Le riforme
Nella città di Bergamo ormai democratizzata, siamo nel 1797, un pamphlet giacobino lancia alla moribonda classe aristocratica questa accusa impietosa: "Si trovano dentro Venezia tre o quattromila scienziati ed altrettanti per lo meno nelle provincie che sapevano quasi a mente le opere di Montesquieu, Rossò e il libro Dei delitti e delle pene, letto da tutti con vero entusiasmo e fatto più volte riprodurre colle stampe della vostra capitale, sebbene contenesse più di quaranta proposizioni che dichiaravano indirettamente ridicolo, iniquo, tirannico il vostro governo: perché dunque dopo più di trent'anni di appassionata lettura di tali opere non vi siete curati di riformare i vostri tribunali e raddrizzare in qualche foggia il vostro greco gotico governo [il corsivo è mio], ma anzi avete proseguito sempre più precipitosamente a disorganizzarlo e renderlo ogni giorno più pesante ed odioso?" (1).
Giusta, nel suo sarcastico paradosso, l'accusa ai nobili veneti di aver letto ed amato i grandi philosophes francesi, ma di non aver introdotto, nella giustizia e nell'ordinamento dello stato, nessuna riforma "illuminata", ma altrettanto paradossale, nelle sue contraddizioni ed evoluzioni, la personalità dell'autore di queste parole: Ferdinando Facchinei, di origine romagnola, giovane frate ribelle e persino incarcerato per "l'infame e obbrobrioso titolo di eretico e di deista", acquista grande fama nel 1764 per una brillante e veemente confutazione di Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, tutta intrisa di umori reazionari, anti-illuministi e anti-democratici; poi, nel 1797, ormai in età avanzata (è nato nel 1725), colto nel monastero di S. Sepolcro d'Astino dall'improvvisa democratizzazione di Bergamo, con sorprendente disinvoltura si scaglia contro la morente "leo-volpina repubblica", grida "Viva la repubblica bergamasca!" e, come "cittadino Fernando Facchinei, monaco vallombrosano", firma questo opuscolo, in cui deride l'impotenza riformatrice dei patrizi veneti (2).
Ci sono state riforme, illuminate o meno, nella Venezia del Settecento? Se sì, come qualche storico ha timidamente suggerito negli anni più recenti, quali sono state, che limiti hanno avuto, quale "partito riformatore" le ha suggerite e promosse, se no, come sostiene irosamente Facchinei, e con lui i giacobini del 1797 e molti storici del nostro secolo, quali le cause di questa contraddizione della Venezia settecentesca, uno stato in cui si leggono i filosofi stranieri e italiani, si discute di riforme ma poi ben poco si riforma? Prima di entrare nel vivo di questo problema storico vorrei cogliere dalla viva voce di alcuni patrizi veneziani l'opinione sulle riforme, sul loro valore intrinseco e contingente, sul rapporto con una rivoluzione, prima solo immaginata come ipotesi teorica poi invece divenuta concreta realtà, in Europa e a Venezia stessa.
La Repubblica di Venezia si dissolve senza che nel corso del Settecento alcun mutamento significativo sia apportato alla sua millenaria e ormai mitica costituzione; dibattiti, turbolenze, tre correzioni, si concludono senza alcuna riforma di rilievo nel tessuto istituzionale dello stato: immobilismo, conservazione, rassegnata impotenza, timore, o addirittura orrore per le novità politico-istituzionali sono alcuni dei termini che gli storici del nostro secolo, ma prima già molti patrizi e osservatori politici del Settecento hanno coniato per descrivere l'esito finale del dibattito e della lotta politica a Venezia nel secolo del dispotismo illuminato.
"Nel linguaggio politico del Seicento [ricorda Rosario Villari] i termini ῾novità' e ῾mutamento' con tutti i loro derivati, hanno una connotazione decisamente negativa. ῾Novità' è la negazione di regole fondamentali del vivere civile e dell'ordine naturale, il turbamento di ciò che ha una valida ragion d'essere per il fatto di appartenere alla tradizione" (3); nel Settecento invece, novità, mutamento, riforma/e assumono una connotazione decisamente positiva: i filosofi, i riformatori, i despoti illuminati assumono la novità delle riforme come idea-guida della trasformazione della società. E a Venezia? Penetrazione e accettazione dei lumi europei e italiani sono ampie e durature, vivaci e appassionati anche i dibattiti tra i filosofi veneti sulle riforme auspicabili e auspicate; ma tra i patrizi veneziani, classe dirigente arroccata sino all'ultimo nella difesa dell'esclusivo esercizio del potere politico, la pur ampia conoscenza e simpatia per i lumi e le esperienze riformistiche delle grandi monarchie europee (Austria, Russia, Prussia) non si traducono in coerente volontà di riformare lo stato marciano. Riforme, più o meno radicali e incisive, vengono discusse, progettate, talvolta in parte realizzate in vari settori della società, ma non nella costituzione dello stato: questa costituzione, ormai mito che vive in se stesso, non si riforma, decidono i patrizi veneziani, perché la riforma in sé è pericolosa, anzi nefasta per la sopravvivenza stessa della Repubblica.
