Le lingue dei segni nel mondo
A differenza delle lingue vocali, che usano il canale acustico-vocale, le lingue dei segni si servono della modalità visivo-gestuale. In tale modalità le persone sorde possono esplicare pienamente le loro potenzialità comunicative e linguistiche: le lingue dei segni sono quindi una forma primaria e difficilmente eludibile di espressione e di autoidentificazione per le comunità sorde e uno dei mezzi più potenti per trasmettere la loro cultura basata sulla percezione visiva. Numerosi sia all’estero sia in Italia sono i festival dedicati al teatro e alla poesia in segni: attraverso queste produzioni artistiche le persone sorde ci forniscono una testimonianza importante riguardo alle esperienze legate alla sordità.
Il primo equivoco da chiarire è che non esiste una lingua dei segni universale. In ogni Paese troviamo comunità di persone sorde che si servono dei segni per comunicare e che usano varietà diverse di lingue.
L’American sign language (ASL), la Langue des signes française (LSF), il British sign language (BSL) e la Lingua dei segni italiana (LIS) sono alcune tra le più note e studiate varietà linguistiche in segni che si sono sviluppate nei rispettivi Paesi. Ognuna di tali varietà ha caratteristiche strutturali autonome.
Il database internazionale delle lingue Ethnologue, consultabile on-line, enumera 121 diverse lingue dei segni. Per alcune di queste lingue possediamo una descrizione grammaticale e un dizionario o database, in alcuni casi anche multimediali, per altre le notizie sono molto scarse. Anche il numero di segni raccolti nei dizionari si è esteso dalle mille-duemila unità delle prime raccolte ai novemila segni attualmente inclusi nel dizionario della varietà canadese dell’ASL.
Consultando i vari dizionari è possibile constatare come uno stesso significato venga espresso in modo diverso in lingue dei segni differenti (fig. 1). Oppure lo stesso segno può avere significati completamente diversi nelle varie lingue dei segni (fig. 2).
All’interno di una stessa nazione di solito viene utilizzata la stessa lingua dei segni, ma possono anche coesistere dialetti o perfino lingue dei segni diverse. In Italia, per es., è possibile che alcuni segni presentino variazioni da una città all’altra.
La proliferazione di varietà e dialetti, anche molto diversi tra loro, all’interno di uno stesso Paese, è in larga misura riconducibile alla mancanza di una diffusione della lingua dei segni all’interno delle scuole e alla quasi totale assenza di questa nei media. Inoltre l’assenza di una forma di scrittura ha contribuito a determinare una scarsa standardizzazione e a rendere più difficile il naturale processo di omogeneizzazione delle varietà linguistiche utilizzate all’interno di una comunità, e il progressivo affermarsi di una varietà riconosciuta da tutti come la lingua corretta o di norma.
In alcune nazioni, infatti, dove esistono trasmissioni televisive in lingua dei segni, oppure centri culturali dove questa è usata ufficialmente, si riscontra una maggiore standardizzazione. Per es., l’esistenza della Gallaudet university a Washington D.C. negli Stati Uniti, un’università creata appositamente per i sordi che costituisce un centro di istruzione superiore e di cultura anche per i sordi provenienti da altri Paesi, sembra favorire una maggiore omogeneizzazione dell’ASL.
I rapporti e le parentele di famiglia tra gruppi linguistici non sono gli stessi che ritroviamo tra le lingue vocali: per es., negli Stati Uniti si parla una varietà dell’inglese (Standard American English) strettamente imparentato con l’inglese della Gran Bretagna. L’ASL, invece, è più vicino nel lessico alla LSF, la lingua dei segni in uso in Francia, che al BSL diffuso in Gran Bretagna. La spiegazione è semplice: Thomas Gallaudet, fondatore di uno dei primi e più importanti istituti per i sordi nel Connecticut, si avvalse agli inizi dell’Ottocento degli insegnamenti e della collaborazione di un giovane insegnante sordo parigino, Laurent Clerc. Probabilmente l’antica varietà di LSF da questi usata, una volta introdotta nella scuola per sordi in America quale mezzo di comunicazione usato nella didattica, ma anche come strumento di socializzazione, si è poi mescolata e integrata con varietà di lingue dei segni già in uso negli Stati Uniti.
L’emergere di una lingua dei segni è legato alla possibilità della formazione di una comunità linguistica abbastanza ampia perché la lingua diventi un veicolo di comunicazione condiviso. Quando più bambini o adulti sordi si trovano insieme e possono socializzare, dando vita a nuove comunità, la loro comunicazione in segni si arricchisce e si stabilizza. La tendenza naturale dell’uomo a dare vita a una forma di comunicazione linguistica è infatti fortemente correlata alla dimensione sociale e culturale, e alla presenza di una comunità di persone che condivida quella forma di comunicazione. È opportuno comunque ricordare che anche persone udenti, per esempio i figli di genitori sordi che sono esposti fin dalla nascita alla lingua dei segni, possono essere considerati membri di queste comunità di segnanti.
In situazioni molto particolari la lingua dei segni può essere condivisa da un alto numero di persone sorde e udenti. È stato variamente documentato il caso riguardante l’isola di Martha’s Vineyard, negli Stati Uniti, dove nell’Ottocento il gran numero di persone sorde, dovuto al diffondersi della sordità congenita, creò le condizioni per una loro forte integrazione nella società più ampia e per la diffusione della lingua dei segni tra gli udenti. Attualmente è stata studiata una situazione in qualche modo analoga nella regione del Negev in Israele. Si tratta di una piccola comunità di persone discendenti da un nucleo ristretto di famiglie fondatrici e stanziatesi da circa duecento anni in questa regione. In questa comunità la sordità è diffusa in misura nettamente superiore rispetto al tasso medio della maggior parte dei Paesi occidentali a causa della presenza di una predisposizione genetica e di matrimoni tra consanguinei. Al momento attuale il numero dei sordi è intorno alle 150 persone su una popolazione di circa 3500 individui. La presenza di un così vasto numero di persone sorde ha fatto sì che la diffusione della lingua dei segni (Al Sayyid bedouin sign language) coinvolgesse anche un ampio numero di persone udenti (Sandler, Meir, Padden et al. 2005). Situazioni simili a queste, in cui la lingua dei segni sembra venir adottata da tutta la comunità, sono state osservate anche nell’isola di Bali, in Ghana e in Messico. In questi casi le barriere tra sordi e udenti sembrano cadere: essere sordi non costituisce più un ostacolo all’integrazione nel momento in cui la lingua dei segni viene condivisa anche da un vasto numero di persone udenti le quali, evidentemente, contribuiscono alla sua standardizzazione e al suo progressivo consolidamento.
