Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La prima parte del Novecento è l’epoca del grande collasso del modello di governo “costituzionale” (limitato e bilanciato) in Europa, travolto dalla mancata integrazione democratica, dalla crisi dell’equilibrio sociale nelle nazioni industrializzate e dall’avvento delle ideologie organicistiche e totalitarie. Il secondo dopoguerra segna invece una nuova fioritura del costituzionalismo su base democratica, a livello dei singoli Stati e in parte anche a livello sovranazionale, in cui al modello britannico e a quello rivoluzionario francese si affianca – divenendo il punto di riferimento principale – quello americano. La fine della guerra fredda vedrà poi, da un lato, un’espansione senza precedenti del costituzionalismo democratico, dall’altro un altissimo tasso di conflittualità generato dal suo scardinamento di equilibri sociali tradizionali, soprattutto fuori dall’area occidentale.
Dallo Stato di diritto allo Stato totalitario
Alla fine del XIX secolo i governi “costituzionali”, originati dal modello del regime parlamentare britannico assimilato attraverso i profondi mutamenti impressi dalla Rivoluzione francese e dalla fine dell’ ancien régime , si erano radicati in alcune parti dell’Europa continentale, come la stessa Francia e l’Italia, e avevano fatto la loro comparsa – sia pur tra molte contraddizioni – in altre, come la Germania e la Spagna. La limitazione del potere monarchico in favore di istituzioni rappresentative e garanzie di diritto, o, come nella Francia della terza Repubblica, un regime repubblicano avevano trovato nelle costituzioni scritte un ancoraggio ormai canonico, che si mostrava favorevole a una progressiva apertura di regimi originariamente aristocratico-elitari verso la democrazia.
Proprio nella seconda metà del secolo, tuttavia, l’enorme mole di tensioni sociali e politiche suscitata dalle rivoluzioni industriali nel Vecchio Continente aveva provocato una tangibile crisi del costituzionalismo e un suo progressivo svuotamento. L’istradamento della conflittualità di classe nel sistema politico attraverso il confronto regolamentato degli interessi organizzati e delle ideologie, che con grande fatica ma complessivamente con successo veniva promosso dalle classi politiche inglesi e francesi, nel resto dell’Europa continentale non trovava analoga realizzazione. La tendenza dominante appariva, piuttosto, quella alla “neutralizzazione” dell’eredità costituzionalistica, attraverso la sempre più evidente eclisse delle categorie di “supremazia del diritto” (il rule of law della tradizione consuetudinaria anglosassone), di diritti soggettivi e di sovranità popolare, in favore di quelle della “sovranità dello Stato” e dello Stato di diritto, fondate sull’autorità indiscussa della legge positiva. Un modello di ordinamento che, elaborato in sede teorica dalla scuola giuspubblicistica “pandettistica” tedesca, ed echeggiato in Europa da tendenze analoghe, come quella della scuola nazionale di diritto pubblico italiana, trova un punto di riferimento politico nella concezione autoritaria-conservatrice alla base dello Stato unitario tedesco e del cancellierato bismarckiano.
Sarà proprio tale modello a entrare in una crisi fatale con la prima guerra mondiale e le sue conseguenze politico-economiche. Il collasso delle potenze imperialistiche e il riesplodere violento della conflittualità di classe riportano drammaticamente alla luce le grandi questioni del costituzionalismo poste all’epoca delle “grandi rivoluzioni”: il potere costituente, la sovranità, l’organizzazione delle istituzioni rappresentative, i diritti soggettivi. Ma il clima è ora profondamente diverso. La rivoluzione bolscevica in Russia ha imposto sulla scena un modello di Stato del tutto nuovo rispetto a quello della tradizione dei regimi rappresentativi “bilanciati”: un modello che sarà definito “totalitario”, in quanto implica un potere politico in grado di riunire in un insieme organico, nel segno della mobilitazione ideologica, le società frammentate dagli interessi particolari contrapposti.