Giacomo Nani lascia nel Saggio politico del corpo aristocratico della Repubblica di Venezia per l'anno 1756 una delle analisi più lucide del corpo aristocratico veneziano: distribuisce la nobiltà in cinque classi in relazione alla ricchezza e vorrebbe "eguagliare in qualche modo le fortune [...] col diminuire il numero de' poveri, affinché non si rendano pesanti [...], coll'obbligar le famiglie ricche a dividersi" (4). Quando scrive il Saggio, nel 1756, Nani si colloca, ricorda Del Negro, tra "i portavoce di ῾partiti' avversi al regime", tra quegli "῾spiriti forti, liberi', ai quali appartenevano sia un gruppo di ῾giovani' usciti dalle file della media nobiltà che alcuni capi delle Quarantie" (5); essi "amavano ῾la Repubblica qual ell'è e ne odia[vano] tutte le novità'", e sapevano "bene che ῾tutte le novità sono pericolose' [il corsivo è mio]" ma che esse "potevano venire, ῾più che da ogn'altra parte', dai Signori" (6). Passano poco meno di trent'anni, siamo nel 1781, dopo la terza fallita correzione di Giorgio Pisani; ora Nani, cito ancora da Del Negro, ha ormai dimenticato il "libertinismo giovanile", rifiuta il "dispotismo oligarchico" di Andrea Tron e il "῾chietinismo' filocuriale" di Piero Barbarigo, osserva rassegnato una Repubblica afflitta dai "mali della vecchiezza incurabili" e "sull'orlo della caduta" perché i "buoni cittadini [...] si determinano a far essi soli quel poco che possono di bene senza un maggior fastidio, lasciando che le cose a loro grado camminino, cioè a seconda dei desideri di quei, a cui non si trovano in grado di poter resistere [...] lontana stia adunque qualunque adesione a riforma", si evitino le "straggi e convulsioni" degli "innovatori", "il mantenimento dell'ordine è il solo mezzo che oggidì può conservare in pace e in tranquillità" (7). Con questo rifiuto istintivo e quasi sdegnato delle "novità" e della riforma, "con questo conservatorismo amaro, privo di una qualsiasi speranza di redenzione", osserva ancora Del Negro, "si chiudeva la parabola politica di Nani" (8).
Diplomatico, storiografo della Repubblica, infine doge per neppure due anni, Marco Foscarini esprime al livello più alto l'orgogliosa consapevolezza del mito veneziano: nel Ragionamento politico sulla perfezione della Repubblica veneziana (1722), nella Storia arcana e soprattutto nel trattato Della letteratura veneziana (1752) si colgono chiare, osserva Venturi, la "coscienza [...] del distacco sempre più profondo tra mito e realtà", la necessità del "risorgimento della Repubblica", e quindi di riforme, ma anche la difficoltà e infine l'impossibilità, quasi fisica e ineluttabile, di farle (9); nel 1747 Foscarini scrive: "Se ad una fabbrica intatta, ma però antica molto, qualcun risolva de levarghe parte della sua base o sostegno no ghe xe architetto che possa dir qual crollo lo sia per far" (10); quattordici anni dopo, intervenendo nel concitato dibattito aperto dalla correzione di Angelo Querini, ripete che chi vuol riparare una casa per renderla più luminosa e comoda rischia di interrompere la comunicazione tra gli appartamenti, debilitare i fondamenti e provocare così una "precipitosa ruina" (11).
Di lì a qualche anno, nel 1786, Marco Barbaro, "patrizio di modeste fortune, ma di vivo ingegno e di temperamento libero e audace" (12), avvocato brillante, anzi, secondo Enrico Basaglia, "una delle voci più energiche, ῾riformatrici', degli ultimi anni della Repubblica" (13), riprende la suggestiva metafora: "si potranno bene aggiungere in un edificio delle statue e delle pitture onde adornarlo [...] ma chi volesse por mano nei suoi fondamenti, invece che costituirli più solidi, azzarderebbe di far cadere a terra il tutto. Lo stesso si può dire di una Repubblica, tanto più quanto è provata per più di quattordici secoli la bontà delle sue leggi primitive" (14).
