, come sostiene Michelangelo Muraro, La vita nelle pietre. Sculture marciane e civiltà veneziana del Duecento, Venezia 1985, p. 31; per altro molto utile per la rilettura delle raffigurazioni dei Mestieri nell'arcone centrale della basilica di S. Marco e per una loro più convincente datazione (pp. 13, 15, 68-85) che anticipa di una ventina di anni quella ipotetica di Otto Demus, Oriente e Occidente nell'arte veneta del Duecento, in AA.VV., La civiltà veneziana del secolo di Marco Polo, Firenze 1955, pp. 109-126, alla p. 119, datazione usata da Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano (secoli VII-XIV), Firenze 1967, p. 249, per un'interpretazione politica del ciclo scultoreo. L'esistenza di corporazioni in epoca molto precoce è sostenuta anche da Pompeo G. MolmentI, Storia di Venezia nella vita privata, I, Trieste I 98 17, pp. 141- 142. Talvolta per sostenere la tesi dell'esistenza a metà del XII secolo delle Scuole artigiane, sbrigativamente identificate con le corporazioni, è stato utilizzato, equivocando sul significato del termine "scola", un documento, in seguito correttamente interpretato da Giovanni Monticolo, La costituzione del doge Pietro Polani (febbraio 1143, 1142 more veneto) circa la processio scolarum, "Rendiconti della R. Accademia dei Lincei", cl. scienze morali, storiche e filologiche, 9, 1900, pp. 91-133.
39. A.I. Pini, Potere pubblico, p. 277. Il documento relativo al Sagornino si può leggere in Cronache veneziane antichissime, I, a cura di Giovanni Monticolo, Roma 1890 (Fonti per la storia d'Italia, 9), pp. 175-176. Quanto ai mugnai di S. Giorgio, il documento del 20 dicembre 982 elenca fra i beni donati dal doge al monastero "lacum iunctum iuxta vinea [...> ubi antea fuit molinum ius nostri palacii" che il donatario si impegna a ricostruire e a rimettere in funzione ("ubi tu aquimolum debeas facere, sicut antea fuit"). Al monastero sono trasferiti tutti i diritti ducali, reali e personali, su detto mulino; il doge rinuncia ai servicia publica gravanti sui mugnai di quel mulino e di altri due di proprietà del monastero, ma rimane in vigore l'obbligo per i mugnai di effettuare i consueti turni di guardia al palazzo: "ita ut nullum publicum servicium mollenariis abitantibus tam in ipso, quam in aliis duobus aquimolis positi in rivo Businiaco, quos tu dedesti in iamdico monasterio, aliquando facere debeat, nisi tantum vigilia per vices suas ad nostrum palacium, secundum eorum consuetudinem" (S. Giorgio Maggiore, II, Documenti [982-1159>, a cura di Luigi Lanfranchi, Venezia 1967, p. 20). Anche nel fumoso racconto del Chronicon Altinate si parla di ministeria, confermando così la realtà documentata per i mugnai: Origo civitatum Italiae seu Venetiarum (Chronicon Altinate et Chronicon Gradense), a cura di Roberto Cessi, Roma 1933 (Fonti per la storia d'Italia, 73), p. 172.
40. A.I. Pini, Potere pubblico, pp. 267-268.
41. Le promissioni del Doge di Venezia dalle origini alla fine del Duecento, a cura di Gisella Graziato, Venezia 1986.
42. A.S.V., Secreta, Collegio, Liber promissionum, reg. I (ex Sala diplomatica regina Margherita, LXXXI. 6; ex Codice Brera 277), cc. 13v-14, 22r-v, citati ma non editi dalla Graziato (Le Promissioni, pp. 60, 81).
43. Liber promissionum, c. 14, "Item gastaldus marangonum domorum debet dare quindecim magistros ad opus faciendum et repeçandum palatium domini Ducis tempore quo necesse fuerit et ipsi magistri debent habere expensas a curia dicti domini Ducis". Uguale a c. 22v.
44. A.I. Pini Potere pubblico, pp. 265-269.
45. Liber promissionum, c. 13v, "Calafati laborant sive calcant sine precio aliquo lignos veteres domini Ducis et Dux dat eis expensas interim. Marangoni quando dominus Dux facit fieri Bucentaurum debent laborare Bucentaurum diebus tribus pro quolibet et dominus Dux dat eis expensas. Similiter calafati debent laborare sive calcare dictum Bucentaurum diebus tribus pro quolibet et Dux dat eis expensas". Pressoché uguale anche a c. 22v.
46. I capitolari, II, pp. 329-330 n. 2.
47. Liber promissionum, cc. 13v e 22v, "Gastaldus fabrorum ponit ferrum ad baculos et ad çonos quibus utimur nos Dux in predicto die iovis venationis".