Infine, è necessario distinguere le lingue dei segni vere e proprie da varie forme di sistemi segnici di supporto al parlato, inclusi gli alfabeti manuali. Le lingue dei segni sono lingue naturali, ciascuna con una grammatica che non dipende da una lingua parlata. I sistemi di segni (indicati talvolta come Signed english, Français signée, Italiano segnato) sono sistemi, adottati soprattutto in ambito educativo, che utilizzano i segni di una lingua dei segni, ma anche segni creati artificialmente per rappresentare elementi grammaticali del parlato, e che seguono nella costruzione grammaticale e sintattica la struttura delle lingue vocali cui fanno da supporto e con cui si accompagnano. Gli alfabeti manuali sono semplicemente la rappresentazione manuale delle lettere utilizzate nella scrittura. L’uso dell’alfabeto manuale, o dattilologia, è usato dai sordi per rappresentare nomi di persone o luoghi che non hanno ancora segni corrispondenti. Nel corso del tempo questi segni possono trasformarsi e l’origine dattilologica non è più riconoscibile. Per es., il segno per indicare la lingua dei segni italiana è nato in forma dattilologica con le tre lettere L, I, S, tuttavia nella forma attuale dello stesso segno la lettera intermedia non risulta più visibile (fig. 3).
La Lingua dei segni italiana (LIS)
In Italia, come negli altri Paesi, le persone sorde, anche se educate al linguaggio parlato, hanno in molti casi utilizzato i segni per dialogare tra loro. Questa forma di comunicazione è stata spesso ignorata dal mondo degli udenti che anzi, in alcuni periodi, l’ha anche aspramente combattuta, sottovalutandone i pregi e giudicandola incompatibile con una buona acquisizione della lingua parlata.
Ricerche sistematiche su questa forma di comunicazione sono iniziate in Italia verso il 1980 presso l’Istituto di psicologia del Consiglio nazionale delle ricerche (oggi Istituto di scienze e tecnologie della cognizione). La denominazione Lingua dei segni italiana (LIS) è stata introdotta in questo periodo anche per analogia con la terminologia diffusa nei Paesi dove la ricerca era già in atto. All’epoca la lingua dei segni non aveva neppure un nome. I sordi, che la usavano da tempo immemorabile in circoli chiusi come una sorta di lingua privata, senza rendersi conto del suo status di lingua, la chiamavano mimica; gli udenti, abituati a considerarla con superficiale curiosità come un complesso più o meno disordinato di gesti, le attribuivano talvolta la definizione di linguaggio gestuale o linguaggio mimico-gestuale. In realtà il termine lingua e il termine segni erano già stati usati in un testo del 1858, scritto da un sordo italiano, Giacomo Carbonieri, contro le affermazioni di un medico che aveva sostenuto che i sordi non dovevano avvalersi dei segni (Osservazioni di Giacomo Carbonieri sordo-muto sopra l’opinione del signor Giovanni Gandolfi professore di medicina legale nella R. Università di Modena intorno ai sordo-muti).
Negli ultimi vent’anni l’interesse nei confronti della Lingua dei segni italiana è andato crescendo in ma;nie;ra esponenziale, non solo tra i sordi ma anche tra gli udenti, nel mondo della ricerca e in ambito educativo e sociale, diffondendosi in tutta Italia. Sono stati indagati nuovi aspetti della LIS e sperimentati nuovi contesti applicativi, sono stati organizzati numerosissimi convegni, incontri, seminari in ambito sia linguistico sia educativo.
L’interesse per la ricerca sulla lingua dei segni ha innescato una serie di importanti cambiamenti anche nella società. L’Ente nazionale dei sordi (ENS) ha attivato corsi di LIS su quasi tutto il territorio nazionale. In diverse parti d’Italia sono nate numerose associazioni e cooperative per la diffusione della LIS. Alcuni telegiornali vengono tradotti in LIS e interpreti LIS sono spesso attivi nel corso di manifestazioni pubbliche. Ma soprattutto la LIS ha cominciato a entrare in alcune scuole e a essere oggetto di corsi di insegnamento o di tesi di laurea e/o di dottorato all’interno delle università in varie città italiane.
Nelle prossime sezioni ci soffermeremo su alcune caratteristiche linguistiche delle lingue dei segni facendo riferimento soprattutto alla LIS, ma con rimandi anche alle ricerche condotte su altre lingue. Analizzeremo gli elementi costitutivi, ossia i diversi articolatori, manuali e non, che entrano in gioco, la dimensione iconica che caratterizza queste lingue e alcuni aspetti grammaticali e sintattici.
I parametri formazionali
In tutte le lingue dei segni studiate esistono segni eseguiti con una sola mano e altri eseguiti con entrambe le mani. Quelli a una mano vengono eseguiti con la destra, a eccezione che nei segnanti mancini, che utilizzano la sinistra. I segni a due mani possono essere simmetrici o asimmetrici. Nei primi le configurazioni e i movimenti assunti dalle due mani sono gli stessi; nei segni asimmetrici, invece, una sola mano è attiva e viene definita dominante, mentre l’altra mano, denominata mano base oppure mano non dominante, rimane statica e funge da luogo di esecuzione del segno.
I segni manuali possono essere analizzati secondo quattro parametri fondamentali chiamati da William C. Stokoe Jr (Sign language structure, «Studies in linguistics», 1960, 8, n. monografico: Occasional papers) cheremi in analogia ai fonemi delle lingue vocali:
a) il luogo dello spazio dove viene eseguito il segno: sul corpo o nello spazio;
b) la configurazione assunta da entrambe le mani;
c) l’orientamento sia del palmo sia delle dita;
d) il movimento compiuto.