In occasione della correzione di Giorgio Pisani del 1780 il segretario Pietro Franceschi, fedele interprete delle posizioni più conservatrici del patriziato, traccia questo profilo dei rischi mortali delle auspicate riforme, prodromo sicuro di catastrofici rivolgimenti: "Si parlava di leggi agrarie senza saper cosa fossero e quali turbolenze abbiano generato nella repubblica romana. Si proferiva di far ricco il povero togliendo i beni ai proprietari più ricchi senza conoscer la forza e la giustizia della proprietà [...] in una parola si proponevano generalmente ricchezza e giocondità, in uno stato di riforma, quasi che il governo potesse maneggiarsi con le arti de' ciarlatani [...] tali erano i discorsi liberi, fastidiosi e contraddittori che si udirono per sei mesi al teatro, nelle botteghe e quasi ad ogni radunanza, col pericolo di qualche rivoluzione [corsivi miei]" (15).
Tre anni dopo Andrea Rubbi, gesuita, nemico dei philosophes e sostenitore di un patriottismo di matrice letteraria, volgendo lo sguardo alle vicende politiche dell'Europa, traccia quello che Venturi ha definito un "vero elogio dell'immobilismo [...], tutto teso a scartare ogni pensiero di riforma e di rivoluzione" (16): "ogni novità in fatto di costituzione è sempre da temersi [...]. Non è già che manchino scrittori moderni che sotto il titolo di riformatori introducano con frasi inintelligibili qualche piano di legislazione [...]. Ma questi sono libri per que' fanatici che porgon voti alla tomba del ginevrino senza intenderlo" (17). Forse Pietro Mocenigo ha letto i saggi sul lusso del Rubbi quando, nel 1784, pubblica le sue Riflessioni sull'uomo in società: se l'anno prima ha indicato in Giuseppe II il "modello di ottimo principe ora invece traccia [osserva Venturi] una compiaciuta apologia dello stato in cui si trovava l'Europa": condanna il "fanatismo filosofico" che vorrebbe distruggere le classi e chiama "fanatico colui che invece di contribuire col suo esempio ad estirpare possibilmente i difetti della società, pensa a riformare e a muovere da sé solo la società stessa. Costui è stato l'origine de' più fatali sconvolgimenti e delle più esecrabili azioni che disonorano l'umanità" (18). In un altro opuscolo del 1788 Mocenigo cerca di "dimostrare come fossero impossibili, prima ancora che nocive, le riforme e vani gli sforzi degli ῾innovatori politici'", poi, caduta la Repubblica, aderisce al nuovo regime democratico e anzi, con la stessa sicurezza con cui ha teorizzato l'immobilità e intangibilità della vecchia costituzione, afferma che "sarebbe delitto turbare l'ordine democratico e l'uomo d'onore deve rispettare ed amare quella costituzione prescritta dal generale concorso delle nazioni e degli uomini" (19).
Le riforme cui pensano i filosofi, europei e veneti, giovano alla patria e patrioti infatti si chiamano talvolta gli spiriti forti che anelano a riformare la società; nel corso del Settecento, ricorda Erasmo Leso, "il referente geografico, o locale, della parola patria subisce una dilatazione: designa sempre il ῾luogo natio' ma su scala prima ridottissima - come di mappa -, poi sempre più ampia, come di carta topografica, e corografica, e geografica: dalla città o villaggio, alla regione, alla penisola intera" (20). Patriot[t]ismo indica dunque "amor di patria" e patriot[t]a è "chi ama la patria e cerca di giovarle" (21). Antonio Zanon, imprenditore friulano che fa discendere la sua attività riformatrice "direttamente dalla sua esperienza di mercante imprenditore" e la cui promozione delle accademie agrarie costituisce una delle punte più alte del riformismo veneto (22), scrive: "Patriotismo chiamasi quel desiderio efficace che uno ha di giovare alla propria patria senza alcun suo fine particolare salvo quello di partecipare al pubblico bene al quale contribuire quanto da esso dipende col consiglio e coll'opera" (23). Parole scritte da un riformatore friulano, non patrizio, nel 1763, nel pieno di quegli anni Sessanta che sono per Venezia l'età delle riforme; ma nel 1732, quando la primavera delle riforme non era ancora sbocciata, Polo Renier, in una relazione al collegio, aveva già espresso con mirabile efficacia quel sentimento di rinuncia ed impotenza a riformare la patria veneziana che caratterizzerà nei decenni seguenti l'azione di molti patrizi veneziani: "Partire dalla propria casa, dove si sta molto volentieri, quando si tratti di poter giovare con l'applicazioni e travagli alla patria sua, non deve esser grave. Uscir, e sapere che non si gioverà, o che si nuocerà a se stesso se si procurerà di giovarle, se non è cosa che affligga lo spirito, certo è che non lo consola, e dove manca la consolazione, e che in luogo di quella vi entri la tristezza, si fa languida e svogliata qualunque azione umana" (24).
