Le province europee dell'Impero romano. Le grandi isole al centro del Mediterraneo: Sicilia, Sardegna, Corsica
Le tre grandi isole che delimitano a ovest e a sud il Mar Tirreno furono le prime province romane: prima la Sicilia, poco dopo la Sardinia et Corsica. Per queste aree, analogamente alle non lontanissime province iberiche, si può dire che le vicende della conquista e dell’annessione siano strettamente legate con il tormentato e aspro evolversi delle guerre puniche, la lunga lotta fra Roma e Cartagine che segnò il destino del Mediterraneo.
di Sergio Rinaldi Tufi
Come si è già accennato a proposito della Grecia e del mondo greco, anche in Sicilia si era ampiamente sviluppato, già ben prima del contatto con Roma, un modello di vita urbana: qui e nell’Italia meridionale, infatti, aveva avuto grande impulso fra VIII e VI sec. a.C. la colonizzazione ellenica ed erano state fondate Siracusa, Megara Hyblaea, Zankle, Nasso, Lentini, Catania, Gela, Imera, Selinunte, Camarina, Agrigento. Fin dallo stesso VIII sec. a.C. il quadro si era arricchito di un ulteriore elemento: Cartagine (Tunisi); l’antica colonia fenicia sulle coste dell’Africa settentrionale che si era sviluppata in una potenza economica e commerciale, ma anche militare (grazie all’impiego di eccellenti truppe mercenarie) e marittima, aveva a sua volta fondato Mozia e Palermo, cui tennero dietro, nel V sec. a.C., Solunto e Trapani. All’inizio del medesimo V secolo, Gelone di Siracusa conquista una sorta di egemonia fra tutte le città greche della Sicilia orientale e la cosa desta preoccupazioni in un’altra colonia ellenica posta subito al di là dello Stretto di Messina, Reggio, la quale chiama in aiuto proprio i Cartaginesi.
I Siracusani vincono però a Imera nel 480 a.C., nello stesso anno in cui gli Ateniesi e i loro alleati battono i Persiani a Salamina; nel 474, i Greci d’Italia meridionale e Sicilia (fra cui Gerone, figlio di Gelone di Siracusa) sconfiggono gli Etruschi a Cuma. Per tutto il V sec. a.C., la Sicilia è ancora teatro di scontri e tensioni: durante la guerra del Peloponneso Siracusa e Selinunte, alleate di Sparta, sono in lotta con Segesta alleata di Atene; Dionigi il Vecchio di Siracusa, salito al potere nel 405 a.C., si propone di contenere la crescente potenza punica, arginandola al di là del fiume Aliso; la rivalità con Cartagine (che si allea con Agrigento) si protrae per tutto il IV sec. a.C., al punto che nel 310 a.C. Agatocle tenta di portare la guerra in Africa arruolando i Mamertini, mercenari di origine italica (soprattutto campana). Dopo la morte di Agatocle i Siracusani chiedono aiuto a Pirro, re dell’Epiro, che sottomette tutta l’isola fino a Lilibeo, senza però riuscire a mantenerne il controllo.
Nel 264 a.C. i Mamertini, attestati a Messina, dopo aver tentato di stabilire con i Cartaginesi un’alleanza che però ha breve durata, chiamano in soccorso i Romani. È l’inizio della prima guerra punica. Molti importanti episodi di questo lungo conflitto si svolgono proprio nell’isola e nelle sue vicinanze: alleanza con Gerone di Siracusa, presa di Agrigento, vittoria navale di Caio Duilio a Milazzo, infine nuova battaglia navale, stavolta decisiva, vinta da Lutazio Catulo presso le Isole Egadi (241 a.C.). Roma si annette l’isola, che diviene la sua prima provincia, lasciando però ampia autonomia agli alleati siracusani. L’economia dell’isola è basata sull’estensione del latifondo (appannaggio delle aristocrazie cittadine) dove, grazie anche all’impiego di un’abbondante mano d’opera servile, si producono notevolissime quantità di grano, fondamentali per l’approvvigionamento dell’Urbe: sembra però che la piccola proprietà non scompaia del tutto. Ma alla fine del III e per tutta la durata del II e del I sec. a.C., la situazione della Sicilia è tutt’altro che pacifica. C’è anzitutto una crisi nei rapporti con la vecchia alleata Siracusa e nel 212 a.C. Marcello prende e saccheggia la città.
Dal 136 al 132 e dal 104 al 100 a.C., due rivolte di schiavi impegnano a lungo e pesantemente gli eserciti di Roma: quasi una premessa di quella che sarà, nel 73 a.C., la grande insurrezione di Spartaco, che muoverà dalla Campania per propagarsi attraverso la penisola. Dallo stesso 73 al 71 a.C. l’isola, che non è toccata dalla nuova rivolta, soffrì tuttavia il malgoverno di Verre, duramente perseguito dalle accuse di Cicerone; più tardi è coinvolta nelle aspre lotte che accompagnano la crisi del secondo triumvirato ed è a Nauloco, sulla costa orientale, che Agrippa nel 36 a.C. consegue, per Ottaviano, la decisiva vittoria contro Sesto Pompeo. All’innegabile declino che queste e altre situazioni di crisi avevano determinato tenne dietro, all’inizio dell’età imperiale, un tentativo di rilancio promosso dallo stesso Ottaviano divenuto Augusto (anche se agli interventi di ricostruzione in città duramente provate si accompagnava la richiesta di un pesante tributo). Il riassetto augusteo delle province coinvolge ovviamente anche l’isola, dove l’imperatore soggiorna nel 21 a.C.: Taormina, Catania, Messina, Termini Imerese, Tindari divengono colonie, Agrigento e Lilibeo municipi. Il rilancio riuscì solo fino a un certo punto: se è vero che la vita urbana riprese su livelli qualitativi soddisfacenti e che personaggi anche facoltosi provenienti dalla penisola presero qui la loro residenza, è anche vero che l’importanza economica e politica della Sicilia non tornò, nei primi secoli dell’Impero, quella di una volta. Il ruolo di “granaio di Roma”, che era stato prerogativa dell’isola dopo l’annessione, fu assunto dall’Egitto (che Ottaviano si assicurò dopo la vittoria di Azio conseguita nel 31 a.C. contro Antonio e Cleopatra) e in seguito dall’Africa Proconsolare (rilancio ben più poderoso, infatti, fu quello di Cartagine). Ma in età tardoantica si verificò un notevole passo avanti: la Sicilia divenne, nell’ambito del riassetto dell’Impero attuato da Diocleziano, una delle province dell’Italia suburbicaria e conobbe una nuova crescita anche l’economia latifondista, con ricchissimi proprietari di grandi tenute che risiedevano in ville di notevole ampiezza (o forse sarebbe meglio dire palazzi) quasi sostituendosi all’autorità del potere centrale; l’isola recuperò, a questo punto, anche un ruolo di primo piano nell’approvvigionamento dell’Urbe. Il cristianesimo vi conobbe un notevole impulso: lo testimoniano, fra l’altro, le dimensioni delle catacombe di Siracusa e di Catania. Gli arrivi dei Vandali (che si assicurano alcuni punti strategici sulle coste, come Lilibeo), degli Ostrogoti di Teodorico (491 d.C.), dei Bizantini di Belisario (535 d.C.) sono relativamente indolori: anzi l’isola, parteggiando per gli stessi Bizantini durante le lotte in Italia contro i Goti di Totila, torna ancora una volta a essere il granaio di Roma. L’imperatore bizantino Costanzo fissa, fra 663 e 668, la sua residenza a Siracusa, ma ormai premono gli Arabi e si avvicinano per la Sicilia vicende completamente nuove.
