Le dinamiche politiche dell’India contemporanea
Nel primo decennio del 21° sec., le dinamiche politiche dell’India contemporanea appaiono dominate da due elementi di fondo: il primo è rappresentato dal funzionamento di un radicato sistema democratico, ormai parte integrante della vita collettiva della nazione; il secondo è costituito dalle ricadute a livello sia sociale sia di politica estera di uno sviluppo economico che, a partire dalla metà degli anni Novanta, sta trasformando l’Unione Indiana in una delle grandi potenze emergenti del pianeta.
Il funzionamento del sistema politico ha assicurato al Paese spazi effettivi di democrazia; tuttavia, la democrazia indiana – come ogni altra grande democrazia – non è priva di punti deboli che conviene non trascurare. Analogamente, la straordinaria crescita economica è lungi dall’avere risolto quei problemi di povertà e di sottosviluppo che hanno formato la principale ‘croce’ dell’India sin dall’epoca coloniale. Inoltre, questo sviluppo economico ha determinato sia opportunità sia condizionamenti per quanto riguarda la posizione del Paese a livello internazionale. È quindi alla trattazione degli aspetti positivi e negativi prima dello sviluppo democratico e poi delle ricadute politiche della crescita economica che è principalmente dedicato il presente scritto.
Un sistema politico bipolare
Come si è appena ricordato, una delle caratteristiche dell’India nel primo decennio del 21° sec. – così come in tutto il periodo dall’indipendenza (1947) a oggi – è stata la presenza di un sistema democratico funzionante ed effettivo. Per lungo tempo – fino cioè alle elezioni generali del 1989 – la democrazia indiana è stata contraddistinta da una peculiarità di fondo: il fatto che, nelle elezioni generali, un unico partito abbia sempre ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento, anche se con solo la maggioranza relativa del voto popolare. Vi era, in altre parole, un partito che conquistava la maggioranza assoluta dei seggi grazie a un voto popolare inferiore a quello ricevuto dalle varie forze di opposizione prese nel loro complesso. Si trattava di una peculiarità resa ancora più stridente dal fatto che, se si escludono le elezioni generali del 1977 e la breve legislatura conclusasi nel 1979, il partito con la maggioranza assoluta dei seggi del Parlamento fu sempre lo stesso, ossia l’Indian nation;al congress o partito del Congresso.
Questo sistema, che i politologi definirono a partito dominante, terminò con le elezioni generali del 1989: da quella data in avanti, infatti, nessun partito riuscì più a conquistare la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Le elezioni del 1989 avviarono quindi un periodo di transizione che, nel primo decennio del 21° sec., sembra essersi ormai definitivamente concluso, dando origine a un nuovo sistema.
Tale nuovo sistema può essere descritto come contraddistinto da quattro caratteristiche di fondo. La prima è rappresentata dall’indispensabilità di formare coalizioni per vincere le elezioni e per governare. La seconda consiste nel fatto che, com’è diventato progressivamente chiaro nel corso degli anni Novanta, tali coalizioni sono vitali solo nella misura in cui sono costruite intorno a un partito panindiano (un partito, cioè, politicamente rilevante se non in tutti, quanto meno nella maggioranza dei 28 Stati che – insieme a sette territori – oggi formano l’Unione Indiana). Questo porta alla terza caratteristica del sistema, il suo essere bipolare. Si tratta della necessaria conseguenza del fatto che, dopo la fine del sistema a partito dominante e per il prevedibile futuro, solo due partiti, al di là delle etichette, possono essere considerati panindiani: il Congresso, che si configura oggi come una formazione politica laica e di centrosinistra nella retorica e assai meno laica e di centro nella prassi, e il BJP (Bharatiya Janata Party), un partito indù e di centrodestra nella retorica e ancora più indù e decisamente di destra nella prassi. La quarta caratteristica del sistema è l’importanza dei partiti regionali. Si tratta di partiti che, a volte, proclamano senza ambiguità questo loro status di forze politiche presenti in una sola regione, cioè in un solo Stato dell’Unione (per es., lo Shiv sena, presente solo nel Maharashtra, l’Akali dal, presente solo nel Panjab, il Telugu desam party, che si presenta come il partito dei telugu, cioè degli abitanti dell’Andhra Pradesh, e molti altri ancora); in altri casi, invece, si tratta di partiti che rivendicano una dimensione panindiana, in genere proclamando tale status anche nel nome (per es., il Communist party of India e il Communist party of India-marxist), ma che, in realtà, hanno una presenza politicamente significativa in uno, in due o, in casi eccezionali, in tre dei 28 Stati dell’Unione Indiana.
Il peso dei partiti regionali è apparentemente scarso, tanto che, all’interno di ciascuna delle due coalizioni che, nel primo decennio del 21° sec., si disputano la possibilità di formare il governo, il partito panindiano – sia esso il Congresso o il BJP – dispone di assai più seggi dell’insieme dei suoi alleati regionali. Eppure, nel nuovo sistema gradualmente formatosi a partire dal 1989, è diventato sempre più chiaro che né l’uno né l’altro dei due partiti panindiani può fare a meno dell’appoggio dei partiti regionali sia per vincere le elezioni sia per governare. Ciò fa sì che, nonostante le apparenze, il peso dei partiti regionali sia non solo di gran lunga maggiore di quanto sembri dal numero dei loro deputati, ma spesso decisivo nel determinare il successo politico di una coalizione.
Le dimensioni democratiche del sistema politico indiano
Quello indiano è, quindi, un sistema politico caratterizzato da una democrazia formale che trova espressione nell’esistenza di una molteplicità di partiti e in elezioni, tenute a scadenze regolari, attraverso le quali sono selezionati i membri del Parlamento nazionale e quelli dei Parlamenti statali (oltre che i delegati a organi rappresentativi inferiori). Tuttavia, come ognuno sa, la presenza di una democrazia formale non significa necessariamente l’esistenza di una democrazia sostanziale. È legittimo quindi porsi il problema degli spazi effettivi della democrazia reale in India. Sicuramente questi spazi ci sono, ma, altrettanto sicuramente – come del resto in altre democrazie –, hanno dei limiti precisi, di cui è bene rendersi conto.
Partendo dagli elementi positivi, il primo dato da prendere in considerazione è il tipo di partecipazione elettorale: questa, dalle prime elezioni generali (1951-52) alle ultime tenutesi nel 2009, è lentamente cresciuta dal 55 al 60% circa. Tali percentuali possono far pensare a una partecipazione limitata, ma è nella norma delle democrazie che – al pari dell’India – hanno adottato come sistema elettorale il maggioritario puro (o uninominale secco), in base al quale, in ogni distretto elettorale vince al primo turno chi ha la maggioranza sia pure relativa del voto popolare. Si tratta di un sistema che necessariamente finisce per scoraggiare la partecipazione elettorale, per la semplice ragione che, in una serie di casi, diviene inutile andare a votare, perché molti elettori sanno già a priori che, in quel determinato distretto elettorale, il loro partito preferito non ha alcuna possibilità di poter vincere.
La partecipazione al voto dell’elettore indiano, quindi, per quanto apparentemente bassa, rientra nella norma dei sistemi maggioritari. Una controprova di questa affermazione è data dal fatto che essa non è sostanzialmente diversa da quella che caratterizza il funzionamento della più vecchia democrazia del mondo, gli Stati Uniti. Vi è però una differenza sociale fondamentale fra chi vota negli Stati Uniti e chi vota in India: nel primo caso, coloro che vanno a votare appartengono in grande prevalenza alle classi medie e alle élites più ricche, mentre la partecipazione al voto degli strati sociali più poveri è decisamente scarsa; in India, al contrario, la partecipazione al voto aumenta, sia pure di poco, mano a mano che si scende dai vertici del sistema sociale alla sua base. In altre parole, mentre negli Stati Uniti i poveri tendenzialmente non votano, in India votano in proporzione maggiore, sia pure di poco, degli strati abbienti.