Nel 1789 in Francia, nel 1797 nella Repubblica di Venezia, arriva la rivoluzione: conseguenza delle riforme o di riforme non fatte? Nel triennio giacobino, precisa Leso, "oltre che da rivoluzione, la nozione essenziale di ῾cambiamento' è espressa anche dal termine di antico uso politico riforma […]. Come rivoluzione, riforma ha uno spettro di applicazione molto vasto [...]. I controrivoluzionari assimilano la riforma alla rivoluzione": Gian Francesco Galeani Napione conia il termine di riforma rivoluzionaria e Lorenzo Ignazio Thjulen definisce addirittura riforma "vocabolo caro a tutti quelli che hanno voluto sconvolgere il mondo" e indicando quindi "i riformatori, dopo averli paragonati sul piano religioso con gli eretici e su quello politico con i ribelli, come promotori di distruzione [...]. In realtà la semantica di riforma si viene precisando nel triennio proprio in opposizione a quella di rivoluzione"; anzi tra "rivoluzione e riforme" (25). Nell'ultimo decennio del secolo sulla dialettica riforme-rivoluzione ritorna Francesco Mengotti, una delle menti più lucide tra i filosofi veneti (26): "Ai disastri insomma originati dal colbertismo [scrive Venturi] Mengotti contrapponeva una energica ripresa del moto riformatore" (27). Quando cade la Repubblica Mengotti aderisce prontamente alla municipalità democratica e proclama senza esitazioni la legittimità delle riforme ma anche della rivoluzione: nella secolare storia di Venezia "qualunque volta il popolo ha conosciuto che la costituzione del governo non era adatta ai tempi ed alle proprie circostanze si è rivolto a correggerla e a riformarla [...]. Questi necessari cangiamenti e regolazioni di governo si chiamano appunto rivoluzioni", la rivoluzione non è "dunque la distruzione della repubblica, né la sovversion della religione, della giustizia, della proprietà, dell'onore, della pubblica fede, ma significa anzi la riforma del governo divenuto col tempo difettoso per renderlo più attivo, più vigoroso, e più rispettabile" (28).
Nessuna contraddizione dunque tra riforme e rivoluzione, anzi una continuità fecondata, osserva ancora Venturi, da "un ritorno al passato, alle origini, alle radici, a quella vocazione di libertà da sempre presente e viva nel popolo di Venezia". Del resto, lo vedremo tra poco, la rivoluzione democratica, o giacobina, come polemicamente l'etichettano i conservatori e controrivoluzionari, nei suoi pochi mesi di vita, tenta davvero di realizzare alcune delle riforme elaborate ed auspicate negli anni precedenti dai filosofi veneti.
In molti stati europei ed italiani diffusione dei lumi e attuazione delle riforme vanno di pari passo; che anche a Venezia l'illuminismo abbia orientato la cultura del secondo Settecento pare ovvio: né scontati né ovvi sono invece "il valore e i limiti del suo progetto di trasformazione della cultura e della società veneta", tant'è che, ancora nel 1963, Gianfranco Torcellan lo poteva definire la "classica araba fenice" (29). Le divergenti valutazioni degli storici nel secondo dopoguerra hanno stimolato una feconda stagione di studi; accurate e minuziose ricerche archivistico-bibliografiche, polemiche e discussioni e quindi giudizi generali e sintetici si sono accumulati in gran numero negli anni più recenti: forse ora è possibile tracciare un bilancio convincente dei lumi veneti e delle riforme, fatte o mancate, a Venezia, negli anni in cui in Europa si dispiega la stagione del dispotismo illuminato.
