Le particolarità del Mezzogiorno cristiano e cattolico
Sommario: Una premessa ▭ Le particolarità cristiane e cattoliche del Mezzogiorno ▭ La svolta tridentina ▭ L’orma duratura di Trento ▭ Dopo Trento ▭ Qualche conclusione
È convinzione radicata e diffusa, non solo nel mondo degli studi, che vi sia nella storia, come nella vita religiosa, italiana un’articolazione molto profonda, corrispondente ‘grosso modo’ al generale dualismo italiano riassuntosi in ultimo nella tuttora perdurante ‘questione meridionale’. Una tale convinzione non appare errata, se trae motivo da un’innegabile specificità della storia e della vita del Mezzogiorno continentale e insulare, che si impone da sé all’osservazione e alla considerazione storica. Quando, però, da tale specificità si trae la deduzione di una fondamentale non si dice estraneità, ma profonda diversità e distanza della religiosità meridionale da quella che si suppone propria dell’Italia, e alla diversità e distanza si fa corrispondere un giudizio di valore, che poi è solitamente orientato ad affermare una minore qualità e valore religioso (quindi umano, morale…) dell’homo religiosus meridionale e della sua fede e pratica della fede, diventa difficile intendersi, e diventa difficile, soprattutto, conseguire una reale, approfondita, attendibile e soddisfacente intelligenza storica delle cose di cui si parla.
Sarà bene a questo riguardo prendere le cose un po’ alla lontana, e rifarsi più propriamente, se non alla situazione dell’età tardoantica, che tuttavia è importante considerare sullo sfondo di questo discorso1, almeno alla molteplicità delle implicazioni che l’invasione longobarda determinò nella storia nazionale italiana: implicazioni talmente profonde da aver condizionato molteplici aspetti di quella storia nazionale in modo essenziale e permanente.
Fra tali implicazioni va senza dubbio annoverata anche la divisione della penisola in due distinte aree politiche – quella occupata dai Longobardi e quella mantenuta dai Bizantini – che ruppe l’unità politica della stessa penisola, stabilita da Roma con le sue conquiste fin dal secolo III a.C., e poi ristabilita soltanto nel 1860, tredici secoli dopo l’invasione longobarda.
Si tratta, in effetti, di uno sviluppo che merita di essere messo qui in particolare evidenza. Anche ai tempi di Roma la penisola italiana presentava realtà alquanto diverse fra loro anche nella loro complessiva configurazione a Nord e a Sud di Roma. Diversità che con le riforme dioclezianeo-costantiniane prese una forma anche istituzionale per l’istituzione di una circoscrizione dell’Italia suburbicaria, formata dalle regioni più vicine a Roma, ossia quelle centro-meridionali, quasi un suburbio romano, sottoposta a un vicarius in urbe, ed esente all’onere del frumentum annonarium per la corte e per l’esercito, al quale erano sottoposte le regioni centro-settentrionali, che formavano perciò la circoscrizione detta dell’Italia annonaria: onere, peraltro, poi abolito2.
A noi, però, non interessano qui i particolari e il significato politico-amministrativo di quella bipartizione della penisola, bensì il fatto stesso della bipartizione, considerata evidentemente di immediata giustificazione per risapute condizioni dell’Italia del Nord e di quella del Sud. Più importante appare il già richiamato evento della divisione dell’Italia tra un’area longobarda e un’area bizantina, che si prospetta, si può dire, fin dall’inizio come una ripartizione del paese tra due aree a diverso segno culturale e sociale, tanto da poter parlare, nel complesso, di due diverse aree di civiltà. Gli stessi principati longobardi che si formarono nell’Italia meridionale assunsero ben presto, sia nella loro coloritura politico-istituzionale, sia nella loro vita civile in generale, connotazioni, che, senza disperdere del tutto l’originaria identità longobarda, risentirono, tuttavia, profondamente l’influenza bizantina, sicché le stesse corti di quei principati tesero a rassomigliare, in effetti, molto più a quella del basileus di Costantinopoli che a quelle dei sovrani dell’Europa romano-germanica3.
Evidente nei secoli tra la caduta dell’impero romano d’Occidente e la grande ripresa italiana ed europea intorno al Mille, la diversità si fece macroscopica e più forte in seguito. La contrassegna in maniera immediata l’unificazione politica del Mezzogiorno e della Sicilia nella monarchia costruita dai Normanni, alla quale si accompagnò, pur in un quadro istituzionale che ha venature burocratiche di varia ascendenza e non trascurabili, l’introduzione nelle stesse regioni meridionali di un regime politico-sociale di stampo nettamente feudale. Tutto ciò avveniva mentre nell’Italia centro-settentrionale un possente movimento di forze sociali germogliate all’ombra della precedente struttura politico-istituzionale del paese rovesciava l’ordine costituito e dava luogo alla sperimentazione di nuovi moduli di vita associata con il sorgere e il diffondersi dei Comuni: una forma politica che ha sempre, giustamente, richiamato, in contesti e con caratteri profondamente diversi, l’esperienza della polis greca4.
La differenziazione politico-istituzionale fu, ancora una volta, tutt’altro che soltanto formale e ordinamentale. Essa consolidò, anzi, quella frontiera di civiltà, che già a questo punto si può considerare del tutto definita, tra le due parti del paese. Non è una differenziazione fondata su basi essenzialmente etniche. La base è sostanzialmente politico-sociale e politico-istituzionale. Ciò voleva anche dire culture diverse: culture diverse della vita associata e della politica; culture diverse delle relazioni personali e di gruppo nell’ambito delle rispettive forme politico-istituzionali e dei rispettivi sistemi politico-sociali; culture diverse nella considerazione delle attività e dei comportamenti per cui nell’una e nell’altra area avevano luogo economie largamente differenziate, che finirono con il disporsi fra loro nella forma classica dello ‘scambio ineguale’, fra un Nord prevalente e un Sud dipendente e subalterno sul grande mercato mediterraneo e italiano; culture diverse anche nella loro ispirazione etico-sociale ed etico-religiosa5.
Proprio su quest’ultimo aspetto va, peraltro, osservato che questa diversità di ispirazioni appare determinarsi e aver corso sin dai secoli della divisione della penisola per l’invasione longobarda.
Per questa ragione assume un’importanza fondamentale il processo di ‘latinizzazione’ della Chiesa nel Mezzogiorno, che ebbe una lunga preistoria, ma si impose poi con maggiore generalità e decisione dopo il Mille, in piena sintonia cronologica con l’unificazione politica del Mezzogiorno nel Regnum Siciliae a opera dei Normanni fra il 1050 e il 1140; con il riconoscimento dell’alta sovranità feudale della Chiesa di Roma su questa nuova formazione politico-istituzionale già molto prima della proclamazione del regno nel 1130; con gli accordi particolari che diedero vita ad alcune delle prime figure di concordato fra Stato e Chiesa dell’esperienza europea; con i conflitti che tra le due autorità questa stretta relazione determinò non meno degli accordi, che resero la Chiesa in più di un caso l’elemento decisivo delle vicende politiche e dinastiche del regno, nonché, infine, con il grande rafforzamento delle posizioni ecclesiastiche nella vita civile, che fu tra gli effetti più notevoli della scissione del Mezzogiorno insulare da quello continentale in seguito al Vespro siciliano del 1282.
Nel processo di latinizzazione l’isola occupò un luogo di grande rilievo. Innanzitutto, vi erano più diffusi la Chiesa greco-ortodossa e i legami con l’Oriente cristiano. In secondo luogo, la lunga occupazione musulmana vi aveva fatto sorgere il problema di una fede rivale e concorrente di quella cristiana, e a lungo non combattuta dal potere politico, una volta che la reconquista cristiana era stata attuata. In terzo luogo, tutto ciò non aveva impedito che nell’isola si mantenessero la presenza e la disciplina cattolico-romana, ma senza una parte preminente rispetto alle altre confessioni presenti in Sicilia.
Sul continente, però, la latinizzazione non dovette affrontare problemi minori. La presenza musulmana fu meno diffusa, più sporadica e meno profonda, ma in varie parti diede luogo a indubbie influenze, e lasciò tracce nella toponomastica e perfino nel disegno degli insediamenti6.
Anche le influenze ebraiche non sembrano aver avuto, nel complesso, durante i secoli di formazione dell’identità meridionale fino al secolo XII-XIII, una importanza in qualche modo o specificamente rilevante. L’ebraismo meridionale ebbe, invero, nel Mezzogiorno una presenza e una continuità non trascurabili. Si trattava di molte centinaia di famiglie distribuite specialmente nei centri marinari e commerciali più attivi. A Salerno agli inizi del secolo XI troviamo anche parte della città denominata senz’altro come ‘giudecca’. In epoca normanna e sveva questa fioritura di presenze ebraiche fu ancora maggiore. Era in gran parte una eredità dell’età tardoantica; arrivi e inserzioni medievali non si ravvisano in misura davvero cospicua. Solo con gli Angioini nella seconda metà del secolo XIII l’ebraismo meridionale cominciò ad andare incontro a difficoltà che continuarono, con alterne fasi di miglioramenti e di peggioramenti, fino a quando nella prima metà del secolo XVI ci fu la definitiva espulsione degli ebrei dal paese7. È, però, molto difficile parlare, con elementi fondati e provati, di influenze ebraiche apprezzabili sul piano che qui ci interessa. Anche nella cultura di corte normanna e sveva la parte musulmana appare più consistente di quella ebraica. Tuttavia, soprattutto per quanto attiene allo studio delle Sacre Scritture, scambi non dovettero mancare, come si può dedurre, fra l’altro, anche dal notevole numero di edizioni e commenti biblici fin dal primo diffondersi dell’arte della stampa a Napoli e nel Mezzogiorno8. È, anzi, senz’altro da ricordare che a Reggio in Calabria nel 1475 fu stampato il Commentarius in Pentateuchum di Rabbi Salomone Jarco, nella tipografia di Abramo ben Gaston, che, a quanto pare, fu il primo libro stampato in caratteri ebraici e nella stamperia di un ebreo, oltre che il primo libro prodotto in una tipografia calabrese9.
Più complesso fu il problema dei rapporti con Costantinopoli.
Dopo Gregorio Magno, i papi suoi successori si erano tenuti su una linea filobizantina, e non per nulla dall’Italia bizantina provennero, infatti, quasi tutti i papi del secolo VII, con i quali prese una forma sempre meglio definita quel Patrimonium Petri, che proprio lo stesso Gregorio Magno aveva particolarmente curato. Le conseguenze si erano fatte sentire. Nelle contese teologiche di quello stesso secolo (come per il monotelismo) l’imperatore Costante II riuscì a imporre con la forza anche alle chiese italiane la disciplina voluta da Costantinopoli, e papa Martino I (649-653) fu addirittura deportato nel Chersoneso. Venuto, poi in Italia, l’imperatore non solo mortificò il papa Vitaliano (657-672), ma sollecitò attivamente le Chiese italiane a emanciparsi da Roma, a praticare l’autocefalìa ortodossa e a legarsi di più all’Oriente. I risultati di questa pressione imperiale non furono cospicui. Non solo il clero e i monaci che dall’uso e dalla disciplina latina non si erano mai davvero allontanati, ma lo stesso clero e il monachesimo che più si erano aperti all’influenza e agli usi e alle prassi orientali si schierarono e operarono sempre più strettamente con Roma. Addirittura, fu proprio dalla Sicilia ‘greca’ che tra la fine del secolo VII e la metà dell’VIII vennero quasi tutti i papi, che proprio in quel torno di tempo provocarono la grande ripresa del papato, culminata poi in una sua più decisa separazione da Bisanzio (di cui le controversie teologiche – tipica quella della definitiva introduzione del Filioque nell’ortodossia romana10 – furono un elemento costitutivo, ma tutt’altro che esclusivo o determinante) e nel definitivo consolidarsi del Patrimonium Petri come nucleo di quello che si poteva ormai definire lo Stato della Chiesa, approdando poi a quell’eccezionale sforzo di grande azione politica sul piano euro-mediterraneo, che culminò alla fine del secolo VIII nella conquista franca dell’Italia longobarda e nella proclamazione di Carlomagno a sovrano di un restaurato impero romano in Occidente11.
Tra il secolo IX e il X, il Mezzogiorno fu, tuttavia, teatro di un ritorno in forze di Bisanzio nella penisola, che portò Puglia, Basilicata (la terra del basileus!) e Calabria sotto il suo dominio. Il legame con Bisanzio fu allora di molto rafforzato anche sul piano ecclesiastico-religioso, comportando un’accentuazione di quei vari aspetti disciplinari, cultuali, devozionali ecc., ai quali abbiamo già accennato. È certo un dire troppo l’affermare che in quei due secoli il legame del Mezzogiorno con Roma si sia allentato fin quasi a spegnersi, e che si sia determinata una vera e propria separazione delle Chiese meridionali da quelle italiane. Questa separazione, in realtà, non ci fu mai. È vero, invece, che la relativa nuova ‘grecizzazione’ comportò un forte radicamento territoriale e particolaristico della vita religiosa e una generale intensificazione dei rapporti delle Chiese e del cristianesimo meridionale con la cristianità greca del Mediterraneo orientale. Ed è vero altresì che anche questa Chiesa meridionale grecizzante attraversò quella fase di profonda crisi e smarrimento dei suoi valori e della sua disciplina che fecero del secolo X una ‘età di ferro’ dell’esperienza e della prassi ecclesiastico-religiosa pressoché in tutto l’Occidente cattolico12.
