Le riforme fra vaglio giudiziario e rilegificazione
A quattro anni dalle riforme pensionistiche del 2011, caratterizzati dal continuo assestamento della materia, si registrano i primi severi giudizi delle alte Corti, sia costituzionale sia di Cassazione, volti a reindirizzare il legislatore oltre che a definire la portata di qualche norma, gonfiata nell’immaginario collettivo. Così, mentre si progettano nuove ipotesi di flessibilità nelle scelte individuali di lavoro, formalmente rispettose dell’impianto sulle pensioni del 2011, da un lato le esigenze di manovra economica del lavoro inducono scelte legislative, dichiaratamente temporanee, ma capaci di incidere sulla finanza previdenziale, dall’altro il Governo è chiamato a rincorrere gli effetti di decisioni annunciate od a prendere atto della infondatezza di interpretazioni palesemente forzate (così è per Cass., S.U. n. 17589/2015).
È sempre più evidente che il sistema pensionistico, nella sua attuale complessa composizione – frutto non solo di una stratificazione determinata, nell’ambito dell’assicurazione generale obbligatoria, da fattori interni, come la successione fra il regime cd. retributivo (inizialmente con congruo massimale, ma dal 1988 senza massimale) e il regime cd. contributivo, ma anche dalla impostazione pluralistica per settori produttivi e categorie, protrattasi fino a tempi recenti1 – pone delicati problemi di coordinamento e razionalizzazione al suo interno: basta pensare alla intricata, sebbene in via di risoluzione, vicenda della totalizzazione2; nonché, per stare all’attualità, alle preoccupazioni circa la possibile inadeguatezza delle prestazioni, correlate come fattore esterno alle, in media, economicamente modeste, oltre che discontinue, carriere.
Si tratta dunque di un approccio intrinseco, destinato a trovare soluzione in gran parte attraverso il ricorso a strumenti endogeni.
La spinta al contenimento della spesa pensionistica costituisce una seconda componente, connessa alle esigenze di equilibrio della finanza pubblica, così come ora fissate nel testo dell’art. 81 Cost., che rende ancor più pregnante l’art. 75, co. 2, Cost. In tale contesto si colloca la sent. n. 6/2015 (C. cost., 27.1.2015, n. 6) che, confermando la precedente sent. n. 2/1994 (C. cost., 12.1.1994, n. 2), ha tenuto a sottolineare che «il «collegamento» alla legge di bilancio, agli effetti della inammissibilità del referendum, ben può riferirsi anche a provvedimenti a detta legge successivi, ove formalmente e sostanzialmente correttivi o integrativi della stessa, che si rendano necessari per l’equilibrio della manovra finanziaria», secondo una eventualità che risulta «espressamente prevista e disciplinata dalla disposizione di cui al comma 6 dell’art. 10-bis della legge di contabilità e finanza pubblica (l. 31 dicembre 2009, n. 196), come introdotta dall’art. 2, c. 3, l. 7 aprile 2011, n. 39», apprezzando la Corte che «la riferita procedura è stata applicata, per la prima volta, proprio con riguardo al d.l. n. 201 del 2011».
Si tratta di un rilievo non marginale, consideratane l’incoerenza con la successiva affermazione resa dalla stessa Corte nella sent. n. 70/2015 (C. cost., 30.4.2015, n. 70) laddove (penultimo cpv. della motivazione) si imputa al Governo dell’epoca di avere disatteso altra disposizione della stessa l. 31.12.2009, n. 196.
Ai fini di questa ricognizione è chiaro che si delinea un serio e faticoso confronto fra Corte costituzionale e legislatore, cui è spettato il non facile compito di parare gli effetti della sent. n. 70/2015 mediante la emanazione del d.l. 21.5.2015, n. 65 conv. con mod. dalla l. 17.7.2015, n. 109, in una seppur non dichiarata applicazione dell’art. 17, co. 13, della citata l. n. 196/2009. A queste finalità di tamponamento degli effetti della sent. n. 70/2015 della Corte si aggiungono taluni ulteriori interventi, quale quello (art. 5) volto ad evitare l’abbattimento dei montanti ex art. 9, co. 1, l. n. 335/1995, o quello (art. 7) volto ad incentivare il TFR in busta-paga.