Urbanistica e architettura in età romana
L’antica colonizzazione greca e quindi la presenza, già ben prima dell’arrivo dei Romani, di città notevolissime fanno sì che (come nelle province greche, in quelle orientali e in Egitto) non sia la nuova potenza egemone a introdurre in Sicilia l’urbanizzazione: per la verità, al contrario, a partire dall’epoca delle guerre puniche e poi nel prosieguo dell’età repubblicana alcuni antichi e importanti centri scompaiono. È il caso di Selinunte (distrutta nel 250 a.C. dai Cartaginesi, con trasferimento della popolazione a Lilibeo), di Gela (distrutta a sua volta, già in precedenza, dai Mamertini: gli abitanti in questo caso sono accolti da Finzia, tiranno di Agrigento, in una nuova città detta appunto Finziade), di Eraclea Minoa (la cui vita si spegne per non più riaccendersi dopo un lento e lungo declino, negli anni fra 30 e 20 a.C.), mentre Megara Hyblaea, Morgantina e Camarina decadono a livelli di vita assai modesti. Naturalmente, la presenza romana non comporta sempre decadenza e abbandono di città.
In molti casi, anzi, si interviene nei centri preesistenti con una serie di inserimenti e modifiche di vario tipo e natura: spesso gli interventi sono circoscritti, però, a singoli monumenti o nuclei monumentali, mentre solo in qualche caso (Siracusa) le novità sono tanto numerose da cambiare l’aspetto complessivo di abitati o quartieri. Prevale, dunque, la politica degli interventi più contenuti. In questo ambito il caso più significativo è forse quello di Agrigento perché, pur nel rispetto dell’assetto preesistente e pur in presenza di operazioni edilizie puntuali e circoscritte, bisogna prendere atto che gli interventi sono di peso politico e simbolico notevole. Nella vita della Akragas greca (tale il nome della antica colonia di Gela, a sua volta fondazione rodio-cretese), un punto di riferimento importante era stato l’ekklesiasterion, costruito (la data non è certa) fra VI e IV sec. a.C. e destinato alle riunioni dell’assemblea cittadina. Elemento architettonico qualificante è una cavea circolare, dalla pendenza piuttosto tenue, per ospitare i partecipanti.
Nel II sec. a.C. tale cavea viene riempita e viene costruito un tempietto tetrastilo prostilo di ordine ionico su alto podio, detto Oratorio di Falaride, probabilmente un luogo di culto insediato dopo la colonizzazione (197 a.C.) da parte di Scipione Asiatico. In sostanza, un edificio in qualche modo funzionale alla celebrazione del nuovo ordine viene a sostituirsi a un luogo di aggregazione politica della città greca: anche se nell’Agrigento romanizzata non mancano altri interventi (modifiche delle case in un quartiere residenziale), certamente l’Oratorio costituisce il caso più significativo. Molti rifacimenti e ristrutturazioni riguardano gli edifici per lo spettacolo: più che a trasformazioni della situazione politica, sono dovuti a una diversa concezione architettonica e funzionale. Il teatro di Taormina è il più noto, anche per la sua posizione panoramica sul mare. Era stato eretto probabilmente all’epoca di Gerone II di Siracusa (265-215 a.C.): il nome di Filistide, moglie dello stesso Gerone, compare su uno dei blocchi pertinenti alla fase più antica.
In età imperiale la cavea venne ampliata e fu costruito (come d’uso nei teatri romani) un edificio scenico di notevoli dimensioni, provvisto di tre aperture, con la facciata decorata da nicchie e semicolonne disposte su due ordini, nonché da numerose statue: un Augusto (di cui rimane solo la testa), alcuni magistrati romani, un’Afrodite, un’Artemide, una Niobide e altre che sono andate perdute. L’orchestra fu trasformata in età imperiale avanzata (come accade in molte città della parte greca dell’Impero romano) in arena per spettacoli gladiatori, in mancanza di un anfiteatro vero e proprio: lo stesso avviene nel teatro di Tindari, mentre in quello di Catania ci si limita, per così dire, alla trasformazione e all’ampliamento della cavea e della scena. A Catania, infatti, l’anfiteatro è presente: sono ricostruibili due ordini di gradinate, più un portico alla sommità della cavea, per una capienza di circa 15.000 spettatori; la datazione è agli inizi dell’età imperiale. Altro anfiteatro importante nell’isola è quello di Termini Imerese; qui le fasi costruttive sono due, in quanto nella struttura della cavea sono presenti due corridoi ellittici che certamente non sono coevi. A una prima fase risalente all’età augustea o giulio-claudia fa seguito un ampliamento fra fine I e inizio II sec. d.C. Dell’anfiteatro di Siracusa si dirà fra poco.
Accanto alla passione per gli spettacoli, caratteristica della vita quotidiana di età romana, in Italia e nelle province, è l’abbondante uso dell’acqua, soprattutto nelle terme: acqua che viene portata nelle città mediante acquedotti talvolta imponenti. Fra i vari edifici termali noti nell’isola (Siracusa, Messina, Centuripe, Solunto, Tindari), tutti inquadrabili fra II e IV sec. d.C., spiccano quelli di Catania: addirittura tre, uno dei quali impiantato su precedenti strutture di età ellenistica. Quanto agli acquedotti il meglio conservato, databile in età adrianea-antonina, è quello di Termini Imerese che porta l’acqua da sorgenti distanti 5 km dalla città. Si conservano i resti, a pianta esagonale, di un castello di compressione. Altri acquedotti notevoli, databili al I sec. d.C., sono quelli di Siracusa, Taormina, Catania. Mentre gli interventi fin qui esaminati sono in genere pertinenti a realtà circoscritte, quelli attuati a Siracusa mutano la fisionomia di un intero quartiere.
Fra i vari nuclei preesistenti (Ortigia, Acradina, Neapolis: quest’ultimo si distingueva per il suo impianto urbanistico ortogonale), già in età repubblicana e poi con Ottaviano e con i suoi successori sembra privilegiata Acradina; il resto della città, pesantemente danneggiato durante la lotta fra lo stesso Ottaviano e Sesto Pompeo, perde forse definitivamente la sua vitalità. Il complesso più rilevante, sorto lungo l’antichissima strada per Eloro, è parzialmente visibile accanto alla via Elorina odierna: una piazza porticata, risalente, nelle sue fasi iniziali, al II sec. a.C.; un piccolo tempio su podio, databile probabilmente al I sec. d.C. e, alle spalle di questo, una cavea teatrale. Il complesso è forse individuabile con il Serapeo, la cui esistenza è attestata a Siracusa da fonti letterarie ed epigrafiche. Sempre nell’area di Acradina, ma al confine con Neapolis – con orientamento divergente, peraltro, rispetto alla regolare trama di vie e di isolati che caratterizza quest’ultima e che include anche il celebre teatro, che in età romana non subisce ritocchi – si trova l’anfiteatro più grande della Sicilia.