Questo risultato è anche la conseguenza dell’attivismo a livello politico di molti gruppi castali. Le caste sono sostanzialmente gruppi endogamici che, a partire dalla fine dell’Ottocento, hanno sempre più funzionato come vere e proprie piattaforme politiche. O, per meglio dire, lo hanno fatto nella misura in cui una grande casta coincideva in larga parte con una determinata classe sociale. In questa situazione, si è visto come gruppi caratterizzati da comuni interessi socioeconomici potessero essere mobilitati politicamente attraverso parole d’ordine castali. Ora, soprattutto negli ultimi due o tre decenni, alcuni gruppi castali discriminati, intoccabili compresi, si sono dati delle organizzazioni politiche autonome che, talvolta, si sono trasformate in grandi partiti regionali. Questo è il caso, per es., del Samajwadi party dell’Uttar Pradesh, la cui struttura portante è formata dagli yadav, una grande casta di piccoli e piccolissimi proprietari terrieri, ed è anche il caso del Bahujan samaj party, sempre dell’Uttar Pradesh, il cui nucleo duro è formato da intoccabili, cioè dallo strato più povero e discriminato dell’intera società indiana. Evidentemente, fra l’ascesa di questi partiti e la mobilitazione politica degli strati subordinati della società indiana vi è un rapporto dialettico che spiega la duplice tendenza al lento aumento della partecipazione al voto e alla crescita proporzionale del voto mano a mano che si scende verso la base del sistema sociale.
Un secondo elemento di effettiva democraticità del sistema politico indiano è dato dall’importanza dei partiti regionali. La loro indispensabilità nel rendere possibili e vitali i governi di coalizione che reggono il Paese si traduce in una capacità da parte delle forze regionali di tutelare gli interessi locali nei confronti di un governo centrale che, altrimenti, potrebbe valersi (come ha fatto soprattutto fino agli anni Ottanta) dei propri poteri per interferire nel funzionamento democratico dei singoli Stati dell’Unione.
Accanto ai due elementi appena indicati – la partecipazione al voto e il ruolo dei partiti regionali – ve ne sono soprattutto altri tre che possono esseri addotti come prova del fatto che la democrazia indiana sia una democrazia reale: una magistratura che, per quanto socialmente conservatrice, ha dimostrato in una serie di occasioni una notevole indipendenza rispetto ai voleri dell’esecutivo; una stampa caratterizzata dalla capacità di condurre inchieste politicamente importanti; e, infine, una società civile la cui vitalità è dimostrata dal dinamismo e dal numero dei movimenti di base, impegnati nei problemi sociali e politici più diversi.
La magistratura è spesso intervenuta contro personaggi eminenti, quali primi ministri in carica (Indira Gandhi), ex primi ministri (P.V. Narasimha Rao), importanti leader politici (Lal Kishen Advani, uno dei capi storici del BJP ed ex vice primo ministro) e capi religiosi (lo Shankaracharya di Kanchi, Shri Kamakoti Peetam). Nonostante i processi in questione generalmente non abbiano poi comportato la condanna di tali illustri imputati, il fatto stesso che si siano tenuti dimostra come settori rilevanti della magistratura indiana abbiano la volontà di agire indipendentemente dal potere politico.
Dal canto suo la stampa ha sempre dimostrato un’indipendenza assai più spiccata e continuativa di quella della magistratura. In proposito, l’esempio più clamoroso venne dato dal quotidiano di Chennai (Madras), «The hindu», che nel 1989, sotto la guida di Narasimha Ram, intraprese una campagna investigativa su fenomeni di corruzione che coinvolgevano l’entourage del primo ministro in carica. Questa campagna, ampiamente ripresa da altri organi di stampa, ebbe certamente un ruolo importante nel determinare l’esito delle elezioni generali del 1989, che videro la sconfitta del Congresso guidato da Rajiv Gandhi e la fine del periodo storico caratterizzato dalla presenza di un partito dominante.
Non sempre, però, le campagne investigative condotte dalla stampa indiana sono andate a buon fine. Si può ricordare, per es., il caso delle rivelazioni fatte nel novembre 2007 dal settimanale «Tehelka», basate su testimonianze videoregistrate, riguardo le responsabilità del governo del Gujarat, delle forze di polizia e dei quadri del BJP nel pogrom antimusulmano del 2002, che causò 2000 morti e circa 150.000 profughi. In questo caso, le denunce di «Tehelka» non portarono a nessun risultato concreto, né sul piano giudiziario, né su quello politico (tanto che il principale responsabile del massacro, il primo ministro del Gujarat, Narendra Modi, venne trionfalmente rieletto a due mesi di distanza dalle rivelazioni, nel dicembre 2007).
Infine, il proliferare dei movimenti di base è un’altra caratteristica della democrazia indiana. Tali movimenti si sono costituiti e operano all’interno dei settori più disparati, dagli abusi della polizia all’organizzazione delle donne a difesa dei propri diritti, al movimento contro le dighe sul fiume Narmada. Sono movimenti che agiscono in base alla percezione che l’India sia un Paese dotato di una legislazione spesso assai progressista dal punto di vista sociale, ma dove, perché le singole leggi siano applicate, è necessario rendere edotti i cittadini dei loro diritti e organizzarli affinché ne garantiscano la difesa.
I limiti della democrazia indiana
Alcuni dei limiti della democrazia indiana sono già impliciti in quanto scritto nel precedente paragrafo. La tentazione del potere politico di agire al di fuori delle leggi e di intimidire la libera stampa è sempre presente. L’attivismo stesso dei movimenti di base è indice di una situazione sociale dove nessun diritto può essere dato per scontato, ma deve ogni volta essere faticosamente conquistato o riconquistato. Più grave è il modo in cui la magistratura e, in misura ancora più pronunciata, gli apparati di sicurezza amministrano la giustizia e mantengono l’ordine, usando criteri diversi a seconda dell’appartenenza di classe, di casta e di religione dei cittadini. La magistratura spesso si disinteressa della tutela degli strati poveri della popolazione, di bassa casta, fuoricasta o musulmani, mentre il comportamento delle varie forze di polizia nei confronti di questi gruppi sociali è frequentemente contrassegnato da arbitrio e violenza. Un arbitrio e una violenza che continuano a essere la prassi proprio perché raramente sanzionati dalla magistratura, anche se, nel primo decennio del 21° sec., è possibile scorgere qualche segno di cambiamento.
In particolare, il gruppo sociale che riceve, per certi versi, il trattamento peggiore è quello rappresentato dalla minoranza musulmana nel suo complesso (circa 120 milioni di persone). Da questo punto di vista è sintomatico il fatto che, a partire dalla fine degli anni Ottanta, a opera delle forze del fondamentalismo indù, i musulmani indiani siano stati periodicamente vittime di una serie di gravi violenze. In molti casi (si pensi solo ai già ricordati eventi del Gujarat del 2002), queste violenze hanno assunto l’aspetto di veri e propri pogrom, dato che vi è stata la partecipazione passiva, ma assai più spesso attiva, di quelle medesime forze dell’ordine che avrebbero dovuto garantire la sicurezza delle vittime. Ebbene, per quanto la dinamica e le responsabilità delle violenze in questione siano state ampiamente documentate sia dalla stampa sia da gruppi di base (che hanno spesso prodotto dettagliate e documentate inchieste), nessuno degli organizzatori e pochissimi fra gli esecutori materiali di queste atrocità sono stati condannati dai tribunali indiani. Questi medesimi tribunali hanno invece dimostrato un’efficienza assai maggiore nel perseguire e nel condannare i responsabili di attività terroristiche di cui si sono resi colpevoli vari gruppi radicali musulmani, in particolare il SIMI (Student Islamic Movement of India). In effetti, c’è ragione di ritenere che lo stesso passaggio alla clandestinità del SIMI e il suo ricorso al terrorismo trovino una motivazione anche nella giustizia dei due pesi e delle due misure amministrata dallo Stato indiano nei confronti dei suoi cittadini di religione musulmana.
Per quanto riguarda il trattamento delle classi inferiori e dei musulmani, non è che non vi siano controtendenze presenti nella democrazia indiana. È un dato di fatto che il profilo qui delineato sia basato appunto sui reportage investigativi della stampa indiana, su una serie di inchieste a opera di gruppi di base e, infine, per quanto riguarda la situazione dei musulmani indiani, sul Sachar report, cioè sul rapporto conclusivo di una lunga e dettagliata indagine coordinata dal giudice Rajinder Sachar su mandato del governo indiano. Tradizionalmente il governo indiano segue una politica di discriminazione positiva nei confronti degli strati più deboli della popolazione. Questa ha avuto inizio nel momento stesso dell’elaborazione della Costituzione (approvata il 26 gennaio 1950), quando ai fuoricasta e ai gruppi tribali (che, nel tradizionale ordine socioreligioso brahminico, sono considerati fuoricasta) vennero riservate quote prefissate all’interno dell’amministrazione pubblica. È stata appunto l’attuazione di questo provvedimento che ha permesso la nascita di una classe media proveniente da gruppi sociali così svantaggiati, classe media dalla quale, a loro volta, sono venuti molti dei più importanti leader delle formazioni politiche che rappresentano proprio gli interessi dei fuoricasta.