Completa il quadro delle novità legislative, nell’art. 1della legge di stabilità per il 2015 (l. 23.12.2014, n. 190), oltre il già citato co. 118 (sulla decontribuzione per i nuovi assunti), anche l’insieme dei co. da 707 a 709 (di correzione degli effetti esorbitanti dell’art. 24, co. 2, d.l. n. 201/2011).
Conviene invece fin ora sottolineare che la misura della decontribuzione per i nuovi assunti pone delicatissimi problemi di ordine sistematico: se dovesse risultare una misura solo temporanea (tale anche se dovesse essere protratta per un limitato numero di anni), occorrerà valutarne ex post la proiezione degli effetti sull’occupazione nel medio periodo; ove, invece, dovesse assumere carattere strutturale, le implicazioni sul sistema previdenziale sarebbero particolarmente rilevanti, ed addirittura idonee a modificarne la configurazione, ponendosi seri dubbi sulla ragionevolezza di un prolungato/stabile accollo alla collettività generale di un meccanismo contributivo tipicamente ispirato al rapporto fra art. 36 Cost. ed art. 38 Cost. (v. infra, § 3).
A questo deve aggiungersi una serie di interventi giurisprudenziali a livello delle Sezioni Unite, quali in particolare la sent. n. 17589/2015 (Cass., S.U., 4.9.2015, n. 17589 sulla prosecuzione del rapporto di lavoro oltre l’età pensionabile) e la sent. n. 477/2015 (Cass. S.U., 14.1.2015, n. 477 sulla trasferibilità della posizione pensionistica da forma pensionistica di secondo livello a prestazione definita), che per la loro autorevolezza si incastonano nell’impianto legislativo, correggendo o deviandone alcune applicazioni, così concorrendo all’assestamento dello stesso quadro normativo.
Le manovre a cavallo fra la fine del 2014 e la prima metà del 2015 (non solo quelle legislative, ma anche quelle giudiziarie, almeno quelle aventi in sostanza portata normativa) si caratterizzano per una sorta di resa dei conti cui il legislatore è soggetto, nei confronti della giurisprudenza non solo costituzionale, ma anche, come anticipato, di quella ordinaria. Il punto è che, a distanza di quattro anni dalla loro approvazione, le riforme del 2011 sono ora al vaglio giudiziario.
2.1 Effetti della sent. n. 70/2015 e d.l. n. 65/2015
La sent. n. 70/2015 della Corte costituzionale è stata approfondita (v. in questa sezione del volume, 4.1.1 Politiche pensionistiche e Costituzione) con esaurienti richiami della dottrina immediatamente formatasi, cui qui aggiungo il richiamo alla mia osservazione3. Mi limito perciò a qualche breve riflessione che consenta di introdurre il discorso sul d.l. n. 65/2015.
È diffusa affermazione che la sentenza fosse scontata, non solo per il monito presente nella sent. n. 316/2010 (C. cost., 11.11.2010, n. 316), ma in quanto il dibattito si protraeva da quasi trent’anni (spiccano C. cost., 9.1.1991, n. 1 e C. cost. 25.2.2014, n. 30): il monito era troppo stringente, e tanto più lo era in quanto il d.l. n. 201/2011 aveva, per così dire, colmato la misura: già nell’agosto (art. 18, co. 3, d.l. 6.7.2011, n. 98) era stato rinnovato il contenimento della perequazione, ma l’ora caducato co. 25 aveva rincarato la dose per ottenere effetti immediatamente apprezzabili sul piano bilancistico; nè questo è stato l’unico caso di aggravamento delle scelte estive del 2011, su cui fra l’altro già la Consulta si è dovuta pronunciare (C. cost., 5.6.2013, n. 116 sulle cd. pensioni d’oro).