A causa di tutte queste circostanze già prima del Mille la Chiesa latina dové badare a mantenere o a ricostituire la sua struttura territoriale, largamente e più volte sovvertita dalle agitazioni, guerre, invasioni, scorrerie e distruzioni di quel periodo, che, secondo alcuni studiosi, ruppero nelle Chiese meridionali – tranne qualche caso piuttosto isolato, come a Napoli – la continuità con l’esperienza delle Chiese del tardo impero romano. Ovunque la Chiesa vide sparire vescovadi e altri centri di culto e dové appoggiarsi molto sui poteri politici locali. Mentre mutava il quadro stesso geografico e topografico degli insediamenti e dei centri abitati delle regioni meridionali (come di ogni altra parte) dell’antica Italia romana, con la scomparsa di città e villaggi, e la ricostituzione di un tessuto insediativo in gran parte nuovo e diverso, si cercò, procedendo a istituire alcune sedi metropolitane (Napoli, Benevento, Amalfi, Salerno, Capua) e a fondare o a riconoscere alcuni centri benedettini, di ristabilire un tessuto non solo istituzionale, ma anche cultuale e rituale. L’impresa era meno facile di quanto potrebbe apparire, e ciò anche perché nel campo latino non era soltanto Roma ad agire e a prendere e sviluppare posizioni. Poteri e cleri locali, e perfino il lontano impero carolingio e poi germanico, pretendevano ed esercitavano patronati, giurisdizioni, influenze vari, e a questo titolo erano localmente riconosciuti o invocati.
Si è parlato, perciò, di un «carattere rozzo e originale dell’organizzazione ecclesiastica» nel Mezzogiorno longobardo, e addirittura se ne è fatta derivare una «modesta importanza dell’istituzione ecclesiastica nella società e nella sfera del potere in epoca normanna e anche oltre»13. L’ipotesi è, però, contraddetta dalla premura dei parvenus normanni di raggiungere rapidamente con il papato un accordo già all’indomani della vittoria che su di esso avevano riportato a Civitate nel 1054: una premura, continuatasi poi, a monarchia meridionale istituita, ed evolutasi in forme concordatarie, che non avrebbe avuto molto senso, se la presenza ecclesiastica nella società e nella sfera del potere fosse stata così poco influente, o se la questione dei rapporti con Roma fosse stata solo una questione, per così dire, di politica internazionale. In realtà, al più tardi intorno al Mille il tessuto ecclesiastico romano – sia pure lasciando sussistere in vari luoghi il rito greco – era stato in linea di massima ricomposto, anche nelle regioni di più ostica appartenenza politica, e anche se la presenza di chiese greco-ortodosse rimase tanto notevole da far ritenere che proprio alla metà del secolo XI l’ellenismo religioso abbia raggiunto la sua più vasta estensione sul continente14. Per alcune Chiese meridionali, poi, il rapporto con Roma non solo rimase sempre in piedi, ma costituì una tradizione robusta e costante (così fu, ad esempio, per la Chiesa di Napoli).
È, tuttavia, e comunque, indubbio che solo con l’unificazione normanna del Mezzogiorno, già pressoché completa nel 1076, la latinizzazione di cui parliamo abbia preso, come si è detto, il suo definitivo e pieno avvio. Tra la riforma gregoriana e la diffusione dei grandi, nuovi ordini religiosi nel secolo XII-XIII la Chiesa latina visse davvero nel Mezzogiorno la sua grande primavera, contrassegnando fortemente la vita morale e culturale di queste regioni. A prescindere dagli accidenti e congiunture politiche, da manifestazioni come quelle ereticali degli stessi secoli (di cui diremo) e dai contraccolpi (molto più politico-istituzionali che ecclesiastico-religiosi) dell’epoca degli scismi, fu allora che si stabilì nei suoi tratti più duraturi e caratterizzanti la facies religiosa, cattolico-romana, del cristianesimo nel Mezzogiorno.
Questo cristianesimo dell’Italia meridionale, così configuratosi, all’incirca tra il secolo VI-VII e il XIII-XIV, in pressoché tutti i suoi aspetti essenziali di confessione cattolica, era diverso dal cristianesimo cattolico di altre parti d’Italia e d’Europa? La risposta è: assolutamente si. Si, nel senso, però, che né il cristianesimo, né, specificamente, il cattolicesimo hanno mai rappresentato un blocco monolitico di sentito e di vissuto religioso. L’unicità indubitabile della professione di fede e dei suoi intrinseci valori etici e religiosi è un conto. Il modo di sentirla e di viverla (e non solo nel senso di prassi o precettistica o ritualità ecclesiastica) è un altro conto, e si presta a una varietà non sempre dominabile di forme e di comportamenti, e non soltanto tra grandi ripartizioni geografiche (come può essere il Mezzogiorno rispetto all’Italia), bensì anche all’interno di tali ripartizioni.
Ciò premesso, quali possono essere considerate le ‘particolarità’ del Mezzogiorno nel contesto cristiano e occidentale al quale è appartenuto?
Certo, nessuna di tali particolarità, ove le si individui come effettive ed evidenti peculiarità meridionali, può essere riportata a specifiche ragioni etniche. La posteriore popolazione del Mezzogiorno è stata la prosecuzione e l’erede di quelle 150.000 o 200.000 famiglie che con tutta probabilità la componevano al momento della forse massima depressione demografica tra il secolo VII e l’VIII; e quel fondo demografico rappresentava, a sua volta, già una composta miscela di ceppi e gruppi umani diversi. Pensare a un Mezzogiorno ‘sannitico’ (o italico), a un Mezzogiorno ‘ellenico’ quale sussisteva all’epoca delle guerre sannitiche e puniche, e sopravvivente come tale otto o nove secoli dopo, è pura fantasia. Quel Mezzogiorno era stato profondamente latinizzato pressoché da ogni punto di vista, ma soprattutto era stato profondamente alterato dalla progressiva integrazione e assimilazione della numerosissima popolazione servile della più varia origine, che finì col fare corpo con l’insieme di quel fondo etnico di cui parliamo. Nessun dubbio sul successivo afflusso di elementi orientali, ma nessun dubbio neppure sul fatto che questo afflusso non abbia potuto alterare il fondo etnico locale più che in misura marginale e, soprattutto, territorialmente piuttosto delimitata, così come sarebbe avvenuto in seguito per le migrazioni di popolazioni balcaniche (quasi esclusivamente albanesi e greci) dinanzi alla conquista ottomana nei secoli XIV-XVI. L’invasione longobarda non dové portare qui che poche diecine di migliaia di persone, anch’esse in gran parte localizzate nelle zone appenniniche interne. Successivi apporti (normanni, franco-angioini, ispanici ecc.) certamente non ebbero la stessa consistenza dell’insediamento longobardo. Alla fine, si può ritenere che le alterazioni del fondo etnico del Mezzogiorno in essere nel secolo VI abbiano avuto più riflessi sugli usi linguistici e onomastici o toponomastici che sul piano propriamente etnico, sul quale la popolazione meridionale, nella sua grande varietà tipologica da luogo a luogo, sembra formare un insieme in larga misura coerente anche attraverso i secoli15.
Alquanto più rilevanti e determinanti di quelli etnici appaiono, indubbiamente, i fattori culturali. Su questo piano i rapporti con Costantinopoli e con la civiltà bizantina, e quindi anche con la grecità ortodossa, introdussero certamente, in particolare tra secoli VI e XI, e sia pure con una gradualità maggiore di quanto si potrebbe credere, una serie cospicua di elementi caratterizzanti anche sul piano religioso, che perciò non sono trascurabili, bensì piuttosto, e comunque, da ricordare. Così, una considerevole diffusione, specie in alcune regioni, del monachesimo basiliano (anche se in molti casi non si può dire che si seguisse propriamente la regola basiliana)16. Così, una serie di tradizioni e leggende e di devozioni e di culti direttamente e storicamente (il ‘santo taumaturgo’ – Ciro, Antonio Abate – e le tante Madonne brune o nere o diversamente appellate: Achiropita ecc.) derivati dall’Oriente cristiano (a cominciare dal trasporto dei corpi dei patroni: Andrea ad Amalfi, Nicola a Bari, Matteo a Salerno, o dalle avventure e traslazioni di quadri, statue, reliquie ecc.). Così, la diffusione di usi liturgici e di strumenti cultuali, come messali, manoscritti vari ecc. Così, una certa conoscenza del greco che nel Mezzogiorno continuò ininterrotta a lungo, e certamente, insieme con altri elementi, facilitò una conoscenza di temi e tesi teologiche più familiari al cristianesimo orientale che a quello latino (e ciò senza contare l’importanza che ebbe poi al tempo dell’Umanesimo, l’acquisto di manoscritti di provenienza italo-greca). Così, in molti luoghi, una certa orientalizzazione del clero, come, ad esempio, per la questione del celibato, ma anche per gli abiti e per le acconciature (tipico, ad esempio, l’uso della barba e del suo tipo più diffuso), sicché chi ha pratica delle iconografie orientali consegnate in mosaici, icone e in ogni altro tipo di immagine, non farà fatica a farsi un’idea approssimativa, ma non infondata del significato di questo punto, a cui è legata nelle sue origini anche qualcuna delle figure topiche del vissuto ecclesiastico-religioso del Mezzogiorno, come la figura del ‘monacone’). Così, anche nella tipologia delle chiese, diaconie e monasteri di stampo bizantino, tradizioni e caratteristiche e forme che in qualche modo, e sia pure, in gran parte, in forma alquanto latente, non si persero più del tutto neppure in seguito17.
Con la latinizzazione questa patina greco-orientale non scomparve, ma fu costretta e adattata nelle nuove tipologie che sempre più largamente caratterizzarono in senso romano le Chiese e la vita religiosa del Mezzogiorno. Presero vigore alcuni tratti importanti: le sedi metropolitane già istituite o di nuova istituzione si differenziarono parecchio nella loro importanza, che divenne minima per alcune, come Amalfi, e crebbe per altre, come Benevento; molte diocesi meridionali furono istituite ugualmente con grande varietà di consistenza, sicché risultarono alla fine troppo numerose, e anche in seguito rappresentarono una delle mete meno ambite nelle carriere episcopali; numerose furono quelle dichiarate immediate subiectae a Roma, e quindi in certo qual modo avulse dalla trama episcopale del territorio (e lo stesso accadde per molti abbazie, monasteri e conventi); con il tempo numerosi vescovadi divennero di presentazione, in pratica di nomina, regia, con una commistione fra il potere civile e quello ecclesiastico, che fu fonte di varie implicazioni e complicazioni. In ogni caso l’alleanza normanna con Roma consentì una progressiva più larga assimilazione dell’episcopato meridionale a quello di stampo romano, anche se in vari momenti (ma alquanto più in Sicilia che sul continente) bisognò chiamare dal di fuori i vescovi da nominare o ricorrere a monaci per tale bisogna18. È vero, tuttavia, che nei secoli XI e XII pochi vescovi meridionali godettero fama di santità19, ma neppure questo sembra un elemento valido per dedurne una scarsa vitalità. Ugualmente vero è che vi furono a lungo una diffusione particolare di chiese private (un tratto che richiama per qualche verso anche la diaconia bizantina) e un loro ruolo primario nella ricostituzione del tessuto ecclesiastico-territoriale. Questo, però, fino a quando nel secolo XII Roma non assunse una parte maggiore nel decidere le strutture ecclesiastiche del territorio, e nacque una vera e propria rete di parrocchie, mentre la vecchia chiesa privata evolveva verso il modello della chiesa retta da un diritto di patronato.
Sui monasteri si fece, d’altra parte, sentire fortemente l’influenza di Cluny20, che, procedendo in Italia dalle regioni del Nord-Ovest verso il Sud-Est meridionale, fece valere anche nella penisola il soffio della nuova intuizione e spiritualità religiosa di cui era portatore. L’influenza cluniacense poté così essere nel Mezzogiorno un aspetto per nulla minore della latinizzazione. Nel complesso appare debole, però, l’influenza delle grandi ondate riformatrici provenienti dall’Occidente, e notevoli risultano, invece, alcune loro limitazioni localistiche, non senza una più che probabile ripercussione di tradizioni eremitiche bizantine, anche se, in generale, la lunga presenza di una notevole rete ecclesiastica greca non sembra avere veramente inciso sul processo di latinizzazione e sui suoi esiti. Alcuni episodi sono memorabili anche perché connessi all’azione di personalità sopravvenienti dall’esterno. Così accadde con Brunone di Colonia, fondatore di S. Stefano del Bosco, che rifiutò la nomina vescovile a Reggio Calabria per instaurare nell’estrema Calabria un modello eremitico «nel solco del monachesimo che poi si dirà certosino». Così accadde con Guglielmo da Vercelli, fondatore del cenobio benedettino di Montevergine; e così accadde pure a Cava de’ Tirreni. Ma l’iniziativa locale non manca. È a Giovanni da Matera che si deve la fondazione dell’eremo di Pulsano, presso Monte Sant’Angelo, sul Gargano, e la sua congregazione pulsanese dimostrò anche una certa capacità «di diffondersi in direzione settentrionale con fondazioni in Toscana e nella pianura padana». Nell’ambito cistercense si colloca, a sua volta, la figura più che eminente del calabrese «abate Gioacchino, di spirito profetico dotato», secondo la famosa definizione di Dante, che a San Giovanni in Fiore fondò un eremo e diede vita a un ordine riconosciuto, quello Florense, anche se poi non destinato a grande fortuna (ma «l’altezza di un’esperienza spirituale non si misura dal suo successo empirico», come ammoniva Ernesto Buonaiuti21).
Questo ricostituito tessuto latino è sembrato, come si è detto, poco vitale. Se ne è addotta a dimostrazione anche una relativa povertà agiografica, ma già per questo, ad esempio, non si è potuto fare a meno di ricordarne i non pochi luoghi di pellegrinaggio di grande prestigio e di grande richiamo, a cominciare dalla grotta di s. Michele sul Gargano22. Altri elementi possono certamente essere addotti. Quel che, però, da un punto di vista generale appare necessario è di non fermarsi a tutto ciò che rende diverso il Mezzogiorno dei secoli XI-XIII dal contesto latino in cui si veniva reinquadrando (che è molto, ma non tanto quanto si potrebbe credere), e tanto meno di vedere proprio negli elementi di tale diversità l’effettivo tratto unitario di un Mezzogiorno ancora segnato da profonde varietà confessionali e territoriali.
