Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel corso del Seicento il “mestiere di re” cambia, rendendo necessario il rafforzamento della sacralità e la costruzione di uno spazio fisico: la corte. La politica non è più il luogo dove svolgere virtù e fortuna ma “cortegiania” da esercitarsi con arte e in un’elaborata e progressivamente sempre più complessa coreografia, sviluppata in un cerimoniale che mira alla costante visibilità del sovrano, al rafforzamento delle sue prerogative e all’integrazione – mediante la costruzione di uno stile di vita “cortigiano“ – delle élite: è la corte il palcoscenico dello Stato e, sovente, il luogo del suo formarsi e rafforzarsi e, per il sovrano, un obbligo della repraesentatio maiestatis.
Re e popolo
La crisi dello Stato rinascimentale, pur nel dispiegarsi delle soluzioni nazionali, sfocia a partire dalla seconda metà del Cinquecento in primo luogo nella capacità dei poteri centrali di mantenere un equilibrio coercitivo o consensuale tra le diverse fazioni: è un sistema di patronaggio che mira al rafforzamento del potere regio e al dispiegarsi, mediante la distribuzione clientelare di privilegi, della sua funzione simbolica. Il tradizionale conflitto centro/periferia tende perciò a trasferire altrove gli antagonismi mentre, nel sostanziale ricambio delle élite, il sovrano si erge ad arbitro ed eroga risorse, uffici e prebende. Nel corso del Seicento, il termine “monarca” – “colui che regna da solo” – tende ad avvicinarsi maggiormente al significato della tradizione romano-cristiana, e la sua debolezza – come pure la sua forza – derivano piuttosto da crisi dinastiche o dall’estinguersi di case sovrane che non dalla erosione compiuta dalle assemblee rappresentative. Tuttavia solo i monarchi scandinavi riescono a introdurre e consolidare una monarchia illimitata e assoluta, senza rappresentanze dei ceti e senza vincoli di legge. Altrove, persino in Francia e in Prussia, le cui monarchie spesso vengono considerate il prototipo dell’“assolutismo”, il potere del sovrano non è mai sciolto da vincoli e necessita di rispetto dei diritti particolari, di rappresentanze e – soprattutto – di continua e multiforme contrattazione, vieppiù necessaria nel secolo delle rivoluzioni e delle rivolte.
Proprio queste ultime mostrano, tuttavia, che il potere del sovrano si è rafforzato rispetto al secolo precedente: a Napoli, ad esempio, nel loro “sogno di libertà” i rivoluzionari inizialmente si appellano al re “legittimo” per riavere giustizia e diritti contro il potere del viceré, suo rappresentante, e del baronaggio. Prima che sul piano politico, i percorsi del potere decisionale acquisiscono, dunque, quello delle risorse simboliche e della rappresentazione e il tentativo di ampliare le prerogative e le funzioni si esercita in prima istanza non tanto nel soffocare la dialettica politica quanto – piuttosto – nel frammentare le autonomie di ceto e territoriali con un asse che va dal popolo al re, tentando di travalicare i corpi intermedi assorbendone compiti e ruoli. Si rendono allora necessari non solo la progressiva stanzialità del re, persino nelle monarchie composite, ma anche la costruzione e il rafforzamento di un luogo – sia fisico che simbolico – centripeto della vita politica: la “corte”.
La “corte”
Nel corso del Seicento il “mestiere di re” cambia, rendendo necessario il rafforzamento della sacralità e la costruzione di uno spazio fisico: la corte. Già a partire dalla sua pubblicazione, nel 1528, Il Cortegiano di Baldassare Castiglione è il libro più letto dopo la Bibbia: la politica non è più, come per Machiavelli, il luogo dove svolgere virtù e fortuna ma “cortegiania” da esercitarsi con arte e in un’elaborata e progressivamente sempre più complessa coreografia, sviluppata in un cerimoniale che mira alla costante visibilità del sovrano, al rafforzamento delle sue prerogative e all’integrazione – mediante la costruzione di uno stile di vita “cortigiano“ – delle élite: è la corte il palcoscenico dello Stato e, sovente, il luogo del suo formarsi e rafforzarsi.
Con una reputazione ambivalente e contraddittoria che, a partire dalla libellistica coeva e dai miti successivi, vede nella corte e nella vita che vi si conduce un luogo ora di sperpero e perdizione, ora di imprescindibile potenzialità di ascesa sociale, politica ed economica, la corte nel Seicento è ben diversa da quella medievale: nel processo di costruzione e di rafforzamento della sovranità è, in prima istanza, la sua rappresentazione. A corte si va, e si sta, perché essa diventa sempre più il luogo del potere decisionale fondato sempre meno sull’onore e sempre più sulla clientela: è luogo di affari, di promozione e di protezione – data o concessa – e non solo di divertimento e di ostentazione. Anche se essere presenti non implica necessariamente accedere a una gerarchia superiore, non esserlo ne pregiudica la possibilità: la corte è la vetrina dello Stato moderno e, per il sovrano, un obbligo della repraesentatio maiestatis.