Nel 1946 Roberto Cessi chiudeva la sua Storia della Repubblica di Venezia minimizzando la ricezione dei lumi in terra veneta e negando del tutto il loro influsso sulla vita sociale e politica della Repubblica: "Gli uomini di dottrina e di scienza che attentamente meditavano le teorie della filosofia francese, ne ammiravano forse più la genialità che la verità; ed in ogni modo non ne trassero ispirazione a positive riforme politiche" (30). Diversa l'analisi di Massimo Petrocchi: attenua e sfuma il concetto di decadenza economica (anzi per lui la seconda metà del Settecento "segna un aumento della capacità produttiva della Repubblica e un non trascurabile ampliamento del mercato continentale"), sottolinea l'ascesa di un ceto medio che mira a sostituirsi alla classe aristocratica e afferma con sicurezza l'esistenza e la vitalità di un assolutismo illuminato nel Veneto, "perché progetti e programmi ispirati alla nuova visione della vita economica agraria e industriale non si può dire rimanessero lettera morta nella società veneta della seconda metà del secolo XVIII" (31). Radicalmente divergente l'opinione di Marino Berengo, espressa in quel volume La società veneta alla fine del Settecento (32) "destinato a divenire il punto di riferimento, e di sviluppo successivo, di tutta la ricerca sull'Illuminismo veneto" (33): la "paralisi" intellettuale soffoca ogni tendenza di progresso dello stato e le classi colte vedono "combattuta o ignorata dal governo [...] ogni esigenza, che possa scomporre l'immobile quiete dello stato"; "le voci dell'Illuminismo riformatore sono passate accanto all'aristocrazia veneziana senza toccarla, mentre l'impotenza ed il sopore si sono sostituiti ad una pace tranquilla ed attiva [...] negli Stati veneti si diffuse un'intensa curiosità di ῾gusto', per cui le opere dei filosofi si lessero, si discussero ed anche si amarono, ma ben di rado se ne assorbì la sostanza [...] il nuovo pensiero vi è accolto come stimolo a riordinare l'antico mondo tradizionale con tenui e pazienti ritocchi, non a sovvertirne la struttura e le norme in nome dei diritti della ragione [...] la storia degli illuministi veneti del tutto consoni col generale atteggiamento della più avanzata e rivoluzionaria cultura europea, è la storia di pochi nomi, di esigui gruppi che non influiscono sulla vita spirituale dello Stato ma che si posero ai margini di essa e non vi lasciarono impronta durevole [...] la maggior parte dei Veneti del Settecento non amava agitare questioni di fondo [...] una più adeguata immagine dell'ambiente veneto può essere tratta dalla diffusa tendenza ad un compromesso tra società conservatrice e pensiero moderno" (34). Anche l'analisi dei giornali veneziani del Settecento, pur così ricchi di curiosità, conferma Berengo nel suo quadro opaco e negativo dei lumi veneti: il giornale veneziano "se era stato letto e forse applaudito e ripetuto da alcuni, aveva però agito come stimolo di gusto, non come esigenza di riforme e di progresso. La storia della ristretta fioritura illuministica del giornalismo veneziano del Settecento si identificava così con la storia stessa delle idee illuministiche, che nella Repubblica di Venezia si diffusero largamente ma non seppero profondamente penetrare. Erano i periodici più timidamente protesi verso il nuovo, eppur invincibilmente legati all'antico, a dare la più reale misura della società che li aveva espressi" (35).
Una via diversa seguono le indagini e i giudizi di Giovanni Tabacco: per un verso critica in Berengo uno "schema a catastrofe", preoccupato "di giungere al movimento giacobino", spegnendo così "ogni reale interesse per il faticoso processo di trasformazione del mondo veneto, un processo destinato a svolgersi anche al di là della catastrofe", per un altro volge il suo interesse ad una delle figure più esemplari di patrizio veneto "illuminato", ma non "illuminista": con Andrea Tron "noi ci troviamo di fronte a un illuminismo in statu nascendi, e al nascere faticoso di una speciale forma di illuminismo, tutta condizionata dal persistere di una vigorosa tradizione morale" e quindi "ad una interpretazione severa dei lumi, aliena in parte da quella degli eredi dei libertini di Francia" (36).