L’elemento storicamente importante di quei secoli è, infatti, precisamente l’opposto. È la progressiva generalizzazione e intensificazione del ritorno del Mezzogiorno a un contesto latino: ritorno, o anche approdo, considerate le molte dislocazioni e nuove istituzioni tanto di centri abitati quanto di centri ecclesiastico-religiosi che connotano l’Alto Medioevo meridionale. Quel contesto latino era, a sua volta, agitato, mentre il Mezzogiorno vi si inseriva o reinseriva, da profondi fermenti ecclesiastici e religiosi di rinnovamento e di trasformazione. Può darsi che la partecipazione meridionale a questi fermenti appaia modesta e più sollecitata che spontanea23. In realtà, come si è detto, non è del tutto così. In ogni caso, però, anche se così fosse, il punto resta lo stesso, ed è quello espresso con il termine di ‘latinizzazione’: un termine forse troppo sintetico, ma significativo e dalle molteplici implicazioni. Un termine il cui significato fondamentale non è, comunque, quello di una evangelizzazione (il problema musulmano era molto più siciliano che dell’Italia meridionale, e, dove qui c’era, non pose problemi veri e propri di evangelizzazione). Un termine il cui significato proprio è, invece, quello di una riconduzione da un certo modello cristiano a un altro, quello latino, senza, per giunta, potersi dire che né il precedente modello bizantino né quello latino possano essere ridotti a un’unica tipologia o versione24.
Che in questo Mezzogiorno latinizzato appaia scarsa la diffusione dei grandi fermenti ereticali del secolo XII e XIII, che nell’Italia centro-settentrionale formano una dimensione così eminente della storia religiosa e civile, può anche essere dovuto alla scarsezza della documentazione, che non permette sempre e in tutto certezze circostanziate. Il gioachimismo e le connesse spinte escatologiche non sono facilmente inquadrabili nello stesso orizzonte dei movimenti ereticali, benché facciano indubbiamente parte dei movimenti religiosi in cui anche le eresie rientrano25: una distinzione, questa tra ereticale e religioso, che non vuole avere, come è ovvio, alcun significato confessionale, ma soltanto indicare un diverso atteggiamento di ispirazione e di finalità nei confronti della Chiesa, per cui il gioachimismo poté anche essere facilmente usato e strumentalizzato a fini altri dai suoi propri, ma non tolse fama, e fama di profeta, al suo iniziatore (si pensi ancora a Dante)26.
Ben diverso è il caso dei grandi Ordini mendicanti che nel secolo XIII ottennero un’ampia risposta anche nel Mezzogiorno. Come è noto, essi realizzavano un tipo di insediamento religioso fortemente urbano, in contrasto con la situazione anteriore al Mille e conforme al grande sviluppo urbano dell’Italia comunale. Nel Mezzogiorno lo sviluppo urbano non fu lo stesso, date, ovviamente, le caratteristiche demografiche e socio-economiche degli insediamenti meridionali. E, d’altra parte, la tesi, spesso corrente, per cui nel Mezzogiorno non vi sarebbe stata vera e propria civiltà urbana, è una tesi corrosa dal buon senso prima ancora che dalla ricerca storica27. È vero soltanto che la civiltà urbana del Mezzogiorno fu connotata da tratti profondamente connessi alla logica e ai caratteri propri della realtà del Mezzogiorno: considerazione che forse il signor di La Palisse non avrebbe disdegnato di far propria.
La risposta meridionale all’apparire dei nuovi Ordini fu, comunque, larga, e innanzitutto i Francescani e i Domenicani vi si diffusero rapidamente, in modo largamente spontaneo, senza che nemmeno le lotte di sovrani come Federico II con la Chiesa valessero a limitarla in alcun modo28. Anche su questi versanti il fattore politico si fece, comunque, sentire: si pensi soltanto, ad esempio, al fortissimo legame che con il francescanesimo ebbe la dinastia angioina. Non fu, però, per la via politica che si giocarono le carte decisive per la diffusione dei nuovi Ordini nel Mezzogiorno, bensì per la via spontanea sopra indicata. Per i Francescani poi sembra essersi determinata fin dall’inizio una particolare consonanza e una profonda corrispondenza con atteggiamenti e tendenze proprie della società e della realtà morale delle regioni meridionali; e viene in mente a questo proposito la voce che si diffonderà più tardi, nel secolo XV, secondo la quale omnes fratres minores volunt facere miracula29: quasi un elemento predestinato di incontro in un paese in cui la taumaturgia e la santità taumaturgica avevano connotato da tempo la sensibilità e l’aspettativa religiosa cristiana.
Su questo punto conviene forse indugiare ancora. Già in Gioacchino da Fiore il Buonaiuti notava che tra le qualità eminenti della sua esperienza religiosa e della sua esegesi vi è anche «una predilezione spiccata per i simboli e le allegorie», fino a «letteralmente ubriacarsi in un’orgia di simboli e di corrispondenze fantastiche»30. Egli notò, anzi, anche che poi «la spiritualità francescana tentò di incorporare in sé o di trarre a compimento il vaticinio del Veggente di Celico», che esaltava il «più insigne dono dello Spirito: la gioia e la pace»31. Certo, Gioacchino «non è un sistematico e un dialettico». Perfino la sua «simbologia non tradisce alcuna uniformità e alcuna costanza»32, al di fuori dell’«ardente aspettativa escatologica», che non è soltanto attesa della salvazione, ma, forse, ancora prima, attesa della giustizia, nell’unità di una «speranza umana della spiritualità e della giustizia»33. D’altra parte, in Gioacchino la critica della Chiesa storica non lede minimamente l’ossequio alla Chiesa in quanto istituzione e comunità del popolo cristiano: altro tratto che da Francesco in poi si ritrova spesso nella tradizione francescana, portato, anzi, a un’esplicazione che investe, con lo stesso criterio, anche la vita e i rapporti interni e le vicende del francescanesimo.
Dei Francescani Osservanti sarebbe poi stata nel secolo XV l’idea e la prassi della predicazione itinerante coronata da un grande successo di massa; e fra quei predicatori si sarebbe distinto Roberto Caracciolo da Lecce. A differenza di un altro grande predicatore meridionale del tempo, tra i più famosi del movimento dell’Osservanza, Giovanni da Capestrano, strettamente legato alla perorazione della crociata contro i Turchi34, il Caracciolo appare fra i più avvezzi, nella sua predicazione a «fare ricorso a moduli comunicativi assai vicini a quelli teatrali»35, e, come qualche altro di tali predicatori, a «non esitare, con aria minacciosa, a richiamare dal pulpito all’attenzione dei suoi ascoltatori le profezie papali»36, ma anche senza divagazioni dottrinali, filosofiche o metafisiche di alcun genere, neppure sui punti eminenti della dottrina, e con una grande semplicità espressiva ed efficacia rappresentativa e descrittiva, puntando decisamente sulla questione fondamentale dell’osservanza della morale cattolica. Erano, anche questi, elementi legati a connotazioni ormai evidenti del mondo meridionale. Ma si ricordi pure che nello stesso secolo XV provengono ancora dall’ambiente francescano l’esperienza e l’attività di Francesco da Paola. Partito da propensioni e atteggiamenti eremitici, egli maturò ben presto l’idea di passare alla pratica del cenobio, ottenendo subito nel 1474 il riconoscimento di papa Sisto IV per la comunità da lui costituita in Calabria e da papa Alessandro VI nel 1493 l’approvazione della prima Regola dell’ordine dei Minimi, che egli aveva così promosso nell’ambito della grande famiglia francescana. Le connotazioni penitenziali, il forte accento sulla carità cristiana, l’evidente semplicità ideologico-dottrinale, il vivo e immaginoso tono della predicazione furono ovunque tra gli elementi del successo del Francesco calabrese, che ebbe l’omonimo fondatore dei Frati Minori come suo grande modello, ma sono anche gli elementi per i quali egli sembra più direttamente legarsi alla condizione morale e storica del suo Mezzogiorno37.
Del resto, il tratto del facile incontro tra francescanesimo e religiosità meridionale si sarebbe poi conservato stabilmente nei secoli successivi, fino alla straordinaria fortuna di padre Pio da Pietrelcina nel secolo XX, attestando, per la sua parte, che il cristianesimo meridionale del secolo XIII era ormai nella pienezza della sua fisionomia storica.
Una fisionomia in cui le ‘particolarità’ del Mezzogiorno dovevano essere ormai lette nel contesto della vita ecclesiastica e religiosa dell’Occidente europeo nella sua realtà tardomedievale. L’attenuata (o come altrimenti la si voglia definire) partecipazione ai grandi movimenti ereticali e religiosi dei secoli XII-XIV, non compensata dalla funzione svolta dal gioachimismo che ha tutt’altro senso38, e la ricezione immediata dei nuovi Ordini mendicanti39 non sono in contraddizione tra loro. Al contrario, attestano la graduale maturazione di una particolare spiritualità, che non si esalta per le forme vistose e laceranti di quei grandi movimenti, ma coltiva le sue idealità e le sue pulsioni e aspettative sul terreno religioso secondo un modulo conforme a quelle sue ormai consolidate ‘particolarità’. Particolarità fondamentalmente elaborate e definite, più o meno, fra il secolo VI-VII e il XIII-XIV, in cui nascono, si definiscono e si fissano tradizioni ed elementi, che poi resteranno «a base del posteriore patrimonio culturale delle popolazioni meridionali», formando il «quadro culturale destinato a rimanere a fondamento delle tradizioni meridionali». E ciò non perché «l’intero corpo delle tradizioni meridionali si sia formato» in quei secoli. In realtà, «come ereditava preesistenze e realtà anteriori, così l’attività creativa ed evolutiva di istituti e credenze e di elementi innovatori della mentalità e del comportamento proseguì anche nel periodo posteriore; «e, del resto, l’immobilismo, in questa come in ogni altra materia della storia umana, è un principio storicamente insostenibile». Semmai, ove davvero si volesse trovare una linea divisoria effettiva tra un periodo di maggiore e uno di minore dinamismo» nel campo di cui parliamo è, come vedremo, «alla forte attività disciplinatrice svolta dalla Chiesa dopo il concilio di Trento» che dovremmo rivolgerci40. E anche in questo caso vedremo pure che si tratta pur sempre di una indicazione di valore tutt’altro che assoluto e preclusivo. Non c’è dubbio, peraltro, che, anche dal punto di vista della storia religiosa, già largamente prima di Trento, dal secolo XIII-XIV in poi, il Mezzogiorno vada maturando quel passaggio «da frontiera mediatrice [fra Occidente e Oriente] ad area periferica» europea che si può ben più esplicitamente osservare nel campo dell’economia41. Trento figura, perciò, per questo verso, oggettivamente, per un concorrere di circostanze, come una data periodizzante di un contrarsi della realtà meridionale entro limiti nuovi e più condizionanti.
Su tale base è poi, comunque, proceduta la storia religiosa del Mezzogiorno. È stata da tempo revocata fortemente in dubbio la vecchia convinzione di una pratica assenza in esso di spinte e pulsioni facenti capo alla Riforma protestante. Non sembra, tuttavia, possibile scrivere una storia della Riforma protestante nel Mezzogiorno che faccia di questo paese uno dei centri pulsanti della Riforma stessa. Ciò non è possibile sulla base delle grandi personalità della Riforma che ebbero in Napoli il loro luogo o uno dei loro luoghi di manifestazione del proprio orientamento riformatore, dal Valdés all’Ochino o al Vermigli e ad altri; né sulla base dell’azione dello stesso Valdés, intorno al quale si raccolse a Napoli, come è stato ben detto, un gruppo, «nell’ambito del quale spiccano alcuni potenti baroni e pie nobildonne, tra cui la prediletta Giulia Gonzaga», che «si trasformò intorno al 1540 in una sorta di nuovo polo di aggregazione intorno al quale confluirono personaggi destinati ad acquisire in breve tempo un ruolo importante nella storia religiosa italiana di questi decennii»42: una storia, questa valdesiana, che si svolse a Napoli, ma trascese nettamente nel suo significato e nei suoi effetti il quadro napoletano e meridionale. Né più legato alla realtà napoletana e meridionale può essere considerato il caso, in se stesso così interessante, del calabrese Girolamo Busale e del gruppo intorno a lui, legato all’eredità valdesiana, e sostenitore di posizioni anabattistiche43. Altrettanto impossibile è fondarsi, per valutare la diffusione della Riforma, su quanto si diceva sul fatto che a Napoli vi fossero non meno di tremila eretici, in parte luterani, ma soprattutto valdesiani, o che tra gli aristocratici «non parea che fusse galant’huomo et buon corteggiano colui che non havea qualche opinionetta erronea et heretica», e che a livello popolare «insino ad alcuni coriari della Conceria al Mercato era venuta questa licenza di parlare e discorrere dell’epistole di san Paolo e dei passi difficoltosi di quelle»44; o sul fatto che da Galeazzo Caracciolo a Giordano Bruno e a Pomponio Algieri non furono pochi gli esuli dal Mezzogiorno per ragioni religiose, che incapparono per ciò, come accadde al Bruno e all’Algieri, nel drammatico epilogo del rogo.