La politica delle quote, che avrebbe dovuto essere solo temporanea, è continuata nel tempo e, a partire dagli anni Novanta, è stata estesa anche alle Other backward classes (OBC). Queste coincidono con gruppi castali che non solo sono considerati bassi nel tradizionale ordinamento sociocastale brahminico, ma i cui appartenenti sono, nella grande maggioranza, poveri. Nel caso dei musulmani, invece, per quanto vi sia stata l’approvazione di una serie di misure di supporto, non si è mai proceduto all’avvio di una vera e propria politica delle quote, nonostante ne sia stata fatta ripetutamente richiesta anche in tempi assai recenti.
In definitiva, però, quello che, alla metà circa del primo decennio del 21° sec., sembra il limite maggiore della democrazia indiana è un altro. L’elettore indiano ha manifestato, al di là di ogni possibile dubbio, la propria volontà e la propria capacità di cambiare i governi. Ciò è dimostrato, senza timore di smentita, dall’avvicendarsi al potere di partiti e/o di coalizioni politiche di colore radicalmente diverso, in particolare a partire dal 1989 nel caso del governo centrale, ma fin dal 1967 nel caso dei governi degli Stati dell’Unione. Tuttavia, nell’era della globalizzazione, a questa capacità di cambiare i governi non si è accompagnata un’analoga capacità di cambiare le politiche attuate da questi stessi governi.
Particolarmente rivelatore è il caso rappresentato dalle elezioni generali del 2004, quando la coalizione di centrodestra, guidata dal BJP, al potere nelle precedenti due legislature (1998-99 e 1999-2004), venne sconfitta dalla coalizione guidata dal Congresso. Il risultato arrivò inatteso per la quasi totalità sia della classe politica indiana sia degli osservatori, in India e fuori, anche perché il governo del BJP aveva assicurato al Paese una crescita economica di oltre l’8% l’anno, un tasso di sviluppo che, fino a quel momento, non era mai stato raggiunto né prima né dopo l’avvio della nuova politica economica.
L’esito delle elezioni fu determinato essenzialmente da due fattori: uno fu che la presidente del Congresso, Sonia Gandhi, si dimostrò più abile della leadership del BJP nel costruire un’ampia coalizione elettorale; l’altro fattore fu che la rapidissima crescita economica, garantita dal precedente governo premendo l’acceleratore sulla politica delle riforme neoliberiste, era andata a favore di non più del 20% della popolazione urbana e del 10% di quella rurale, mentre la situazione della gran parte della popolazione non solo non era migliorata ma, nel caso delle masse rurali, era addirittura peggiorata. La sconfitta della coalizione guidata dal BJP fu, quindi, anche un voto di sfiducia nei confronti della nuova politica economica, in particolare un voto di protesta contro l’abbandono in cui, come conseguenza della nuova politica economica, era stato lasciato il settore rurale. Quest’ultimo, per quanto ormai minoritario nella formazione del PIL nazionale, rimaneva però quello da cui dipendeva la maggioranza della popolazione.
L’importanza dello scontento delle masse rurali nel determinare l’esito delle elezioni del 2004 venne perfettamente colta dai politici e dai media indiani; in effetti il programma minimo comune, che venne stilato subito dopo le elezioni per essere alla base dell’operato del nuovo governo, riconosceva la necessità di venire incontro alle esigenze del mondo rurale. Negli anni successivi, però, a questa percezione e alle promesse incluse nel programma minimo comune non si accompagnò nessuna svolta effettiva nella politica economica; essa, infatti, continuò a rimanere di stampo neoliberista e a trascurare il mondo rurale. Vero è che, soprattutto per volontà di Sonia Gandhi, il governo varò, sia pure con ritardo e in modo parziale, un programma volto a garantire 100 giorni di lavoro a ogni capofamiglia appartenente agli strati più poveri della popolazione. Ma l’esame dettagliato delle successive leggi di bilancio, approvate dal nuovo governo, dimostra che, rispetto alle due legislature precedenti (quando, come già ricordato, era al potere la coalizione di centrodestra guidata del BJP), la quota di fondi erogata al settore primario non è variata in modo apprezzabile. A essere cambiata, in effetti, è solo la retorica con cui il ministro delle Finanze, ;Palaniappan Chidambaram, ha presentato, anno dopo anno, le successive leggi di bilancio. Come si vedrà più avanti, il risultato è stato il progressivo aggravarsi della situazione del settore rurale.
Il problema del terrorismo
Prima di proseguire lungo il filo argomentativo che ci si è proposto, parlando della situazione economica dell’India, è però necessario aprire una parentesi sul fenomeno del terrorismo indiano. L’India, in realtà, è sempre stata teatro di attentati terroristici, anche se, in Occidente, la percezione di questo fenomeno si è incominciata ad avere solo in occasione dell’attacco del 26-29 novembre 2008 a Mumbai. Dal punto di vista delle perdite umane questo, in realtà, con un bilancio di poco meno di 200 vittime, non è neppure stato la più sanguinosa singola azione terroristica avvenuta in India (la ‘palma’ va agli attentati sincronizzati del marzo 1993, sempre a Mumbai, che allora si chiamava ancora Bombay, attentati in cui morirono circa 300 persone). È però stata la prima volta in cui occidentali e israeliani sono stati fra le vittime designate degli attentatori. Ciò non toglie che il terrorismo sia ben presente in India da diversi decenni, tanto che, secondo il Global terrorism database dell’università del Maryland, fra il 1970 e il 2004, vi sono stati 4100 attentati, per un numero complessivo di 12.000 vittime.
Nella parte appena conclusa, si è sostenuto che il brodo di coltura del terrorismo in India è rappresentato dallo scontento di sezioni più o meno ampie della comunità musulmana, sezioni che, di fronte all’incapacità della democrazia indiana di punire almeno i casi più macroscopici di violenza contro gli indiani di religione islamica, hanno scelto la clandestinità e la lotta armata. Tuttavia, le ingiustizie ai danni della comunità musulmana sono solo una parte della spiegazione del fenomeno. Un’altra è rappresentata dalla questione del Kashmir.
Il Kashmir era il più grande degli Stati vassalli dell’impero coloniale britannico in India. Al momento della fine del regime coloniale, sia il monarca (indù) sia la maggioranza dei suoi sudditi (musulmani), per quanto divisi su praticamente ogni altra questione, avrebbero voluto la trasformazione del principato in uno Stato pienamente indipendente. Questo fu reso impossibile dalla debolezza militare del principato stesso: invaso in un primo tempo da elementi tribali provenienti dal Pakistan, finì per essere spartito manu militari fra Pakistan e India. La parte indiana, comprendente i due terzi del territorio e la grande maggioranza della popolazione, formò lo Stato indiano dello Jammu Kashmir; la parte pakistana divenne l’Azad Kashmir (Kashmir libero), cioè una provincia pakistana. Tuttavia, alla divisione del principato non seguì mai un accordo bilaterale che risolvesse il contenzioso in proposito fra India e Pakistan: quest’ultimo continuò a rivendicare tutto il Kashmir in base all’assunto che il Pakistan era nato come lo Stato dei musulmani indiani e che il Kashmir era l’unico territorio indiano a maggioranza musulmana che non ne fosse diventato parte; l’India continuò a rivendicare l’intero territorio in quanto l’ultimo capo di Stato del principato, il maragià Hari Singh, aveva firmato un instrument of accession che ratificava l’adesione del Kashmir all’Unione Indiana.
Al di là delle tensioni che la questione ingenerò fra India e Pakistan, rimane il fatto che gli abitanti del Kashmir indiano accettarono la situazione anche perché non avevano nessun desiderio di entrare a far parte di un Paese, il Pakistan, che consideravano come il primo responsabile della fine del sogno dell’indipendenza. Si trattò di un’acquiescenza che incominciò a evaporare nel corso degli anni Ottanta, in seguito alle sempre più pesanti e frequenti ingerenze del governo centrale negli affari interni dello Stato. A partire dal 1990, la situazione si tradusse in una vera e propria insurrezione indipendentista che, per essere domata, necessitò di circa due anni e del dispiegamento di un massiccio apparato militare.
La fine dell’insurrezione e la distruzione di quello che ne era stato il protagonista, lo Jammu and Kashmir liberation front, un’organizzazione laica e indipendentista, non rappresentarono però la fine della violenza in Kashmir. Alla repressione indiana sopravvisse una serie di gruppi e gruppuscoli islamici, a volte con obiettivi indipendentisti, più spesso miranti all’annessione dello Jammu Kashmir al Pakistan. Si trattava di gruppi che erano stati – e, almeno fino alla fine degli anni Novanta, continuarono a essere – organizzati, finanziati e addestrati dal Pakistan.