L'illuminismo veneto vive, è forte, fecondo di idee e di filosofi generosi ed intelligenti, ma la classe patrizia dominante, che pure lo conosce e lo accetta nei suoi scritti più famosi, non lo fa suo e non lo traduce in energiche e vitali riforme politiche e sociali: questa la tesi limpida e decisa di Gianfranco Torcellan, alla quale hanno finito poi per accedere, sia pure con precisazioni, riserve, approfondimenti, altri storici degli anni più recenti (37). Andrea Memmo, altra figura di spicco, insieme al Tron, del patriziato veneziano del Settecento, è il simbolo di un'aristocrazia "accanita e ῾indolente'", che condivide "la speranza e l'esperienza europea dell'illuminismo e delle nuove idee, ma che da esse, pur con vari tentativi, non seppe trarre una vera lezione politica, né seppe perciò raggiungere veri e validi risultati nella direzione e nella riforma dello stato": un patrizio che non aderisce pienamente ai lumi d'Oltralpe, ma la cui "illuministica chiarezza e fiducia nella loro risoluzione [dei problemi] imminente in un piano di razionalizzazione benefica e provvidenziale delle strutture economiche del paese" si dissolve al contatto con la concreta azione politica; nel "compromesso fra le sue premesse riformatrici e la sua azione di patrizio [...] il secondo aspetto giungerà gradatamente a svuotare ed annullare il primo", assumendo la venezianità come premessa e base di tutta la sua azione politica (38). Torcellan ritorna sui giornali veneziani (soprattutto "Giornale d'Italia", "Il Corrier Letterario", "Magazzino Italiano", "L'Europa Letteraria", "Giornale Enciclopedico") e sugli uomini di punta dei lumi veneti (Francesco Griselini, Alberto Fortis, Giovanni Scola) e vi ritrova la testimonianza della "capillare e sempre varia ed agile diffusione del pensiero illuministico", seppur in "contrasto stridente con la generale e diffusa incapacità [...] ad adeguarsi e ad impadronirsi veramente della linfa vitale e della carica feconda di quelle idee" (39); netto e conclusivo il giudizio finale sulla dialettica lumi-riforme nella Venezia del Settecento: "nessuno degli stati italiani offre forse nel Settecento un più stridente contrasto tra la varietà delle iniziative culturali e la meschina, impacciata realtà della prassi politica, mai, credo, tanto immobile fatalismo nascose ed oscurò più fermenti e più polemiche, più vivacità di interessi, di studi, di discussioni" (40). Alle ricerche di Berengo e Torcellan, e alle loro contrapposte interpretazioni dell'illuminismo veneto, sono seguiti anni di studi intensi ed articolati, che hanno arricchito la nostra conoscenza dell'economia, dello stato, della cultura della Venezia settecentesca (41).
Entro l'ampia cornice del Settecento riformatore europeo Franco Venturi ha tracciato un limpido quadro dell'illuminismo e delle riforme nella Repubblica di Venezia (42); secondo Venturi "gli anni '60 furono, anche a Venezia, la primavera del moto riformatore dei lumi": sono gli anni delle accademie agrarie, della spinta propulsiva del filosofo friulano Antonio Zanon, del "Giornale d'Italia" di Griselini, dell'irradiazione dei lumi tramite gli scritti dei grandi philosophes francesi e dell'Encyclopédie, della più vivace ed incisiva attività professionale, pubblicistica e riformatrice dei filosofi veneti (Griselini, Arduino, Fortis, Scola, Scotton[i]) e di tanti altri "uomini patriottici che leggono libri buoni", sono infine gli anni di alcune importanti riforme in campo ecclesiastico (43). Un bilancio conclusivo, per Venturi, della stagione dei lumi e delle riforme a Venezia: "l'illuminismo veneto nasce e vive sullo sfondo del ricordo sempre riemergente di avvenimenti e leggende dei lunghi secoli trascorsi [...]. La riflessione storiografica è dunque l'indispensabile punto di partenza di questa ricerca sull'età dei lumi a Venezia" (44); di fronte ai "lumi moderni, indispensabili e pur sospetti, necessari e pericolosi insieme", Venezia oscilla tra "l'attrazione e la ripulsa, l'apertura e la ritrosia" (45); la politica veneziana, ovvero della sua classe dirigente, ha un "carattere bifronte [...], volta insistentemente verso il passato e ansiosa insieme di rinnovamento" (46); "il fallimento delle riforme spinge sempre più gli sguardi al di là dei confini della Repubblica, verso nuovi orizzonti e nuovi mercati" (47); "il moto riformatore riuscì a creare una atmosfera favorevole ai cambiamenti, non un gruppo capace di continuità [...]. Così per tutti i grandi problemi dell'umana società che l'illuminismo stavi, mettendo a nudo e dai quali i veneziani sembravano distogliere gli sguardi per tenerli fissi sul variopinto mondo della vita quotidiana" (48).