Grazie al cerimoniale, che nel corso del secolo si infittisce di dettagli un po’ ovunque, la rappresentazione collettiva e la reciprocità delle relazioni tra il re e lo Stato che questi governa assume un senso che si vuole compiuto, volto all’ordine e all’armonia: il maestro di cerimonia, prima presente solo nello Stato pontificio, si diffonde ovunque a garanzia di assetti, di equilibri e di regole che si vorrebbero certi; al di là delle diverse confessioni religiose, ciò si rispecchia cibo legato ai giorni grassi e magri dell’anno liturgico, nelle precedenze e nelle preghiere, nella gerarchia di accesso e di presenza a udienze e giuramenti, balli e banchetti come anche nei giochi, nelle prove di abilità e negli spettacoli, nella ricerca di regolare in corpo minore la società, sussumendola e tentando di cristallizzarla e gerarchizzarla. La corte è una serie di cerchi concentrici, al cui centro si trovano il sovrano e il suo corpo, che vanno dagli aspetti più intimi alla pubblica ostentazione di residenze e indumenti, valori e stili di vita.
Vita di corte
Naturalmente, la costruzione e il rafforzamento della sovranità non sono uguali ovunque e nel corso del secolo si assiste sia alla continua contrattazione volta a limitare il potere del sovrano e a renderlo vulnerabile, sia ai tentativi di condizionare e appropriarsi di giurisdizioni, risorse e prerogative. Al di là dei retaggi letterari e idealtipici, o della propaganda politica, che vedono il tramutarsi del modesto padiglione di Versailles in simbolo sfavillante della sovranità e del potere e nel corpo del re in ogni momento della sua giornata – dal levarsi, al mangiare, al dormire fino al nascere e al morire – l’essere pubblico dello Stato, la variabilità delle differenze è ampia e segnala l’equivocità dell’autorappresentazione. Anche se ovunque si esercita il potere o si cerca di farlo, si distribuiscono favori, si cerca l’equilibrio tra le fazioni o si pende per una di queste, le variabili locali sono tante: i due stereotipi della corte barocca, dei suoi valori e del complesso delle relazioni di potere e nel potere – Versailles e Vienna – sono ben dissimili.
Ma ovunque, anche se non nello stesso modo, la corte è una necessità e implica dei costi in un secolo di penuria di risorse. Questi non sono uguali nel corso del secolo, né uguale è la sensibilità o la necessità di ridurli mediante riorganizzazione e riforme interne, come accade nel caso tedesco nel 1615 e nel 1651 per combattere sprechi e corruzione. La maison du roi in Francia, ad esempio, comprensiva di cappella, chambre e mense e che agli inizi del Cinquecento non superava le 600 unità (il doppio, peraltro, rispetto al secolo precedente), raggiunge a metà secolo il numero di 2000 e, successivamente, viene ridimensionata per arrivare – a fine secolo – ai livelli cinquecenteschi, mentre il settore della caccia – passione del re – ha analoga consistenza e, aggiungendo la cappella musica e il settore dell’edilizia, il personale necessario al funzionamento della corte si aggira intorno alle 5000 persone.
Luigi XIV
Superficialità dei popoli sottomessi
Memorie
Si ingannano assai quanti ritengono che si tratti soltanto di problemi del cerimoniale. I popoli sui quali noi regniamo, non potendo penetrare il fondo delle cose sono soliti orientare il loro giudizio su quanto vedono in superficie, e il più delle volte misurano il loro rispetto in base alle precedenze e al rango. Ma così come per il popolo è importante essere governato da una sola persona, altrettanto importante è che colui che assolve tale funzione sia a tal punto innalzato al di sopra di tutti gli altri che nessun altro possa essere confuso o confrontato con lui; e non si può togliere al suo capo il minimo segno di quella superiorità che lo differenzia dalle membra senza far torto a tutto il corpo dello Stato.
N. Elias, La società di corte, Bologna, Il Mulino, 1980
La corte, specchio della società
Nel caso asburgico, che prende forma proprio nel Cinquecento e che nel corso del Seicento assiste alla migrazione della capitale da Vienna a Praga per ritornare poi a quest’ultima, raramente si superano – invece – i 2000 addetti cui vanno aggiunte, in entrambi i casi, le residenze delle consorti, dei figli e dei cadetti. Ne derivano, ovunque, spese comunque consistenti: le uscite legate alla corte sono, nei bilanci degli Stati, la terza voce di spesa, dopo le guerre e gli interessi per i debiti contratti per sostenerle: si spende per il personale, per il cibo, per gli intrattenimenti, gli abbellimenti delle vecchie e delle nuove costruzioni, per la residenza invernale e per la pletora di quelle secondarie ma anche per i matrimoni e le morti, le relazioni diplomatiche e di prestigio. Ma, a qualunque costo, la corte è necessaria e si situa al centro della politica barocca, dettandone modalità e funzioni, in un complesso vocabolario di prudenze, dissimulazioni, sapienti ed eleganti conversazioni che celano una trama dei poteri che tende sempre più, peraltro, a complicarsi: perché se è vero che la corte deve essere rappresentazione e specchio della società, camera di compensazione di relazioni e conflitti, questo tuttavia mal si concilia con il progressivo emergere e stagliarsi, accanto al sovrano e a corte, del “favorito” che, abbandonando le prerogative cinquecentesche, diventa l’“ombra del re”, senza poterne avere la sacralità del corpo né la centralità nel microcosmo, specularmente sospeso qual è tra funzioni di governo e personale servizio, in una gerarchia funzionale alla persona e non allo Stato.