Come per i fonemi nelle lingue vocali, i linguisti identificano gli elementi distintivi di ciascuna lingua dei segni sulla base delle cosiddette coppie minime, cioè due segni con significato diverso, che si distinguono solo per una caratteristica, relativa al luogo di esecuzione, alla configurazione, all’orientamento o al movimento. Nei due segni africa e treviso a variare è soltanto la configurazione, mentre gli altri parametri rimangono uguali (figg. 4 e 5).
Per la LIS, come per altre lingue dei segni, è stata individuata una lista abbastanza ristretta di luoghi di esecuzione dei segni, configurazioni delle mani, orientamenti e movimenti (La lingua dei segni italiana, 1987; Dizionario bilingue, 1992).
Come nel caso dei fonemi delle lingue vocali, alcuni cheremi sono usati in tutte le lingue, altri non lo sono necessariamente e alcune distinzioni, significative in una lingua, possono non esserlo in un’altra. Questo avviene in particolare per le configurazioni delle mani che, in generale, vengono convenzionalmente identificate con le lettere o i numeri che tali configurazioni rappresentano nell’alfabeto o nella numerazione manuale. Per es., la configurazione W (indice, medio e anulare estesi dal pugno chiuso) viene ampiamente utilizzata sia nella lingua dei segni inglese sia in quella americana. Questa configurazione è molto rara in LIS per motivi riferibili al più ampio contesto culturale. La configurazione W viene usata abitualmente, anche dagli udenti, nel conteggio manuale di diverse culture (tra cui quella anglosassone) e corrisponde al numero 3. Ciò non accade in Italia o in Germania dove invece, nel contare, il numero 3 è rappresentato dall’estensione del pollice, indice e medio (fig. 6). Quest’ultima forma della mano è una configurazione che appare molto frequentemente nell’ambito della LIS.
Non solo le configurazioni usate in una lingua dei segni possono non apparire in un’altra, ma una stessa configurazione può avere connotazioni diverse nelle diverse lingue dei segni. Per es., nella lingua dei segni britannica (BSL), la configurazione convenzionalmente indicata come I (mignolo esteso dal pugno chiuso) ha una connotazione negativa. Questa configurazione in LIS non ha una connotazione negativa e compare in segni come facile o spaghetti, mentre la connotazione negativa è chiarissima nella configurazione con indice e mignolo estesi dal pugno chiuso che in qualche modo rappresenterebbero le corna (fig. 7).
Quest’ultima configurazione compare in segni della LIS come, per es., diavolo (fig. 8).
Questi esempi ci mostrano chiaramente che sarebbe molto difficile pensare a una lingua dei segni universale perché ciascuna lingua dei segni è profondamente collegata alla particolare cultura in cui è nata e si è sviluppata. Proprio per questo motivo le lingue dei segni, così come le lingue vocali, possono contribuire notevolmente a comprendere meglio le caratteristiche culturali di un popolo e di un Paese.
I cheremi di una lingua dei segni non si succedono in maniera casuale, ma si combinano secondo regole e acquistano, così, un significato preciso, lessicale o grammaticale. Anche nelle lingue dei segni possiamo, dunque, individuare un livello morfologico, o di prima articolazione, formato da unità dotate di significato, e un livello delle unità minimali prive di significato o di seconda articolazione, i cheremi. Tuttavia, anche se esiste una somiglianza di funzioni tra fonemi e cheremi non bisogna pensare a un’assoluta equivalenza tra la struttura fonologica di una lingua vocale e quella di una lingua dei segni.
A metà tra i due livelli, si ritrova nelle lingue dei segni un livello morfofonologico. Con questo termine si intende che alcuni cheremi non sono del tutto separati da un significato. Questo aspetto sembra legato alla dimensione iconica dei segni. È possibile talvolta osservare legami di significato tra gli elementi di seconda articolazione e determinati campi semantici. Per es., la configurazione a mano aperta e dita giunte, convenzionalmente chiamata configurazione B, si ritrova in LIS all’interno di segni legati all’area semantica dei referenti dotati di superfici piatte e compatte, come muri, porte, libri, giornali, ma anche un’automobile ferma a un parcheggio. O ancora, nel segno camera sembra di poter scorgere un legame tra la forma del segno e la forma di una camera (fig. 9).
Tuttavia, in ogni segno questo legame iconico appare liberamente rideterminato sulla base della coesistenza con gli altri parametri e sulla base del significato che il segno è andato via via acquisendo nel corso del tempo. Per es., ritroviamo la stessa configurazione B in segni come casa e mese (figg. 10 e 11).
Nel primo caso la forma delle mani rimanda immediatamente alla forma di un tetto, nel secondo il legame è molto meno diretto: la configurazione B sembra rappresentare un calendario su cui scorre l’indice dell’altra mano per indicare il trascorrere dei giorni.
Iconicità e arbitrarietà
Osservando la forma dei segni si può pensare che l’iconicità sia una proprietà pervasiva delle lingue dei segni. In effetti analizzando un corpus di circa 2000 segni della LIS (Pietrandrea, Russo, in Verbal and signed languages, 2007) è emerso che nel 50% dei casi esiste un’associazione tra forma della mano e significato e che, nella maggioranza dei segni articolati sul corpo, il luogo appare associato iconicamente con il significato che esprime. Per es., tutti i segni che denotano attività che fanno riferimento alla mente vengono eseguiti vicino alla parte superiore della testa. È importante però sottolineare che il legame iconico non è così evidente come si potrebbe pensare. Una serie di esperimenti condotti sia con la lingua dei segni americana sia con quella italiana ha mostrato che soltanto una piccolissima percentuale di segni possono essere definiti trasparenti, ossia immediatamente comprensibili anche per persone che non hanno familiarità con la lingua dei segni. La maggior parte dei segni è opaca a un primo sguardo e diventa trasparente solo quando se ne conosce il significato. Un segno viene definito traslucido quando, senza conoscere il significato del segno, non è subito chiara la relazione iconica che lo lega al suo oggetto (Klima, Bellugi 1979). Il concetto di traslucido aiuta a capire come mai, in differenti lingue dei segni, possano esserci segni diversi per concetti simili, pur sussistendo comunque in tutti questi segni una qualche relazione iconica.