In sostanza, la parte presa dal Mezzogiorno alla Riforma non sembra molto maggiore di quella presa ai grandi movimenti ereticali e religiosi dei secoli XII-XIV. Notevole fu il forte contatto o prossimità tra alcune ali dell’Umanesimo meridionale e alcune espressioni del moto riformato. Anche in ciò si rivelò una somiglianza tra Mezzogiorno e Spagna, che nei secoli XVI e XVII riguardò molti aspetti della vita civile e culturale. Ma ben più che in Spagna, e ben più che in altre parti d’Italia, può dirsi che l’impatto della Riforma sul Mezzogiorno fu, in sostanza, alquanto ristretto, se non marginale, e non alimentò più di qualche sviluppo socialmente e culturalmente limitato, anche se appare molto esteriore la connessione, almeno iniziale, tra questo debole impatto e la «maggior distanza geografica» o le «più esili relazioni commerciali e culturali con i paesi riformati» (a Napoli erano di casa i mercanti toscani e veneti, ossia di regioni toccate quasi subito dalla Riforma) o la «minore densità urbana» del paese45 . Né, invero, si può credere per il Mezzogiorno a una «scarsità di notizie sulla diffusione della Riforma» sin dagli anni Venti-Trenta dovuta all’«assenza del tribunale dell’Inquisizione»46: l’Inquisizione spagnola non vi era, ma quella diocesana e romana vi erano e si facevano sentire da sempre.
A rendere massiccia e definitiva questa marginalità intervenne, sin dagli anni Quaranta del secolo XVI, l’azione repressiva sia dello Stato che della Chiesa. L’impatto reazionario fu fortissimo sulla cultura, ma investì, in realtà, l’intero arco della vita sociale, specialmente dagli anni della conclusione del concilio di Trento in poi. Non tutto fu soffocato e spiantato o distrutto della precedente, meno formalizzata e disciplinata vita ecclesiastico-religiosa, ma l’omologazione tridentina di questa vita fu fortissima e andò molto oltre i piuttosto plastici confini della latinizzazione attuata nei cinque secoli precedenti. Neppure nel Mezzogiorno è possibile parlare, beninteso, di quella funzione generale disciplinatrice e orientatrice che in Italia, a parere di alcuni studiosi, avrebbe fatto della Curia romana un grande fattore ‘nazionale’47, assicurando attraverso un triplice itinerario – una rinnovata e centralizzata Inquisizione, le missioni e un potenziato e nuovo uso della confessione – un accentramento del potere pontificio in Italia, che si sarebbe tradotto senz’altro nella «unificazione moderna d’Italia», e addirittura nell’inizio della «la lunga tradizione dell’alta sovranità papale sugli stati della penisola»48. Ora, a prescindere da altre considerazioni di varia natura alle quali una tale visione delle cose italiane dalla metà del secolo XVI in poi può dar luogo sia sul piano della storia ecclesiastica e religiosa, sia sul piano della storia civile italiana49, restano in piedi due elementi fortissimi di perplessità: ossia, la profonda varietà di situazioni e di comportamenti dei singoli Stati italiani, che non impedisce un discorso peninsulare unitario, ma ne delimita strettamente ambiti e portata; e il fatto che né la storia della Chiesa, né quella civile e religiosa degli Italiani procedono per tanti secoli in linea retta e univoca, bensì secondo fasi diverse, fratture, incertezze, ritorni, contraddizioni, alternanze, crisi, rinnovamenti, trasformazioni, che sono la sostanza stessa del processo storico.
Proprio la storia del Mezzogiorno contraddice non poco quella visione. Essa fu, infatti, innanzitutto, una lunga storia di perenni contrasti giurisdizionali con Roma, tanto da attenuare non poco l’imputazione del Giannone al governo spagnolo di aver tollerato nel Mezzogiorno un potere ecclesiastico maggiore che in Spagna e negli altri paesi europei. E anche nel Mezzogiorno il presunto monopolio ecclesiastico non impedì fasi e sviluppi riformatori, che nel secolo XVIII (primo periodo borbonico) e nel XIX (decennio francese e Italia unita dopo il 1860) portarono a secolarizzazioni e ad altri fenomeni ben lontani dall’attestare la presunta monarchia papale sull’Italia moderna. E ciò senza contare che la stessa struttura delle chiese meridionali, per tanta parte ricettizie e private, anche a prescindere da come se ne valuti e se ne giudichi il ruolo, non era tale da agevolare questa monarchia50. Tuttavia, fra lo spirito di Trento e la religiosità meridionale si realizzò nel giro di qualche decennio un incontro pieno, una solidarietà di spiriti e di forme che, a nostro avviso, hanno sostanzialmente conservato al Mezzogiorno l’impronta tridentina, superando le frontières de l’esprit tridentin et de l’idéal des Lumières nel secolo XVIII51, e fino, ‘grosso modo’, a metà del XX, e con effetti non solo nell’ambito ecclesiastico-religioso.
Delle ragioni di una tale consonanza può essere pretenzioso presumere di dare una rappresentazione sistematica o esauriente, univoca e apodittica. Certamente, però, è possibile dire che la parte dottrinale, di precisazione e definizione teologica, dogmatica, la parte che fu riassunta nel Credo, non fu quella che più agì sullo spirito e nella realtà del Mezzogiorno. La parte che, invece, agì con maggiore incidenza fu certamente quella disciplinare, precettistica, di regolamentazione della vita religiosa e delle sue manifestazioni, riti, culti e devozioni, di normativa del comportamento quotidiano e liturgico del fedele, insomma la parte del più immediato vissuto religioso nella forma canonica della sua prassi ecclesiastica. Né questo ha il significato che di primo acchito potrebbe assumere. Non si tratta di una prevaricazione della dimensione comportamentale su quella della fede o della consapevolezza dei principi della fede. È, piuttosto, una realtà di fatto che – come più tardi sarebbe stato ben compreso nella grande azione pastorale di Alfonso Maria de’ Liguori – «il popolo era già in possesso della fede, benché conoscesse solo sommariamente la dottrina cattolica»52.
Era un po’ come nella già richiamata occasione dei movimenti religiosi ed ereticali di due, tre secoli prima. Il cristianesimo cattolico del Mezzogiorno si era, infatti, ormai fissato come fede con le sue certezze di principio: il peccato originale, i dieci comandamenti, la missione e passione redentrice del Cristo, la Chiesa come casa e maestra del popolo cristiano, l’assoluta coincidenza fra la morale cristiana e la virtù e il bene dell’uomo, la vita terrena come passaggio meno importante della sua prosecuzione ultraterrena, il giudizio universale e i suoi finali premi e castighi, e poco altro. Questo in forma elementare e schematica era il contenuto della fede, la materia di fede: non molto diversamente – è lecito pensare – da quanto accadeva anche altrove. Il problema religioso più sentito era, quindi, quello del comportamento del fedele, della condotta cristiana, dell’osservanza della disciplina di pietà e di virtù cristiana regolata dalla Chiesa, che era l’emergenza massima e indiscutibile, il culmine eminente e sovrano del panorama cristiano. La disciplina tridentina e l’attuazione della riforme conciliari dovevano, quindi, costituire, per così dire, fatalmente il centro di gravitazione dell’impatto del concilio Tridentino sul Mezzogiorno. E così, infatti, fu.
Ciò ha fatto molto spesso parlare in vario modo di un’azione di evangelizzazione nel Mezzogiorno da parte della Chiesa dopo Trento, che si sarebbe trovata dinanzi agli ostacoli consolidati di un ambiente religioso ‘altro’ da quello che essa si trovò a gestire altrove. Intanto, si dice, dopo Trento non meno e, in realtà, ancora di più che prima di Trento la Chiesa si trovò di fronte un laicato tenacemente chiuso nelle sue tradizioni e fossilizzazioni ‘pagane’, in sopravvivenze precristiane, fra cui una supposta predominanza del magico. Per ciò, si dice, i vescovi dovettero combattere fin troppo spesso una difficile battaglia per affermare gli autentici valori della fede e della prassi cristiana, e ciò anche nei riguardi dello stesso clero al quale essi vescovi erano preposti53.
Da ciò avrebbe tratto origine una supposta molto minore o distorta penetrazione e azione della riforma tridentina nel cattolicesimo del Mezzogiorno. Ne sarebbe derivata, in conclusione, una minore densità di interessi dottrinali e teologici nel clero e nella cultura cattolica del Mezzogiorno rispetto alla ricchezza di quelli di altre parti dell’Italia: una minore densità congiunta e conforme a un asserito netto prevalervi della vita religiosa come prassi, come culti e riti, come ‘vissuto’, anziché come coscienza o consapevolezza di dottrina e di fede, e ciò perfino nel modo di esprimersi in materie religiose, sia pure di più generale natura. Per di più, la Chiesa si sarebbe trovata di fronte a una diffusione larghissima di chiese private o ricettizie (la ricettizia era una corporazione o fondazione ecclesiastica, riconosciuta come persona giuridica, formata da un collegio di preti con funzioni pastorali e di culto, e dotata di un patrimonio comune da essi amministrato, e le cui rendite si ripartivano proporzionalmente fra i membri del collegio)54. Si sarebbe, perciò, trovata stretta in un giro di pressioni fuorvianti e depotenzianti della sua azione religiosa, subendo la prevalenza di interessi particolaristici e profani nel concreto della vita ecclesiastico-religiosa, nella sua realtà materiale e quotidiana di prassi, oltre che di culto e di fede. Senza contare, infine, che per gli accordi fra Stato e Chiesa molti episcopi e abbazie o altri istituti religiosi erano, come si è già notato, di presentazione regia, ed erano perciò scelti dall’autorità laica, e quindi con un’interferenza laica nella gerarchia e nella vita ecclesiastica, che non poteva mancare di avere i suoi effetti. A sua volta, un’ulteriore complicazione doveva provenire dal fatto che il ‘laicismo borghese’ (come si ama spesso definirlo), che si suppone tipico del Mezzogiorno, era lontano dal limitarsi alla questione giurisdizionale e venne investendo materie sempre più ampie di tradizionale competenza ecclesiastica.
Tutta questa serie di argomentazioni non manca – è superfluo dirlo – di vari elementi di fondatezza, ma nel suo significato complessivo appare irricevibile. Prescindiamo, intanto, dal fatto che interessi teologici e dottrinari furono largamente coltivati anche nel Mezzogiorno e con sostanziale continuità, e ne vennero fuori, tra gli altri, il Seripando, teologo in posizione eminente nel concilio di Trento, e il de’ Liguori, teologo tanto autorevole da essere proclamato doctor Ecclesiae; e prescindiamo anche dalle grandi discussioni del secolo XVII e XVIII su quietismo, giansenismo e altre questioni, di cui Napoli fu un teatro importante. Non si può, però, mancare di notare che ancora a metà del secolo XVIII un ecclesiastico come il Genovesi si trovò in urto con l’arcivescovo cardinale Spinelli proprio per le sue posizioni teologiche, e l’elencazione potrebbe proseguire55. È vero, invece, che il vissuto fu indubbiamente una dimensione dominante nell’esperienza cristiana del Mezzogiorno, e abbiamo già detto che l’elemento tridentino che qui più agì fu quello della precettistica, della normativa rituale e liturgica, e, appunto, del vissuto di più immediata e generale esperienza. Ed è vero, comunque, che il risultato istituzionale massimo di Trento – ossia l’imposizione da parte della Chiesa di una sua autorità disciplinare, di una sua più salda struttura gerarchica e centralizzata, di un suo potere di intervento fino alle più lontane periferie di molto maggiore che nell’età pretridentina – fu raggiunto appieno anche nel Mezzogiorno, dove la Chiesa, non meno, e per alcuni aspetti più che altrove, fu dopo Trento molto più forte e autoritaria che prima.
Non meno importante, e sotto certi aspetti ancor più importante, fu che a Trento la santità venisse indicata, come è noto, quale massimo ideale etico e religioso del cristiano. Sul terreno della santità il cristianesimo del Mezzogiorno aveva trovato, infatti, un suo canale elaborativo ed espressivo tra i più importanti, e nello stesso tempo autonomo e particolare, sia rispetto alle tradizioni greco-orientali, alle quali fu legato, come si è visto, sia rispetto ad altri modi dell’area cattolica. L’impulso tridentino in tale direzione cadde, quindi, qui su un terreno fertile e predisposto, e non sorprende, perciò, che proprio in epoca tridentina il senso meridionale della santità abbia raggiunto la sua più piena maturità.
Quali ne sono i pilastri?
Spicca, innanzitutto l’identificazione praticamente completa fra santo e sacro, per cui la sacralità non vive che come santità, e anche la religione e la Chiesa fanno del santo la via privilegiata di comunicazione con il sacro. Parlare, in questo caso, di pantheon, nel quale alla figura divina si associano innumerevoli figure di dei, magari minori, porta del tutto fuori strada. La distinzione tra la divinità e la santità è assolutamente fuori discussione, e il relativo salto di qualità è da sempre bene avvertito. Si può anche sostenere, semmai, che la nozione di Dio è molto più chiara e sentita che non quella della Trinità, oppure, addirittura, che Gesù figlio di Dio sia generalmente la persona della Trinità più nettamente e confidenzialmente percepita attraverso l’identificazione con la figura del Redentore e del Cristo e grazie alla costruzione del ciclo liturgico intorno alla rievocazione della sua nascita, passione, morte e resurrezione, che scandisce anche la vita devota dei fedeli. La stessa figura di Maria si presenta con i tratti di una santità eccezionale per la sua eccellenza e singolarità, ma il suo appellativo di s. Maria, s. Vergine è rivelatore. In definitiva, divinità, sacralità, santità sembrano disporsi in un grande insieme unitario, in cui non mancano, anzi sono ricorrenti articolazioni e distinzioni, ma anche c’è una sostanziale omogeneità che si traduce in un idem sentire religioso, fatto sempre salvo – occorre, però, aggiungere – il livello della divinità (qualche modo di dire dialettale lo dice con pittoresca efficacia, come nel napoletano ‘Dio lo sa, e la Madonna lo vede’, per indicare che una verità oppure qualcosa di negativo o di sofferenza o di grande difficoltà è innegabile, anche se non è noto che agli interessati: dove la distinzione tra il sapere di Dio e il vedere della Madonna, tra scienza e visione, è, a suo modo, molto eloquente)56.