Con la presa del potere in Pakistan da parte del generale Pervez Musharraf, la situazione cambiò, dato che il generale-presidente si pose come obiettivo la normalizzazione dei rapporti con l’India attraverso una soluzione per via diplomatica del contenzioso. Il problema fu che tale politica – oltre a essere accolta con meno entusiasmo di quanto fosse legittimo aspettarsi dalla classe politica indiana – trovò una sorda opposizione in sezioni consistenti delle forze armate e dei numerosi servizi segreti pakistani. Non c’è dubbio che, nonostante la diversa politica del governo di Islāmābād, tali sezioni continuassero ad appoggiare i gruppi terroristici del Kashmir. Questi ultimi, d’altra parte, non erano semplici mercenari che i loro pagatori potessero rimandare a casa ad libitum; i militanti islamici del Kashmir conducevano la loro lotta contro l’India sulla base di precise ragioni ideologiche e, per farlo, erano disposti a sfidare non solo il governo indiano, ma anche quello pakistano.
A partire dal 13 dicembre 2001, data in cui vi fu un attacco abortito contro la sede del Parlamento di Nuova Delhi, alcuni di questi gruppi – in particolare il Lashkar-e-Taiba (esercito dei giusti), fondato nel 1996 – incominciarono a dimostrare una crescente capacità di operare in territorio indiano ben al di là del Kashmir. In realtà, nel 1993 vi era già stato il sopra ricordato episodio terroristico di Mumbai, quando in una serie di esplosioni sincronizzate erano morte circa 300 persone. Allora, come venne dimostrato dalle indagini della magistratura, vi era stata una diretta partecipazione dei servizi segreti pakistani in connessione con elementi della mafia attivi in quella città. Ma l’attacco al Parlamento di Nuova Delhi del 13 dicembre 2001 segnò il momento in cui a diventare protagoniste di una sempre più intensa campagna di atti terroristici diretti contro l’India furono alcune organizzazioni del Kashmir legate al terrorismo. Ovviamente, si trattava di una capacità operativa che poteva dispiegarsi non tanto perché il livello qualitativo dei membri di tali organizzazioni aveva subito un improvviso incremento, quanto perché le organizzazioni in questione potevano disporre di basi e supporti logistici all’interno dell’India, offerti da quei musulmani indiani che avevano fatto la scelta del ricorso alla violenza contro lo Stato. Ciò detto, bisogna inoltre aggiungere che le indagini effettuate dal gruppo antiterroristico della polizia del Maharashtra hanno dimostrato come alcuni attentati compiuti nel 2008, e inizialmente attribuiti al terrorismo islamico, siano stati invece opera di elementi legati al fondamentalismo indù. Esiste quindi anche un terrorismo indù, che si pone come estensione della violenza contro i musulmani indiani, diventandone la giustificazione.
Le dimensioni dello sviluppo economico
Chiusa questa parentesi sul terrorismo, e riallacciandoci a quanto si è detto a proposito della difficile situazione delle masse rurali, si può ora passare a discutere delle ricadute politiche dello sviluppo economico. Ma prima di entrare in medias res, è necessario fornire alcune indicazioni di massima sulla natura e sulla tempistica dello sviluppo economico. In genere – a livello giornalistico, ma non solo – il punto di partenza cronologico e l’origine strutturale dello sviluppo economico che dovrebbe trasformare l’India nella terza economia mondiale al più tardi nel 2050 sono fatti coincidere con l’avvio della nuova politica economica neoliberista nell’estate del 1991. Tuttavia, un esame del trend dello sviluppo economico nell’arco dell’intero 20° sec. rivela un quadro notevolmente diverso. L’evoluzione economica dell’India, infatti, appare caratterizzata da due salti qualitativi verso l’alto, uno verificatosi all’inizio degli anni Cinquanta, l’altro all’inizio degli anni Ottanta (Nayyar 2006). Il primo è il più importante dei due, dato che ha interrotto il lungo periodo di ristagno che aveva caratterizzato l’era coloniale, avviando una fase di sviluppo che, per quanto ingiustamente sminuita in molta letteratura specialistica, ha avuto un tasso di crescita non trascurabile e, in ogni caso, sostanzialmente identico a quello della maggior parte delle altre economie mondiali, comprese quelle occidentali. Il secondo salto qualitativo si è tradotto nella graduale accelerazione del tasso di crescita, che, salvo uno iato nel 1991-92, è continuato sostanzialmente immutato fino a oggi. Ciò significa che, contrariamente a quello che sembra essere diventato il consenso generale, le riforme neoliberiste che sono state introdotte negli anni Novanta non hanno avviato una nuova e più rapida fase di crescita, ma hanno semplicemente visto il mantenimento del trend iniziato circa un decennio prima.
Questo non vuol dire che tali riforme non abbiano rappresentato un importante elemento di rottura rispetto ai decenni precedenti; più precisamente, possiamo però affermare che questa rottura si è verificata più a livello politico-sociale che a livello economico. In altre parole, le riforme neoliberiste, se non hanno provocato il balzo in avanti economico che, in genere, viene loro attribuito, hanno comportato costi pesanti per la società indiana nel suo complesso, determinando dei ben precisi contraccolpi politici. Ed è a questi temi che conviene ora passare.
Una nazione dei ricchi e una nazione dei poveri
Nel primo decennio del 21° sec., mentre gli indici economici continuano a crescere e il governo mira a raggiungere un tasso di sviluppo del 10% l’anno, la società indiana appare profondamente divisa fra una minoranza, la cosiddetta classe media, con uno stile di vita analogo a quello delle classi medie occidentali, e la grande maggioranza della popolazione, caratterizzata invece da condizioni di povertà più o meno pronunciata. In effetti, per circa un quarto della popolazione complessiva, il grado di povertà è tale che, a detta degli stessi dati ufficiali, coloro che appartengono a questo gruppo non guadagnano abbastanza per nutrirsi in misura adeguata a prevenire l’insorgere di malattie legate alla sottonutrizione (Sengupta, Kannan, Raveendran 2008).
È bene sottolineare immediatamente che questa bipartizione della società indiana in quella che l’economista Prabhat Patnaik ha chiamato la «nazione dei ricchi» e la «nazione dei poveri» non è un fenomeno recente. Lo sviluppo perseguito dai vari governi dell’India indipendente, prima e dopo le riforme neoliberiste degli anni Novanta, ha infatti prodotto una crescita i cui benefici sono in larga misura andati, oltre che ai pochi super ricchi, alla classe media. La differenza fra prima e dopo l’avvio delle riforme economiche neoliberiste nell’estate del 1991 è stata che la classe media ha visto aumentare sempre più rapidamente il proprio benessere, mentre, in contemporanea, il tenore di vita del resto della popolazione è ristagnato o, in alcuni casi, è addirittura peggiorato. Quest’ultimo sviluppo è funzione del progressivo venir meno di una serie di tutele che lo Stato indiano garantiva sia a quella maggioranza che tuttora continua a dipendere dall’agricoltura (maggioranza che è complessivamente più povera degli strati sociali che dipendono dall’industria e dal terziario) sia agli strati più disagiati della popolazione, nel settore rurale come in quello urbano. Così, per es., la politica di credito privilegiato per l’agricoltura, inaugurata dalla nazionalizzazione delle maggiori banche private nel 1969, è venuta meno in seguito all’avvio delle riforme neoliberiste; la politica di sussidi alla classe contadina, che ha sempre rappresentato uno degli elementi distintivi della politica economica dell’India indipendente, è stata limitata a partire dagli anni Novanta; da ultimo, ma non certo per importanza, il PDS (Public Distribution System), che garantiva l’accesso degli strati più poveri della popolazione a granaglie commestibili vendute a prezzi inferiori a quelli di mercato, è stato radicalmente depotenziato. Quest’ultimo risultato è stato ottenuto attraverso norme che non solo hanno limitato il numero di cittadini poveri che possono usufruire del sistema, ma ne hanno reso l’accesso burocraticamente più difficile, scoraggiandone in tal modo l’utilizzo anche da parte di quella quota della popolazione che continuerebbe ad averne diritto. L’insieme di queste politiche ha quindi avuto come conseguenza immediata un peggioramento delle condizioni di vita degli strati più poveri, ma ha anche avviato una crisi nel settore primario quale non si vedeva dal periodo tardocoloniale. Tale crisi ha coinvolto sia gli strati più poveri della popolazione rurale sia settori sociali relativamente agiati di contadini proprietari che, prima dell’avvio delle riforme neoliberiste, erano stati tutelati – nel complesso efficacemente – dalle politiche dello Stato in supporto dell’agricoltura. Questa situazione di grande difficoltà ha comportato due tipi di risposte da parte di chi ne è vittima: il diffondersi dei suicidi per debiti e il riemergere di un movimento rivoluzionario armato di estrema sinistra, il cosiddetto movimento naxalita. Il primo tipo di risposta ha trovato seguito nei settori travolti dalla crisi che appartenevano a strati relativamente privilegiati (piccoli e medi proprietari terrieri); il secondo, soprattutto tra i contadini poveri e senza terra.