La parte inferiore della cavea, o ima cavea, era quasi completamente scavata nella roccia, mentre la media e la summa cavea, di cui restano solo le fondazioni, erano costruite in muratura. L’arena è separata dalla cavea stessa per mezzo di un alto podio, dietro al quale corre un ambulacro anulare coperto a volta sul quale poggia la prima fila di gradini. Come in molti edifici di questo genere, a partire dal Colosseo, l’arena aveva un pavimento di legno, sotto cui un ambiente sotterraneo ospitava i macchinari per gli spettacoli. L’anfiteatro si data alla fine del I sec. d.C. Un arco onorario poco distante (di cui restano solo i basamenti dei piloni), apparentemente destinato a fungere da ingresso per l’area dei giochi, in realtà doveva essere stato costruito per scopi diversi, in quanto risalente all’età augustea (almeno stando a ciò che risulta da un’iscrizione, peraltro frammentaria) e perciò preesistente. Della Siracusa tardoromana non si conosce molto. Il cristianesimo dovette avere una certa diffusione in quanto si conoscono catacombe ampie e ramificate, come quelle delle località Vigna Cassia, San Giovanni, Santa Lucia: queste ultime, forse, in aree e gallerie già usate dai pagani.
Grandi ville tardoantiche
Alla fine del III - inizio del IV sec. d.C., il rilancio dell’economia latifondista conduce all’affermazione di un ceto di ricchi o ricchissimi proprietari, dotati di grande autorevolezza non solo finanziaria ma anche politica. Legato a tale affermazione è il fenomeno della costruzione di grandissime ville, quasi palazzi di rappresentanza ubicati fuori città. L’esempio più noto è quello in località Piazza Armerina.
Arti figurative - I mosaici di Piazza Armerina rappresentano forse l’esempio più alto delle arti figurative nella Sicilia romana. Ma non è da trascurare neppure la scultura, che conobbe un momento di produzione particolarmente significativa all’inizio dell’età imperiale, con ritratti ispirati a modelli urbani e notevoli per il loro gusto classicistico. Ricordiamo fra l’altro l’Augusto di Tindari, il cosiddetto Germanico da Centuripe, la Dama dell’agorà di Siracusa; in precedenza, erano stati eseguiti anche importanti ritratti di Cesare, fra cui è da ricordare quello di Acireale.
In generale:
B. Pace, Arte e civiltà nella Sicilia antica, I-IV, Città di Castello 1958.
G. Clemente, La Sicilia nell’età imperiale, in Storia della Sicilia, II, Napoli 1980, pp. 465-80.
E. Gabba - G. Vallet (edd.), Sicilia antica, II. 2. La Sicilia romana, Napoli 1980.
M. Mazza, Economia e società nella Sicilia romana, in Kokalos, 26-27 (1980-81), pp. 293-353.
F. Coarelli - M. Torelli, Sicilia, Roma - Bari 1984.
R.J.A. Wilson, Sicily under the Roman Empire. The Archaeology of a Roman Province (36 BC - AD 535), Warminster 1990.
C.H. Olsen et al., The Roman Domus of the Early Empire. A Case Study: Sicily, in ActaHyp, 6 (1995), pp. 209-61.
Archeologia e territorio, Palermo 1997.
A. Pinzone, Provincia Sicilia. Ricerche di storia della Sicilia romana da Gaio Flaminio a Gregorio Magno, Catania 1999.
Un ponte fra l’Italia e la Grecia. Atti del Simposio in onore del prof. Antonino Di Vita (Ragusa, 13-15 febbraio 1998), Padova 2000.
C. Smith - J. Serrati (edd.), Sicily from Aeneas to Augustus. New Approaches in Archaeology and History, Northampton - Cambridge 2000.
Arti figurative:
N. Bonacasa, Ritratti greci e romani della Sicilia. Catalogo, Palermo 1964.
R.M. Bonacasa Carra, Nuovi ritratti romani della Sicilia, Palermo 1977.
D. von Boeselager, Antike Mosaiken in Sizilien, Rom 1983.
M. Vento, Le stele dipinte di Lilibeo, Marsala 2000.
di Sergio Rinaldi Tufi
Grande villa, sita in Sicilia in una conca del fiume Gela, non lontano dalla città omonima. È costituita essenzialmente di due nuclei: uno principale, con peristilio, basilica e due appartamenti con funzione residenziale, e uno (caratterizzato da forme architettoniche alquanto elaborate) con peristilio a pianta ovoidale, aula a tre absidi (aula trichora), corridoio trasversale molto lungo e absidato alle due estremità, impianto termale. Attorno a questi due nuclei si articola una grande quantità di altri ambienti, sempre con lievi variazioni di asse, così che l’architettura dell’insieme risulta non solo grandiosa ma anche alquanto movimentata. I mosaici pavimentali sono fra i più noti del mondo tardoromano. Il lungo corridoio biabsidato è decorato da un’amplissima composizione, la Grande Caccia, con una molteplicità di uomini e di belve, alcune reali e altre fantastiche: è raffigurata, con ricchezza di fantasia e di colori, la cattura di animali esotici probabilmente destinati a giochi anfiteatrali organizzati dal proprietario della lussuosa residenza. Uno degli ambienti che si affacciano sul peristilio maggiore, che forse è da identificare come sala da banchetti, è invece decorato dalla cosiddetta Piccola Caccia: battute alla lepre e al cinghiale, tipiche del modo di vita signorile, inserite in ridenti scorci di paesaggio. La cella trichora (sala a tre absidi) presenta scene ispirate alle fatiche di Ercole con gusto quasi “barocco” per la concitazione del movimento e l’evidenza delle muscolature.
L’aspetto variato, fastoso, vivacemente policromo dei mosaici di P.A. ha fatto pensare agli specialisti che qui abbiano lavorato maestranze provenienti dalla vicina provincia di Africa Proconsularis (Cartagine, Ippona, Cherchell); quanto all’identificazione del proprietario, o dei proprietari, che non potevano essere figure di secondo piano, si è pensato a due personaggi di spicco della prima metà del IV sec. d.C.: C. Ceionio Rufio Volusiano, prefetto dell’Urbe sia con Massenzio sia con Costantino, e il figlio C. Ceionio Rufio Albino, anch’egli console e prefetto e inoltre studioso e autore di testi di filosofia e geometria (e forse anche di storia). Il nome antico della località, Philosophiana, è forse da collegare con queste attività e il fatto che i proprietari fossero due spiegherebbe l’esistenza dei due nuclei individuabili nel complesso. Per un certo periodo i due Ceioni furono allontanati dalla corte imperiale e questa potrebbe essere stata la sede del loro esilio, vissuto evidentemente senza troppo disagio. Bisogna ricordare che questa villa non costituisce un caso isolato: esistevano nell’isola altri esempi notevoli, anche se nessuno raggiunge tali complessità e livello.