Nessuna riforma, neppur marginale, tocca la costituzione aristocratica di Venezia nel corso del Settecento: il maggior consiglio che il 12 maggio 1797, in apparenza per spontanea e legale deliberazione, in realtà succube dell'ultimativa volontà di Bonaparte, adotta "il sistema del proposto provvisorio Rappresentativo Governo", non riforma ma abbatte uno stato secolare e cancella d'un colpo una costituzione ormai cristallizzata nei secoli ed anzi divenuta un mito.
A Venezia non si innova nella struttura politica dello stato, ma si discute e dibatte, anche aspramente, di riforma, sia pure nei limiti ferrei imposti dalle regole di uno stato aristocratico e dalle pratiche repressive, vieppiù crescenti negli anni della Rivoluzione francese, del consiglio dei dieci e degli inquisitori di stato: certo la Venezia del secondo Settecento non è più quella "città della calma apparente e del silenzio politico" immaginata da Burckhardt per gli anni del Rinascimento (49), ma non è ancora, né può essere, per la logica stessa di un ordinamento aristocratico-oligarchico, una libera palestra di opinioni politiche, dentro e fuori del ceto patrizio che detiene, e intende detenere in aeternum, il potere politico. A Venezia non manca la conoscenza dei grandi scrittori politici del Settecento (Montesquieu, Rousseau), le loro opere sono tradotte, diffuse, commentate e discusse dai giornali e dai filosofi ma il loro pensiero, e dunque i grandi temi delle libertà civili, della democrazia, dell'eguaglianza, del sistema rappresentativo, della divisione ed equilibrio dei poteri, restano di fatto estranei al dibattito politico veneziano. Riformare o meno la costituzione della Repubblica è problema che riguarda solo i nobili veneziani, non può e non deve riguardare gli altri nobili delle città di Terraferma, da sempre esclusi da qualsiasi partecipazione al potere politico, e tantomeno i filosofi di estrazione borghese che pure costituiscono il nucleo più ampio, compatto e vivace di un ipotetico partito riformatore nella Venezia del Settecento. Un secolo di scritti, più o meno clandestini, di dibattiti pubblici, talora anche serrati, tre correzioni abortite, altri minori conati riformistici, abbozzati sulla carta o anche portati a qualche deliberazione negli organi costituzionali, non approdano a nulla e così Venezia consegna la sua immobile e irriformata costituzione all'inesorabile logorio di un secolo segnato da impetuosi cambiamenti sociali e politici e poi alla repentina, e da molti prevista, caduta per mano straniera. Quale contrasto, tanto per fare un esempio che viene spontaneo, con la Toscana asburgica, dove la luminosa stagione delle riforme illuminate di Pietro Leopoldo approda persino a quel progetto di costituzione (1779-1782), nel segno di una rappresentanza nazionale affidata al ceto proprietario, il quale, osserva Luciano Guerci, "qualora fosse stato tradotto in pratica, avrebbe portato ad un superamento dall'interno dell'Ancien Régime" (50).
Emblematico del carattere e dei limiti del dibattito politico sulle riforme costituzionali a Venezia è il destino del Consiglio politico elaborato nel 1736-1737 dal nobile veronese Scipione Maffei, erudito e scrittore di rinomanza europea, i cui interventi su temi di grande rilievo civile e sociale, come il prestito ad interesse e la stregoneria, apprestano al Veneto e all'Italia di metà Settecento il terreno fecondo per la ricezione e lo sviluppo dei lumi (51). All'"indebolimento" della Repubblica, ormai evidente in ogni settore (territoriale, militare, commerciale, finanziario) e alla funesta indifferenza di molti sudditi, soprattutto del mondo contadino, Maffei oppone la certezza "che si può crescer di forze, senza crescer di Stati; e ciò coll'interessar tutti senza la minima alterazione del presente Governo della Repubblica"; basta una piccola-grande riforma: concedere la nobiltà veneziana a venti famiglie nobili, il cui carattere aristocratico sia riconosciuto da almeno tre secoli, per ogni città di Terraferma, che a sua volta dovrà aprirsi alla partecipazione del territorio (52). Niente di rivoluzionario, in realtà, visto che anche nei secoli passati, in più occasioni e soprattutto in momenti di difficoltà finanziarie (vedi il caso della guerra di Candia), non sono mancate aggregazioni alla nobiltà di famiglie della Terraferma (53).