48. Si veda ibid., "Gastaldus butiglariorum aptat vegetes et buticellas domini Ducis et Dux interim dat eis expensas et dat etiam çonos pro die iovis de venatione".
49. Sulla figura e la politica filo-popolare di Giacomo Tiepolo G. Cracco, Società e stato, pp. 82-90.
50. A.I. Pini, Potere pubblico, pp. 268, 272; Le promissioni, p. 15.
51. Il richiamo alle consuetudini dei predecessori, non documentate dalle promissioni anteriori, potrebbe spiegare i riferimenti contenuti nel Chronicon Altinate (Origo civitatum, pp. 170-173), che ricorda ministeria di schiavi o liberti al servizio del dux e dei tribuni. Comunque la formula "secundum consuetudinem" e similari non dovrebbe essere presa alla lettera e quindi usata per suffragare ipotesi di consuetudini orali precedenti ai testi scritti (ad esempio, Arte degli squerarioli, a cura di Giovanni Caniato, con saggi e schede di Manlio Cortelazzo - Michela Dal Borgo - Nunzio Di Lucia Coletti - Alberto Favaretto - Paolo Rosa Salva, Venezia 1985, p. 26); potrebbe invece trovare talvolta giustificazione nel desiderio di camuffare come consuetudini talune innovazioni o più semplicemente di aumentare l'autorità e il prestigio morale di certe norme.
52. Le promissioni, p. 30.
53. Ibid., p. 48.
54. Sull'inequivocabile significato di questi indizi A.I. Pini, Potere pubblico, p. 268, che parla a proposito di Venezia di "sistema degli antichi officia dipendenti dal gastaldo ducale" e afferma che nel corso del XIII secolo la situazione muta; si può quindi parlare di arti medievali quando questi officia, che hanno statuti propri, "invece di dipendere da un gastaldo nominano ognuno i propri capi che conservano però sempre il nome di gastaldi". Anche il Monticolo (I capitolari, II, p. LXIV) constata che "in origine il gastaldato dei mestieri doveva essere di nomina ducale [...> ma a poco a poco divenne un ufficio elettivo degli uomini dell'Arte" e ipotizza (p. LXV) tre fasi di sviluppo dell'istituzione sulle quali si può in linea di massima concordare.
55. Le Promissioni, p. 90.
56. Calafati cap. 42, aggiunta databile fra il novembre 1276 e l'ottobre 1277.
57. Le Promissioni, p. 114.
58. Ibid., pp. 142-143.
59. F.C. Lane, Storia di Venezia, p. 192.
60. Ugo Tucci, La navigazione veneziana nel Duecento e nel primo Trecento e la sua evoluzione tecnica, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, I/2, a cura di Agostino Pertusi, Firenze 1973, pp. 821-841; Frederic C. Lane, Le navi di Venezia, Torino 1983, in particolare pp. 91-114: Normativa e amministrazione del diritto marittimo: 1250-1350; Ennio Concina, L'Arsenale della Repubblica di Venezia, Milano 1984, pp. 9-24 e la bibliografia citata nei tre studi. Un accenno c'è anche in Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 65-68.
61. F. C. Lane, Storia di Venezia, pp. 191-192.
62. "Perché non ci fu una sommossa popolare a Venezia come in tante altre città nel rinascimento?" si chiede Richard Mackenney (Arti e stato a Venezia tra tardo Medio Evo e '600, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, p. 127 [pp. 127-143>), che riprende il discorso nel volume Id., Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe: c. 1250 - c. 1650, London 1987, pp. 33-35.
63. Le citazioni di rinvio ai testi verranno fatte d'ora in poi indicando il nome degli artigiani, cui il capitolare edito dal Monticolo si riferisce, e, con cifre arabe, il numero del capitolo. Ternieri 46, 47, 48; barbieri 39, 40, 41; vetrai 41, 42, 43; pellicciai 26, 27, 28; "blancarii" 36, 37, 38; calzolai 3, 41, 42; falegnami 39, 40, 41; carpentieri 29, 30, 31; calafati 37, 38, 39; muratori 27, 28, 29; merciai 33, 34, 35; fabbri 41, 42; pittori 38, 39, 40; bottai 60, 61; conciatori 46, 47, 48; fustagnai, ma in forma ridotta, 56, 57; fabbricanti di pettini 18, 19. Le parti del maggior consiglio vi compaiono sempre e non relegate in appendice, come sostiene il Cracco (Società e stato, p. 247) che utilizza la posizione delle deliberazioni all'interno o in appendice al testo per valutare l'influenza della politica del Tiepolo sull'allentarsi del controllo statale sul ceto artigiano. Forse si potrebbe più semplicemente supporre che le parti del maggior consiglio si trovano talvolta in coda al testo in quanto aggiunte a una serie di capitoli riformati nel 1270-1271 ma sulla scorta di un nucleo già esistente in precedenza.