Non scontato era invece l’esito in termini di effetti nel tempo della sentenza. Senza addentrarsi nel tecnicismo delle soluzioni alternative alla semplice caducazione di norme, ma (pur tenendo presenti i ben diversi valori sottesi nei due casi) era troppo fresca la sent. n. 10/2015 (C. cost., 11.2.2015, n. 10 nota per avere abrogato, senza retroattività, la cd. Robin tax) per non pensare che potesse esservi spazio per una sorta di consolidamento degli effetti in tema di perequazione, alla luce oltre tutto del relativamente prossimo esempio offerto dalla Corte di Giustizia sulla scia della Corte costituzionale portoghese. Così invece non è stato: la caducazione è stata totale ed inevitabilmente retroattiva, secondo cioè i canoni ordinari degli effetti temporali dei giudizi con esito di incostituzionalità, anche se la Corte ha avvertito l’esigenza di segnalare al legislatore un percorso alternativo, anticipando, per così dire, una valutazione di legittimità della scelta effettuata dalla legge finanziaria per il 2014.
Da ciò la soluzione legislativa volta a fronteggiare le pretese, e correlato contenzioso, indotte dalla ri-espansione della portata delle norme originarie non più compresse. Con il supporto del citato art. 17, co. 13, l. 31.12.2009, n. 1964, la cui portata è stata di certo implementata dal nuovo testo dell’art. 81 Cost. e dalla l. 24.12.2012, n. 243, il legislatore
(d.l. n. 65/2015 e l. conv. n. 109/2015) – con l’obiettivo di dare attuazione ai principi enunciati nella sent. n. 70/2015, ed invocando l’esigenza di rispettare il principio dell’equilibrio di bilancio e degli obiettivi di finanza pubblica, assicurando la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche in funzione della salvaguardia della solidarietà intergenerazionale – ha disposto il reinserimento del rinnovato co. 25 nell’art. 24, cercando in qualche modo di adeguarsi alle indicazioni offerte dalla Corte stessa attraverso il richiamo alle norme presenti nella legge di stabilità per il 2014. Sia ben chiaro che non sarà sufficiente – come sopra riferito – la sola motivazione di principio per affrancare il provvedimento legislativo così adottato dal rischio di un giudizio di incostituzionalità: non tanto conterà la mera dichiarazione di altisonanti intenti, quanto il contenuto delle norme.
In concreto, le misure riconosciute agli interessati dall’art. 1, d.l. n. 65/2015 – per il biennio 2012-2013, e proiettate per gli anni successivi fino al 2016, nel testo sostanzialmente immutato sul punto dopo la conversione dalla l. n. 109/2015 – secondo il differenziato scaglionamento per il triplo, il quadruplo, il quintuplo ed il sestuplo del trattamento minimo INPS (con esclusione dei trattamenti superiori), e fermo il calcolo per scaglioni progressivi, rispondono ad una indicazione che appare oramai consolidata nella precedente giurisprudenza, ripresa nella sent. n. 70/2015.
Dunque, la relativa approssimazione allo schema di perequazione previsto per il triennio 20142016 dal co. 183 della l. 27.12.2013, n. 147 (l. di stabilità 2014) dovrebbe escludere l’esito negativo di un nuovo giudizio di incostituzionalità, a parte l’impatto che potrebbe derivare dall’accoglimento di una diversa funzione sistematica della perequazione come fattore di riequilibrio distributivo e non solo come fattore di contenimento della perequazione (v. infra, § 3).