G.V. Gentili, La villa romana di Piazza Armerina. I mosaici figurati, Roma 1959.
A. Carandini, Appunti sulla composizione del mosaico detto Grande Caccia della villa del Casale a Piazza Armerina, in DialA, 4-5 (1970- 71), pp. 120-34.
S. Settis, Per l’interpretazione di Piazza Armerina, in MEFRA, 87 (1975), pp. 873-994.
A. Carandini - A. Ricci - M. de Vos, Filosofiana. La villa di Piazza Armerina, Palermo 1982.
R.J.A. Wilson, Piazza Armerina, Granata 1983.
M. Torelli, Piazza Armerina. Note di iconologia, in CronA, 23 (1984), pp. 143-56.
S. Muth, Bildkomposition und Raumstruktur. Zum Mosaik der ‘Grossen Jagd’ von Piazza Armerina in seinem raumfunktionalen Kontext, in RM, 106 (1999), pp. 189-212.
di Sergio Rinaldi Tufi
La Sardinia et Corsica è anch’essa una delle province più antiche, costituita non molto dopo la Sicilia, nel 227 a.C.; poiché, però, le due grandi isole vengono da vicende piuttosto diverse e anche dopo la romanizzazione non mantengono un assetto costante, è forse qui opportuno esaminarle separatamente, sottolineando fin d’ora che è comunque la Sardinia a presentare una situazione nettamente più complessa e interessante.
Alla fine della prima guerra punica (decisa dalla battaglia delle Isole Egadi nel 241 a.C.) Cartagine, oltre a subire le condizioni imposte da Roma, si trovò a dover fronteggiare la rivolta dei mercenari che avevano militato nel suo esercito e che avevano costituito la guarnigione dei suoi possessi in Sardegna. Dopo gli splendori (a partire dal XVI-XV sec. a.C.) della civiltà nuragica, dopo l’arrivo (fine del II millennio) dei Fenici, che nel IX sec. a.C. consolidano la loro presenza con la creazione di città costiere come Nora, Sulcis (Sant’Antioco), Caralis (Cagliari), Tharros, dopo la comparsa dei Greci, che i Fenici sconfiggono con l’aiuto degli Etruschi (535 a.C.) e il tentativo dei Sardi di reagire alla crescente potenza fenicio-punica, si era man mano sviluppato un processo di integrazione, dando luogo a una società mista sardo-punica, con un’aristocrazia e con funzionari provenienti da Cartagine ma anche con notevoli autonomie locali.
I mercenari di Sardegna chiamano in aiuto Roma, che interviene con decisione nel 238/7 a.C. costringendo al ritiro i Cartaginesi. Costituita la provincia (insieme con la Corsica) non è però risolto automaticamente il problema del suo controllo: le ribellioni sono numerose e vengono da più parti. Nel 215 a.C. si coalizzano un valente condottiero cartaginese, Annone, e un grande proprietario terriero sardo, Ampsicora: ma la loro rivolta finisce male e le loro truppe lamentano 12.000 morti e 3700 prigionieri. In seguito si ribellano più volte le popolazioni locali, soprattutto dell’interno (Iliensi, Balari, Corsi e altri) e a più riprese intervengono comandanti romani di primo piano, come Tiberio Sempronio Gracco (che trionfa ex Sardinia nel 175 a.C.) e Marco Cecilio Metello (che a sua volta celebra il trionfo nel 111 a.C.). Più tardi, durante le guerre civili, l’isola si trova dalla parte di Cesare: in tale circostanza Cagliari (Caralis) ottiene lo status di municipio. Con il riassetto dell’amministrazione provinciale attuato da Augusto nel 27 a.C. la Sardegna è ancora unita alla Corsica; con Tiberio sarà separata e successivamente questa situazione conoscerà altre modifiche.
Già presente sullo scorcio dell’età repubblicana (anche a causa del comportamento di governatori arroganti e disonesti come Marco Emilio Scauro nel 55 a.C.), un problema da risolvere all’inizio dell’età imperiale è quello del brigantaggio. Tuttavia nelle fasi successive giungono anche governatori onesti e capaci e la produzione agricola si sviluppa a tal punto che – insieme con Sicilia, Africa ed Egitto – la Sardegna è fra i “granai” dell’Impero. L’abbondanza di frumento è conseguenza del prosperare di latifondi privati e imperiali, cui si accompagna però l’attività di appezzamenti minori assegnati a singoli gruppi etnici. Altre preziose risorse sono le miniere di piombo, argento, ferro, rame, oro e le cave di marmo e granito: l’estrazione di tali minerali è però davvero improba, tanto che essere assegnati a questo compito costituisce anche un tipo di grave condanna giudiziaria (damnatio ad metalla).
Urbanistica e architettura
Plinio, in un passo per la verità non chiarissimo della Naturalis historia (VII, 85), sembra voler tracciare un quadro d’insieme della Sardegna romana, in cui apparentemente si distinguono le popolazioni non romanizzate (come i già ricordati Iliensi, Balari, Corsi) da quelle romanizzate e urbanizzate: i Sulcitani di Sulcis (Sant’Antioco), i Valentini di Valentia (Nuragus), i Neapolitani di Neapolis (presso Oristano), i Vitenses di Bithia (Chia) e infine i casi più noti e importanti: i Norenses di Nora (il sito archeologicamente più ricco), i Caralitani di Caralis (Cagliari, che divenne municipio con Cesare) e i Turritani di Turris Libysonis (Porto Torres). Quest’ultima città con lo stesso Cesare divenne colonia; altre colonie e altri municipi (Nora, Sulcis, Uselis, Cornus) si sarebbero aggiunti successivamente. La sede del governatore, installata inizialmente a Nora, fu poi spostata a Caralis.
Molti di questi centri devono la loro importanza al fatto di trovarsi in posizione strategica sulle vie di comunicazione per terra e per mare. Nora si trova – all’estremità di un istmo sabbioso a sud-ovest di Cagliari – su una penisoletta di forma pressoché triangolare, detta oggi Capo di Pula, con tre buoni approdi in tre direzioni diverse. L’esistenza di un precedente centro fenicio-punico, insieme alla conformazione del terreno, condizionano l’impianto urbano della città romana, che ha nel suo nucleo principale un assetto piuttosto irregolare. Tale nucleo comprende il foro, un tempio (non si sa a quale divinità fosse dedicato), il teatro, le terme; proprio sotto il tempio le preesistenze sono più evidenti (resti di una grande cisterna). Intorno all’area centrale si distribuiscono tre zone residenziali dall’assetto più regolare: quella a ovest – a giudicare dalle domus finora esplorate – era la più elegante. A nord-ovest, affacciato sul mare, è un importante santuario punico poi assimilato (cosa non certo infrequente) nell’orizzonte cultuale romano: il santuario di Eshmun-Esculapio, polo di attrazione tale da richiedere, per il collegamento al centro, la costruzione di una strada monumentale, detta “via Sacra”.