64. Ternieri 29, barbieri 31, vetrai 46, pellicciai 10, "blancarii" 32, calzolai 44, falegnami 33, carpentieri 19, calafati 26, muratori 26, merciai 25, fabbri 45, pittori 9, bottai 62, conciatori 43, fustagnai 61, berrettai 14, cristallai 11, fabbricanti di pettini 24.
65. Ternieri 50, barbieri 42, vetrai 44, pellicciai 29, "blancarii" 39, calzolai 43, falegnami 42, carpentieri 32, calafati 40, muratori 30, merciai 36, pittori 41, conciatori 49, fustagnai 12, fusai 15.
66. Del "nuovo giro di vite" rappresentato dalle due parti del maggior consiglio del 1264 e degli interventi dei giustizieri del 1265, "con i quali il rapporto artigiani-governo già si pone, almeno potenzialmente, in termini di lotta politica" parla G. Cracco, Società e stato, p. 221. A partire dal 1265 cambia anche il significato della frase 'iurare artem' (R. Mackenney, Tradesmen, p. 25).
67. Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, II, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1931 (= Bologna 1970), p. 266: il testo registra solo la dispositio; nessuna narratio illustra le contingenze politiche alla base della decisione, nessuna arenga ne spiega le motivazioni ideologiche.
68. Molto decisa in proposito l'interpretazione di R. Mackenney, Tradesmen, pp. 25-26.
69. Andrea Dandolo, Chronica per extensum descripta e Chronica breve, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, p. 314, notizia ripresa e commentata da R. Mackenney, Tradesmen, p. 26. Si veda anche l'interpretazione dei fatti di G. Cracco, Società e stato, p. 229. Per il necessario inquadramento della fonte nell'ambito della cronachistica veneziana si vedano i contributi dei diversi autori in AA.VV., La storiografia veneziana fino al secolo XVI. Aspetti e problemi, Firenze 1970, specie il lungo saggio di Girolamo Arnaldi su Andrea Dandolo doge-cronista, pp. 127-252. Inoltre Giorgio Cracco, Patriziato e oligarchia a Venezia nel Tre - Quattrocento, in AA.VV., Florence and Venice: Comparisons and Relations, I, Quattrocento, Florence 1979, pp. 71-98, specie le pp. 74-76 e nn. 39-41 e Id., La cultura giuridico -politica nella Venezia della "serrata", in AA.VV., Storia della cultura veneta, II, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 238-271.
70. Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano Iustiniani filio adiudicata, a cura di Roberto Cessi - Fanny Bennato, Venezia 1964, p. 179.
71. G. Cracco, Società e stato, pp. 219-220.
72. Martin Da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Alberto Limentani, Firenze 1972, pp. 282-305. Per inquadrare la processione delle Arti del 1268 in un concetto più generale di festa legato al modo associazionistico veneziano R. Mackenney, Tradesmen, p. 135.
73. Ibid., p. 24.
74. Ibid., pp. 27-28 e note relative.
75. Esiste di Lucia Bastianelli la voce Badoer, Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, V, Roma 1963, pp. 121-122; ma notizie esaurienti si possono trovare in Marco Pozza, I Badoer. Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano Terme 1982, alle pp. 52-64 e 84-95. Accenni consistenti all'attività di Marco Badoer si trovano anche in G. Cracco, Società e stato, pp. 114-115, 183-184, 323.
76. Una di queste riguarda proprio il periodo che qui interessa. Dai capitolari editi dal Monticolo risulta che uno dei tre giustizieri vecchi in carica dall'ottobre al dicembre 1271 si chiamava Marco Badoer: non vi sono ulteriori specificazioni circa il ramo del casato e la paternità. Sulla sua identificazione con Marco, figlio di Manasse, il Pozza avanza qualche riserva adducendo le motivazioni che la carica di giustiziere non era "di per se stessa [...> molto importante" e che vi sono numerose omonimie (M. Pozza, I Badoer, p. 91 n. 84). Anche la Bastianelli mette in guardia circa il pericolo di confondere Marco, figlio di Manasse, con un di lui figlio di nome Marco, il quale a partire dal 1270 compare più volte fra gli eletti nel maggior consiglio. Il Mackenney controbatte le obiezioni del Pozza, osservando che Marco Badoer come uomo rappresentativo degli interessi aristocratici delle grandi famiglie raccolte intorno ai Dandolo era la persona giusta quanto a convinzioni politiche, prestigio personale, esperienza e capacità per arginare le pretese di potere degli artigiani sostenuti dal Tiepolo. In quegli anni intorno al 1270 la carica di giustiziere non sarebbe quindi stata di scarsa importanza, anzi avrebbe rappresentato lo strumento istituzionale usato dalle forze aristocratiche per controllare le corporazioni e togliere al ceto artigianale ogni velleità politica. A ricoprirla sarebbe perciò stato chiamato un uomo di provata fede aristocratica e di indiscussa capacità. Il Mackenney non affronta neppure il problema della possibile omonimia con il figlio. Comunque se anche si trattasse di quest'ultimo, non cadrebbe la sostanza del discorso del Mackenney sulla necessità per il fronte aristocratico di insediare nell'ufficio della giustizia vecchia uomini fidati. E i Badoer lo sono indiscutibilmente per origini, per tradizioni, per contingenze e per convinzioni: l'antichità della famiglia, le cui fortune economiche si rafforzano proprio grazie all'eredità anche morale degli Ziani, il prestigio goduto in patria e all'estero, i legami familiari che la pongono sullo stesso piano di stirpi regnanti, i successi politici e militari ne fanno uno dei capisaldi e dei difensori dell'ideologia aristocratica. La partecipazione dei suoi membri alle vicende della Repubblica è, nel corso del Duecento, capillare, costante e impegnata (oltre al già citato M. Pozza, I Badoer, numerosi richiami in G. Cracco, Società e stato, pp. 27, 65, 85, 121-122, 126, 202, 230, 254, 264, 347 n.): una totale garanzia di successo per il processo di repressione antipopolare.