2.2 Altre urgenze: a) PIL negativo e montante contributivo
Il d.l. n. 65/2015 non si esaurisce nella sola replica alla sent. n. 70/2015, avendo trovato in esso collocazione talune pressanti problematiche, fra le quali (oltre quelle relative al finanziamento di interventi in deroga per il sostegno del reddito e per la formazione, sulla scia delle misure transitorie disposte dalla l. 28.6.2012, n. 92, art. 2, co. 6466, e come anticipazione degli ulteriori interventi annunciati in tema di ammortizzatori sociali, attuativi della l. 10.12.2014, n. 183, estranee al presente contributo) spiccano nuove regole per il pagamento delle pensioni, mediante unificazione e anticipazione al primo del mese di tutte le prestazioni INPS.
L’attenzione si concentra su due norme in particolare: quella (art. 5) dedicata alla modificazione dei criteri di determinazione del coefficiente di capitalizzazione del montante contributivo, e quella (art. 7) dedicata alla revisione dei meccanismi di garanzia TFR in busta paga.
Quanto alla capitalizzazione del montante contributivo di ciascuno degli iscritti all’INPS per le quote a contribuzione definita, nel contributo dello scorso anno5 era stata rappresentata la circostanza per cui l’avversa congiuntura economica rischiano di determinare effetti imprevisti nel sistema pensionistico riformato dalla l. n. 335/1995. In esso, infatti, risultava, e risulta, centrale la introduzione del meccanismo finanziario di capitalizzazione dei montanti individuali mediante applicazione del tasso di rendimento virtuale collegato all’andamento del prodotto interno lordo, in combinazione con il coefficiente di trasformazione in rendita costantemente adeguato secondo l’andamento della speranza matematica di vita. La paventata eventualità che il calcolo parametrico potesse registrare il segno negativo, mandando così in rosso il percorso pensionistico, con conseguente diminuzione del valore dei montanti accumulati nel sistema contributivo, aveva trovato concreto riscontro nell’invio, ai vari enti previdenziali coinvolti, di una nota Istat6 che prevedeva una riduzione dei montanti di poco meno del 2 per mille (cd. decapitalizzazione, secondo la formulazione ministeriale).
Ad una tale prospettazione meramente aritmetica degli effetti del sistema rinnovato nel 1995 si sono opposte energiche prese di posizione, fondate sia su mere ragioni linguistiche (l’espressione «si rivaluta», presente nel co. 8, ha significato solo positivo), sia, sul piano sistemico, il rilievo che una così complessa formula di protezione pensionistica, obiettivamente pubblica seppure a volte realizzata con strumenti privati (risultano infatti coinvolti nella vicenda anche gli enti di previdenza privati, al di là delle numerose indicazioni nel senso di una loro maggiore autonomia, provenienti dalla nota giurisprudenza del Consiglio di Stato n. 3859/2014 (Cons. St., sez. VI, 18.7.2014, n. 3859, ribadita da TAR Lazio, 7.9.2015, n. 11081), fondata sull’idea della obbligatorietà ed anzi quasi automaticità, dotata perciò di un apparato attuativo ispirato alla logica coattiva di tipo tributario, che non può cedere alla tentazione dell’automatismo numerico/finanziario. Da ciò la proposta di una lettura dell’art. 9 della l. n. 335/1995 costituzionalmente orientata, comportante la irriducibilità comunque dei montanti nei periodi – quali ora registratisi – di PIL negativo7.
Il d.l. 65/2015 fornisce con il citato art. 5 una accettabile soluzione del problema, accogliendo l’idea della inammissibilità di un decremento dei montanti Inps pur in presenza di coefficiente di capitalizzazione di segno negativo, a tal fine disponendo che detto coefficiente debba comunque essere pari ad uno, senza dunque alcuna flessione in caso di segno negativo del parametro determinato dall’andamento del PIL La norma mantiene comunque fermo il punto del potenziale arretramento, che viene mascherato attraverso un meccanismo di «recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive»: si delinea dunque una spalmatura del segno negativo sugli anni in cui dovesse (questo è l’auspicio) risollevarsi l’andamento del PIL. È sintomatica peraltro la circostanza che, in sede di conversione, si sia avvertita la necessità di attenuare la portata della norma sul recupero, escludendone l’applicazione in sede di prima applicazione.