Il condizionamento esercitato da un precedente impianto fenicio (risalente all’VIII sec. a.C.) si pone in dimensioni anche maggiori a Tharros: la città romana in apparenza ne eredita un assetto talmente irregolare che è anche difficile ipotizzare dove fossero il foro, il Capitolium e gli altri edifici principali. Lo stesso si può dire a proposito di Sulcis (Sant’Antioco), pure fondata nell’VIII sec. a.C.: sorgeva su un’isoletta di fronte alla costa sud-occidentale della Sardegna ed era collegata alla terraferma da un istmo artificiale, su cui erano disposti, a nord e a sud, due approdi. Qui anzi, rispetto all’importanza delle testimonianze fenicie (il tofet, santuario extraurbano, è fra i più noti monumenti dell’isola), quelle romane finora note sono decisamente meno consistenti, anche se è certo che la città mantenne la sua notevole funzione portuale. In altri casi, invece, quel condizionamento non si coglie e la città romana – nella misura in cui la planimetria è di volta in volta ricostruibile – può essere impostata in forme abbastanza regolari, scandite dagli incroci ad angolo retto di cardines e decumani.
Ciò accade, ad esempio, a Turris Libysonis (Porto Torres), dove però i singoli edifici non sono ben ricostruibili, se si eccettuano alcuni impianti termali; accade a Olbia e a Caralis. Quest’ultima è in gran parte nascosta dalla Cagliari medievale e moderna, ma si può ricostruire che il centro urbano in età punica si era sviluppato nell’area dell’attuale Santa Gilla e che in età romana crebbe intorno all’odierna piazza del Carmine, dove era il foro. Si conservano però solo resti di un “tempio-teatro”, di un anfiteatro, di un monumento funerario (attribuibile su base epigrafica ad Atilia Pomptilla) e la cosiddetta Villa di Tigellio, in realtà due insulae separate da uno stretto vicolo. Sembra che la città fosse abbastanza estesa lungo la costa, poco sviluppata verso l’interno. Vi era ovviamente, qui come altrove, uno stretto rapporto di tali centri abitati con le aree produttive e con le vie di comunicazione terrestri e marittime. Caralis e Turris Libysonis erano i porti dove si imbarcava l’abbondante frumento del retroterra; Sulcis (Sant’Antioco) offriva un analogo sbocco ai prodotti minerari dell’Iglesiente; Olbia a sua volta offriva uno dei pochi approdi possibili lungo la costa orientale della Sardegna.
Notevoli strade tagliavano l’interno dell’isola: fra le più importanti bisogna ricordare quella da Caralis a Turris Libysonis, oppure quella da Olbia a Tibula (Santa Teresa di Gallura). Numerosi, lungo queste strade, erano i ponti: se ne conserva uno presso Sulcis, ma forse il più importante è quello a 24 arcate (di cui ne restano 13) sulla strada costiera fra Nymphaeus Portus (Porto Conte) e Carbia (Alghero). Le tipologie architettoniche e monumentali presenti nella Sardegna romana offrono spunti non privi di interesse, anche se le testimonianze sono di consistenza alquanto discontinua. Fra gli edifici sacri torniamo a ricordare il “tempio-teatro” presso il foro di Cagliari: il tempio è al centro di un ampio spazio porticato, preceduto, sullo stesso asse, da una cavea di tipo teatrale. Lo schema è testimoniato fin dall’età repubblicana a Roma stessa e in vari siti dell’Italia centrale, quali Pietrabbondante, Gabi, Tivoli, Palestrina. Anche nel nostro caso, in base ai materiali rinvenuti, la datazione si colloca in tale epoca, più precisamente nel II sec. a.C.; ma quando Caralis divenne municipio, con Cesare o con Augusto, il complesso era ancora pienamente in funzione.
Nella moneta che celebra l’evento è visibile il tempio, raffigurato in semplificata forma di tetrastilo, con la legenda VENERIS KARALES: apprendiamo così che l’edificio era dedicato a Venere, mitica progenitrice della famiglia di Cesare e Augusto, la gens Iulia. A Nora, presso il foro e non lontano dal teatro, è un santuario dalla conformazione piuttosto complessa e movimentata, detto Tempio Romano. Il tempio vero e proprio era probabilmente un esastilo prostilo, che, oltre alla cella, comprendeva anche un adyton, entrambi mosaicati. La cella era rialzata rispetto al pronao e quest’ultimo a sua volta era rialzato rispetto al piano stradale. Le caratteristiche tecnico-stilistiche dei mosaici sembrano suggerire una datazione alla fine del II - inizio del III sec. d.C. ma le vicende del santuario sono piuttosto complesse, in quanto intorno al tempio sorgevano altri ambienti di culto non sempre ben databili o ricostruibili. Sempre a Nora, ma in posizione decentrata e affacciata sul mare all’estremità del promontorio su cui sorge la città, era anche il già ricordato tempio di Esculapio, luogo di culto ma anche di cura sul sito di un precedente santuario del dio fenicio Eshmun, che probabilmente fu associato al culto stesso. Anche qui vi sono sensibili dislivelli: da una terrazza mosaicata si sale al pronao e da qui a una sontuosa cella pavimentata in tarsie marmoree con pareti anch’esse rivestite di marmo. Tale cella, inoltre, è dotata di un doppio adyton. Accanto al tempio, sempre accessibili dalla terrazza mosaicata, sono presenti altri ambienti destinati alla cura dei pazienti.
L’uso dell’adyton riscontrato a Nora non è un caso isolato nella Sardegna romana: lo ritroviamo anche a Tharros nel cosiddetto “tempio a pianta di tipo semitico”, in realtà non molto ben comprensibile, e nel tempio di Antas presso Iglesias, dove è inserito (doppio e preceduto da vaschette rettangolari) in una struttura meno inconsueta costituita da pronao tetrastilo e cella. Non del tutto consueta, però: alla cella si accede anche attraverso una parete laterale, quella di sinistra. Il tempio aveva avuto fasi piuttosto antiche, risalenti al III-II sec. a.C.; vi fu un rifacimento ai tempi di Caracalla (213-217 d.C.) in occasione del quale fu posta un’iscrizione al Sardus Pater Babai. Si tratta del dio eponimo dei Sardi che i Cartaginesi avevano assimilato al loro dio Sid. Questo stratificarsi di culti e tradizioni è tipico di un ambiente assai composito.
La presenza dell’adyton nel tempio di Antas e negli altri prima citati è un ulteriore elemento di curiosità, in quanto viene fatta risalire a influssi africani o addirittura orientali. Un’ulteriore variante la troviamo nell’impianto del tempio ipogeico tardoantico (costantiniano o di poco più tardo) di S. Salvatore a Cabras presso Tharros: attraverso una scala si scende in un corridoio che a sua volta conduce a un ambiente circolare; questo racchiude al suo interno sorgenti di acqua dalle proprietà medicamentose e si allarga in tre ambienti absidati. La forma è quella della cosiddetta cella trichora già vista nella villa di Piazza Armerina in Sicilia e presente anche nel Palazzo di Diocleziano a Spalato in Dalmazia (un altro esempio è riscontrabile in una nota villa di Desenzano sul Lago di Garda): qui siamo in presenza forse di un edificio dedicato a una divinità della salute.