Va inoltre tenuto presente che molto spesso il rapporto di iconicità si modifica con il tempo, cioè in senso diacronico. Le ricerche sul cambiamento storico in ASL hanno messo in luce che spesso i segni hanno un’origine iconica, ma nel corso del tempo si trasformano, nel senso che l’esecuzione si abbrevia e in parte si modifica, in modo che la forma diviene più convenzionale e l’iconicità originaria non è più riconoscibile (Klima, Bellugi 1979; Dizionario bilingue, 1992). Un esempio classico, in questo senso, è il segno usato dall’ASL per indicare casa. Originariamente nasceva dalla combinazione dei due segni mangiare e dormire (la mano semichiusa portata alla bocca e poi la mano aperta sulla guancia), ma successivamente si è modificato (la mano semichiusa portata rapidamente dalla bocca alla guancia) cosicché nella versione attuale l’origine iconica non è più recuperabile e il segno non risulta né trasparente né traslucido.
La perdita di trasparenza può anche derivare da mutamenti nella situazione di riferimento, per es. nel segno avvocato in LIS, dove il riferimento iconico agli occhiali pince-nez utilizzati frequentemente nel passato da questi professionisti oggi non è più trasparente (fig. 12).
La distinzione tra trasparenza e traslucidità sottolinea il fatto che la comprensibilità dei segni è solo parziale: non si comprende il significato dei segni che non si conoscono; soltanto quando se ne conosce il significato si può ricostruire, in alcuni casi anche con relativa facilità, il rapporto che sussiste tra segno e referente.
Come abbiamo già accennato, inoltre, la comprensibilità non è dovuta solo all’evidenza della relazione di iconicità tra segno e realtà rappresentata ma al fatto che alcuni segni sono simili a gesti convenzionalizzati nella cultura udente. Una serie di studi recenti condotti sulla capacità di cogliere il significato dei segni da parte di udenti italiani e di altre nazioni europee ha mostrato che in molti casi segni della LIS, come fame (fig. 13) o furbo, risultano comprensibili solo per gli italiani e totalmente oscuri per tutti gli altri.
Anche in questo caso si evidenzia lo stretto legame tra lingua dei segni e cultura della comunità in cui la lingua viene creata, usata e tramandata.
Una possibile spiegazione della maggiore iconicità presente nelle lingue dei segni rispetto a quelle vocali è sicuramente legata al fatto che, diversamente dai suoni, i movimenti delle mani o i gesti di cui sono fatti i segni sfruttano le molteplici dimensioni del mondo extra-linguistico e delle azioni visibili a cui si fa riferimento. Una rappresentazione gestuale può dunque condividere più aspetti della realtà fisica che rappresenta e, quindi, risultare più iconica di una rappresentazione acustica. Da questa prospettiva, l’iconicità delle lingue dei segni può essere vista come un tratto di economia linguistica: la sostanza gestuale ne consente e favorisce l’uso e quindi non si vede perché essa non debba essere pienamente utilizzata (Pietrandrea, Russo, in Verbal and signed languages, 2007).
Nell’analizzare la struttura di un segno non va dimenticata, poi, la centralità di diverse componenti non manuali che, come vedremo in seguito, possono contribuire a trasmettere aspetti rilevanti dell’informazione. L’espressione facciale in particolare e le componenti orali hanno, in molti casi, un ruolo centrale a livello sia lessicale sia grammaticale e sintattico.
Aspetti morfologici e sintattici
La presenza di precise regole morfologiche e sintattiche è uno degli elementi più importanti e distintivi delle lingue dei segni rispetto a forme di comunicazione gestuali (sistemi di gesti oppure pantomime) che lingue non sono.
Si definisce flessione morfologica qualunque alterazione sistematica della forma citazionale di un segno, cioè della forma con la quale un segno viene presentato nel dizionario, che trasmette una specifica informazione grammaticale oppure relativa al discorso, e che si applica nello stesso modo a un insieme più o meno esteso, ma in ogni caso definibile, di segni. L’indagine sugli aspetti grammaticali della LIS, come di altre lingue dei segni, ha riguardato fino a questo momento soprattutto le classi dei nomi, dei verbi, dei pronomi e di un particolare tipo di elementi denominati classificatori o proforme.
Il termine classificatori è stato coniato in analogia con alcune categorie morfologiche caratteristiche di lingue non indoeuropee che sembrano avere la funzione principale di veicolare distinzioni di forma, consistenza e numero rispetto agli elementi lessicali a cui si legano. Nelle lingue dei segni queste forme sembrano veicolare informazioni legate alla configurazione visiva dei referenti simbolizzati e riguardano spesso (ma non esclusivamente) la forma dell’oggetto, il modo della sua manipolazione, la sua disposizione in relazione a un punto di riferimento fisso.
I classificatori appaiono strettamente legati alla specificità delle grammatiche visivo-gestuali delle lingue dei segni e alla loro iconicità e vengono usati per segnalare una varietà molto ampia di categorie e/o tratti semantici, percettivi o funzionali dei referenti simbolizzati (quali: umano/non-umano; animato/non-animato, oggetti rotondi vs piatti, oppure sottili o cilindrici; veicoli). Nelle ricerche sulle lingue dei segni viene attribuita una grande rilevanza a questi elementi, normalmente non descritti nei dizionari delle lingue dei segni, che tuttavia sembrerebbero usati molto di frequente sia nella formazione di nuovi segni, sia in testi narrativi o poetici, in cui consentono di esprimere con grande efficacia immagini e concetti visivi che spesso risultano difficilmente traducibili nelle lingue vocali.