La peculiare vicenda normativa della capitalizzazione del montante contributivo non si esaurisce con le riferite disposizioni, posto che fin dal testo iniziale del decreto (e con assestamento a numeri crescenti nella norma di conversione) è dato leggere una complessa regolazione degli effetti bilancistici collegati agli impegni di spesa determinati dalla introduzione della garanzia del coefficiente «uno». Al di là della affidabilità dei numeri nella versione pre ed in quella post conversione, colpisce innanzitutto la lunga proiezione (si perviene al 2031 ed oltre): è ben noto che in tema di impegno pensionistico ed in tempi di longevità è del tutto fisiologica una proiezione di lunga durata, ma qui la proiezione concerne gli effetti di sbilanciamento del PIL negativo, che dunque – nonostante ogni ottimismo, questa sembra la preoccupazione del legislatore – dureranno ben al di là di un ciclo di breve durata. Alla riflessione sui dati numerici, si aggiunge una ulteriore perplessità, di natura qualitativa, concernente la individuazione del presupposto di questa seconda parte della norma, di natura contabile/bilancistica: è ragionevole dare per acquisita al bilancio dello Stato/Inps, secondo la vecchia norma dell’art. 9 l. n. 335/1995, un vantaggio frutto di una perdita per gli iscritti nel processo di accumulazione, tale da imporre una copertura della spesa a fronte del fisiologico e semplice mantenimento dei montanti? Se, come lascia presumere il legislatore, deve prevalere la risposta positiva, in chiave appunto bilancistica, si deve procedere il prima possibile ad una seria revisione dell’impianto previdenziale sotto il profilo del raccordo fra art. 38, co. 2 Cost ed art. 81, per definire un più equilibrato contemperamento.
2.3 (segue)… b) ulteriore incentivo per il TFR in busta paga
Il d.l. n. 65/2015 nell’art. 7 (testo immutato nella l. di conv.) torna sul «TFR in busta paga» – questo, letteralmente, il titolo dell’articolo –, apportando talune modifiche al regime di garanzia del finanziamento fruibile da parte dei datori di lavoro che non intendano attingere a risorse proprie per il pagamento della «parte integrativa della retribuzione»: si sostituisce il regime dell’art. 46 del t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia (d.lgs. 1.9.1993, n. 385) con quello dell’art. 2751 bis c.c., passandosi così dal regime di privilegio speciale al meno intenso regime di privilegio generale. Dunque, nonostante le diffuse perplessità manifestate in ordine alla utilizzazione del TFR mediante destinazione a retribuzione, e altresì ignorando – all’interno di queste perplessità – le segnalazioni volte a disporre almeno un alleggerimento dell’onere tributario per il lavoratore connesso all’esercizio della facoltà, il legislatore insiste nella medesima, originaria direzione, addirittura ricorrendo alla decretazione di urgenza, ritenendo che la strada giusta sia, un po’ paradossalmente, quella della implementazione delle agevolazioni alle operazioni datoriali di accesso al finanziamento.
2.4 Rimedi ad errata applicazione del metodo contributivo
L’immediatezza assoluta e senza accorgimenti transitori del passaggio al metodo contributivo per tutti, anche di coloro che erano stati esclusi a suo tempo dalla riforma del 1995, ha determinato il paradossale effetto di un miglioramento dei trattamenti pensionistici in favore dei soggetti che, raggiunta la soglia dei quaranta anni di anzianità contributiva o ad essa prossimi, risultassero – in ragione della attività lavorativa dopo l’1.1.2012 – avvantaggiati dalla acquisizione di ulteriore contribuzione divenuta utile ex lege. Un effetto mal calcolato e certamente sperequante, che ha trovato rimedio nella previsione dell’art. 1, co. 707, secondo cui «l’importo complessivo del trattamento pensionistico non può eccedere quello che sarebbe stato liquidato con l’applicazione delle regole di calcolo vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto».