Il fenomeno del suicidio per debiti
Il suicidio può a volte essere considerato come una forma estrema di protesta, e quindi di lotta, ma, di norma, non è un fenomeno che possa essere legittimamente considerato come parte integrante delle più significative dinamiche politiche di un determinato Paese. Ciò che giustifica la scelta qui fatta è che i suicidi da parte degli agricoltori indiani hanno assunto una dimensione di massa, comportando perdite umane paragonabili a quelle di una guerra. Secondo una ricerca statistica condotta da un gruppo di studiosi del Madras institute of development studies (MIDS) di Chennai, coordinata dal prof. K. Nagaraj e pubblicata nel 2008, risulta infatti che, nel periodo dal 1997 al 2006, in India vi siano stati oltre 160.000 suicidi di agricoltori (per l’esattezza, 165.304). Quanto meno, questa è la cifra che si ottiene dall’analisi dei dati ufficiali su cui la ricerca è basata, dati che però, a detta dello stesso Nagaraj, rappresentano quasi sicuramente una sottovalutazione del fenomeno in questione. Quest’indagine dimostra anche che, nel periodo preso in esame, il numero dei suicidi fra gli agricoltori è stato caratterizzato da un trend al rialzo: nei cinque anni che vanno dal 1997 al 2001 ne sono stati registrati 78.737, cioè una media di 15.747 all’anno, ma nei successivi cinque anni, dal 2002 al 2006, se ne sono avuti 87.567, cioè una media di 17.513 all’anno.
Quasi i due terzi dei suicidi di agricoltori verificatisi nel periodo 1997-2006 sono avvenuti in cinque Stati dell’Unione: Madhya Pradesh, Chhattisgarh (che, fino al 31 ottobre 2000, faceva parte del Madhya Pradesh), Maharashtra, Andhra Pradesh e Karnataka. Nei quattro grandi Stati si sono verificati 101.000 dei 165.304 suicidi mentre nel solo Maharashtra se ne sono verificati 33.364.
Complessivamente, in questi cinque Stati, il tasso di suicidi verificatisi fra gli agricoltori è del 63% più alto del tasso di suicidi fra la popolazione in generale. Nel Maharashtra, infine, il tasso di suicidi fra gli agricoltori è il doppio rispetto al tasso generale.
Gli Stati che sono l’epicentro di questa ‘epidemia’ di suicidi sono gli stessi in cui gli agricoltori – seguendo del resto gli incoraggiamenti venuti dallo Stato – avevano riconvertito le proprie colture dalle derrate alimentari a prodotti di più alto valore economico, quale cotone o fiori, da vendersi sul mercato internazionale. Si è trattato di una strategia la cui adozione ha comportato la necessità, per coloro che l’hanno intrapresa, di indebitarsi per ottenere le risorse necessarie al processo di riconversione. Ma dato che, in omaggio alla nuova ortodossia neoliberista, negli anni Novanta le banche che finanziavano l’agricoltura erano state incoraggiate a indirizzare i propri investimenti secondo il criterio del maggior profitto, in quel medesimo periodo il credito istituzionale all’agricoltura è diminuito in maniera radicale. Il risultato è stato che, quando dalla metà degli anni Novanta i prezzi agricoli internazionali hanno incominciato a scendere, gli agricoltori che avevano riconvertito le proprie colture sono entrati in una spirale di indebitamento senza uscita. La situazione si è ulteriormente aggravata (constatazione che è verificabile osservando l’andamento dei suicidi) quando, con il 2001, in occasione dell’intensificarsi di strategie neoliberiste da parte del governo di coalizione di centrodestra capeggiato dal BJP, la crisi agraria si è ancor di più estesa e approfondita.
La guerriglia naxalita
Il movimento naxalita (rivoluzionario marxista d’ispirazione maoista) nacque nel maggio 1967 da un’azione di resistenza della popolazione del villaggio di Naxalbari (nel distretto rurale di Darjeeling, nel Nord dello Stato indiano del Bengala Occidentale) contro le angherie dei proprietari terrieri locali. Il movimento, che presto ebbe l’appoggio degli studenti politicizzati, si estese in tutto lo Stato, radicandosi soprattutto nella capitale, la grande metropoli di Calcutta (oggi Kolkata). All’inizio degli anni Settanta, il movimento naxalita venne violentemente e sanguinosamente ‘sradicato’ dagli apparati di sicurezza indiani, con metodi degni di una dittatura latino-americana. Da quel momento in avanti, i naxaliti sopravvissero in maniera precaria sotto forma di piccoli gruppi armati, nell’entroterra rurale di alcuni Stati. Sostanzialmente incapaci di rappresentare una qualsiasi minaccia effettiva per lo Stato indiano e per le classi rurali dominanti, per un paio di decenni i naxaliti finirono per essere considerati una sorta di fenomeno folcloristico, analogo a certe forme di banditismo presenti in altre parti dell’India. Di fatto, ancora alla metà degli anni Novanta, i naxaliti – divisi in una serie di formazioni prive di coordinamento e, a volte, addirittura in conflitto – erano attivi in solo quattro Stati indiani. Silenziosamente, però, nel periodo a cavallo fra la fine degli anni Novanta e l’inizio del decennio successivo, in chiara concomitanza con il diffondersi della crisi agraria indotta dalle nuove politiche neoliberiste, i movimenti naxaliti attraversarono un processo di irrobustimento e di diffusione in aree sempre più ampie del Paese.
Il segnale più evidente della nuova pericolosità del movimento si ebbe nell’ottobre 2003, con un attentato diretto contro il capo ministro dell’Andhra Pradesh, Chandrababu Naidu. Questi, beniamino del capitalismo indiano e internazionale per l’accelerazione estrema che aveva impresso alle riforme neoliberiste nel suo Stato, si salvò per un soffio. L’anno successivo, nel settembre 2004, si realizzò, inoltre, l’unificazione dei due gruppi naxaliti più importanti, il Maoist communist centre e il People’s war group, che complessivamente raccoglievano il 90% del movimento. L’unificazione diede origine al Communist party of India-Maoist (CPI-Maoist) e alla sua ala armata, la People’s liberation guerrilla army.
Da allora, la crescente capacità operativa del CPI-Maoist si è manifestata in una serie di azioni armate sempre più frequenti, audaci e spettacolari. Il nuovo livello di pericolosità da esso raggiunto venne sottolineato dallo stesso primo ministro, Manmohan Singh, che, il 16 aprile 2006, definì i naxaliti la maggiore singola minaccia alla stabilità interna dell’India e alla cultura democratica.
In effetti, anche se il grosso del movimento è guidato dal CPI-Maoist, esiste una serie di altri movimenti naxaliti – l’intelligence indiana ne ha contati un totale di 22 – che agiscono in maniera autonoma. Molti di questi movimenti non utilizzano strategie violente e lo stesso CPI-Maoist – responsabile, secondo le fonti di intelligence indiane, del 95% delle azioni violente – ha delineato, nel corso di un congresso clandestino tenutosi nel periodo a cavallo fra gennaio e febbraio del 2007, una strategia mista, che unisce la guerriglia ad agitazioni di tipo prevalentemente non violento. Ciò detto, bisogna ricordare che le fonti ufficiali indiane concordano nel sottolineare la crescente pericolosità militare dell’intero movimento, la cui parte maggioritaria è ormai coordinata da un unico centro, i vertici appunto del CPI-Maoist.
Le forze che fanno capo al CPI-Maoist – basate su una struttura clandestina diffusa e radicata a livello locale e sostenute da un apparato logistico efficiente e da un’intelligence che, a quanto pare, raggiunge i vertici stessi dello Stato – appaiono ormai in grado di misurarsi sul piano militare addirittura con le forze d’élite dell’apparato repressivo. Secondo i servizi segreti indiani, nel 2007 il movimento naxalita era ormai attivo nel 40% del territorio nazionale e influenzava il 35% della popolazione complessiva. Sempre secondo i servizi segreti, all’inizio del 2008 il movimento naxalita si era ulteriormente allargato, tanto da essere presente in 22 dei 28 Stati indiani, compresi Stati ricchi come quelli di Delhi, del Panjab e del Gujarat, in cui i movimenti maoisti erano stati fino a quel momento assenti. Infine, nel 2008, sempre l’intelligence indiana, indicava come obiettivo a breve termine del movimento naxalita, cioè per il 2009, il raggiungimento del pieno controllo del 35% del territorio.