77. Tutte citazioni da G. Cracco, Società e stato, pp. 8-9, 13, 65, 85, 114, 123 n., 202, 211, 217, 230, 237-238, 254, 264, 347 n., 348.
78. Ibid., pp. 36 n., 120, 241, 347-348 n.
79. Ibid., pp. 116, 132, 177, 202, 255.
80. Marco Barbaro, Arbori de' patritii veneti, III, c. 295 (ms. dell'A.S.V.).
81. G. Cracco, Società e stato, pp. 69 n., 89, 202, 211, 217, 254, 347-348 n.; Pietro fu elettore del doge nel 1281; suo padre, Giacomo, lo fu nel 1229 (M. Barbaro, Arbori, III, c. 273).
82. R. Mackenney, Tradesmen, p. 10.
83. I capitolari, II, pp. XVIII-XIX, dove si nota che tale formula è differente da quelle, riscontrabili in altre città, dove l'artigiano designa se stesso come membro di un sodalizio.
84. Le espressioni usate nel testo dei capitolari sono inequivocabili: ad esempio, nel febbraio 1219 si parla di "omnes sartores" (ibid., I, p. 9) e solo nell'addizione del 2 aprile 1300 si legge "si aliquis de dicta arte et scola sartorum" (ibid., p. 16) oppure "aliqua persona de dicta arte" (ibid., p. 17). Solo nelle aggiunte del 1281 al capitolare dei giubbettieri si trovano "vigilantes" appartenenti all'Arte ed eletti dagli iscritti. Del resto rileva l'assenza di notizie sugli ufficiali dell'Arte, l'ordinamento del sodalizio e la vita dei confratelli "innanzi al settembre 1263" anche il Monticolo (ibid., I, p. XVI).
85. Sul significato di tale tipo di rappresentanza A.I. Pini, Potere pubblico, pp. 271-272.
86. G. Monticolo, L'ufficio, pp. 11-12.
87. Per un quadro generale sugli avvenimenti di quegli anni G. Cracco, Società e stato, pp. 193-229. Una tradizione consolidata, anche se discutibile, colloca intorno al 1260 la nascita delle Scuole grandi, e precisamente 1258 S. Teodoro, 1260 S. Maria della Carità, 1261 S. Giovanni Evangelista e S. Maria della Valverde (ibid., pp. 226-227 per un'interpretazione particolare del fenomeno). Sugli statuti delle confraternite I capitolari, II, p. XXI n. 2. Alcuni spunti anche relativi al '200 in Lia Sbriziolo, Per la storia delle confraternite veneziane: dalle deliberazioni miste (1310-1476) del Consiglio dei Dieci, "Scolae comunes", artigiane e nazionali, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", cl. scienze morali, lettere ed arti, 126, 1967-1968, pp. 405-442; Ead., Le confraternite veneziane di devozione. Saggio bibliografico e premesse storiografiche, Roma 1968; Ead., Per la storia delle confraternite veneziane: dalle deliberazioni miste (1310-1476) del Consiglio dei Dieci. Le scuole dei battuti, in Miscellanea Gilles Gérard Meersseman, Padova 1970, pp. 715-763.
88. I capitolari, II, p. 9 n. 1.
89. A.S.V., Cancelleria Inferiore, b. 8; conosciuto e utilizzato in copia del 1251 anche in I capitolari, II, p. XX e G. Monticolo, Studi e ricerche, pp. 19-20.
90. I capitolari, II, p. LXXVI.
91. Sulla complessità e difficoltà di capire nei giusti termini tale rapporto R. Mackenney, Tradesmen, pp. 5-7, ma anche I capitolari, Il, pp. 106-109 e P. G. Molmenti, Storia di Venezia nella vita privata, p. 146.