Una correzione che, sia pure con decorrenza dalla entrata in vigore della norma correttiva, si è estesa anche ai trattamenti liquidati nel frattempo, dal che la prospettazione – per la verità improbabile – di una questione di lesione dell’affidamento8.
2.5 Sezioni Unite: prosecuzione del rapporto e pensionabilità
A livello di giurisprudenza ordinaria spicca, quanto all’art. 24 del d.l. n. 201/2011, la sentenza delle Sezione Unite n. 17589/2015, che ha deciso in ordine alla qualificazione della opzione per il prolungamento del rapporto di lavoro da parte di dipendente privato che abbia raggiunto i requisiti di accesso per l’età pensionabile (art. 24, co. 4). La decisione è stata nel senso di escludere l’esistenza di un diritto potestativo del dipendente stesso, a fronte del quale il datore di lavoro nulla potrebbe opporre; a maggior ragione si esclude che possa risultare ampliata la portata soggettiva della tutela reale ex art. 18 l. 20.5.1970, n. 300. É, questo, un segnale della Cassazione volto a stroncare tentativi di forzatura di norme scritte con l’obiettivo di differire la spesa pensionistica complessiva ipotizzando ad un tempo di compensare il sacrificio pensionistico, risultante anche dal meno favorevole criterio di calcolo, con un prolungamento esasperato e forzato del rapporto di lavoro, a prescindere cioè da un accordo fra le parti, in violazione dei principi di libertà contrattuale, correlati con la pur aumentata età pensionabile: si ridimensiona così per altra via il disegno del legislatore del 2011, volto a far prevalere anche su questo punto, comunque per vie traverse, un generico interesse pubblico sui consolidati assetti organizzativi del lavoro.
2.6 La previdenza complementare e il mercato
Nell’arco di tempo considerato, i problemi del secondo livello pensionistico hanno subito effetti di rimbalzo, sempre per il tramite di episodi giurisprudenziali. a)Posto che la dinamica della perequazione, e relativo contenimento, coinvolgono anche le forme a prestazione definita attraverso la norma dell’art. 34 l. 23.12.1998, n. 448, la sent. n. 70/2015 ha inevitabilmente toccato anche le forme a prestazione definita, evidenziando l’esistenza di un secondo livello di pensioni e richiamandosi al precedente della sua sent. n. 393/2000 (C. cost., 28.7.2000, n. 393), peraltro con un breve passaggio che non consente di definire puntualmente l’impatto della decisione n. 70/2015 su tale livello. A chiarire tale profilo, provvede invece il legislatore con il citato d.l. n. 65/2015, che esplicitamente conferma, attraverso il termine «complessivo», il coinvolgimento delle pensioni integrative a prestazione definita, sulla scorta della previsione del citato art. 34, co. 1, l. n. 448/1998, puntualmente richiamato, così accentuandosi la differenza di impianto delle variegate forme pensionistiche presenti nel secondo livello, quanto, in particolare, alla distinzione fra forme a prestazione definita, di tipo integrativo, e forme a contribuzione definita a capitalizzazione individuale. Solo per le prime, che, pur salvaguardate a suo tempo dal d.lgs. 21.4.1994, n. 124, risultano sistematicamente sfavorite dalla successiva legislazione, valgono – appunto, nel complesso – le regole sul contenimento della perequazione, così da evitare irragionevoli effetti di trasferimento dall’uno (primo livello) all’altro (secondo livello) segmento del sistema pensionistico, entrambi caratterizzati dalla configurazione di componente della finanza pubblica in senso ampio (così, appunto, la cit. sent. n. 393/2000). b)La Cassazione, a Sezioni Unite, con sent. n. 477/2015, è a sua volta intervenuta su di una questione che da tempo affatica gli operatori ed anche la giurisprudenza: quello della portabilità della posizione nell’ambito delle forme a prestazione definita, risolvendolo nel senso della portabilità, pur in presenza di talune obiettive difficoltà ed incertezze.