Nell’edilizia pubblica delle città romane anche le terme occupano una posizione di rilievo, in quanto elemento tipico della qualità della vita urbana. Un impianto era a Cagliari non lontano dal foro: restano avanzi soprattutto della vasca del frigidarium, che era ornata da statue entro nicchie (ne restano una di Dioniso e una di Venere).
A Nora le terme che conosciamo sono invece quattro, fra le quali spiccano le Terme a Mare, alle spalle del porto occidentale, inserite nell’assetto regolare del quartiere. Il tepidarium e i due calidaria si affacciano sul lato ovest per beneficiare del calore del sole nelle ore più raccomandate per i bagni, ossia da mezzogiorno al tramonto. Gli ambienti sono “scalati”, come nelle Terme del Foro a Ostia; sono ben conservati anche i due grandi serbatoi sopraelevati che assicuravano l’approvvigionamento idrico, nonché la camera di combustione, di forma piuttosto allungata, in cui si scaldava l’aria che poi circolava sotto i pavimenti e lungo le pareti. Costruito fra fine II e inizio III sec. d.C., l’impianto fu rimaneggiato all’inizio del V secolo. Le terme di Forum Traiani (Fordongianus) erano note nell’antichità come Aquae Hypsitanae: erano costruite sopra una sorgente da cui ancora oggi sgorgano acque a 54 °C.
Fra gli edifici per spettacolo (teatro e anfiteatro a Nora, anfiteatro a Forum Traiani e a Sulcis) il meglio conservato è l’anfiteatro di Cagliari, databile al I o II sec. d.C. e capace di 20.000 spettatori. Parzialmente scavato nella roccia del colle detto oggi Buon Cammino, ha una cavea divisa in vari maeniana (ordini di posti) e forse presentava una galleria sulla sommità; sono ancora ben visibili i resti dei dispositivi per l’ingresso delle belve nonché le fosse sotto l’arena destinate a ospitare macchinari per i combattimenti. L’edificio, che misurava circa 88 x 72 m (contro i 188 x 156, ad es., del Colosseo), ospitava, oltre ai munera con duelli fra gladiatori e con lotte fra gladiatori e belve, anche pantomime e altri eventi teatrali.
Anche per quanto riguarda l’edilizia privata (sia residenziale, sia funeraria) le testimonianze che la Sardegna conserva sono poco numerose. Significativo è il caso di Nora, dove attorno al nucleo centrale (impiantatosi sopra l’insediamento fenicio) si svilupparono tre aree residenziali: le case erano talvolta fastose, di frequente ornate da mosaici. Si articolavano spesso su più livelli, avevano un atrio di tipo tetrastilo (con quattro colonne centrali, su cui poggiavano gli spioventi della copertura del portico) e presentavano un accesso decentrato; fra le più note è quella detta proprio dell’Atrio Tetrastilo, caratterizzata anche da un gran numero di ambienti, la quale ebbe lunga vita: le fasi più significative sembrano distribuirsi fra II e IV sec. d.C.
Case di questo tipo sono testimoniate, in misura minore, a Cagliari: il complesso detto impropriamente Villa di Tigellio è in realtà costituito da due importanti domus ravvicinate e cioè dalla Casa degli Stucchi e dalla Casa del Tablino dipinto, costruite nel I sec. d.C. ma successivamente sottoposte, nella loro lunga vita, a numerose trasformazioni e ristrutturazioni. La Casa dell’Atrio Tetrastilo di Nora e quella degli Stucchi di Cagliari sono da segnalare anche per l’impiego di una caratteristica tecnica edilizia: la muratura “a telaio”, detta anche opus Africanum in quanto largamente impiegata nelle province romane dell’Africa settentrionale. In questa tecnica un’importante funzione portante è esercitata da lunghe pietre verticali. Fra le ville, particolarmente rilevante per la qualità della decorazione (sia pure in parte perduta) di mosaico, pittura e stucco è la villa marittima di Porto Conte (forse l’antico Nymphaeus Portus), presso Alghero, probabilmente di proprietà imperiale.
L’esempio più noto di architettura funeraria è a Cagliari, alle pendici del colle detto Tuvixeddu: l’ipogeo di Atilia Pomptilla. Presenta, ricavata nella parete rocciosa, una facciata di tipo templare in antis (le ante però sono in buona parte perdute): il frontone, decorato al suo interno da patera e da praefericulum, è inserito in una sorta di attico, a sua volta decorato da girali floreali e da serpenti. Abbondante il corredo epigrafico: il nome della defunta è iscritto sull’architrave, mentre nel portico sottostante (si potrebbe dire pronao) sono 12 epigrammi metrici greci e latini, con testi struggenti fatti apporre dal marito di Atilia, M. Cassius Philippus (personaggio esiliato nell’isola per motivi politici nel II sec. d.C.), nei quali si giunge a dire che Atilia si era offerta di morire al posto del marito medesimo.
Arti figurative. La scultura
Le opere che ci sono pervenute non sono particolarmente numerose: il primo dubbio da risolvere è se fossero di produzione urbana o si dovessero in qualche modo a scultori o botteghe locali, dato che si ipotizzava che, almeno in qualche caso, il materiale impiegato provenisse dalle cave dell’isola (marmo di Teulada). Recentemente, però, si è accertato che moltissime delle sculture a noi note (se si eccettua, forse, una Grande Ercolanese rinvenuta a Cagliari) sono eseguite con marmi greci o comunque non sardi e quindi si pensa che siano state in genere prodotte a Roma, a partire dall’unica scultura nota di età repubblicana.
Quest’ultima, rinvenuta in via Cavour a Cagliari, presenta contemporaneamente caratteristiche appartenenti a due filoni dell’arte repubblicana stessa: la corrente veristica (rughe evidenti, orecchie a sventola) e quella pittorico-patetica di derivazione ellenistica e risalente all’iconografia di Alessandro Magno (chioma mossa e chiaroscurata, ripresa a Roma soprattutto nei ritratti di Pompeo). Sempre da Cagliari provengono anche un bel ritratto di Augusto del tipo Prima Porta, risalente agli anni dell’attribuzione da parte del Senato del titolo stesso di Augustus (27 a.C.), nonché due busti di età giulioclaudia, uno maschile e uno femminile.