92. Sul favore che lo Stato veneziano accorda a scuole di carattere religioso e assistenziale attuando forme più blande di controllo, oltre ai già ricordati lavori di Lia Sbriziolo, Elena Favaro, L'arte dei pittori in Venezia e i suoi statuti, Firenze 1975, pp. 11-12.
93. Differisco nell'interpretare il cap. 7 da G. Cracco, Società e stato, p. 220.
94. Ternieri 27, barbieri 30, vetrai 22, pellicciai 1, falegnami 35, carpentieri 21, calafati 25, muratori 23, bottai 23.
95. Fabbri 8.
96. Fustagnai 13, cinque fustagnai e due battitori di cotone, "samitarii" 9.
97. Cappellai 21, berrettai 22, fusai 1, cristallai 1 e 29, fabbricanti di pettini 28.
98. Pellicciai 7 e similmente ternieri 14, "samitarii" 1, vetrai 17, calzolai 1, falegnami 30, carpentieri 15, calafati 22, muratori 19, fabbri 3, pittori 1, bottai 11, fustagnai 8, conciatori 2.
99. Obbligatorio per l'esercizio della professione: vetrai 11; pellicciai 4, 5, 43; falegnami 17, 27, 28; calafati 20, 21; merciai 23; fabbri 33, 34; pittori 6, 7; conciatori 23, 27, 29; fustagnai 7, 15; per il controllo del gastaldo: pellicciai 42; merciai 28.
100. Ternieri 28, barbieri 29, vetrai 23, pellicciai 11, "blancarii" 22, calzolai 43, falegnami 34, carpentieri 20, calafati 27, muratori 25, merciai 26, fabbri 38, pittori 10, bottai 24, conciatori 39, fustagnai 12, fabbricanti di pettini 16.
101. I capitolari, I, pp. 121-122.
102. Ibid., II, pp. 457-473.
103. R. Mackenney, Tradesmen, p. 28.
104. Ternieri 17, "samitarii" 7, barbieri 23, vetrai 12, "blancarii" 20, calzolai 12, falegnami 24, carpentieri 12, calafati 17, muratori 14, merciai 20, fabbri 21, pittori 4, bottai 8, conciatori 12.
105. Ternieri 24, barbieri 26, vetrai 18, pellicciai 7, calzolai 18, falegnami 30, carpentieri 15, calafati 22, muratori 19, bottai 11, pittori 1, fustagnai 9.
106. Ternieri 18, barbieri 24, vetrai 13, pellicciai 2, falegnami 25, calafati 18, muratori 15, fabbri 22, bottai 9, fustagnai 5.
107. Ternieri 19.
108. "Samitarii" 3, "blancarii" 11, calzolai 6, merciai 5, fabbri 6, conciatori 6 e in qualche modo anche bottai 16.
109. "Samitarii" 3, "blancarii" 15, calzolai 10, carpentieri 27, merciai 10, fabbri 9, bottai 5, conciatori 10, fustagnai 14.
110. Calzolai 9, conciatori 9.
111. Ternieri 15, barbieri 27, vetrai 19, pellicciai 1 e 8, falegnami 31, "blancarii" 10, calzolai 5, carpentieri 16, calafati 23 e 24, muratori 20, merciai18, fabbri 5, pittori 2, bottai 12, conciatori di pelli 5, fustagnai 10.
112. Ternieri 25, "samitarii" 4, barbieri 28, vetrai 20, pellicciai 9, "blancarii" 12, calzolai 6, falegnami 32, carpentieri 17, muratori 21, merciai 19, fabbri 6, pittori 3, bottai 14, fustagnai 11.
113. Ternieri 19 e 26, barbieri 25, vetrai 14 e 21, pellicciai 3, falegnami 26, carpentieri 13, calafati 19, muratori 16 e 17, merciai 22.
114. Con due eccezioni: i sovrastanti dei cerchiai, dopo il 1286, potevano giudicare anche i bottai per cause fino a 3 lire e pertinenti l'Arte dei cerchiai (cap. 30); i fustagnai, probabilmente come contrappeso per il rigido controllo statale sulla qualità dei loro prodotti, potevano citare davanti al tribunale dell'Arte anche chi ne era estraneo (cap. 64).
115. Barbieri e cerchiai fino a 40 soldi; vetrai, pellicciai, falegnami, carpentieri, calafati, muratori, merciai fino a 5 lire; ternieri, fabbri e pittori fino a 10 lire; bottai fino a 3 lire.
116. Falegnami 55, calzolai 67, bottai 94, calafati 57, muratori 43, berrettai 39, cristallai 32.
117. "Sablonarii" 16, cappellai 19 e 31, berrettai 13, 15, 38, "galedarii" 3, 25, fusai 5, cristallai 17, fabbricanti di pettini 9, faldelle 29.