Il tentativo più audace di rivitalizzare la logica del costituzionalismo in un’ottica liberal-democratica si ha in Germania, al crollo dell’impero guglielmino, con la costituzione della Repubblica di Weimar (1919). Con essa ritorna al centro dell’ordinamento la salvaguardia di diritti fondamentali, che non si limitano più a quelli della tradizione liberale, ma si estendono anche nel campo sociale, prefigurando una risposta al collettivismo comunista nell’alveo della tradizione del pluralismo occidentale e un’estensione delle garanzie costituzionali a un concetto più ampio di dignità della persona. Ma l’ordinamento di Weimar lascia irrisolto il problema primario di ricondurre la dialettica socio-politica all’interno di una logica di governo, e di quali istituzioni, e con quale legittimazione, dovessero controllare il potere politico affinché esso non sconfinasse nell’arbitrarietà e non tradisse i presupposti di principio sui quali la costituzione si fondava.
Proprio la mancanza di autorità di governo da una parte, e la potenziale assenza di limiti alla sovranità dall’altra, sono alla base delle reazioni alla paralisi degli ordinamenti liberal-democratici, ma anche alla prospettiva del collettivismo sovietico, che si sviluppano in Europa continentale tra anni Venti e Trenta. In molti Paesi – a partire dall’Italia – si affermano e giungono al potere movimenti ispirati a un nuovo nazionalismo organicistico di tipo totalitario: il fascismo e i suoi derivati ideologici, in primo luogo il nazionalsocialismo tedesco. I fascismi negano alla radice il patrimonio del costituzionalismo occidentale, sostenendo la subordinazione di ogni diritto soggettivo particolare all’unità “mistica” del popolo, raggiunta attraverso lo strumento di un potere politico non più suddiviso, controllato o limitato dal diritto, nemmeno quello positivo da esso stesso creato, ma investito della missione di incarnare nel suo governo lo spirito organico della nazione intera.
Costituzionalismo liberaldemocratico: dal modello americano a quello comunitario europeo
Il crollo rovinoso dei totalitarismi nazi-fascisti avvenuto con la seconda guerra mondiale riproponeva all’Europa – e su scala più ampia all’intero mondo sviluppato – la questione della possibilità di sistemi rappresentativi democratici fondati sul rispetto di diritti soggettivi inalienabili. Il principale modello tornava a essere, in questo contesto, il costituzionalismo anglosassone: più ancora che quello britannico, quello statunitense, affacciatosi prepotentemente sulla scena europea con la vittoria militare e l’assunzione del ruolo di guida delle democrazie liberali. Alcuni elementi dell’ordinamento americano, infatti, fanno la loro comparsa nelle nuove costituzioni che reintroducono la democrazia nei Paesi militarmente sconfitti occupati dalle truppe alleate: il federalismo interno, il sindacato di costituzionalità sulle leggi esercitato da una Corte suprema, un tendenziale sistema di “freni e contrappesi” tra i poteri istituzionali. E l’impressione di una crescente universalizzazione dei fondamenti del costituzionalismo liberaldemocratico viene offerta anche dalla nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (con la sua Carta e l’annessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) e dall’avvio del processo di integrazione economica e politica tra le democrazie dell’Europa occidentale.
Ma in molti Paesi europei di area liberaldemocratica, e nella stessa Italia, le tensioni politico-ideologiche che avevano determinato la degenerazione totalitaria, e soprattutto la forte incidenza di partiti di sinistra di osservanza o simpatia filosovietica, producono il ritorno a forme costituzionali “deboli”, in cui si ripresenta la contraddittoria convivenza tra rule of law e Stato di diritto di derivazione giuspositivistica, separazione dei poteri e parlamentarismo assemblearistico, affermazione di diritti fondamentali e mancanza di istanze giurisdizionali di controllo delle istituzioni politiche. Esempio canonico di questa tendenza è la costituzione della quarta Repubblica francese, elaborata attraverso un sofferto, doppio processo costituente nel 1947: soltanto attraverso una crisi istituzionale drammatica, accelerata dal problema della guerra algerina, e grazie alle non comuni qualità di leadership e autorevolezza del generale de Gaulle (1890-1970), nel decennio successivo il nuovo assetto della democrazia francese verrà significativamente corretto nel senso di un maggiore equilibrio tra i poteri con la costituzione della quinta Repubblica (1958). Addirittura, altri Paesi che si andranno a collocare in area “occidentale”, filoamericana e anticomunista, come la Spagna e il Portogallo, non vedranno alcuna evoluzione nel senso del costituzionalismo liberaldemocratico, ma rimarranno governati per molti decenni ancora da regimi autoritari di impronta reazionaria.