Pure a età giulio-claudia risalgono alcune sculture di Sulcis (Sant’Antioco), forse un “gruppo di famiglia” imperiale che (come spesso accade) era collocato in qualche importante edificio pubblico. Un ritratto di Tiberio presenta alcune caratteristiche proprie dei “ritratti dell’adozione” (cioè degli anni attorno al 4 d.C., anno in cui Augusto adottò il medesimo Tiberio), ma anche altre proprie delle immagini elaborate negli anni successivi; una statua loricata raffigura Druso; un ritratto di Claudio presenta la chioma in gradus formata (che descrive ondulazioni simili a gradini) che più tardi sarà ripresa da Nerone. Proprio Claudio possedeva terre nel territorio di Sulcis (Sant’Antioco): fu forse lui a far eseguire questa galleria di immagini, che comprendeva anche un togato e un personaggio in nudità eroica, con paludamentum (o mantello), non identificabili. Anche nelle epoche successive i ritratti sono preponderanti rispetto alle statue votive o di culto (come l’Afrodite di Cagliari): tra questi vanno ricordati il Nerone di Cagliari, il Traiano di Olbia, il Marco Aurelio di Porto Torres, il Gordiano III di Cagliari.
Fra i sarcofagi finora noti (anch’essi eseguiti in generale a Roma o in qualche caso a Ostia) bisogna ricordarne almeno uno rinvenuto a Cagliari, con la raffigurazione delle Quattro Stagioni e con temi dionisiaci.
Relativamente numerose sono le statue e statuine fittili, soprattutto ex voto, rinvenute nell’isola. Particolarmente notevoli sono i piccoli busti della Sarda Ceres (diffusa versione isolana della dea delle messi) rinvenuti in varie località e soprattutto a Porto Torres: qui sono state trovate anche matrici e quindi questo era un luogo di produzione. Altri esempi interessanti sono due figure femminili sedute, con il capo velato, provenienti da Santa Margherita di Pula, oppure due “incubanti” (malati-fedeli che venivano fatti addormentare per ricevere indicazioni e prescrizioni in sogno) dal santuario di Eshmun a Nora.
Mosaici pavimentali e pitture parietali
Come si è già accennato a proposito di Nora (dove l’esemplificazione è più ampia), case, terme ed edifici di culto presentano spesso significativi mosaici pavimentali. Talvolta si tratta di mosaici figurati, come quello, tra i più noti, con Orfeo rinvenuto a Cagliari e conservato nel museo di Torino; nella maggior parte dei casi però, a partire proprio da Nora, abbiamo motivi decorativi geometrici. Nella parte centro-meridionale dell’isola sembra si avverta l’influsso delle maestranze africane, notoriamente attive anche al di fuori della loro provincia, soprattutto in Sicilia; nella Sardinia settentrionale, invece, prevalgono apparentemente i modelli romani e ostiensi. La Casa del Tablino Dipinto a Cagliari deve la sua denominazione convenzionale alle raffinate pitture parietali: incrostazioni marmoree e raffigurazione di Stagioni. Forme eleganti e classicheggianti si conservano talvolta, sia pure apparentemente con scarsa vitalità, fino all’età di Costantino: è il caso dell’ipogeo di S. Salvatore a Cabras, dove troviamo raffigurati – insieme con le Ninfe e con altre divinità legate alle acque e alle loro proprietà salutari – Mercurio e Venere, Ercole e Pegaso.
Ceramica e oggetti di uso comune
Le anfore e il vasellame provenienti dall’area centro-italica sono ben rappresentati in Sardegna negli ultimi decenni dell’età repubblicana e nei primi dell’età imperiale: ai vasi a vernice nera seguono, fra 50 a.C. e 50 d.C., la cosiddetta “aretina” e altre ceramiche dalla vernice corallina. Utili anche dal punto di vista quantitativo per ricostruire il volume dei traffici, questi prodotti si prestano pure ad altri tipi di valutazione, come quando, a Nora, vediamo sui vasi decorazioni costituite da scene di circo o quando, a Sassari, troviamo raffigurate maschere di Sileno fra grappoli d’uva e foglie di vite. Subentrano in seguito ceramiche iberiche, poi sud-galliche, poi africane: fra queste ultime, ricordiamo un frammento da Porto Torres con Tritone e Oceano.
La Corsica è unita alla Sardinia probabilmente fin dal momento della fondazione della provincia (227 a.C.) e come la Sardegna deve la sua annessione agli sviluppi della prima guerra punica, ma non abbiamo dati archeologici tali da documentare con una certa precisione né la presenza etrusca, né l’occupazione cartaginese, né il conflitto con Roma. Nel I sec. a.C. si avvertono anche qui le conseguenze delle guerre civili, soprattutto della lotta fra Mario e Silla. Più precisamente, fra 87 e 82 a.C., è fondata da Gaio Mario (e ne riprende il nome) la colonia di Mariana, il punto di approdo più sicuro (anche se fino a quel momento non era stato utilizzato per la creazione di alcun abitato) sulla costa nord-orientale.
Poco dopo, si deve a Silla (un poco più a sud) la deduzione di coloni ad Aleria, che invece era stato un importante insediamento cartaginese presso la foce del fiume Rothanus, oggi Tavignano, e doveva la sua importanza alle foreste, ai cereali, agli olivi e alle viti dell’entroterra; prima ancora avevano avuto forte impulso i rapporti con i centri grecoasiatici e con l’Etruria. Aleria fu più tardi rifondata, con il nome di Colonia Veneria Pacensis Tertianorum Aleria, da veterani inviati da Cesare e da Augusto. L’impianto urbano di età romana, anche a causa degli scoscendimenti del terreno, ebbe un assetto alquanto irregolare: anche il foro era diverso dalla norma, in quanto aveva forma trapezoidale. Nella norma rientrava invece il fatto che tutt’intorno alla piazza si disponessero tabernae e che sulla piazza stessa si affacciasse un tempio.
Sardinia: la raccolta completa della bibliografia sulla Sardegna romana e tardoantica si trova in C. Vismara, Gli studi degli ultimi anni sulla Sardegna romana (1977-1987), in JRA, 2 (1989), pp. 70-92.
Ead., Gli ultimi studi sulla Sardegna romana (1987-1990), in Sardinia antiqua. Studi in onore di Piero Meloni in occasione del suo settantesimo compleanno, Cagliari 1992, pp. 529-50.
Cfr. inoltre:
S. Angiolillo, Mosaici antichi in Italia. Sardinia, Roma 1981.
C. Tronchetti, The Cities of Roman Sardinia, in M.S. Balmuth (ed.), Studies in Sardinian Archaeology, Ann Arbor 1984, pp. 237-83.
S. Angiolillo, L’arte della Sardegna romana, Milano 1987.
R.J. Rowland, The Archaeology of Roman Sardinia. A Selected Typical Inventory, in ANRW, II, 11, 1, 1988, pp. 740-875.
P. Meloni, La Sardegna romana, Sassari 1990.
Sardegna e Corsica. Problemi di storia comparata, Sassari 1998. Corsica: in generale: M.C. Ascari, La Corsica nell’antichità, Roma 1942.
C. Vismara, Prima miscellanea sulla Corsica romana, in MEFRA, 92 (1980), pp. 303- 28.
Ph. Pergola, Corse, in Topographie chrétienne des cités de la Gaule des origines au milieu du VIIe siècle, Paris 1986, pp. 93-105.
C. Vismara, La Corsica in età classica e nell’Alto Medioevo. Problemi e prospettive di ricerca, in Sardegna e Corsica. Problemi di storia comparata, Sassari 1998, pp. 153- 61.