La ricerca della sicurezza energetica
La rapida crescita dell’economia indiana a partire dall’inizio degli anni Ottanta e la sua integrazione nell’economia mondiale a partire dall’inizio degli anni Novanta hanno conferito all’India un peso a livello internazionale quale non aveva mai avuto dall’epoca dell’apogeo del movimento dei Paesi non allineati nella seconda metà degli anni Cinquanta. Questo crescente peso economico dell’India e la conseguente maggiore importanza dei legami fra l’India e quello che, già prima delle riforme neoliberiste degli anni Novanta, era il suo primo partner commerciale, cioè gli Stati Uniti, spiegano i rapporti sempre più stretti e amichevoli fra Washington e Nuova Delhi.
Paradossalmente, però, la stessa crescita economica che ha determinato l’aumento del peso internazionale dell’India e l’intensificarsi dei rapporti con la superpotenza americana sono all’origine sia di una potenziale maggiore vulnerabilità dell’India a livello internazionale, sia della messa in atto da parte di Nuova Delhi di politiche antitetiche agli interessi americani, che, di conseguenza, sono ostacolate da Washington.
La maggiore vulnerabilità potenziale dell’India e le politiche che ne derivano sono dovute al fatto che il Paese non solo è deficitario dal punto di vista energetico, ma lo sta diventando sempre di più, proprio come conseguenza della sua crescita economica. Nel 1991 l’India importava solo il 17,8% dell’energia che le era necessaria, ma, nel 2007, questa quota era già salita al 30%. Naturalmente, a questa crescita proporzionale ha fatto riscontro un incremento in valore assoluto assai più rapido, spinto, come si è appena accennato, dalla continua crescita dell’economia. Gli aumenti di consumi sono stati pronunciati soprattutto nel settore degli idrocarburi: alla metà del primo decennio del 21° sec., l’India importava fra il 73 e il 75% del suo fabbisogno petrolifero, una quota destinata a raggiungere il 9o% nel 2050. Ne consegue che la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi e, a volte, del know-how a essi necessario sono diventati una delle determinanti fondamentali della politica estera indiana a partire dagli anni Novanta. Ciò ha comportato la messa in atto di due tipi di strategia: la prima è stata la stipula di contratti per l’acquisto di risorse energetiche nei vari Paesi, in genere su basi pluriennali; la seconda si è configurata come la compartecipazione diretta dell’India a imprese locali, volte alla ricerca e allo sfruttamento delle risorse energetiche, attraverso l’acquisto di una parte delle azioni di tali imprese. Soprattutto nel caso dei Paesi africani, all’una o all’altra strategia ne viene talvolta unita una terza, consistente nell’offerta di aiuti economici di vario tipo. Il problema di questa politica estera, volta a garantire la sicurezza energetica del Paese, è che essa ha portato l’India a stabilire legami privilegiati con Paesi i cui rapporti con gli Stati Uniti sono diventati, nel corso del primo decennio del 21° sec., decisamente freddi (è il caso della Russia) o che, da tempo, sono apertamente categorizzati da Washington come ‘Stati canaglia’. Quest’ultimo è il caso del Venezuela, del Sudan, della Siria, del Myanmar e, soprattutto, dell’Irān.
L’Irān è uno dei principali fornitori dell’India di petrolio e di gas metano, tanto che, nel 2005, i due Paesi hanno firmato un nuovo accordo per la fornitura di 10 milioni di tonnellate all’anno di gas metano liquefatto per un periodo di 25 anni. Inoltre, l’India partecipa allo sviluppo dei campi petroliferi iraniani di Yadavaran e di Jufeyr. In prospettiva, però, il legame economico più importante fra Irān e India dovrebbe essere rappresentato dalla costruzione del gasdotto IPI (Irān-Pakistan-India) o ‘gasdotto della pace’. Si tratta di un’infrastruttura gigantesca che dovrebbe estendersi dall’Irān all’India attraverso il Pakistan e, nella sua versione più ambiziosa, dovrebbe essere alimentata anche da gasdotti provenienti dal Qaṭar e dall’Asia centrale, proseguendo poi fino alla Cina centrale, attraverso il Myanmar.
Il progetto in questione avrebbe ricadute economiche e politiche estremamente importanti, permettendo, fra l’altro, una decisiva e permanente svolta positiva nei difficili rapporti fra India e Pakistan (da cui l’etichetta ‘gasdotto della pace’). Ma, ovviamente, la sua realizzazione segnerebbe una sconfitta forse decisiva per la politica di isolamento perseguita da Washington nei confronti di Teherān. In effetti gli Stati Uniti hanno non solo espresso a più riprese il loro malcontento per i rapporti privilegiati dell’India con gli ‘Stati canaglia’, ma, soprattutto, hanno più volte manifestato la propria aperta opposizione all’attuazione del progetto IPI.
L’India, gli Stati Uniti e la questione nucleare
Quanto abbiamo appena detto può servire da introduzione all’ultimo argomento trattato nel presente scritto: i rapporti fra la superpotenza americana e l’India. Nel primo decennio del 21° sec., nonostante le tensioni a cui abbiamo sopra accennato, legate ai rapporti fra l’India e gli ‘Stati canaglia’, in particolare l’Irān, le relazioni fra Washington e Nuova Delhi sono state caratterizzate da un grado di prossimità e di cordialità che, nel complesso, è senza precedenti. Fino all’inizio degli anni Novanta, infatti, i rapporti fra i due Paesi erano stati contrassegnati da una certa freddezza, a causa della politica indiana impostata prima sull’equidistanza dai blocchi e poi (dall’estate del 1971) sull’alleanza strategica con l’Unione Sovietica. Dopo la dissoluzione dell’URSS nel 1991, il governo indiano riorientò la propria politica estera in senso filoamericano. La nuova strategia, inaugurata dall’annuncio (il 29 gennaio 1992) del riconoscimento da parte dell’India dello Stato d’Israele (l’India era stata uno dei Paesi che, nel 1975, aveva votato a favore della mozione ONU che equiparava il sionismo al razzismo), ebbe come fondamentali elementi propulsori due ordini di fattori: il primo fu la crescente importanza dell’interscambio economico fra India e Stati Uniti, determinata dalle riforme neoliberiste del 1991; il secondo fu il peso acquisito negli Stati Uniti da una influente lobby filoindiana, formata non solo da uomini d’affari americani, interessati ad aprire alle proprie imprese il mercato indiano, ma anche da una prospera comunità di cittadini statunitensi di origine indiana, composta soprattutto da agiati professionisti e da imprenditori. Per tutti gli anni Novanta e oltre, tuttavia, nonostante gli evidenti progressi che le caratterizzavano, nelle relazioni indiano-statunitensi continuò a sussistere un fondamentale elemento di disturbo, rappresentato dalla questione nucleare.
L’India, uno dei quattro Paesi non firmatari dell’NPT (Nuclear Non-Proliferation Treaty), era dotata di un armamento atomico, come dimostrato dal test del 1975 e da cinque successivi test nel 1998.
Era stato il test del 1975 che aveva indotto l’allora presidente americano, Richard Nixon, a creare l’NSG (Nuclear Suppliers Group), che raccoglieva i Paesi firmatari dell’NPT e possessori di tecnologia e/o di combustibile nucleare, con il fine preciso di isolare e mettere in difficoltà l’India (che dispone di appena l’1% delle scorte note di uranio). Dopo i test del 1998, gli Stati Uniti si erano di nuovo fatti parte attiva (insieme al Giappone) nell’imporre una serie di sanzioni all’India, soprattutto nei settori dell’alta tecnologia e degli armamenti. Le sanzioni imposte nel 1998 furono abolite soltanto all’indomani dell’11 settembre 2001, dato che l’India era stata uno dei primissimi Paesi a schierarsi a favore della crociata contro il terrorismo internazionale tenacemente propugnata dal presidente statunitense George W. Bush.
L’appoggio indiano alla politica estera di Bush e la fine delle sanzioni contro l’India sembrarono aprire una nuova e ancora più stretta fase di collaborazione fra Washington e Nuova Delhi. Tuttavia, la decisione unilaterale da parte di Washington di attaccare e di occupare l’Irāq (marzo 2003) aprì una fase di ripensamento nell’ambito della classe politica indiana. Fu un ripensamento che attraversò in maniera trasversale gli schieramenti, in quanto l’avventura statunitense in ῾Irāq venne vista dall’insieme dell’opinione pubblica indiana come il risorgere del colonialismo occidentale in Asia. Nel corso del 2003 vi fu, quindi, un percepibile raffreddamento nei rapporti fra India e Stati Uniti, simboleggiato dal rifiuto indiano (14 luglio 2003) di acconsentire alla richiesta statunitense di inviare un corpo di spedizione in ῾Irāq.