Né si può dire che la forza espansiva del costituzionalismo democratico occidentale si imponga con maggiore successo nei Paesi extraeuropei. Il processo di decolonizzazione, anzi, si traduce soprattutto (con la notevole eccezione dell’India indipendente e, in parte, di alcuni Paesi dell’Estremo Oriente) nell’ascesa di ideologie e regimi di segno variamente nazionalistico, autoritario e totalitario, e semmai nell’abbattimento (come in molti Stati del Medio Oriente) di quelle forme costituzionali e di quegli ordinamenti rappresentativi precedentemente instaurati soprattutto sotto l’influenza britannica.
In generale, il lungo periodo della guerra fredda si connota come un “congelamento” delle aporie storicamente in esso manifestatesi. Non a caso, infatti, se da una parte il crollo improvviso del comunismo sovietico nel 1989 sembra additare nelle democrazie costituzionali l’unico modello di riferimento universale rimasto per l’organizzazione politico-istituzionale, dall’altra la costruzione, o ricostruzione, della democrazia avviene in molti Paesi in forme incerte, fragili, compatibili con elevate dosi di populismo, autoritarismo, intolleranza etnico-nazionalistica e religiosa, ingovernabilità, incertezza nella garanzia dei diritti soggettivi. Soprattutto, proprio nel momento del suo “trionfo”, il costituzionalismo liberaldemocratico si mostra incapace di produrre un consolidamento di istituzioni costituzionali a livello sovranazionale. L’ONU, il cui fondamento costituzionale-universalistico si era già scolorito in una struttura di pura compensazione di interessi di potenza, con la fine della contrapposizione USA-URSS pare aver perso gran parte della sua autorità e forza aggregante, come dimostrano i gravissimi scacchi da essa subiti nella crisi della post Jugoslavia, della Somalia, del Ruanda, e infine dell’Iraq. La Comunità Europea, consolidatasi a partire dal trattato di Maastricht (1991) come Unione Europea, sembrerebbe a prima vista avere invece accresciuta la sua coesione e la sua capacità di fungere da modello aggregante: come dimostrerebbero le numerosissime richieste di adesione, la massiccia tendenza all’allargamento e soprattutto l’elaborazione di una vera e propria “costituzione europea” avvenuta nel 2004. Ma proprio il rigetto della Carta da parte di importanti Paesi europei, come Francia e Olanda (2005), oltre alle profonde divisioni su politica estera ed economica tra i Paesi aderenti, sembra indicare attualmente una mancanza di adesione a principi ispiratori comuni, che dovrebbero essere alla base di una costruzione politico-istituzionale tanto ambiziosa.
Insomma, all’inizio del XXI secolo la prevalenza e l’espansione della democrazia occidentale non ha ancora prodotto una effettiva assimilazione globale dei suoi valori e metodi – in primo luogo l’idea di dignità dell’uomo legata alla libertà e ai diritti individuali, il principio maggioritario, la limitazione e il controllo del potere. Pur imponendosi in alcuni contesti, dunque, non sorprende che in molti altri essa sia tuttora percepita come l’espressione di un dominio “imperialistico” dell’Occidente e degli interessi politico-economici statunitensi. In primo luogo, in area mediorientale e centroasiatica, dove in alternativa a quel modello viene riproposto, con notevole forza aggregante, un ideale religioso-integralistico o etnico-nazionalista dell’ordine politico.