Un aspetto interessante è il modo in cui i classificatori interagiscono con altre categorie grammaticali come nomi e verbi. Se osserviamo in primo luogo i segni nominali, è possibile distinguere due classi principali: la prima classe comprende i segni che hanno come luogo di articolazione diversi punti del corpo del segnante (per es., donna, fig. 14, o avvocato); la seconda comprende i segni nominali che hanno come luogo di articolazione lo spazio neutro, ossia lo spazio che si trova di fronte a colui che segna (città, fig. 15). La differenza rispetto al luogo di articolazione fra queste due classi di segni nominali si riflette sul loro comportamento morfologico. Per es., nella formazione del plurale, i nomi della prima classe, in contatto con il corpo, aggiungono al segno nominale un segno avverbiale che significa tanti/e. Diversamente, nei nomi della seconda classe, eseguiti nello spazio neutro, il segno viene ripetuto, modificando il luogo di articolazione e, in parte, anche il movimento, rispetto alla forma citazionale (figg. 16 e 17).
Come vedremo i nomi della seconda classe possono essere dislocati o flessi in luoghi marcati dello spazio segnico per segnalare la concordanza con un verbo, e, soprattutto, elementi classificatori possono svolgere un ruolo importante nella segnalazione del plurale. La nozione di numerosità può essere infatti specificata associando al nome un classificatore e aggiungendo il movimento di spostamento nello spazio.
Per quanto riguarda i verbi, possiamo distinguere tre classi: 1) articolati sul corpo; 2) articolati nello spazio neutro con due punti di articolazione; 3) articolati nello spazio neutro con un punto di articolazione.
La prima classe comprende i verbi che hanno come luogo di articolazione il corpo del segnante: molti di essi esprimono stati mentali e fisici (fig. 18).
La seconda classe comprende i verbi che hanno come luogo di articolazione lo spazio neutro che si estende davanti al segnante e sono caratterizzati da un movimento che può cambiare direzione tra due punti di articolazione (fig. 19).
La terza classe, infine, comprende quei verbi che hanno nuovamente come luogo di esecuzione lo spazio neutro, però non mutano la direzione del movimento bensì solo il luogo di articolazione (fig. 20).
Prima di esaminare il comportamento morfologico delle tre classi di verbi, è necessario ricordare che il sistema pronominale si realizza per lo più tramite l’indicazione che serve a esprimere le varie persone del verbo, segnalate abitualmente in una lingua come l’italiano attraverso la coniugazione. Ciò equivale a dire che a forme come ‘penso, pensi, pensa’ (dove le persone che eseguono l’azione sono indicate dalle diverse desinenze) corrispondono forme del tipo io pensare, tu pensare, lui/lei pensare, e così via. Ciò avviene, generalmente, con i verbi della prima classe, che conservano la loro forma citazionale.
Per i verbi della seconda classe (dare, regalare ecc.), invece, è possibile tralasciare il pronome personale e la forma citazionale può cambiare, con alterazioni che possono essere considerate equivalenti alle flessioni o coniugazioni dei verbi nelle lingue vocali. Per esempio, si modifica il movimento secondo chi è il soggetto e l’oggetto della frase; se la frase è «io ti insegno», il segno insegnare muove dal corpo del segnante verso quello dell’interlocutore; mentre se la frase è «tu mi insegni», il segno muove dal corpo dell’interlocutore per arrivare fino a quello del segnante. Ugualmente flessivi sono i verbi che appartengono alla terza classe (come rompere, crescere e così via), e la flessione avviene attraverso il cambiamento del luogo di articolazione; il segno verbale può in questo caso mutare il luogo di articolazione, assumendo in tal modo quello del segno nominale con il quale concorda.
È stato evidenziato che la concordanza del verbo è condizionata dalle caratteristiche dei nomi presenti nella frase. Il verbo si sposta se il nome con il quale si accompagna appartiene alla seconda classe e può di conseguenza essere dislocato nello spazio (fig. 21).
Il medesimo verbo non modifica il suo luogo di articolazione se viene prodotto con nomi che fanno parte della prima classe articolati sul corpo del segnante.
Altre alterazioni morfologiche riscontrate nei verbi LIS riguardano modifiche del movimento del segno per segnalare distinzioni aspettuali. Per aspetto si intende, in linguistica, la modalità in cui l’azione viene attuata nel tempo: se ripetuta, se appena iniziata, se perdurante, se improvvisa. Il sistema aspettuale della LIS, similmente a quello di altre lingue dei segni, è estremamente complesso e include una notevole quantità di modulazioni legate sia al movimento sia all’espressione facciale.
Un movimento ripetuto, e tipicamente più ampio di quello proprio della forma citazionale, segnala la continuità o il ripetersi nel tempo di una data azione.
Un movimento marcatamente più breve, teso e veloce, segnala la repentinità di un’azione o evento e in questi casi è possibile distinguere chiaramente se si tratta di un verbo o di un nome. Queste modifiche morfologiche dei parametri manuali si accompagnano quasi invariabilmente a significative alterazioni di tratti non manuali. Come, per es., nelle flessioni aspettuali per la repentinità, nell’ambito delle quali si osservano modifiche della postura (il corpo si sposta leggermente all’indietro) e dell’espressione facciale (sopracciglia inarcate, bocca aperta; fig. 22).
Per quanto riguarda il tempo, la LIS si avvale di un segno particolare, traducibile come fatto/finito, che esprime il concetto di azione terminata e che viene prodotto alla fine dei verbi (fig. 23).
Oppure utilizza segni che esprimono concetti relativi al momento in cui una determinata azione si compie: ieri, oggi, domani. In generale, i segni riferiti al passato, vengono eseguiti muovendo verso la spalla del segnante, quelli riferiti al presente vengono eseguiti nello spazio neutro e quelli riferiti al futuro muovono dallo spazio neutro in avanti.
I segni si combinano tra loro secondo ordini e regole prestabilite, ovvero secondo una grammatica e una sintassi. L’articolazione dei segni in punti diversi dello spazio segnico (come nel caso dei verbi) diviene fondamentale per segnalare l’accordo tra i vari elementi. Per fare un esempio, se voglio segnare la traduzione LIS della frase «Il motore della mia macchina si è rotto» sarà necessario articolare il segno rotto nello stesso luogo dello spazio dove ho precedentemente articolato il segno motore, in modo da evidenziare la relazione di accordo (fig. 24).