Questo rifiuto – fatto con estrema fermezza, ma evitando toni aggressivi – aprì un dibattito ai vertici del potere statunitense a proposito della politica da seguire nei confronti dell’India. Da questo dibattito emerse la consapevolezza sia della cruciale importanza ormai assunta dall’India a livello mondiale, sia dell’opportunità di coinvolgerla nella sfera strategica statunitense. Lo strumento per raggiungere quest’ultimo obiettivo fu individuato nel capovolgimento della politica fin lì seguita di ostacolare le ambizioni nucleari dell’India. Anche se l’India si fosse ostinata a non firmare l’NPT e a mantenere il proprio arsenale nucleare, la nuova strategia avrebbe dovuto favorire lo sviluppo dell’industria atomica indiana nel settore civile (ciò che, in quel momento, era precluso dall’esistente legislazione statunitense sui rapporti con Paesi terzi dotati di armi nucleari). A sua volta, questa scelta avrebbe dovuto essere presentata come finalizzata a permettere all’industria nucleare indiana di far fronte al fabbisogno energetico nazionale, senza necessità di accordi commerciali con gli ‘Stati canaglia’, in particolare l’Irān.
La nuova politica statunitense venne preannunciata nel marzo 2005 dal segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, durante un viaggio a Nuova Delhi, e avviata, pochi mesi dopo, il 18 luglio del medesimo anno, dagli accordi siglati a Washington dal primo ministro indiano Manmohan Singh e dal presidente americano G.W. Bush. Dato che, come già ricordato, l’India non soltanto non è firmataria dell’NPT, ma dispone di armi atomiche, la collaborazione nucleare prospettata negli accordi del 18 luglio era basata sulla divisione dell’industria atomica indiana in un settore civile e in uno militare. Quest’ultimo, che interessa circa i due terzi dell’industria nucleare indiana, avrebbe goduto degli stessi benefici accordati all’industria nucleare dei Paesi firmatari dell’NPT. Questo, in teoria, avrebbe reso possibile all’India un incremento della propria produzione domestica di energia atomica tale da permetterle di non dipendere più dagli idrocarburi iraniani.
L’iter negoziale – iniziato, come si è appena ricordato, con la Dichiarazione congiunta del 18 luglio 2005 – si rivelò estremamente lungo, concludendosi definitivamente solo con la firma a Washington, il 10 ottobre 2008, dell’accordo bilaterale destinato a regolare i rapporti in materia nucleare fra i due Paesi. A prolungare per oltre tre anni l’iter negoziale furono le difficoltà sia tecniche sia politiche che dovettero essere affrontate e risolte.
Le difficoltà tecniche erano riconducibili al fatto che l’India non rispondeva ai requisiti fissati dallo US atomic energy act del 1954 che, al paragrafo 123, regola i rapporti nucleari fra gli Stati Uniti e un altro Stato. Di conseguenza, fu necessaria la discussione e l’approvazione di due diverse leggi, approvate in via definitiva rispettivamente il 19 dicembre 2006 (la legge Hyde o Henry J. Hyde United States-India peaceful atomic energy cooperation act) e l’8 ottobre 2008 (la legge HR 7081 o United States-India nuclear coop;eration approval and nonproliferation enhancement). Entrambe fissavano i limiti entro i quali avrebbe dovuto essere condotto il rapporto nel campo del nucleare con l’India, ne stabilivano le condizioni e decidevano le sanzioni da imporre in caso di trasgressione da parte dell’India.
Le difficoltà politiche nacquero invece dall’opposizione all’accordo che si manifestò, sia pure per ragioni diverse, sia negli Stati Uniti sia in India. Negli Stati Uniti, tale opposizione – di natura trasversale e di cui faceva parte una figura di spicco come l’ex presidente Jimmy Carter – era originata dal timore che le concessioni che si sarebbero fatte all’India avrebbero reso obsoleto l’NPT e favorito il processo di proliferazione nucleare; in India, invece, l’opposizione, anch’essa di natura trasversale, era motivata soprattutto dal timore che l’accordo con gli Stati Uniti potesse condizionare sia la politica estera sia la politica nucleare. Mentre, però, negli Stati Uniti il dissenso nei confronti dell’accordo si dissolse con una rapidità inattesa nel periodo che portò alla formulazione della legge Hyde, cioè nella seconda metà del 2006, in India l’opposizione fu assai più lunga e persistente, tanto che, per la prima volta nella storia dell’India indipendente, la sopravvivenza stessa del governo venne messa a rischio da un problema di politica estera.
La differenza di intensità nell’opposizione all’accordo fu determinata dal fatto che, negli Stati Uniti, sui timori di proliferazione nucleare prevalse la convinzione che l’accordo con l’India rivestisse un’importanza strategica cruciale per gli Stati Uniti. Esso, infatti, era visto come indispensabile a portare nell’orbita americana quello che era ormai considerato uno swing State per eccellenza, cioè uno Stato che, spostandosi da una parte o dall’altra degli schieramenti internazionali, era in grado di alterarne gli equilibri.
Ovviamente fu questa medesima percezione che, in India, suscitava la preoccupazione di ampi settori dell’opinione pubblica. Per quanto riguarda la politica estera, i temuti condizionamenti divennero ben visibili in una serie di decisioni che segnò un percepibile mutamento di tono soprattutto nei rapporti fin lì amichevoli con l’Irān. In particolare, il 22 settembre 2005 e il 4 febbraio 2006, l’India votò contro l’Irān in occasione delle discussioni in sede IAEA (International Atomic Energy Agency) sull’opportunità di procedere sulla strada che portava all’imposizione di sanzioni a Teherān, per la sua asserita mancanza di trasparenza nel programma nucleare. Inoltre, dopo l’avvio dell’iter negoziale con gli Stati Uniti, l’India diede sempre più l’impressione di aver abbandonato – di fatto, anche se non in modo esplicito – il progetto per la realizzazione del gasdotto IPI. La situazione si deteriorò al punto che, alla fine del 2007, non solo Irān e Pakistan fecero circolare la notizia di essere decisi a continuare per conto proprio, ma si parlò del fatto che Teherān e Islāmābād stessero valutando la possibilità di far proseguire il gasdotto fino alla Cina centrale attraverso il confine sino-pakistano, evitando così di passare in territorio indiano.
Accanto ai timori di condizionamento sul settore della politica estera, vi erano poi quelli a proposito della politica nucleare. Bisogna ricordare che la strategia nucleare indiana si era articolata, fin dal suo inizio (quando, alla fine degli anni Quaranta, venne concepita dallo scienziato Homi J. Bhabha), su tre fasi successive: la prima basata sui reattori all’uranio di prima generazione, la seconda sui reattori autofertilizzanti, la terza sull’utilizzo di reattori al torio.
Quest’ultimo, estremamente diffuso in natura, non è un materiale radioattivo; ma, anche se non radioattivo, può essere usato per la produzione di combustibile nucleare. In sostanza, il torio-232, se irradiato da un combustibile nucleare – per es., il plutonio-239 – può essere trasformato, attraverso un procedimento che comprende una serie di fasi successive, in uranio-233, cioè in un combustibile nucleare altamente efficiente. Inoltre, una piccola parte dell’uranio così prodotto può essere utilizzata per riavviare il ciclo che porta dal torio all’uranio, dando origine, almeno in teoria, a una sorta di circolo energetico virtuoso, destinato ad autoalimentarsi fino a quando vi sarà disponibilità di torio.