Il rapporto del fedele con la sfera del sacro-santo si fonda su questi presupposti. Non è mai un rapporto generico. Nessuna festività religiosa si può dire qui meno sentita di quella di Ognissanti57. Questa santità collettiva non risponde, infatti, in nessun modo al carattere assolutamente personale che per il fedele ha e deve avere il suo rapporto con il sacro-santo. Si concepisce la collettività dei defunti, delle anime del purgatorio (per le quali vi è, infatti, un vero e proprio culto), ma perché questa collettività esprime uno stato transitorio, che è anche la speranza del popolo dei peccatori. La santità è altro: è una specificazione personale che può riguardare soltanto l’individualità santificata e proclamata per tale58.
Una implicazione o complemento fondamentale di ciò è che l’idea del santo si identifica con la sua immagine, e culto del santo e culto delle immagini fanno un tutt’uno indistinguibile. Forse nessun altro punto fa intendere quanto la latinizzazione di cui abbiamo parlato abbia profondamente segnato il Mezzogiorno cristiano, allontanandolo da implicazioni non secondarie della plurisecolare appartenenza di una sua gran parte all’area cristiano-orientale. Anche a questo proposito è facile risolvere il culto delle immagini in una sorta di idolatria, di materialismo o materialità della sfera del sacro-santo e dei rapporti con essa. Al contrario: materialità di raffigurazioni, realismo antropomorfico di quei rapporti e altri elementi di ordine ritenuto poco o per nulla spirituale non escludono affatto spiritualità o delicatezze o raffinatezze nell’immagine del divino. Sono, insomma, solo il bisogno e la ricerca di concretezza e di immediatezza del rapporto a governare la modulazione di quell’immagine, non già una sollecitazione nel senso di una pura e semplice fisicità. Solo le presenze e le forze del mondo qualificato e sentito come magico sfuggono a questa tipologia di rapporto, a dimostrazione ulteriore della chiara percezione di ciò che rientra e di ciò che non rientra nell’autentico ordine della ragione cristiana, anche se quelle forze e presenze (spiriti, fantasmi, il demonio stesso) sono in qualche modo in rapporto con la sfera del religioso59.
Alla sfera del sacro-santo, così distinta e sentita, e culminante nel divino, vengono peraltro attribuite qualità fondamentali nella fisionomia religiosa del Mezzogiorno: la potenza, cioè, e la libertà di operare fuori e al di sopra dell’ordine naturale delle cose e delle forze del bene e del male che in tale ordine regolano la vita del mondo e degli uomini. Il santo può fare, se vuole, miracoli. La fiducia in questa potenza e libertà è il presupposto della fede profonda che si nutre nella possibilità, anche frequente, di miracoli e di prodigi. Ed è anche in ciò la ragione di una caratteristica importante del santo, che non è qui l’intercessore delle grazie divine per cui si ottengono i miracoli, bensì il diretto operatore egli stesso di grazie e miracoli. La dimensione taumaturgica è, perciò, essenziale nel santo, e determina una netta prevalenza del ‘santo miracolante’ sul ‘santo edificante’. Essa giustifica non solo l’estrema personalizzazione del rapporto con il santo, ma anche la dimensione contrattuale che questo rapporto assume, a cominciare dal voto, nelle forme più varie e imprevedibili, con un da ut dem, spontaneo, ma stabilito in anticipo, che affianca o si pone in alternativa con il tradizionale do ut des. Uguale, a sua volta, è il fondamento della specializzazione taumaturgica che viene attribuita al santo, distinguendo e individuando i campi in cui con la sua azione taumaturgica egli è più propriamente a suo agio. Uguale, ancora, è il fondamento della territorialità del santo, che, insieme con la fiducia nella sua specializzazione taumaturgica, si esprime nelle dedicazioni e nelle consacrazioni degli innumerevoli centri abitati o loro frazioni e quartieri, dei luoghi di culto dalle cappelle sparse per il territorio alle grandi basiliche e alle cappelle al loro interno, nonché di confraternite e associazioni, che definiscono la sfera territoriale della sua attività e del suo intervento60.
Il protagonismo del santo è nel sentire, nelle devozioni, nei culti, nell’immaginario religioso del Mezzogiorno. La devozione per l’angelo custode, che la Chiesa coltiva e ripropone assiduamente nella sua azione pastorale, non riesce mai ad attecchire oltre certi limiti molto ridotti. È, invece, evidente il ruolo eminente riservato alla santità femminile, poco corrispondente all’effettivo ruolo delle donne nella società e nella ideologia dominanti in generale, e anche dal punto di vista religioso61, che si risolve in una piena parità del loro sesso nella gloria della santità. Per Maria lo si nota, ovviamente, ancora di più, data la già notata singolarità della sua figura. La sua generale preminenza è tale da superare anche la frequenza delle prassi cultuali per Gesù. Quando il maggio sarà proclamato ‘mese di Maria’ e il giugno, poi, ‘mese del Sacro Cuore di Gesù’, la differente affluenza e sensibilità dei fedeli alle devozioni dei due mesi lo confermerà ampiamente. Peraltro, quanto a Gesù, un certo incremento effettivo e notevole del culto si ha sotto la specie di Gesù Salvatore, che ha un’ampia ripercussione anche nell’onomastica meridionale: elemento, anch’esso, ancora una volta, da considerare significativo, poiché la salvazione rientra appieno nella logica sopra indicata della concretezza di riferimenti che assume elettivamente il rapporto con la santità.
Anche per la parte della santità femminile, e in particolare per il culto mariano, è stata spesso affacciata la tesi per cui si riverberano qui antichi culti mediterranei, specie orientali, se proprio non si finisce a richiamare quello della più trita e convenzionale Grande Madre, supposto cardine onnipresente di un’originaria, ancestrale religiosità mediterranea62. E anche in questo caso bisogna ribadire che – persistenze o non persistenze precristiane – l’affermazione della santità femminile in età moderna viene fuori dalla lunga maturazione ed elaborazione svoltesi in tal senso fin dai primi tempi del cristianesimo, per cui è nel cristianesimo stesso che bisogna vedere la radice di quell’affermazione. Criterio generale che vale, ovviamente, per tanti altri casi di pretese sopravvivenze o adattamenti di cose antiche nella nuova religione (e a parte anche il fatto che la stessa cristianizzazione avrebbe in ogni caso un fortissimo valore attivo e innovativo, ben lontano dalle passive o meccaniche continuità a cui così spesso si pensa).
Proprio nella pietà tridentina il culto mariano venne, peraltro, fortemente innovato con la sua connessione a quello della Sacra Famiglia e di s. Giuseppe, che comportavano forti riferimenti a valori ideologici e sociali largamente presenti nel Mezzogiorno, come quello della famiglia quale cellula o nucleo fondamentale del tessuto sociale e civile, e quello della formale patriarcalità della famiglia stessa. Fu, in un certo senso, il definitivo coronamento, l’ultima tappa della latinizzazione: il momento in cui si persero, ormai, in effetti, di forza e di frequenza di riferimento le antiche tradizioni di ascendenza orientale-bizantina. Allora devozioni, culto, iconografia assunsero nella vita dei cattolici meridionali una mai più disdetta fisionomia manieristica, tridentina, canonica, mentre gli elementi e le tradizioni neotestamentarie e canoniche prevalsero appieno e duraturamente rispetto agli elementi e alle tradizioni veterotestamentarie e canoniche.
La moltiplicazione delle canonizzazioni di santi, beati e servi di Dio che si ebbe dopo Trento non fece che rafforzare notevolmente tutto ciò. L’azione promotrice e, insieme, disciplinatrice della Chiesa in tale direzione fu intensissima, e rafforzò non di poco la già richiamata consonanza postridentina del sentimento cattolico meridionale. Neppure quella intensa azione e il tanto maggiore potere e forza della Chiesa postridentina valsero, però, a mettere strettamente sui binari previsti a Trento, o successivamente definiti, il processo di formazione e di riconoscimento della fama di santità. L’iniziativa e, soprattutto, la pressione popolare furono per questo verso sempre vive, e molto spesso efficaci o determinanti.
L’azione della Chiesa valse, tuttavia, a introdurre una certa omogeneità rispetto alle fisionomie originariamente molto differenziate per genesi e caratteristiche delle figure dei santi, e a delimitarne con maggiore chiarezza l’originario campo settoriale e/o territoriale della fama e del riconoscimento della santità. Da sottolineare è anche la dialettica che in tutto ciò si manifesta fra la tendenza popolare a privilegiare l’aspetto della santità miracolante rispetto a quella edificante e l’opposta tendenza ecclesiastica, pur nella più che frequente tendenza della Chiesa a non contrastare e a promuovere essa stessa la devozione taumaturgica. La Chiesa meridionale è stata, anzi, in tal senso, indubbiamente ancor più attiva che altrove, e la sua iniziativa di promozione della santità è stata tale da determinare molto frequentemente una concorrenza, anche aspra, fra i singoli centri ecclesiastici (diocesi, ordini religiosi, chiese, cappelle, confraternite, monasteri, conventi ecc.) promotori della santificazione o coinvolti in essa.
La divergenza fra componente taumaturgica e componente etica della santità coinvolge, del resto, questioni teologiche più gravi di quanto non appaia di primo acchito. È indubbiamente troppo affermare che quello che si stabilisce a Trento è un cristianesimo inteso soprattutto, o soltanto, come «disciplina ecclesiastica» e «sana amministrazione dei carismi sacramentali nella ortodossia romana»63. Che questa sia una dimensione effettiva e cospicua del progetto cristiano varato a Trento è, invece, indubbio; e in tale dimensione rientra anche una certa storicizzazione del peccato, nel senso che esso viene legato alla vicenda del peccato originale, e non già a una congenita struttura del’umano, a un «qualcosa di irriducibilmente antidivino, cioè satanico»64.
Nel Mezzogiorno questa teologia, per così dire, della storicità del peccato non porta a un alleviamento dei tratti ascetici, mistici, antimondani con cui il rapporto fra l’uomo e il mondo viene presentato. E questo perché nel Mezzogiorno più che altrove l’impronta del peccato è una dimensione cristiana forse più sentita che altrove, non nei tratti di una drammatica e disperante metafisica e antropologia, bensì nel senso dell’angolazione fortemente personale che viene conferita all’esperienza religiosa. Effetto della disgregazione sociale e della carenza di forti sentimenti comunitari proprie del Mezzogiorno? Diciamo piuttosto che agisce anche qui quel bisogno innanzitutto morale e religioso di certezza e di esperienza individuale del proprio vissuto e delle sue implicazioni di ogni genere, già manifesto nella personalizzazione del rapporto con il sacro-santo, fino addirittura alla contrattualizzazione di tale rapporto. Che è, a suo modo, un potenziamento anche psico-sociale di tale rapporto non perché porti, al di là di limiti, piuttosto ristretti, a una esperienza religiosa comunitaria, bensì perché rende parallele le esperienze dei singoli fedeli, e in questo parallelismo è il vero senso del loro ritrovarsi in comune, nella parrocchia, nel villaggio o città o altrimenti.
Il temperato umanesimo (rispetto a quella protestante) della religiosità tridentina ne viene sostanzialmente trasfigurato in una teo-antropologia tanto semplice, popolare quanto drammatica e afflittiva del peccato e delle relative punizioni nella vita terrena e oltre, che implica elementi psicologici e comportamentali, morali e religiosi, quali l’esaltazione della necessità di reprimere gli appetiti carnali e terreni, la rassegnazione a ciò che accade (modificabile solo con grazie e miracoli), il terrore dell’inferno, l’osservanza dei precetti ecclesiastici e dell’autorità della Chiesa, la necessità di opere richieste dalla fede nella salvezza (‘fioretti’, offerte, impegni e voti ecc.), e pochi altri punti correlati (o non) con questi. Neppure qui c’entra la presunta materialità del sentimento religioso di cui si ama spesso parlare a proposito della religiosità meridionale. Semmai, ed è già problematico l’affermarlo, c’entrano i tratti di una società povera, che esperimenta quotidianamente fame, fatica, dipendenze morali e sociali, elementarità di bisogni e di orizzonti e precarietà esistenziale, e che rovescia questi tratti in elementi di un riscatto, in vista del quale la materializzazione dei comportamenti e delle opere da praticare conferisce un senso ravvivante e rassicurante di concretezza e di praticabilità anche nella maggiore depressione sociale e personale. D’onde anche moltissimi elementi innovativi nella rappresentazione narrativa e iconografica del santo, oltre a molte trasformazioni o adattamenti delle tipizzazioni pretridentine.
A loro volta, gli aspetti trionfalistici della santità (l’aureola, l’esaltazione della potenza, la gloria del paradiso, gli onori degli altari, e così via) non configurano solo una certa contraddittorietà con le preoccupazioni etiche ed edificanti delle dottrine tridentine. La loro connessione con la netta preferenza accordata nel Mezzogiorno alla componente taumaturgica della santità, sana, però, nella religiosità meridionale, l’eventuale rilievo della contraddittorietà. Ne esce, perciò, rafforzata la complessità di un mondo e di uno spirito religioso, le cui particolarità o originalità non escono affatto dal contesto dell’esperienza cristiana dell’Europa medievale e moderna, e che il passaggio tridentino appare aver consolidato e ulteriormente sollecitato e promosso, quali che siano le forme e i momenti del rapporto fra Chiesa e popolo cristiano del Mezzogiorno.