Non è questa la sede per approfondire la questione9, salvo sottolineare la fragilità assoluta, oltre che della soluzione, anche dei parametri indicati dal Supremo Collegio (ricordo che si parla di prestazioni definite, e dunque per definizione incerte), ed il paradossale contrasto, seppure in via incidentale, con una successiva sent. sempre delle Sezioni Unite, 9.3.2015, n. 4684, di diverso avviso. Merita di essere segnalato che queste oscillazioni giurisprudenziali maturano nel mentre si affaccia nell’ambito del disegno di legge sulla concorrenza l’idea di aprire in termini assoluti al mercato la funzione di previdenza di secondo livello, tradendo in qualche modo l’essenza del fenomeno. Non casualmente, un ripensamento di questo intervento si sta sviluppando nel senso di una riconsiderazione generale del sistema, quasi a scandire un ritmo decennale per il riassetto normativo.
A poco meno di quattro anni dalle riforme del 2011, pressate dall’Europa, si assiste ad un confronto serrato fra legislatore e giurisprudenza, non solo costituzionale, che nasce da una riflessione complessiva sull’art. 24 del d.l. n. 201/2011, avendo presente il rischio della segmentazione tematica in cui si imbatte la giurisprudenza, a causa dell’inevitabile effetto della delimitazione dei giudizi, quandanche di costituzionalità11.
Il punto è che, con l’utopistico obiettivo di chiudere la partita una volta per tutte e nel ben più ampio contesto del d.l. “Salva Italia”, l’art. 24 (da lungo tempo pensato a tavolino, ma scritto di impeto, sotto pressioni allora inusuali), è risultato del tutto sbilanciato nel rapporto valoriale fra diritti sociali fondamentali e salvaguardia dell’equilibrio finanziario, a smaccato favore di quest’ultimo e dei relativi algoritmi. Ne è prova certa la tecnica utilizzata a dicembre 2011, che è spesso di mero rafforzamento dei sacrifici già introdotti nella manovra estiva di cui al d.l. 6.7.2011, n. 98 conv. con mod. dalla l. 15.7.2011, n. 111.
Così, della norma sul contenimento della perequazione si è colto solo il profilo di capacità risparmiosa, senza sforzarsi di cercare un diverso possibile significato della manovra specifica in tema di perequazione, sottovalutando la circostanza che la transizione dal regime retributivo a quello contributivo, ha spaccato la platea dei pensionati/pensionandi. In questa situazione, non basta invocare l’inscindibilità del rapporto fra art. 36 Cost. ed art. 38 Cost., se non si spiega quale sia il parametro che governa questo rapporto12, e dunque se non si definisce quale debba essere il parametro della correlazione con il trattamento finale retributivo. Ben per questo, si ventilano interventi di complessivo riequilibrio, oltre che in senso finanziario, fra le due platee, anche con finalità intrinsecamente equitative, come tali ispirate al principio di solidarietà, prospettandosi, tanto autorevolmente quanto improbabilmente, retroattive applicazioni del metodo contributivo secondo variegate ipotesi13: ma allora, una oculata e dichiarata manovra riequilibrante/solidaristica affidata allo strumento della perequazione in versione di geometria variabile (qui si tratta di trovare uno o più congrui algoritmi) potrebbe concorrere ad attenuare progressivamente lo squilibrio di sistema determinato dal passaggio verso il metodo contributivo. Non più, dunque, una volta a volta diversa curva della perequazione come manovra comandata solo dall’art. 81 Cost., ma come manovra almeno in parte correttiva della difficile retroattiva del metodo contributivo.
È maturo il tempo per una riflessione complessiva del sistema, che consideri ad un tempo la portata definitiva del passaggio al metodo contributivo, del ruolo che in questo passaggio è chiamata a svolgere la “perequazione” e dell’incognita insita nella scelta, sopra commentata, della decontribuzione per le nuove assunzioni.