118. Calzolai 13, fustagnai 37, falegnami 47, "biancarii" 42, calafati 54, muratori 35, fabbri 83, bottai 76, pannivecchi 26, carpentieri 38, pittori 42, cerchiai 21, "sablonarii" 11, cappellai 22, berrettai 25, "galedarii" 17, fusai 16, fabbricanti di campane 4, cristallai 19, fabbricanti di pettini 21. Il relativo capitolo figura già nel capitolare dei ternieri del 1263 (cap. 39) e compare saltuariamente nei testi revisionati nel 1270-1271 come aggiunta posteriore: del maggio 1278 calzolai 13, fustagnai 37, carpentieri 38 e ancora più tardi pittori 42.
119. Barbieri 54, vetrai 68, pellicciai 48, calzolai 65, muratori 41, merciai 47, fabbri 76, pittori 57, fustagnai 99.
120. R. Mackenney, Tradesmen, pp. 4-5.
121. I capitolari, II, p. LXVII.
122. Sul concetto di caritas R. Mackenney, Tradesmen, p. 6.
123. Sulle chiese, sedi di scuole artigiane, le ricche esaurienti note di G. Monticolo in I capitolari, II, pp. LXXXII-CV e S. Gramigna-A. Perissa, Scuole di arti, pp. 25-30, 34 e passim, che però presenta imprecisioni e indeterminatezze cronologiche.
124. Falegnami 49-50; carpentieri 47, 62, 65-66, 70; calafati 63-64; muratori 32; pannivecchi 14; carpentieri 43.
125. Nel periodo 1263-1278 la quota delle multe attribuita alla Scuola varia, dopo il 1278 è quasi sempre un terzo, mentre gli altri due terzi vanno ai giustizieri e all'Arte ("sablonarii" 15, cappellai 17, cristallai 10). In merito anche R. Mackenney, Tradesmen, p. 5.
126. L'entità della tassa è variabile: s. 40, ma su rasura, i barbieri; s. 5 di denari grossi ai giustizieri e s. 50 di piccoli alla Scuola i vetrai; 3 lire di denari veneziani i "blancarii"; s. 40, di cui 20 alla Scuola e 20 al gastaldo, i calzolai; s. 20 i falegnami se sapevano già lavorare, 40 se dovevano imparare; 12 d. l'anno i carpentieri e i segatori del Dogado che si fermassero a lavorare in città oltre quindici giorni, mentre la vera tassa d'entrata era di s. 5 l'anno; s. 20 i calafati; 12 d. di piccoli l'anno i muratori; s. 30 o 3 lire, a seconda che fossero già maestri o no, i merciai; s. 20 i fabbri; s. 10 al gastaldo i pittori; s. 5 i bottai; 5 lire alla camera dei giustizieri come pieggeria e s. 40 alla Scuola e al gastaldo i conciatori. C'erano però alcuni margini di tolleranza, un periodo durante il quale un non veneziano poteva lavorare in città senza soggiacere all'obbligo di iscriversi all'Arte, di giurare il capitolare e di versare la tassa d'entrata: muratori, carpentieri e segatori del Dogado potevano farlo per 15 giorni; i muratori forestieri solo per 8; i conciatori un anno. Per i falegnami si parla invece di una tassa annuale di s. 5 che ogni maestro doveva versare interamente alla Scuola. Il cap. 47 del capitolare dei vetrai del novembre 1272 specifica che i padroni di fornace sono sempre tenuti al versamento della quota associativa di 4 denari di grossi, sia che lavorino personalmente sia che facciano lavorare altri.
127. Sulla particolarità dei mercanti veneziani che non si associano in una specifica corporazione perché già legati tra di loro da vincoli di parentela R. Mackenney, Tradesmen, p. 8.
128. Si vedano gli esempi citati dal Mackenney (p. 18), ma se ne potrebbero elencare altri: fra il 1283 e il 1295 i giustizieri intervengono ripetutamente per imporre le tariffe della calcina.
129. Norme assai diffuse anche in altri ambiti territoriali (E. Sestan, Prefazione, p. 9).
130. Sul tabù del sangue Jacques Le Goff, Mestieri leciti e mestieri illeciti nell'Occidente medievale, in Id., Tempo della Chiesa e tempo del mercante. E altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, Torino 1977, p. 55.
131. Duccio Balestracci, La lotta contro il fuoco (XIII-XVI secolo), in AA.VV., Città e servizi sociali nell'Italia dei secoli XII-XV (Pistoia, 9-12 ottobre 1987), Pistoia 1990, pp. 417-438.
132. Esempi iconografici tardi, ma significativi, sono i nrr. 284, 285, 329 del catalogo della mostra I mestieri della moda a Venezia dal XIII al XVIII secolo (Venezia, giugno-settembre 1988), Venezia 1988, pp. 295, 315. La norma vale anche per i calzolai (capp. 30-31).