Inoltre, come si vede nella cosiddetta glossa, l’ordine dei segni nella frase non corrisponde a quello della sua traduzione italiana. Nella frase LIS, infatti, il pronome possessivo mio segue il sostantivo, mentre nella frase italiana lo precede. La LIS ha regole sintattiche precise la cui individuazione viene spesso facilitata dal confronto con l’italiano. L’ordine degli elementi nelle frasi LIS è significativamente diverso da quello dell’italiano parlato anche in altri casi. Per es., sia il verbo sia la negazione sono generalmente collocati alla fine della frase. Inoltre, per esprimere le diverse intenzioni comunicative di una frase interrogativa, imperativa, dichiarativa vengono utilizzati tanto particolari espressioni facciali quanto specifici spostamenti del corpo. Nell’interrogativa, per es., le spalle e il capo si muovono leggermente in avanti e le sopracciglia si sollevano (fig. 25).
Mentre nelle frasi negative, il capo e le spalle oscillano e le sopracciglia sono corrugate e la negazione è collocata alla fine della frase.
Gli studi sull’ordine degli elementi nelle frasi anche in altre lingue dei segni hanno evidenziato, in particolare, due strategie fondamentali. Una strategia semantica, che tende a porre l’agente come primo elemento della frase; un’altra strategia, basata su considerazioni di salienza visiva, che tende a esprimere e a descrivere prima gli elementi più grandi e poi quelli più piccoli introducendo agenti e oggetti prima dell’azione. Per es., per quanto riguarda le frasi locative nelle produzioni in LIS così come anche nelle altre lingue dei segni esaminate, il luogo viene molto spesso espresso come il primo e, apparentemente, più saliente elemento di una relazione locativa. In tutte le lingue dei segni considerate vale comunque uno stesso principio: l’ordine degli elementi sarà tanto più libero quanto più entrano in gioco meccanismi quali l’uso dello spazio nel posizionamento e orientamento dei segni, la direzione e l’ampiezza del movimento, l’incorporazione dei classificatori e l’uso di indici non manuali.
Gli stessi principi sottendono le lingue dei segni e le lingue parlate: le relazioni tra gli elementi della frase vengono espresse sia dall’ordine sia attraverso altre strategie linguistiche, che possono essere specifiche della modalità visivo-gestuale o acustico-vocale. Anche nelle lingue vocali avviene qualcosa di simile, ma nella dimensione fonico-acustica: le lingue flessive come il latino presentano ordini sintattici più liberi di quelle come l’inglese dove la morfologia flessiva è poco sviluppata e l’ordine, quindi, molto più rigido.
Le maggiori differenze tra lingue dei segni e lingue vocali emergono proprio in aree grammaticali dove il rapporto con la modalità visivo-gestuale appare più forte. Per quello che riguarda più in generale il rapporto tra la sintassi e la dimensione spaziale, si deve notare che per articolare una sequenza segnata possono entrare in gioco più articolatori.
Spesso gli articolatori manuali possono essere sfruttati in contemporaneità, in maniera tale che una delle due mani articoli un segno e l’altra un altro segno. In questi casi siamo di fronte a una sorta di sintassi simultanea che permette di veicolare relazioni tra i due segni in maniera immediata e, non di rado, iconica. Il fenomeno della coarticolazione deve essere inteso non soltanto come simultanea articolazione di più segni (per es., un nome e un classificatore), ma anche come produzione simultanea sia di componenti manuali sia di componenti non manuali (Pizzuto 2002).
Ci sono diversi tipi di articolatori non manuali che entrano in gioco nel discorso segnato: la posizione del busto e delle spalle, l’espressione facciale, l’articolazione con la bocca di movimenti labiali e lo sguardo. Ognuno di questi elementi può servire a veicolare aspetti molto rilevanti dell’informazione e inoltre, in molti casi, contribuisce alla strutturazione dei periodi in coordinate e subordinate.
Anche nelle lingue vocali e, in particolare, nel parlato faccia a faccia, la multimodalità della comunicazione è un fatto evidente: l’uso dell’intonazione, il ritmo dell’eloquio e la gestualità possono contribuire a veicolare porzioni rilevanti di informazione. Ricerche recenti hanno evidenziato come, nella comunicazione parlata, i gesti non siano solo un accompagnamento delle parole, ma trasmettano o completino spesso il significato espresso nel parlato.
Nel caso dei segni la multimodalità appare particolarmente importante nella strutturazione del periodo grazie alla pluralità degli articolatori che entrano in gioco. Spostamenti della testa o dello sguardo possono segnalare il passaggio dal discorso diretto al discorso indiretto o marcare la transizione tra due periodi. L’espressione facciale oltre a indicare l’intenzione comunicativa, se interrogativa, imperativa o affermativa, può veicolare sfumature che investono tutto il periodo, quali inflessioni dubitative o esortative.
Gli indici non manuali sembrano svolgere un ruolo cruciale nel riferimento deittico-anaforico, specialmente nel contesto di narrazioni e/o di discorso riportato: alterazioni della direzione dello sguardo e/o della posizione della testa, delle spalle o del busto possono essere coarticolate con i segni manuali in diverse combinazioni, e spesso insieme a espressioni facciali marcate per identificare, introdurre (deitticamente) e re-introdurre (nel riferimento anaforico) determinati referenti nel discorso. Proprio per questo tali indici, che si ritrovano in tutte le lingue dei segni, vengono generalmente descritti come strumenti di impersonamento, perché nel produrli il segnante sembra assumere il ruolo dei referenti di cui sta descrivendo le azioni, o di cui sta riportando le enunciazioni in termini di discorso diretto. All’interno di una narrazione, le componenti non manuali svolgono un ruolo cruciale nel segnalare cambiamenti di prospettiva tra il segnante narratore e un protagonista impersonato oppure tra due personaggi all’interno di un dialogo.
Strumenti di impersonamento simili possono essere usati nelle lingue vocali, imitando la voce o il modo di parlare dei personaggi, ma nelle lingue dei segni questi tratti appaiono completamente integrati nella struttura linguistica, in quanto caratteristici di una lingua legata al contesto situazionale e temporale dell’enunciazione, che non possiede una forma scritta.