Il filo rosso del tema della santità si rivela, dunque, come si vede, una buona guida a intendere spiriti e forme, atteggiamenti e sviluppi della vita cristiana nel Mezzogiorno e delle parti rispettive al riguardo di clero e fedeli. Sulla base di queste premesse il controllo molto più forte che dopo Trento la Chiesa si riserva sulle proclamazioni di santità ha una importanza, a sua volta, determinante, nonostante la già segnalata forza e costanza delle iniziative dal basso o dalla periferia nello stesso senso65. Che un culto o una devozione abbia il riconoscimento di Roma non solo diventa indispensabile, ma orienta a priori il modo di coltivare e di presentare le virtù e i comportamenti per cui il riconoscimento è richiesto. E le conseguenze di ciò non si limitano a questo. È evidente che la gerarchia antepone senz’altro l’ortodossia delle credenze e delle procedure secondo i suoi schemi e i suoi dettami all’autenticità cristiana, il controllo allo sviluppo della vita cristiana, la sicurezza del già noto e del già fatto alle novità e all’alea di incertezza o di imprevedibilità che esse comportano. Se ne ha una riprova nella «stasi liturgica [dei] tre secoli che vanno dal 1614 alle riforme attuate sotto Pio X»66.
Che ne venga anche approfondita, non superata la frattura già medievale tra liturgia e fedeli, facendo della stessa liturgia «una cosa riservata al clero [e] sentita e seguita dal popolo solo nel suo aspetto particolare»67, è, a questo punto, un’affermazione comprensibile, ma in qualche modo azzardata. È vero che i riti celebrati dal clero tendono a dare «la coscienza di un grande mistero accompagnata dalla volontà di adorazione»68. La partecipazione popolare non è, però, vincolabile e limitabile soltanto a questa dimensione della liturgia voluta e amministrata dalla Chiesa. La partecipazione popolare ai riti è animata nel profondo dalle certezze di una fede accettata a prescindere e al di là delle cerimonie cultuali alle quali si assiste, magari come profanum vulgus, e sia a parte obiecti (il popolo presente) che a parte subiecti (il clero monopolizzatore e ministro del rito), questo è dato per scontato, è il presupposto ovvio e indiscusso della prassi rituale. Il sacerdote che parla in latino e volge la schiena ai fedeli non è affatto meno seguito, e soprattutto, non è affatto meno inteso, per il senso dei riti che celebra, di quanto lo sia il sacerdote che, secoli dopo, guarda in faccia ai fedeli e parla nella loro lingua. Pensare diversamente sarebbe quasi un offendere la humanitas e la pietas cristiana dei milioni e milioni di vecchietti e vecchiette, umilissimi e rozzi e ignoranti contadini e popolani, che, a non parlare dei ‘signori’ e dei ‘borghesi’ di pari sentire, per secoli (nel Mezzogiorno e altrove) hanno affollato chiese e luoghi di culto a quel modo, e che erano cristiani del tutto consapevoli, nel loro modo quanto si voglia elementare o distorto, del senso fondamentale della liturgia alla quale partecipavano. Non c’è, infatti, un momento storico determinato specifico, in cui «la religione dei poveri diventa quella di tutti i cattolici», e addirittura ci si avvia «verso una nuova religione»69: in varie maniere e misure, e per l’uno o per l’altro aspetto, è sempre stato così; e tra religione dei poveri e religione dei non poveri non sembra esserci mai stata più di una minoritaria differenza, quando c’è stata, derivante dalla stratificazione sociale e culturale del popolo dei fedeli.
In altri termini, la frattura cerimoniale, linguistica, funzionale tra clero e fedeli ha un fortissimo valore gerarchico-istituzionale, ma minore valore religioso di quanto si pensi. È un errore, perciò, ritenere che l’essenza della vita cristiana del popolo cristiano vada ora ricercato soltanto nelle «pratiche di pietà comprensibili» alla gente, la cui sensibilità rimane lontana dalle «celebrazioni liturgiche ufficiali», sicché quelle «pratiche» sono, perciò, più seguite e partecipate, anche grazie a organismi come, ad esempio, le confraternite, che toccano ora il massimo delle loro fortune70.
Nell’insieme di queste «pratiche» si fissano, comunque, specialmente nel corso del secolo XVI, moduli, prassi e oggetti della «religione vissuta» del Mezzogiorno: pellegrinaggi e processioni; culto delle reliquie più discutibili di santi talora inventati; ricerca delle indulgenze; uso dei sacramenti con confessioni e comunioni frequentissime; calcolo del minimo dei precetti e di norme da osservare; partecipazione alle missioni popolari e ad altre iniziative similari; festività e celebrazioni innumerevoli; esorcizzazioni e benedizioni di ogni genere; pompa e splendore delle funzioni liturgiche; medaglie e medagliette, ‘santini’ e ‘abitini’, figurine e piccoli testi come talismani, premi, tessere di identità cristiana; ritualizzazione della genuflessione, delle giaculatorie, del segnarsi con la croce, o di altri gesti e formule equivalenti, nelle più disparate e convenzionali occasioni; fiori e canzoncine o altre offerte o modi di esprimersi nello stesso senso; connotazione sempre più palesemente gerarchica del rapporto tra clero e fedeli con accentuate manifestazioni di ossequio da parte dei secondi nei confronti del primo. Grazie a queste pratiche un’impronta compiutamente ‘confessionale’ si stende sul modo cattolico di vivere il cristianesimo. D’altra parte, però, è anche grazie ad esse che si è potuto affermare che la Chiesa abbia fatto allora «del proprio magistero una tradizione raccomandata unicamente alla forza di inerzia», e, inoltre, che «molta della superstizione [sopravvissuta fino al secolo XX] ebbe nel periodo barocco una sua forma religiosa». Non per nulla, del resto, già nel secolo XVII Giulio Cesare Capaccio, conoscitore autorevolissimo della realtà napoletana di allora, parlava della «religione superstitiosa di Napolitani» nell’antichità, «quanto però [diceva] differente dalla moderna»71, ma destando la chiara impressione che a suo avviso di quella tanto diversa religione antica molto fosse ancora vivo in quella moderna, e che perciò egli ne parlasse diffusamente.
Il punto essenziale è, peraltro, qui: e, cioè, nella certezza sentita e convinta della gerarchia che questa impronta data alla vita religiosa fosse la realizzazione del vero spirito cristiano, la autentica coltivazione della «vigna del Signore», mentre per il popolo dei fedeli meridionali tutto ciò segnava una via più comprensibile e familiare nel sentirsi e dimostrarsi buoni cristiani.
Questo reciproco incontrarsi e consentire non permette di accettare una qualsiasi versione e visone rigida e schematica del presunto dualismo che darebbe al cristianesimo e alla cattolicità del Mezzogiorno tratti direttamente opposti a quelli ritenuti non solo diversi, ma superiori, e più autenticamente cristiani, di altre regioni d’Italia e d’Europa, secondo le visioni polemiche di protestanti, laici razionalisti, cattolici rigoristi, ma anche di studiosi e scrittori di rilievo (si pensi in Italia a Carlo Levi, Ernesto De Martino, Gabriele De Rosa)72 per i quali superstizioni di ogni genere, fortissime sopravvivenze pagane, profonde inclinazioni alla magia, una materialità carnale e palese, «belle devozioni»73, una contrapposizione al clero ‘evangelizzatore’ da parte di un corpus christianum riluttante e diversamente orientato e vocato, e altre simili note costituiscono la cifra autentica e isolante del cristianesimo meridionale nello stesso contesto cristiano. La realtà è molto più complessa: il Mezzogiorno non è tanto ‘meridionale’ quanto si pensa; la sua partecipazione all’esperienza cristiana dell’Europa non è affatto così eterogenea e particolare o marginale come sembra; il suo non è per nulla quella sorta di ‘cristianesimo pagano’, alla quale si è soliti pensare; l‘azione controriformistica della Chiesa appare nel Mezzogiorno sostanzialmente omogenea a quella condotta altrove, e sostanzialmente omogenee appaiono pure l’azione del clero e la prassi religiosa dei laici, a parte, naturalmente, i problemi di disciplinamento e di buona condotta che si possono presentare ovunque, e che per varie ragioni possono apparire nel Mezzogiorno più frequenti o più acuti, e ai quali, come ovunque, anche qui sono destinate missioni, predicazioni, cicli di preghiere e di devozioni, che costituiscono una gran parte della forma religiosa propria della Chiesa postridentina.
Le relazioni dell’episcopato postridentino, che insistono più che spesso sui cattivi o pessimi costumi del gregge a esso affidato, vanno realisticamente intese come prospettazioni sia di un dover essere ancorato a condizioni storiche particolari, sia di consapevolezza del compito a cui il concilio Tridentino, con riforme tra le sue maggiori, aveva richiamato e stabilito come proprio del vescovo. Ciò non valse a rendere l’episcopato meridionale più intensamente ed esemplarmente cristiano. Dal Mezzogiorno non venne nei secoli XVI e XVII nessun modello di santità episcopale comparabile, ad esempio, al grande modello borromaico in Lombardia. Le diocesi meridionali erano poco desiderate per la loro frequente scarsezza di redditi ed esiguità geografica e demografica. Ma l’episcopato meridionale, così come il laicato, fu dopo Trento alquanto meglio formato ed efficace di prima; e altrettanto, sostanzialmente, si dica del clero regolare. L’analisi storica spinge a ritenere che il clero si fece allora anche più dentro il popolo, e il popolo a sua volta più dentro la Chiesa. Perfino i contrasti e le sinergie fra autorità laiche ed ecclesiastiche non sono tutti riducibili a questioni di potere e di giurisdizione. Ed è per ciò che si spiega il forte radicamento tridentino nel Mezzogiorno, al punto da potersi considerare questo radicamento come un tratto identitario del paese e della gente meridionale fra i maggiori, sul cui sfondo si staglia la storia, non meno rilevante, delle idee e della religiosità laica, che nel Mezzogiorno ebbe spesso espressioni tanto socialmente limitate quanto rilevanti nella vita morale dell’Italia e dell’Europa.
Gli eventi e i processi posteriori fino alla metà quasi del secolo XX non hanno sostanzialmente modificato, come già abbiamo notato, la facies e la sostanza del cattolicesimo meridionale. Non che questo sia rimasto immobile e come paralizzato all’interno delle linee da noi esposte. Le strutture più tipiche delle particolarità meridionali continuarono a lungo nelle loro storiche e antiche caratteristiche: chiese ricettizie finché vi furono, confraternite, luoghi pii, parrocchie, un clero pletorico e al tempo stesso insufficiente e inefficiente rispetto ai suoi compiti più propriamente religiosi e pastorali. Anche sul piano della vita morale e delle idee si è potuto vedere nella vicenda meridionale una tipica storia di resistenze mentali che si contrappongono ugualmente, a non parlare di altro, alle più forti sollecitazioni di istituzioni e governi in vari campi della vita civile, oltre che in quello del quale parliamo. Da tutto ciò, comunque, appare pure condizionato in senso limitativo lo sviluppo del moderno associazionismo cattolico sia sul piano politico che sul piano sociale e culturale74. Lo stesso modernismo, ossia il movimento più significativo nel quadro cattolico agli inizi del secolo XX, ebbe nel Mezzogiorno riflessi di gran lunga più deboli che altrove75. La vita religiosa proseguì certamente fervida, qui come altrove, anche in regime tridentino, con variazioni e innovazioni, episodi e movimenti, lente accumulazioni e più o meno repentine manifestazioni, che meriterebbero una storicizzazione molto più specifica, approfondita e particolareggiata di quanto finora non sia solito accadere76. L’impronta tridentina appare, però, così performativa, sistematica e, comunque, in certo qual modo, rivelatrice e consentanea da aver fornito al cattolicesimo meridionale più che ad altri un luogo eminente di incontro, di manifestazione e di espressione, che in effetti solo il rinnovamento cattolico dichiarato con il concilio Vaticano II e la grande ventata secolarizzante e globalizzante del cosiddetto mondo postmoderno hanno potuto realmente, se non proprio, e del tutto, disarticolare, almeno mettere in crisi o aprire a nuove versioni e a nuove esperienze.
I punti sui quali ci siamo soffermati possono portare, a nostro avviso, a notevoli vantaggi sul piano interpretativo come su quello della ricerca in materia di storia religiosa (cristiana) del Mezzogiorno. Consentirebbero anche di evitare i molteplici inconvenienti euristici e critici della tendenza che nell’azione della Chiesa postridentina (per non parlare di quella pretridentina) sembra vedere meno del dovuto su alcuni piani (come ad esempio quello della sua invadenza giurisdizionale e della sua rilevanza e attività patrimoniale), e alquanto di più del dovuto sul piano del disciplinamento e della funzione ‘nazionale’ che sarebbe stata svolta dopo Trento dalla stessa Chiesa. Porterebbero soprattutto a una molto più realistica e davvero ‘italiana’ visione della vita religiosa della penisola, che, in assenza di siffatti presupposti, sarebbe difficile conseguire. A condizione, peraltro, che non solo fosse dissolta l’immagine dualistica del cristianesimo italiano nei termini sopra esposti e contestati, ma fosse anche pienamente messa in rilievo e intesa nei suoi tratti differenziati e molteplici la realtà religiosa della restante Italia, sia prima che dopo Trento.
A questo riguardo potrebbe, anzi, essere utile notare che non si tratta soltanto di distinguere – tanto per fare un esempio – l’area veneta da quella lombarda o da quella toscana, oppure il giansenismo toscano da quello lombardo, o il tridentinismo borromaico da quello veneziano o romano. Si tratta anche di pervenire a livelli di studio insieme più minuti e più sganciati dai maggiori contesti regionali, né limitati soltanto al dominio del ‘religioso’, ma più calati nel quadro della vita civile e della relativa storia. Chi scrive è stato, ad esempio, sempre molto colpito – tanto per fare anche a questo proposito un esempio – dalla corrispondenza molto stretta, anche se per nulla rigorosa e puntuale, che ha creduto di notare tra le aree di diffusione delle eresie dei secoli XII-XIII e le aree di maggiore diffusione del socialismo italiano tra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX: una corrispondenza discutibile, ma, se confermata nei modi dovuti, certamente non trascurabile. Allo stesso modo risalta una frequente corrispondenza tra le zone e i milieux sociali di diffusione del più fine e colto giurisdizionalismo laico e del giansenismo e le zone e gli ambienti liberali di più fine ispirazione e cultura.