133. R. Mackenney, Tradesmen, p. 17.
134. Barbieri 20, carpentieri 2, calafati 9, muratori 4, "galedarii" 27, "sablonarii" 23.
135. Falegnami 11, calafati 9, muratori 1 e 2, fabbri 16, "sablonarii" 3 e 17, cappellai 5, fusai 13, faldelle 21.
136. Muratori 7.
137. Muratori 6.
138. Vetrai 24, calzolai 32, pittori 32, fustagnai 19 e 36, cappellai 14, fusai 2, fabbricanti di pettini 2.
139. Ternieri 23, vetrai 15, pellicciai 14, "blancarii" 28, calzolai 39, falegnami 29, carpentieri 14, muratori 22, merciai 17, fabbri 37, pittori 8, bottai 17, conciatori 40, "sablonarii" 15, cappellai 18, berrettai 24, "galedarii" 20, fusai 14, fabbricanti di campane - che però devono sporgere denuncia ai signori di notte - 7, cristallai 8, fabbricanti di pettini 8.
140. Lo spoglio dei documenti veneziani del secolo XIII è stato compiuto grazie ai regesti di Luigi Lanfranchi, conservati dattiloscritti all'Archivio di Stato, alla Sovrintendenza archivistica per il Veneto e alla Fondazione G. Cini di Venezia (Luigi Lanfranchi, Per un codice diplomatico veneziano del secolo XIII, in AA.VV., Viridarium fioridum. Studi di storia veneta offerti dagli allievi a Paolo Sambin, Padova 1984, pp. 355-363).
141. A.S.V., S. Zaccaria, b. 36 pergamene.
142. Sull'argomento Roberto Greci, Il contratto di apprendistato nelle corporazioni bolognesi (XIII-XIV sec.), "Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna", n. ser., 26, 1977, pp. 145-224; Id., L'apprendistato nella Piacenza tardo-comunale tra vincoli corporativi e libertà contrattuali, in AA.VV., Aspetti della vita economica medievale. Atti del Convegno di studi nel X anniversario della morte di Federigo Melis (Firenze-Pisa-Prato, 10-14 marzo 1984), Firenze 1985, pp. 728-746, ora ristampati in Id., Corporazioni e mondo del lavoro nell'Italia padana medievale, Bologna 1988, alle pp. 157-223 e 225-244, che qui si citano con riferimento agli articoli.
143. Barbieri 4, 8, 21-22; "blancarii" 26 e 27; calzolai 15-16; merciai 14 e 16; fabbri 19 e 20; bottai 22; conciatori 20 e 21; cappellai 2, 23, 45; berrettai 28, 32; cristallai 6, 22, 28, 36-37; fabbricanti di pettini 3, 27, 32; "galedarii" 9; faldelle 23-24, 40.
144. R. Greci, L'apprendistato, pp. 735, 738-739. La situazione veneziana presenta, almeno a livello normativo, consistenti analogie con altre città (Id., Il contratto di apprendistato, pp. 159-160).
145. Id., L'apprendistato, p. 739; Giorgio Tamba, Da socio ad "obbediente". La società dei Muratori dall'età comunale al 1796, in AA.VV., Muratori in Bologna. Arte e società dalle origini al secolo XVIII, Bologna 1981, pp. 53-112, alle pp. 64-69 e soprattutto R. Greci, Il contratto di apprendistato, pp. 186-187, 191-195.
146. S. 20 i barbieri, sconosciuta per i vetrai, s. 40 i "blancarii", s. 5 i falegnami ridotta a d. 30 per i figli dei maestri, s. 5 i muratori ridotta a d. 30 per i figli dei maestri, s. 10 i fabbri nati fuori Venezia. La tassa d'entrata è suddivisa in vario modo: talvolta 1/2 al gastaldo e 1/2 alla Scuola (barbieri), tal altra 1/2 alla Scuola e ai giudici e 1/2 al gastaldo ("blancarii"). I 5 s. versati dai pittori - salvo le solite riduzioni - e dai bottai vanno tutti al gastaldo della corporazione, al quale vengono versati altri contributi degli iscritti all'Arte dei pittori: s. 3 l'anno ogni maestro che aveva bottega (cap. 11), 1 d. di grossi chi assumeva un dipendente e s. 5 chi era assunto (cap. 12), 1 grosso per l'ingaggio di un apprendista (cap. 13), a meno che non si trattasse del parente di un maestro o di sua moglie (cap. 28). I maestri che lavoravano con altri "pro predo" dovevano pagare al gastaldo una tantum s. 5 (cap. 29), il doppio se avevano imparato il mestiere fuori città (cap. 30).
147. Pellicciai 53; fabbri 69-72; pittori 49, 55, 58; bottai 72, 78, 81, 102-103; pannivecchi 25; conciatori 72; (usai 20.