L’assenza di un sistema di notazione scritta adeguato, al fine di rappresentare e analizzare qualunque sequenza di segni (manuali e non) prodotti nel discorso, crea molte difficoltà nella descrizione delle lingue dei segni e per ovviare a queste difficoltà sono stati recentemente sperimentati sistemi diversi per la notazione e la scrittura dei segni, molti dei quali sono attualmente disponibili in rete.
Nella LIS come in altre lingue dei segni si riscontrano caratteristiche iconiche non solo nel lessico e nell’organizzazione spaziale della sintassi ma anche nelle strutture discorsive. Questa iconicità dinamica, che permette l’utilizzo di forme non standard e/o la creazione di veri e propri neologismi, sembra essere più presente nelle narrazioni libere e nei testi poetici piuttosto che in contesti formali quali lezioni o conferenze (Pietrandrea, Russo, in Verbal and signed languages, 2007).
La modalità di trasmissione di un codice influenza la possibilità di isomorfismo con la realtà che si vuole rappresentare: le lingue vocali permettono un’iconicità sonora laddove le lingue dei segni ne consentono una visiva. Nelle ricerche più recenti (Cuxac, Sallandre, in Verbal and signed languages, 2007) viene sottolineata questa dimensione iconica delle lingue dei segni che non si limitano a dire, ma contemporaneamente mostrano, in particolare attraverso le strutture di grande iconicità. Queste strutture rendono possibile il trasferimento di forme e misure, di persone e di situazioni dalla realtà visibile alla loro rappresentazione in segni attraverso gli strumenti e i meccanismi che sono stati precedentemente descritti, cioè i classificatori, l’uso particolare dello spazio e l’impersonamento.
Questa iconicità non entra in contrasto con la presenza di regole semantiche e sintattiche sistematiche, tipiche di ogni codice linguistico. La descrizione di questi processi e regolarità delle lingue dei segni sta oggi influenzando lo studio delle lingue vocali, suggerendo nuovi modelli e categorie di analisi (Verbal and signed languages, 2007). Agli inizi della ricerca sulle lingue dei segni è prevalso il desiderio di sottolineare soprattutto le caratteristiche che apparivano simili o in tutto assimilabili a quelle delle lingue vocali. Negli anni successivi è andata affermandosi sempre di più la convinzione metodologica che i segni vanno osservati con occhi liberi dai condizionamenti della linguistica delle lingue vocali per cogliere, in piena autonomia, i caratteri essenziali della loro struttura e del loro funzionamento. Attualmente, la nozione stessa di lingua richiede di essere esaminata prendendo in considerazione non soltanto la variabilità e la diversità delle lingue vocali esistenti, ma anche la diversità e le caratteristiche peculiari dei codici linguistici segnati, i quali portano a ripensare lo statuto di alcune proprietà tipiche delle lingue vocali a partire da una più ampia prospettiva semiotica.
L’acquisizione delle lingue dei segni e l’educazione bilingue
Studi condotti sull’acquisizione di diverse lingue dei segni (Caselli, Maragna, Volterra 2006; Directions in sign language acquisition, 2002; Advances in the sign language development of deaf children, 2005) hanno mostrato che se un bambino sordo o udente viene esposto a una lingua dei segni la imparerà seguendo tempi e ritmi analoghi a quelli con cui i bambini udenti acquisiscono una lingua vocale. Verso un anno produrrà i primi segni, poco prima dei due anni le combinazioni di due segni, e negli anni successivi imparerà a padroneggiare la grammatica e la sintassi. Come avviene nell’acquisizione delle lingue parlate, i bambini esposti a una lingua dei segni attraversano stadi di sviluppo caratterizzati in una prima fase da omissioni di forme morfologiche, in una seconda fase da una loro produzione semplificata o parziale e infine da una graduale acquisizione che può protrarsi anche oltre i 5 anni. Alcuni ricercatori ritengono che l’uso dei segni nei primi due anni di vita possa facilitare e accelerare l’acquisizione della lingua vocale e in alcuni Paesi (soprattutto Gran Bretagna e Stati Uniti) si stanno diffondendo e vengono pubblicizzati sulla rete corsi di baby signs per genitori udenti con neonati udenti.
Ma i bambini sordi che imparano una lingua dei segni fin dalla nascita sono una minoranza, di fatto solo la piccola percentuale che ha genitori sordi (dal 3 al 7%), mentre i bambini sordi con genitori udenti vengono in contatto con altri bambini o adulti segnanti a età e in circostanze diverse.
Veicolo fondamentale di diffusione e di apprendimento sono, a tutt’oggi, le scuole in cui si trovano insieme più bambini sordi, e dove gli insegnanti e gli interpreti adoperano fluentemente una lingua dei segni. Persone sorde che non hanno occasione di imparare la lingua dei segni da bambini possono apprenderla più tardi nell’adolescenza o in età adulta, frequentando associazioni, circoli o club dove le persone sorde si ritrovano e comunicano in segni tra loro. In alcuni casi si iscrivono anche a corsi di lingua dei segni frequentati in maggioranza da persone udenti.
Indipendentemente dall’età alla quale hanno acquisito la lingua dei segni la maggior parte delle persone sorde vive in una condizione di bilinguismo e utilizza infatti, con maggiore o minore competenza, almeno due lingue: la lingua scritta e parlata dell’area geografica in cui abita e la lingua dei segni utilizzata dalla comunità dei sordi in quello stesso Paese. François Gros;jean (2007), uno dei massimi studiosi del bilinguismo, ha sostenuto che bisogna assicurare ai bambini sordi il diritto a crescere bilingui e che soltanto in questo modo essi potranno raggiungere una competenza completa in ambito cognitivo, comunicativo e sociale.
La ricerca sulle lingue dei segni e la scoperta delle loro peculiari caratteristiche linguistiche hanno rafforzato l’idea che queste lingue possano e debbano venir utilizzate a fini educativi. Attualmente in molti Paesi europei (in particolare Danimarca, Francia, Spagna, Svezia) ed extraeuropei (Stati Uniti e Paesi dell’America Latina) si è andato affermando un modello di educazione bilingue. Sotto questa stessa denominazione possono però celarsi realtà molto diverse nella realizzazione pratica per quanto riguarda sia gli alunni, gli insegnanti e gli operatori coinvolti, sia la lingua adottata. Esistono scuole frequentate solo da bambini sordi, scuole aperte ai bambini sordi e udenti che frequentano le stesse classi, situazioni miste in cui si prevedono momenti di insegnamento congiunto e momenti di insegnamento separato. Esistono scuole con docenti segnanti, sordi e udenti, che propongono il curriculum scolastico direttamente in lingua dei segni, scuole che si avvalgono della presenza di un interprete che traduce in lingua dei segni quanto viene proposto in lingua orale, docenti udenti che utilizzano prevalentemente la lingua parlata, assistiti da operatori, sordi o udenti, che utilizzano la lingua dei segni.