Su Aleria: J. Jéhasse, Aléria grecque et romaine, Lyon 1963.
di Francesca Romana Stasolla
Città (lat. Turris Libysonis) costiera della Sardegna settentrionale, all’interno del Golfo dell’Asinara. Ha origine da una colonia dedotta da Cesare in epoca immediatamente successiva al 46 a.C., a seguito dello scalo da lui effettuato in Sardegna dopo la vittoria di Tapso o, secondo altri, da Ottaviano nel 38 a.C. Non esistono tracce monumentali della presenza di un centro abitato precedente la deduzione della colonia in età cesariana, ma la presenza di materiale ceramico e l’allineamento di alcuni nuraghi consentono di ipotizzare una precedente frequentazione del sito.
Il centro della città romana coincide con l’attuale abitato, che si sviluppa attorno all’arco naturale che racchiude il bacino portuale. Dal punto di vista archeologico sono quindi meglio note le aree immediatamente suburbane, soprattutto le grandi necropoli che circondavano il sito. Varie sono le campagne di scavo che hanno interessato il centro nel corso di diversi secoli, a cominciare dalle indagini eccezionalmente ben documentate del vescovo Gavino Manca de Cedrelles all’inizio del XVII secolo, per la ricerca dei corpi santi presso la basilica di S. Gavino, e dagli interventi voluti da Maria Teresa d’Austria e condotti con mezzi impropri (fino all’uso di dinamite) in occasione del taglio della ferrovia, che ha intaccato ripetutamente l’area occupata dalla città antica. Le zone archeologiche di maggior consistenza sono il cosiddetto Palazzo di Re Barbaro, i complessi termali, le necropoli che circondano il centro romano e l’area della basilica di S. Gavino; completa la documentazione archeologica una serie di indagini localizzate in vari punti del centro storico.
L’importanza di P.T. in epoca romana è confermata anche dalla persistenza degli assi stradali, soprattutto dalla via a Turre Karales, che attraversava l’isola da sud a nord e che viene ricordata nell’Itinerarium Antonini, e dalla vitalità del suo porto, tanto che in epoca imperiale i Navicularii Turritani sono ricordati nei mosaici ostiensi. Le opere architettoniche immediatamente seguenti la deduzione della colonia testimoniano l’importanza di P.T., anche in relazione con lo sfruttamento agricolo e minerario, come la costruzione del cosiddetto Ponte Romano sul Rio Mannu, al limitare dell’abitato, a sette arcate con raggio decrescente da ovest verso est. Al I sec. d.C. vanno attribuiti diversi elementi scultorei pertinenti a un edificio pubblico, probabilmente con funzione religiosa. Il tempio della Fortuna, la basilica e il tribunale sono noti dalle dediche di restauri del III sec. d.C. I dati di cultura materiale attestano l’importanza dello scalo turritano: sono stati rinvenuti magazzini di III sec. d.C. al limitare delle mura, nell’area retrostante il porto. Nel medesimo periodo è attestata l’espansione del perimetro urbano, con la costruzione della linea occidentale delle mura e un potenziamento dell’architettura pubblica, con la revisione della rete viaria, in parte rispettata dall’attuale, e la costruzione di impianti termali decorati con mosaici pavimentali e parietali. Sono infatti noti tre impianti termali, il principale dei quali è costituito dalle Terme Centrali, afferenti al complesso archeologico detto Palazzo di Re Barbaro, nell’area orientale della città, visibile nella fase di fine III - inizio IV sec. d.C., ma che insiste su un precedente impianto termale.
Nella medesima area sono stati individuati tratti di rete fognaria e del reticolato stradale che hanno contribuito a delineare il sistema viario urbano, con cardini e decumani che delimitavano isolati rettangolari allungati, con il lato lungo perpendicolare alla linea di costa. Presso le Terme Centrali sono stati riportati in luce resti di due insulae e parte degli assi stradali, su cui si aprivano tabernae, alcune delle quali con decorazioni musive; l’ultima fase archeologica è datata al V-VI sec. d.C. e prevede uno sviluppo che modifica gli assi stradali di età imperiale. Alla fase bizantina del complesso è stata ricondotta un’importante iscrizione greca, pertinente con ogni probabilità a un edificio pubblico, che celebra una vittoria contro i Longobardi e altri “barbari” provenienti dal mare. I tagli dovuti alla costruzione della ferrovia hanno gravemente interessato altri due impianti termali: le Terme Maetzke, a probabile destinazione privata, realizzate tra fine I e II sec. d.C. sui resti di un’insula, e le Terme Pallottino, che dovevano estendersi verso il mare, decorate con mosaici di fine III - inizio IV sec. d.C. La città traeva il suo approvvigionamento idrico da un acquedotto, i cui resti sono stati rinvenuti su una collina a ovest della città, e da numerosi pozzi, alcuni dei quali sono stati rinvenuti nell’area del Palazzo di Re Barbaro.
All’inizio del periodo bizantino, in concomitanza con l’attività di fortificazione dell’intera isola, va con ogni probabilità ricondotta la costruzione di un nuovo circuito murario che obliterò i magazzini portuali di III secolo.
Al di fuori del perimetro urbano sono state rinvenute vaste aree adibite a necropoli, denominate rispettivamente orientale, meridionale e occidentale, con sepolture a incinerazione e a inumazione e attestanti un uso ininterrotto almeno fino al VII sec. d.C. In particolare, nella necropoli orientale (detta anche di Balai o di Scoglio Lungo) sono state rinvenute tombe con ricca decorazione musiva paleocristiana, oltre a un ipogeo in località Tanca di Borgona. È stata documentata anche la coesistenza di sepolture tardoantiche e altomedievali nell’area urbana ancora frequentata.
A P.T. si hanno testimonianze di una cristianizzazione precoce, tanto che la città fu sede episcopale almeno dal 484, quando il vescovo Felix partecipa al Concilio di Cartagine, e la cattedrale della città doveva essere extraurbana, in conformità con gli altri centri diocesani sardi, collocata sul Monte Agellu, nell’area della necropoli meridionale. Qui recenti scavi al di sotto e attorno alla basilica romanica dedicata a S. Gavino hanno consentito di riconnettere gli elementi già noti sia a livello documentario che archeologico e di chiarire una sequenza archeologica che prevede l’uso cristiano dell’area funeraria romana, la sua monumentalizzazione con mausolei, sepolture a tumulo mosaicato, resti di riti funebri, oltre al susseguirsi di tre fasi costruttive di aule di culto precedenti l’attuale, e a strutture monumentali, quali un portico, di collegamento con altri complessi edilizi, presumibilmente il palazzo episcopale. Sono state inoltre documentate archeologicamente le attività di cantiere e i lavori di restauro del complesso religioso. Tutte queste attività costituiscono una conferma della rilevanza del complesso martiriale che con ogni probabilità determinò, a partire dall’Alto Medioevo, un fenomeno di graduale attrazione dell’abitato, sino alla costituzione di un polo abitativo in un’area esterna alla città romana.
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