148. I capitolari, II, p. 89.
149. I numeri dei rinvii sono quelli delle tavole illustrative di M. Muraro, La vita nelle pietre. Si noti che fra i mestieri raffigurati sull'arco del portale figurano anche quelli i cui addetti non erano riuniti in corporazione, venditori di vino (tav. 79), fornai (tav. 80), macellai (tav. 81), lattai (tav. 82), perché l'attenzione dello scultore è attratta dalla concretezza quotidiana del lavoro urbano e non dagli assetti istituzionali.
150. A proposito dell'approvvigionamento di legname si vedano i lavori più recenti, corredati dalle indicazioni bibliografiche anteriori, Boschi della Serenissima: utilizzo e tutela, a cura di Maria Francesca Tiepolo, Venezia 1987; Dai monti alla laguna: produzione artigianale e artistica del Bellunese per la cantieristica veneziana, a cura di Giovanni Caniato - Michela Dal Borgo, Venezia 1988; Boschi della Serenissima. Storia di un rapporto uomo-ambiente, a cura di Emanuela Casti Moreschi - Elena Zolli, Venezia 1988.
151. La bibliografia sul vetro muranese è sterminata, di livello assai disparato, spesso ripetitiva e generalizzante. Per un inquadramento del problema tecnico-produttivo e storico, tralasciando quindi gli aspetti artistici, vanno segnalati gli scritti di Luigi Zecchin, Le ricette vetrarie di Montpellier, "Journal of Glass Studies", 6, 1964, pp. 75-82; Un decoratore di vetri a Murano alla fine del '200, "Journal of Glass Studies", 11, 1969, pp. 39-42; Fornaci muranesi fra il 1279 ed il 1290, "Journal of Glass Studies", 12, 1970, pp. 79-83; Cronologia vetraria veneziana e muranese fino al 1285, "Rivista della Stazione Sperimentale del Vetro", 3, 1973, pp. 19-22; Cronologia vetraria veneziana e muranese dal 1302 al 1314, ibid., pp. 119-122; Materie prime e mezzi d'opera dei vetrai veneziani dal 1439 al 1452, "Rivista della Stazione Sperimentale del Vetro", 12, 1982, pp. 61-66, molti dei quali raccolti con altri scritti del medesimo autore nei tre volumi Vetro e vetrai di Murano. Studi sulla storia del vetro, I-III, Venezia 1987-1990; Astone Gasparetto, Il vetro veneziano dalle origini ad oggi, Venezia 1958; A proposito dell'officina vetraria torcellana, "Studi Veneziani", 8, 1966, pp. 3-18; Rosa Barovier Mentasti, Il vetro veneziano, Milano 1982; Ead., A Thousand ϒears of Venetian Glassmaking, in AA.VV., Glass in Murano, Vicenza 1984, pp. 11-27. Inoltre Mille anni di arte del vetro a Venezia, catalogo a cura di Rosa Barovier Mentasti - Attilia Dorigato - Astone Gasparetto - Tullio Toninato, Venezia 1982.
152. Agli squeri e alle tecniche usate dai costruttori di barche è dedicato il volume Arte degli squerarioli; alle pp. 73-88 Tavole e Documenti riguardanti la Localizzazione degli squeri (secoli XII-XIX).
153. Il Monticolo ipotizza che l'espressione "ferro de furnis" contenuta nel capitolare dei fabbri significhi ghisa (I capitolari, II, p. 340 n. 5). Ma il fatto che tale tipo di ferro sia elencato insieme ad altri individuati dal luogo di provenienza (Villach e il Cadore) farebbe pensare per analogia ad un toponimo "de Furnis", che si potrebbe identificare con Forni di Val d'Astico, località dove nel 1292 sono attestate vene di ferro ("In qua montanea sunt edificate domus et appellantur Furni et vena ubi cavatur ferrum": Gaetano Maccà, Storia del territorio vicentino, X, pt. II, Caldogno 1814, p. 78). Con questa interpretazione concorda Raffaello Vergani, anche sulla scorta di documenti di qualche decennio posteriori (1332) e nonostante il sospetto che si trattasse di ferro solo di transito nel Vicentino e proveniente invece da Villach e dal Friuli attraverso la strada all'interno del Cadore (Philippe Braunstein, Le commerce du fer à Venise au XVe siècle, "Studi Veneziani", 8, 1966, pp. 275, 299-300 [pp. 267-302> registra movimenti in tale direzione già a partire dal XVI secolo).
154. Relativi al XIV secolo ma ugualmente utili Luciana Frangioni, Bacinetti e altre difese della testa nella documentazione di un'azienda mercantile, 1366-1410, "Archeologia Medievale", 11, 1984, pp. 507-522; Ead., Preposizioni semplici diverse per mercerie milanesi (e fiorentine) del Trecento, "Nuova Rivista Storica", 69, 1985, pp. 611-626.