Anche in Italia la situazione è molto diversificata e cambia da regione a regione. Come previsto dalla l. 5 febbr. 1992 n. 104, art. 13, 3° co., le famiglie possono richiedere, dal nido alla scuola superiore, un assistente alla comunicazione per il proprio figlio sordo, che conosca e usi la LIS. Nel nido o nella scuola materna e nei primi anni della scuola elementare, l’operatore è spesso un educatore o educatrice sorda che ha seguito corsi appositi di formazione; dal secondo ciclo elementare alla scuola superiore è in genere un assistente alla comunicazione udente che, in caso di necessità, può fungere da interprete.
Nelle università è lo studente stesso che richiede l’interprete LIS se lo ritiene necessario (l. 5 febbr. 1992 n. 104, art. 13, 1° co., lett. d).
In genere un solo alunno sordo è inserito in una classe di udenti e in questi casi l’unico input in LIS viene dall’assistente alla comunicazione, che talvolta organizza corsi di LIS come lingua straniera per gli alunni udenti della classe. Queste esperienze hanno dimostrato che l’apprendimento della lingua dei segni può potenziare le abilità di attenzione e discriminazione visiva anche nei bambini udenti.
Esistono solo pochissime scuole sul territorio nazionale dove viene adottato esplicitamente un modello di educazione bilingue italiano/LIS e che coinvolge non solo alunni sordi ma anche e soprattutto udenti offrendo pari opportunità nell’accesso scolastico. Le più note sono: il Circolo didattico di Cossato, in provincia di Biella, e il 173° Circolo didattico presso lo storico Istituto statale dei sordi di Roma in via Nomentana. Nel primo caso si tratta di un grande plesso scolastico ordinario che si è aperto ai sordi, nel secondo caso di un istituto speciale per sordi con poche classi, che si è aperto agli udenti. La filosofia di base comune alle due esperienze è quella di realizzare un ambiente bilingue e biculturale nel quale bambini sordi e udenti imparano insieme utilizzando entrambe le lingue, sia la LIS sia l’italiano.
Il modello di educazione proposto è per molti aspetti analogo così come sono simili alcuni principi guida cui entrambe le esperienze si ispirano, ma la tradizione da cui nascono, le dimensioni e il numero di alunni, hanno determinato un’organizzazione in parte differente e hanno contribuito a caratterizzare in modo diverso le due realtà (Una scuola, due lingue, 2003; Russo Cardona, Volterra 2007).
La lingua dei segni può divenire un mezzo fondamentale di istruzione in una società che la accetti, le riconosca la dignità di lingua e, di conseguenza, la rispetti e la tuteli alla pari di altre lingue minoritarie, eventualmente incoraggiando le persone udenti a impararla così come si apprende una lingua straniera.
Già nel 1988 il Parlamento europeo si è espresso in favore di un riconoscimento delle varie lingue dei segni nazionali incoraggiando la creazione di corsi di insegnamento e di servizi di interpretariato, come la diffusione di programmi televisivi e la stesura di dizionari. Più recentemente, il 13 dicembre 2006, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità che è stata sottoscritta per l’Italia il 30 marzo 2007 dal ministro della Solidarietà sociale Paolo Ferrero. In alcuni articoli significativi di questa Convenzione (artt. 2, 9, 21, 24 e 30) si parla esplicitamente di riconoscere e facilitare l’uso della lingua dei segni anche attraverso l’assistenza di interpreti professionisti, di agevolare il suo apprendimento e di promuovere e sostenere la specifica identità culturale e linguistica delle persone sorde (Maragna, Marziale 2008). Queste raccomandazioni sono state già attuate nel corso degli anni in diversi Paesi e in tal modo la lingua dei segni è stata riconosciuta come lingua minoritaria.
Bibliografia
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M.C. Caselli, S. Maragna, V. Volterra, Linguaggio e sordità. Gesti, segni e parole nello sviluppo e nell’educazione, Bologna 2006.
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T. Russo Cardona, V. Volterra, Le lingue dei segni. Storia e semiotica, Roma 2007.
Verbal and signed languages. Comparing structures, constructs and methodologies, ed. E. Pizzuto, P. Pietrandrea, R. Simone, Berlin-New York 2007 (in partic. C. Cuxac, M.A. Sallandre, Iconicity and arbitrariness in French sign language: higly iconic structures, degenerated iconicity and diagrammatic iconicity, pp. 19-33, P. Pietrandrea, T. Russo, Diagrammatic and imagic hypoicons in signed and verbal languages, pp. 35-56).
S. Maragna, B. Marziale, I diritti dei sordi. Uno strumento di orientamento per la famiglia e gli operatori: educazione, integrazione e servizi, Milano 2008.
Webgrafia
Ethnologue. Languages of the world. Language family trees. Deaf sign language, http://www.ethnologue.com/show_family. asp?subid=90008.
Per una bibliografia ragionata delle pubblicazioni sulla Lingua dei segni italiana si rimanda a: http://www.istc.cnr.it/ mostralis/docs/biblis.pdf.
Per informazioni su corsi di baby signs, si veda: http://www.babysigns.com.
Sulla scrittura delle lingue dei segni si veda, tra gli altri: http://www.signwriting.org/forums/linguistics/ling004.html.
V. inoltre:
F. Grosjean, The right of the deaf child to grow up bilingual, 2007, http://www.francoisgrosjean.ch/the_right_en.html; trad. it. http://www.francoisgrosjean.ch/Italian_Italien.pdf.
Tutte le pagine web si intendono visitate per l’ultima volta l’11 maggio 2009.