In India, dove, come si è già ricordato, le riserve di uranio sono assai scarse, quelle di torio sono invece particolarmente abbondanti (il 25% delle riserve note a livello mondiale). Non stupisce, dunque, che, dagli anni Cinquanta a oggi, sviluppando appunto il progetto inizialmente delineato da Bhabha, l’India abbia continuato a portare avanti la strategia volta alla creazione di un’industria nucleare basata sull’utilizzo di centrali al torio. In tal modo, l’Unione Indiana è diventata il Paese probabilmente più avanzato al mondo in questo specifico settore, con due reattori al torio (Kakrapar-1 e Kakrapar-2) già in attività e con altri quattro dello stesso tipo (Kaiga-1, Kaiga-2, Rajasthan-3 e Rajasthan-4) già pianificati. Da questo punto di vista, ciò che preoccupava settori importanti della comunità scientifica indiana (una preoccupazione che venne raccolta da sezioni significative dell’opinione pubblica e della classe politica) era che l’accordo sul nucleare civile con gli Stati Uniti precludesse all’India la possibilità di trattare il combustibile nucleare esaurito, cioè il plutonio. Quest’ultimo, infatti, per quanto necessario per avviare il ciclo virtuoso del torio, rappresenta anche una componente fondamentale nella costruzione di ordigni atomici. Uguale preoccupazione destava il fatto che l’accordo potesse trasformare da volontaria in obbligatoria la moratoria nei confronti di nuovi esperimenti nucleari (moratoria volontariamente seguita dall’India dopo il 1998). Secondo alcune opinioni, questa era in realtà una preoccupazione legata a elementi di natura più simbolica che reale (dato che l’industria atomica indiana, come quella degli altri Paesi nucleari avanzati, è ormai arrivata a un livello di sviluppo in cui può fare a meno di ricorrere a nuovi esperimenti atomici). Ciò non toglie però che, come ognuno sa, gli elementi simbolici abbiano spesso un peso identico se non addirittura superiore a quelli concreti.
Tutti i timori fin qui ricordati erano stati almeno in parte confermati dal testo della legge Hyde. In esso vi era l’esortazione – anche se non l’ingiunzione di carattere vincolante – che l’India operasse per «dissuadere, isolare e, se necessario, sanzionare e contenere l’Irān nei suoi sforzi di acquistare armi di distruzione di massa». Inoltre vi erano il divieto di condurre esperimenti nucleari e una serie di limitazioni nell’uso della tecnologia dual use (che, come nel caso del plutonio, serve per fini civili, ma può essere riutilizzata per fini militari). Fra tali limitazioni vi era il divieto di usare gli impianti e la tecnologia forniti dagli Stati Uniti per la trattazione del combustibile nucleare esaurito. La legge Hyde, infine, stipulava che, in caso di violazione da parte dell’India di una delle clausole del trattato, gli Stati Uniti avrebbero avuto il diritto non solo di porre termine alla collaborazione nucleare, ma anche quello di chiedere la restituzione del materiale nucleare dato all’India, centrali atomiche comprese.
Le direttive presenti nella legge Hyde vennero recepite, sia pure in forma attenuata, nella bozza di accordo bilaterale del 20 luglio 2007 – definito dalla stampa come Agreement 123, con riferimento al già ricordato paragrafo 123 dello US atomic energy act – dopo una difficile trattativa, durata circa sei mesi. Così per quanto riguarda il trasferimento di tecnologie dual use, l’Agreement 123 ne stabiliva la possibilità, ma subordinatamente all’approvazione di un emendamento ad hoc, cioè di una procedura che presuppone l’approvazione del Congresso degli Stati Uniti; invece, per quanto riguarda la ri-trattazione del combustibile nucleare esaurito, in modo da estrarne plutonio, se ne stabiliva la possibilità subordinatamente a un accordo fra le parti contraenti per la messa in opera – in uno spazio di tempo massimo di un anno – di arrangiamenti e procedure ad hoc. Nella bozza dell’Agreement 123 non v’erano, poi, precisi condizionamenti concernenti la politica estera; questi, però, erano nella logica delle cose: l’accordo avrebbe reso l’India pesantemente dipendente dagli Stati Uniti per le forniture di tecnologia e, soprattutto, di combustibile nucleare; e l’esperienza dimostra che Washington non ha mai esitato a utilizzare il potere conferitole da una situazione del genere per condizionare Paesi terzi.
In questa situazione, la diffusione dei contenuti dell’Agreement 123 (3 agosto 2007) comportò il venire in essere di un vasto dissenso che comprendeva non solo gran parte dell’opposizione (compreso il suo partito leader, il BJP), ma anche i quattro partiti di sinistra che, con il loro appoggio esterno, garantivano al governo di Manmohan Singh la maggioranza in Parlamento. La minaccia della sinistra di ritirare il proprio appoggio sembrò bloccare sine die la conclusione dell’iter negoziale. Questo prevedeva ancora tre passi essenziali: l’accordo fra Delhi e l’IAEA sui controlli a cui doveva essere sottoposto il settore civile dell’industria nucleare indiana; la decisione (da prendere all’unanimità) dei Paesi dell’NSG di ammettere l’India al commercio legale di combustibile e tecnologia nucleari; e, infine, una definitiva modifica della legislazione americana, in modo da recepire l’accordo IAEA e la decisione dell’NSG.
Questa situazione di stallo si protrasse per tutta la prima parte del 2008, fino a che Manmohan Singh, incoraggiato da Washington, decise di forzare la situazione ricorrendo a un voto di fiducia sui contenuti dell’Agreement 123. Naturalmente, per ottenere la fiducia – vista la recisa opposizione della sinistra – divenne necessario costruire una nuova maggioranza. Questa venne raggiunta grazie all’appoggio di singoli legislatori e, soprattutto, di un grande partito regionale dell’Uttar Pradesh, il Samajwadi party. La fiducia, conseguita il 22 luglio 2008, aprì la strada al perfezionamento dell’accordo: il 1° agosto l’IAEA approvò il piano di ispezione per l’India; il 6 settembre l’NSG concesse all’unanimità una deroga che dava all’India la possibilità di acquistare la tecnologia e il combustibile nucleari dei Paesi membri; l’8 ottobre, con la firma del presidente Bush, divenne operativa la legge HR 7081; due giorni dopo, infine, l’Agreement 123 venne firmato a Washington dal segretario di Stato statunitense e dal ministro degli Esteri indiano.
Anche se sfumate nell’Agreement 123, le clausole presenti nelle leggi Hyde e HR 7081 comportano degli effettivi condizionamenti sulla politica nucleare indiana e, a livello implicito, anche su quella estera. Questo è un prezzo che i sostenitori indiani dell’accordo hanno giustificato soprattutto facendo circolare l’idea che esso permetterà uno straordinario aumento nella produzione dell’energia. Le cifre che sono state indicate parlano di una moltiplicazione per cinque nel corso di un decennio. Si tratta di valutazioni che francamente lasciano scettici, prima di tutto per ragioni tecniche. Anche ammesso che l’accordo permetta nel breve spazio di un decennio un considerevole aumento delle esistenti centrali nucleari, il loro attuale numero (33) dovrebbe essere quanto meno raddoppiato durante il medesimo periodo. È veramente credibile uno sviluppo del genere? Certamente questa non è la valutazione della stessa Planning commission del governo indiano, secondo la quale, come asserito in un rapporto ufficiale preparato nel 2007, anche in caso di messa a regime dell’accordo con gli Stati Uniti, i suoi effetti – che, in ogni modo, avrebbero incominciato a farsi sentire solo nella seconda metà o alla fine del secondo decennio di questo secolo – sarebbero stati del tutto trascurabili nel determinare un aumento significativo della quantità di energia prodotta in India (Government of India 2007). Bisogna poi aggiungere un altro dato fondamentale: nel 2007, il nucleare indiano produceva solo il 2% dell’energia elettrica consumata in India (Carl, Rai, Victor 2008, p. 30). Questo significa che, anche se le irrealisticamente iperottimistiche ipotesi di aumento della produzione di energia nucleare fossero corrette, essa contribuirebbe ad appena il 10% del totale del fabbisogno energetico indiano. Se, quindi, l’accordo sul nucleare civile comporta ovvi vantaggi per gli Stati Uniti, i vantaggi per l’India appaiono decisamente opachi. C’è naturalmente un elemento simbolico assai importante per una parte consistente della classe politica e dell’opinione pubblica indiane: il fatto, cioè, che l’accordo viene considerato una sorta di riconoscimento dell’India come grande potenza, il salvacondotto che la ammette nel ‘salotto buono’ degli Stati che contano a livello internazionale, a partire dagli Stati Uniti. È un obiettivo ardentemente desiderato da quella «nazione dei ricchi» i cui membri, sempre nelle parole di Prabhat Patnaik, «credono di appartenere al primo mondo [e] aspirerebbero ad essere accettati dal primo mondo come parte di esso» (L’Asia nel «grande gioco», 2008, p. 106). Ma è anche un elemento simbolico che si scontra con la realtà che, accordo nucleare o no, l’India continuerà a importare la gran parte delle risorse energetiche di cui ha bisogno e, necessariamente, la parte del leone in queste importazioni continuerà a essere quella degli ‘Stati canaglia’, a cominciare dall’Irān. Da questo punto di vista, l’inserimento dell’India nella sfera strategica americana non è né così completo, né così irreversibile come sembra a prima vista.
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