1 Il superamento di questo impianto si è avviato, notoriamente, con il processo di armonizzazione attivato con la l. 8.8.1995, n. 335, e pressoché completato con la concentrazione dell’INPDAP e dell’ENPALS nell’INPS (art. 21 d.l. 6.12.2011, n. 201).
2 Sulla totalizzazione, si leggano le pagine del capitolo terzo del volume di Foglia L., La posizione professionale del lavoratore nel sistema di protezione sociale, Torino, 2012.
3 Sandulli, P., Dal monito alla caducazione delle norme sul blocco della perequazione delle pensioni, in Giur. cost., 2, 2015.
4 Il Ministro dell’economia e delle finanze, allorché riscontri che l’attuazione di leggi rechi pregiudizio al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, assume tempestivamente le conseguenti iniziative legislative al fine di assicurare il rispetto dell’art. 81, co. 4, della Costituzione. La medesima procedura è applicata in caso di sentenze definitive di organi giurisdizionali e della Corte costituzionale stessa recanti interpretazioni della normativa vigente suscettibili di determinare maggiori oneri, fermo restando quanto disposto in materia di personale dall’art. 61 d.lgs. 30.3.2001, n. 165.
5 Sandulli, Pa., Le pensioni fra manovre reiterate ed effetti imprevisti, in Il libro dell’anno del diritto 2015, Roma, 2015, 398403.
6 Secondo la nota Istat, prot. SI/712, del 27.10.2014, diffusa a tutti gli enti previdenziali, ivi compresi quelli privati e privatizzati (d.lgs. 30.6.1994, n. 509 e d.lgs. 10.2.1996, n. 103), il coefficiente di moltiplicazione dei montanti avrebbe dovuto essere 0,998073.
7 Valga qui il richiamo alla mia analisi del problema, apparsa su Il Sole 24 ore dell’11.11.2014.
8 Cinelli, M.Nicolini, C.A., Legislazione previdenziale, in Riv.it. dir. Lav., 2015, III, 31 (in particolare Il passaggio al sistema di calcolo contributivo e le sue possibili distorsioni, 45).
9 Vedila ampiamente approfondita in Riv. Dir. Sic. Soc., 2015, n. 2, con le opinioni di Pessi Roberto, Ferrante Vincenzo, Simone Pietro Emiliani, Pasquale Sandulli
10 Questo paragrafo è, per buona parte, il frutto delle riflessioni maturate in occasione del seminario svoltosi in Luiss il 9.9.2015, su «La sentenza n. 70/2015 della Corte Costituzionale», organizzato congiuntamente dalla Rivista giuridica del lavoro e della Previdenza sociale e dalla Rivista di diritto della Sicurezza sociale, cui hanno partecipato Roberto Pessi, Enzo Balboni, Paola Bozzao, Maurizio Cinelli, Paolo De Ioanna, Antonino Sgroi, oltre chi scrive; gli interventi sono raccolti con lo stesso titolo in WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona”.IT –4/2015.
11 A parte l’eventualità dell’ampliamento del giudizio di costituzionalità attraverso la riproposizione davanti a se stessa della medesima questione in più ampi termini: fu questo il caso, esemplare, di C. cost. 8.9.1995, n. 421, sull’estensione temporale del contributo di solidarietà applicato ai contributi di secondo livello.
12 Un tale interrogativo non si pone, né avrebbe motivo di porsi, laddove si tratta di definire la natura reddituale della prestazione pensionistica a fini diversi da quelli della adeguatezza delle prestazioni: è il caso portato all’attenzione delle Sezioni Unite (Cass., 21.5.2015, n. 10455) in vista di definire il regime delle spese processuali, distinguendolo da quello relativo alle controversie in materia di assistenza sociale, nella articolazione fra co. 1 e 2 dell’art. 38 Cost. (qui è più che sufficiente la generica correlazione fra retribuzione e pensione).
13 Secondo una metodologia algoritmica, si è ipotizzato anche un meccanismo di ricalcolo a forfait delle pensioni in essere per allinearle ex post al metodo contributivo.