Tutto ciò si dice non per disconoscere quella che continua, e diremmo che debba continuare, a essere ritenuta la dimensione ‘nazionale’ italiana anche nel dominio del ‘religioso’, ma solo per renderla più realistica e articolata, con una migliore e maggiore aderenza a ciò che dicono le fonti e i ‘classici’ della cultura e della storia italiana, e anche a ciò che tutta l’esperienza della vita e della tradizione civile italiana suggerisce. E a patto, naturalmente, che a tutto quanto si è detto corrispondano una strategia e un’applicazione di studi conformi alla complessità e rilevanza del problema storico che si vuole affrontare.
Note
1 Ci limitiamo, in questa così come in tutte le note che seguono, a non più che a qualche indicazione di massima. Qui: La cristianizzazione in Italia tra tardoantico e altomedievo, Atti del IX Congresso nazionale di archeologia cristiana (Agrigento 2004), a cura di R.M. Carra, E. Vitale, Palermo 2007; G. Otranto, Per una storia dell’Italia tardo antica cristiana, Bari 2009.
2 Per l’essenziale al riguardo si vedano L. Cracco Ruggini, Economia e società nell’“Italia annonaria”. Rapporti fra agricoltura e commercio dal IV al VI secolo d.C., Milano 1961; L. Cantarelli, La diocesi italiciana da Diocleziano alla fine dell’impero occidentale, Roma 1964; A. Giardina, Le due Italie nella forma tarda dell’impero, in Società romana e impero tardoantico, a cura di A. Giardina, Bari 1986, pp. 1-30; Sicilia e Italia suburbicaria tra IV e VIII secolo, Atti del Convegno di studi (Catania 1989), a cura di S. Pricoco, F. Rizzo Nerva, T. Sardella, Soveria Mannelli 1991; L’Italia meridionale in età tardo antica, Atti del XXXVIII Convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto 1998), Napoli 2000.
3 Per tutte le tematiche relative alla storia politico-istituzionale ed ecclesiastico-religiosa del Mezzogiorno rinviamo in linea generale a: Storia di Napoli, a cura di E. Pontieri, 11 voll., Napoli 1966-1981; Storia del Mezzogiorno, a cura di G. Galasso, R. Romeo, 15 voll., Roma 1986-1991; Storia della Sicilia, a cura di R. Romeo, 9 voll., Napoli-Palermo 1977-1981, nonché ai volumi dedicati alle stesse regioni in Storia d’Italia, a cura di G. Galasso, Torino 1979 segg.; G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, 6 voll., Torino 2007-2010. Per le questioni ecclesiastico-religiose cfr. Storia dell’Italia religiosa, a cura di G. De Rosa, T. Gregory, A. Vauchez, 3 voll., Roma-Bari 1993.
4 Cfr. G. Galasso, Potere e istituzioni in Italia dalla caduta dell’impero romano ai nostri giorni, Torino 1974, pp. 22 segg.
5 L’argomento è già ben definito in D. Abulafia, Le due Italie, prefazione di G. Galasso, Napoli 1991.
6 Cfr. G. Galasso, Gli insediamenti e il territorio, in Id., L’altra Europa. Per un’antropologia storica del Mezzogiorno d’Italia, Napoli 20093, pp. 21-70.
7 Sulle vicende dell’ebraismo nel Mezzogiorno, oltre A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino 1963, pp. 52-55, 67 segg., 83-91, 95-104, 184-197, 223-234 ecc., si veda specialmente D. Abulafia, Il Mezzogiorno peninsulare dai bizantini all’espulsione (1541), in Storia d’Italia. Annali, XIV, 1, a cura di C. Vivanti, Torino 1996, pp. 5-44.
8 Cfr. M. Santoro, La stampa a Napoli nel Quattrocento, Napoli 1984 (dove si vedano, nell’elenco di 294 titoli, pp. 87-156, i nn. 34, 35, 51-59, 122-123, 186, 201-202, 223, 254, 260, 263, 279 e 294). Per episodi di interferenze al riguardo si vedano i cenni in A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, cit., pp. 60 segg.
9 Si tratta di un in folio di 116 carte, di cui si conservano solo due esemplari, a Parma e a Oxford.
10 La questione si protraeva da secoli, e concerneva la configurazione della Trinità cristiana, per cui ci si chiedeva se lo Spirito Santo procedesse soltanto dal Padre, figura originaria della divinità, come voleva la Chiesa orientale, o anche dal Figlio, così messo sullo stesso piano del Padre nella struttura trinitaria. Dopo una fase di grande conflittualità per l’atteggiamento assunto dal patriarca di Costantinopoli a partire dall’867 contro il Filioque, alla fine papa Benedetto VIII acconsentì nel 1012 alla definitiva introduzione di quella clausola nella dottrina romana: preludio al definitivo scisma tra la Chiesa orientale e Roma nel 1054.
11 Per i papi del periodo indicato, si veda Enciclopedia dei Papi, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 3 voll., Roma 2000; oltre i profili dei singoli pontefici, M. Simonetti, L’età antica, ivi, I, pp. 5-46. Inoltre, per lo Stato della Chiesa e il Patrimonium Petri – oltre il classico L. Duchesne, I primi tempi dello Stato pontificio, introduzione di G. Miccoli, Torino 1967 – ci limitiamo a ricordare G. Arnaldi, Le origini dello Stato della Chiesa, Torino 1987; Th.F.X. Noble, La Repubblica di San Pietro. Nascita dello Stato pontificio (680-825), Genova 1998.
12 In una certa misura la problematica accennata nel testo si ritrova pure nelle pagine sul tema ‘due Italie’ in G. Cracco, Dai Longobardi ai Carolingi. I percorsi di una religione condizionata, in Storia dell’Italia religiosa, cit., I, pp. 124-132.
13 Così J.-M. Martin, L’ambiente longobardo, greco, islamico e normanno nell’Italia meridionale, in Storia dell’Italia religiosa, cit., I, p. 197.
14 Ibidem, pp. 204 segg., 211.
15 Per questi punti si veda G. Galasso, Gli insediamenti e il territorio, cit.
16 Conserva sempre il suo interesse S. Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanna, Napoli 1963. Per un più generale bilancio degli studi si veda F. Salvestrini, La più recente storiografia sul monachesimo italiano di età medievale (ca. 1984-2004), in Percorsi recenti degli studi medievali: contributi per una riflessione, a cura di A. Zorzi, Firenze 2008, pp. 69-95, cui segue, pp. 96-163, un’amplissima bibliografia, in cui per il monachesimo italo-greco si veda a pp. 124-126.
17 Per altre esemplificazioni a questo e ad altro proposito circa le «direzioni principali lungo le quali si sviluppa la costruzione della figura del santo» fino al secolo XIII si veda G. Galasso, Santi e santità, in L’altra Europa, cit., pp. 101-111; si rimanda inoltre ad A. Vauchez, Reliquie, santi e santuari, spazi sacri e vagabbondaggio religioso nel Medioevo, in Storia dell’Italia religiosa, cit., I, pp. 455-463. La specificità meridionale delle tematiche accennate nel testo e di altri aspetti di cui si dirà più avanti può forse prendere ancora maggiore rilievo se si vedono, ad esempio, le dotte pagine su «sviluppi del culto e delle credenze», in G. Tabacco, Il Cristianesimo latino altomedievale, in Storia del Cristianesimo, II, Il Medioevo, a cura di G. Filoramo, D. Menozzi, Roma-Bari 1997, pp. 36-63.
18 J.-M. Martin, L’ambiente longobardo, greco, cit., p. 221.
19 Ibidem.
20 Si veda, in generale, per un bilancio degli studi F. Salvestrini, La più recente storiografia sul monachesimo italiano di età medievale, cit., e, sulla bibliografia per Cluny, pp.122-124.
21 Cfr. E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, II, Milano 1942-1943, p. 406.
22 Cfr. in particolare Il santuario di s. Michele sul Gargano dal VI al IX secolo. Contributo alla storia della Longobardia meridionale, Atti del Convegno (Monte Sant’Angelo 1978), a cura di G. Carletti, G. Otranto, Bari 1980; G. Otranto, Genesi, caratteri e diffusione del culto micaelico del Gargano, in Culte et pèlerinages à saint Michel en Occident. Les trois Monts dédiés à l’Archange, Actes du Colloque (Cerisy-la-Salle 2000), éd. par P. Bouet, G. Otranto, A. Vauchez, Rome 2003, pp. 43-64; Id., Note sulla tipologia degli insediamenti micaelici nell’Europa medievale, in Culto e santuari di san Michele nell’Europa medievale, Atti del III Congresso internazionale di studi (Bari-Monte Sant’Angelo 2006), a cura di P. Bouet, G. Otranto, A. Vauchez, Bari 2007, pp. 385-415.
23 È il giudizio, ad esempio, di J.-M. Martin, L’ambiente longobardo, greco, cit., pp. 230-234.
24 Non sembri eccessivo notare che della latinizzazione nel senso in cui ne parliamo nel nostro testo non si ritrova ancora, nella pur vasta letteratura in materia, una ricostruzione sistematica e soddisfacente, benché in tutti gli studi sul Mezzogiorno religioso medievale temi e problemi afferenti all’argomento siano più che abbondanti. Ed è, probabilmente, proprio una stretta individuazione e tematizzazione di tale argomento a costituire il motivo più rilevante di questo desideratur.
25 Lo rilevava già nei suoi fondamentali studi degli inizi del secolo XX G. Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana (secoli XI-XIV), Roma 1997, p. 92: «a Roma le forze dell’eresia cominciano ad affievolirsi […]. Da Roma in giù ancora meno»; le stesse sopravvivenze di Catari in Calabria, molto combattute da Gioacchino da Fiore, «erano avanzi del passato, di una fase ormai superata dell’eresia medievale», mentre nel Sud «la nuova eresia poco vi attecchisce».
26 Cfr. E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, cit., II, pp. 433-434.
27 Cfr. le pagine dedicate al tema della città in G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, cit., I e VI.
28 Valga il rinvio a F. Salvestrini, La più recente storiografia sul monachesimo, cit., e all’annessa bibliografia.
29 Cfr. R. Rusconi, Da Costanza al Laterano. La «calcolata devozione» del ceto mercantile-borghese nell’Italia del Quattrocento, in Storia dell’Italia religiosa, cit., I, pp. 510 segg.
30 E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, cit., II, pp. 418, 404.
31 Ibidem, p. 433.
32 Ibidem, p. 421.
33 Ibidem, p. 427.
34 R. Rusconi, Da Costanza al Laterano, cit., p. 514.
35 Ibidem, p. 513.
36 Ibidem, p. 527.
37 Su Francesco di Paola si desidera sempre una biografia moderna di alto respiro. Nella non vastissima letteratura al riguardo – oltre il sempre utile F. Russo, Bibliografia di San Francesco di Paola, 2 voll., Roma 1957-1967 – segnaliamo E. Pontieri, Per la storia del regno di Ferrante d’Aragona. Studi e ricerche, Napoli 19692, pp. 420-438; A. Galluzzi, Origini dell’Ordine dei Minimi, Roma 1967; San Francesco di Paola. Chiesa e società del suo tempo, Atti del Convegno internazionale di studio (Paola 1983), Roma 1984; Fede, pietà, religiosità popolare e San Francesco di Paola, Atti del II Convegno internazionale di studio (Paola 1990), Roma 1992; G. Fiorini Morosini, Il carisma penitenziale di San Francesco di Paola e dell’Ordine dei Minimi. Storia e spiritualità, Roma 2000. Infine, si veda la parte dedicata al santo da R. Benvenuto, Dalle origini alla fine del Quattrocento, in Paola. Storia, cultura, economia, a cura di F. Mazza, Soveria Mannelli 1999, pp. 42-55.
38 Anche questo punto era ben chiarito da G. Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali, cit.: le «idee di Gioacchino si trasformano in senso eretico ed eccitano aspettative nuove, non tutte ortodosse, di una nuova età, non in Calabria e nel Mezzogiorno d’Italia, ma nel resto della penisola, in Francia ed in Germania». E non è superfluo osservare che le notazioni di Volpe non appaiono sostanzialmente modificate dagli studi posteriori. Cfr. A. Vauchez, Movimenti religiosi fuori dell’ortodossia nei secoli XII e XIII, in Storia dell’Italia religiosa, cit., I, pp. 311 segg., passim.
39 Nell’amplissima letteratura al riguardo – a parte sempre il rinvio a F. Salvestrini, La più recente storiografia, cit., e all’annessa bibliografia – ci limitiamo a segnalare G. Vitolo, Ordini mendicanti e dinamiche politico-sociali nel Mezzogiorno angioino-aragonese, già «Rassegna storica salernitana», n. s., 15, 1998, pp. 67-101, e quindi in Ordini religiosi e società politica in Italia e in Germania nei secoli XIV e XV, a cura di G. Chittolini, K. Elm, Bologna 2001, pp. 115-149. Per il periodo immediatamente seguente si veda almeno G. Zarri, Aspetti dello sviluppo degli Ordini religiosi in Italia tra Quattro e Cinquecento. Studi e problemi, in Strutture ecclesiastiche in Italia e in Germania prima della Riforma, a cura di P. Prodi, P. Johanek, Bologna 1984, pp. 207-257. Perplessi lascia il giudizio di G. Barone, Gli Ordini mendicanti, in Storia dell’Italia religiosa, cit., I, p. 355, secondo cui il Mezzogiorno, «che non conosceva lo sviluppo comunale» dell’Italia centrosettentrionale, «e in cui meno rapido è stato lo sviluppo dell’eresia, […] si mostrò all’inizio meno attraente per le due nuove famiglie religiose» dei Minori e dei Predicatori: perplessità che nasce anche per questo collegamento tra nuovi Ordini e lotta all’eresia, da cui appare fortemente attenuata, nella storia di quegli Ordini, e in particolare del Francescanesimo, la travolgente, spontanea e autonoma ispirazione religiosa che li suscitò, della quale i ben noti canti XI e XII del Paradiso di Dante sono una quasi immediata e molto felice espressione e testimonianza.
40 Cfr. G. Galasso, Gli insediamenti e il territorio, cit., pp. 32-33. Ibidem, anche un richiamo dettagliato ad alcune tradizioni e credenze significative del patrimonio culturale meridionale formatesi nello stesso periodo. Inoltre, Id., Storia del Regno di Napoli, cit., I, pp. 519-540, per il patrimonio etnico e antropologico-culturale formatosi nel periodo indicato e per il finale approdo a una fisionomia, su questi piani, ormai definita.
41 G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, cit., I, pp. 515-517.
42 Cfr. M. Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento, in Storia dell’Italia religiosa, cit., II, p. 105.
43 Ibidem, pp. 123-124.
44 Cfr. E. Pontieri, Le origini della Riforma cattolico-tridentina a Napoli, in Id., Divagazioni storiche e storiografiche, Napoli 1971, s. II, pp. 223-224.
45 M. Firpo, Riforma protestante, cit., p. 80.
46 Ibidem.
47 Ci si riferisce in particolare alle tesi di A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996. L’opera di Prosperi, frutto di un grande impegno di studio e di ricerca, ha ricevuto una larga e meritata attenzione. Tra coloro che se ne sono interessati segnaliamo in particolare – oltre l’entusiastica esaltazione di C. Ginzburg, già su di un quotidiano, ma che si può vedere in «Storia e critica» (il bollettino dell’Istituto storico germanico di Roma), 73-74, pp. 33-34 – l’ampia discussione di G. De Rosa, ora in Id., Tempo religioso e tempo storico. Saggi e note di storia sociale e religiosa, III, Roma 1998, pp. 388-410, che forse meglio e più di altri ha individuato alcuni punti di discussione di un libro particolarmente denso di motivi di richiamo e d’interesse da molti punti di vista. Può valere la pena di osservare che, in altra chiave, una simile funzione ‘nazionale’ della Chiesa era stata prospettata, con particolare riferimento alla Compagnia di Gesù, da A. Asor Rosa, La cultura della Controriforma, in Letteratura Italiana Laterza, diretta da C. Muscetta, XXVI, Bari 1974, e poi nella sua introduzione alla Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, Storia e geografia, II, L’età moderna, Torino 1988, pp. 3-21. Vero è, peraltro, che per Asor Rosa all’ombra della Chiesa sono, piuttosto, l’ideologia del «primato italiano» e l’idea stessa di nazione a nascere «a un tempo [con] la supremazia ideologica e culturale della Chiesa», sicché in futuro ciascuno dei tre termini (supremazia della Chiesa, primato italiano e idea di nazione) sarebbe rimasto «condizionato dalla simbiosi originaria degli altri due», di cui i Gesuiti sono il maggiore e più determinante veicolo.
48 A. Prosperi, Tribunali della coscienza, cit., p. 103: una sovranità, si dice nell’introduzione, che si protrae anche dopo l’effettiva unificazione politica del paese, fino a far evocare all’autore l’immagine degli «uomini di stato italiani inginocchiati ai piedi del pontefice romano in occasione dei funerali di Aldo Moro» nel 1978.
49 «In realtà la dimensione ecclesiastica della storia morale e culturale del paese italiano dopo la metà del secolo XVI, o, se si vuole, il “fattore Chiesa” nella storia nazionale italiana» da allora in poi, «in parte trascende» il piano italiano, così come quello della storia degli altri paesi europei, in quanto attiene all’autonoma e generale storia del cattolicesimo nei suoi elementi e spiriti più propriamente religiosi, non riducibili tutti, sempre e soltanto a una questione di instrumentum regni. Ciò equivarrebbe, infatti, a negare troppi effettivi e sostanziosi aspetti e realtà ed esperienze di autentica fede e passione morale e religiosa della famigerata Chiesa dell’inquisizione e del maneggio e governo delle coscienze. In altra parte, la storia di quella Chiesa rientra «essa stessa nella dimensione nazionale» dei vari paesi, e si svolge anche secondo linee non da essa determinate o monopolizzate, e «che richiedono, per essere percepite e valutate nella loro effettiva portata e nel loro significato autentico, la considerazione dell’intero contesto» nazionale in cui si svolgono: ossia, in altri termini, se la storia delle nazioni europee è per la sua parte figlia della Chiesa, anche la storia della Chiesa è, a sua volta, figlia in qualche modo delle storie nazionali nelle quali opera; G. Galasso, Tra Rinascimento e “decadenza”- 1550-1700, in Id., Dalla “libertà d’Italia” alle “preponderanze straniere”, Napoli 1997, p. 155.
50 Cfr. G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, cit., voll. II-V, passim; G. De Rosa, Tempo religioso e tempo storico, cit.
51 Cfr. L. Châtellier, La mission du XVIIIe siècle, aux frontières de l’esprit tridentin et de l’idéal des Lumières, «Mélanges de l’École Française de Rome. Italie et Méditerranée», 109, 1997, 2, pp. 757-766, interessante anche per la comparazione fra i vari paesi cattolici.
52 Cfr. G. Orlandi, La missione popolare in età moderna, in Storia dell’Italia religiosa, II, cit., p. 437.
53 È la tesi, in particolare, di G. De Rosa, Vescovi, popolo e magia nel Sud, Napoli 1971, oltre che pressoché in tutti i suoi numerosi studi sulla vita religiosa del Mezzogiorno.
54 Sull’importanza delle chiese ricettizie come elemento portante della struttura ecclesiastica nel Mezzogiorno e come profondo condizionamento della stessa vita religiosa nel suo complesso e, in particolare, dell’azione pastorale del clero, protrattasi con quasi immutata intensità fino alle grandi secolarizzazioni dei beni ecclesiastici nello stesso Mezzogiorno nel secolo XIX, ha soprattutto insistito G. De Rosa. Per un caso regionale esemplare cfr. A. Lerra, Chiesa e società nel Mezzogiorno. Dalla ricettizia del secolo XVI alla liquidazione dell’Asse ecclesiastico in Basilicata, Venosa 1996.
55 Cfr. G. Galasso, Genovesi: il pensiero religioso, in Id., L’altra Europa, cit., pp. 369 segg.
56 Integriamo e sviluppiamo qui alcuni elementi che abbiamo già fatto presenti in G. Galasso, Santi e santità, cit.
57 In effetti, è facile notare che il giorno di Tutti i Santi non è preso e praticato nel suo aspetto di festività religiosa, ma come primo giorno della commemorazione dei defunti ricorrente il seguente giorno 2 novembre, tanto che una gran parte dei fedeli proprio il 1° novembre assolve a quelli che ritiene i suoi doveri per tale ricorrenza, mentre un’altra parte l’adempie in entrambi i giorni, e un’altra parte ancora soltanto il 2 novembre. Era poi uso che proprio il 1° novembre i bambini andassero in giro con piccoli salvadanai di cartone, preparati per l’occasione in famiglia o da loro stessi, chiedendo offerte per le anime dei defunti: antica usanza recentemente sostituita quasi in tutto e quasi ovunque dall’allogena celebrazione, nella stessa data, della festa di Halloween, imposta dal consumismo commerciale, favorito dalla generale penetrazione di usi e costumi anglosassoni nel mondo contemporaneo.
58 Più in generale, per un’indicazione delle «direzioni principali lungo le quali si sviluppa la costruzione della figura del santo» nei secoli di fondazione del patrimonio culturale e delle tradizioni meridionali, si veda il paragrafo I santi in G. Galasso, Santi e santità, cit., pp. 106-107, e passim in tutto il capitolo.
59 G. Galasso, Santi e santità, cit., pp. 71-76, ma sulla connessione fra il magico e il religioso (o il sacro, o il santo) la letteratura è vastissima. In Italia, e per il Mezzogiorno, fu particolarmente sensibile al tema Ernesto De Martino, sul quale si vedano a questo proposito G. Galasso, Ernesto De Martino e Id., De Martino e la terra del rimorso, in Id., Croce, Gramsci e altri storici, Milano 19782, pp. 373- 486, 487-510; Id., Dal “Mondo magico” a “La fine del mondo”, in Ernesto De Martino nella cultura europea, a cura di C. Gallini, Napoli 1997, pp. 321-335; Id., “La funzione storica del magismo”: problemi e orizzonti del primo De Martino, «Rivista storica italiana», 109, 1997, pp. 483-517.
60 Cfr. G. Galasso, Santi e santità, cit.
61 Cfr. G. Galasso, L’esperienza religiosa delle donne, in Donne e religione a Napoli. Secoli XVI-XVIII, a cura di G. Galasso, A. Valerio, Milano 2001, pp. 13-46.
62 Proprio sulla Grande Madre è stata variamente intessuta – come è ben noto – la tela della ‘religiosità mediterranea’. Appare significativo che anche uno spirito così intimamente convinto della novità rivoluzionaria del Verbo cristiano, quale di certo fu il Buonaiuti, non esitò a costruirsi una sua visione al riguardo: cfr. E. Buonaiuti, La religiosità mediterranea, in Id., La fede dei nostri padri, Modena 1944, pp. 17-34 (dove sia detto per inciso la definizione di ‘fede dei nostri padri’ è anch’essa, a sua volta, significativa). Sulla Grande Madre lo stesso autore è tornato, benché molto rapidamente, più volte: cfr. E. Buonaiuti, Sincretismo filosofico e religioso nei primi secoli cristiani, in Id., Saggi di storia del Cristianesimo, a cura di A. Donini, M. Niccoli, Venezia 1957, pp. 71-88, in partic. 77-78. Sulla presenza femminile in quella religiosità e in questo sincretismo egli s’impegnò, inoltre, in un lavoro dalla particolare e specifica angolazione: cfr. E. Buonaiuti, I rapporti sessuali nell’esperienza religiosa del mondo mediterraneo, Roma 1949.
63 Cfr. E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, cit., III, pp. 784, 213. Peraltro lo stesso autore, La Chiesa romana, Milano 1971 (ed. originale 1933), p. 108, avvertiva che «l’insurrezione della Riforma è movimento così vasto e così profondo, ha sortito ripercussioni così imponenti nel recinto stesso del Romanesimo [cioè, della cattolicità romana] che non si può giudicare alla svelta». Buonaiuti forniva così uno spunto storiografico forse non abbastanza raccolto nella pur vastissima letteratura su Chiesa e Riforma.
64 E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo, III, cit.
65 Su un modello pretridentino e un modello postridentino di santità individuabili nel Mezzogiorno si veda il paragrafo I santi in G. Galasso, Santi e santità, cit., pp. 101-119.
66 Cfr. W. Müller, Liturgia e pietà popolare. Nuovi Ordini religiosi, in Storia della Chiesa, diretta da H. Jedin, VII, La Chiesa nell’epoca dell’Assolutismo e dell’Illuminismo, Milano 1975, p. 646.
67 Ibidem, pp. 647-648.
68 Ibidem. Per un confronto con la fase successiva si può vedere, pur con i suoi limiti, O. Rousseau, Storia del movimento liturgico. Lineamenti storici dagli inizi del secolo XIX fino ad oggi, Roma 1961.
69 Così L. Châtellier, La religione dei poveri. Le missioni rurali in Europa dal XVI al XIX secolo e la costruzione del cattolicesimo moderno, Milano 1994, pp. 220 segg., fissa questo momento fra il XVIII e il XIX secolo.
70 W. Müller, Liturgia e pietà popolare, cit., p. 648.
71 Cfr. G.C. Capaccio, Il Forastiero, Napoli 1634, pp. 61-101.
72 Cfr. G. Galasso, La storia socio-religiosa e i suoi problemi, e Id., La storia socio-religiosa: momenti del dibattito (1954-1965), in Id., L’altra Europa, cit., pp. 385-402, 425-450.
73 L’espressione «bella devozione» è di G. Berkeley, Viaggio in Italia, a cura di Th.E. Jessop, M. Fimiani, Napoli 1970, pp. 191, 242 (e si veda pure l’introduzione di M. Fimiani, ivi, pp. 105 segg.). Ricordiamo che il testo del Berkeley rimase inedito per un secolo e mezzo.
74 Si veda, ad esempio, A. Cestaro, La parrocchia nel Mezzogiorno dalla Restaurazione ai giorni nostri, in La parrocchia in Italia nell’età contemporanea, Atti del II Incontro seminariale (Maratea 1979), a cura di G. De Rosa, A. De Spirito, Napoli 1982, pp. 57-79.
75 Lo si può constatare anche, ad esempio, in G. Turbanti, Il modernismo italiano tra “crisi” e nuova identità religiosa. L’identità nazionale nei modernisti italiani, in Identità italiana e cattolicesimo. Una prospettiva storica, a cura di C. Mozzarelli, Roma 2005, pp. 385-405, con relativa bibliografia.
76 Per avere un’idea dell’esigenza alla quale qui si fa riferimento è sufficiente constatare quanto poco e quanto poco spesso in modo pertinente si parli, nel complesso, del Mezzogiorno nelle opere generali di storia del cristianesimo e della Chiesa in Italia in epoca contemporanea, ivi compresa, nel suo terzo volume, la pur meritoria Storia dell’Italia religiosa.