Suggerimenti per la perpetua conservazione ed esaltazione della Repubblica Veneta atteso il presente stato dell'Italia e dell'Europa è intitolato nel 1736-1737 il progetto di Maffei, a sottolineare il carattere moderato, riformista, tutto fuorché rivoluzionario: circola poco, e manoscritto, se davvero circola, e non viene neppure presentato al governo: col nuovo titolo di Consiglio politico finora inedito presentato al governo veneto nell'anno 1736 viene pubblicato, anzi "dissepolto", precisa Del Negro, "nel marzo del 1797, alla vigilia della caduta della Repubblica: ma il tempo opportuno per un felice innesto dell'aristocrazia rappresentativa della Terraferma nell'annoso e corroso tronco dell'aristocrazia ereditaria veneziana era ormai alle spalle" (54).
Chiusa con la pace di Passarowitz (1718) l'ultima guerra con i Turchi, Venezia vive una lunga stagione di pace; pace e neutralità, tenacemente perseguite dall'aristocrazia dominante ma in realtà imposte da un'evidente decadenza economica, politica e militare: le voci ricorrenti (ad esempio in occasione della pace di Aquisgrana e delle prime due spartizioni della Polonia) di un possibile sacrificio della Repubblica nel nuovo concerto delle potenze europee, lungi da stimolare nel governo propositi di rinnovamento istituzionale e di radicali riforme economiche e militari, ispirano una pratica politica di ripiegamento e di fatalistico e rassegnato immobilismo, rinunciatario in politica estera e ostile a qualsiasi novità sul piano interno. Analisi impietose della decadenza dello stato e dei difetti più evidenti della costituzione non mancano, e sono spesso di elevato vigore, in alcuni dei patrizi più illuminati, ma quasi mai seguono coerenti proposte di riforme istituzionali: anzi non è neppur raro che qualche patrizio affidi le sue lamentazioni e proposte riformatrici a memorie destinate a rimanere, come il Consiglio politico di Maffei, nell'ambito dei ricordi familiari o, al massimo, di ristretti circoli di amici personali o politici. All'apertura del nuovo secolo Pietro Garzoni, pubblico storiografo, coglie con acume alcuni dei mali più evidenti della Repubblica: divaricazione eccessiva nelle fortune economiche delle famiglie nobili ("due estremi nocevoli alla simmetria, e buona regola di governo: la Dovizia e la Povertà"), eccessivo ed arbitrario potere del consiglio dei dieci e inquisitori di stato, estinzione di molte casate per il costume di destinare alle nozze solo un membro per famiglia; nel 1723 si azzarda anche a proporre una riforma, la devoluzione all'erario di un terzo del patrimonio delle case estinte, miseramente caduta per l'avarizia dei grandi: ormai la decadenza della Repubblica è irrimediabile e per il futuro non resta che la fiducia in Dio, protettore di una Venezia "ricovero imperturbabile della Santa Fede" (55).
Passa qualche anno e Nicolò Donà concepisce tra il 1734 e il 1738 alcuni Ragionamenti politici intorno al governo della Repubblica di Vinegia, indirizzati nientemeno che agli inquisitori di stato: dopo aver acutamente suddiviso, in base alla ricchezza, il patriziato in quattro classi (proceri, o grandi, benestanti, meccanici, plebei) più i nuovi (cioè le case di più recente aggregazione), propone di dividere le case più ricche dei proceri e nel contempo realizzare in modo coperto una nuova Serrata del maggior consiglio, minorando considerevolmente la classe dei plebei; una riforma audace e radicale, senza dubbio, nel segno di un'aperta involuzione oligarchica del secolare reggimento aristocratico della Repubblica ma, come osserva Del Negro, questo "ambizioso progetto di trasformazioni strutturali non tanto delle istituzioni [...] quanto dei rapporti di potere tra le diverse ῾classi' del patriziato" (56) non trova accoglienza negli ambienti di governo.
Anche Marco Foscarini ha coscienza della necessità di pronte riforme ma nella sua azione politica non ne fa e non ne propone alcuna di particolare rilievo, neppure per sollevare la drammatica miseria della Dalmazia, di cui pur traccia una dettagliata analisi (57): quando poi stende l'ampio quadro Della letteratura veneziana ogni traccia o sogno di riforme svanisce e l'opera si risolve in "una storia delle idee veneziane in materia di politica, di economia, di storia e di scienze", in una sorta di "enciclopedia della civiltà veneta", nella quale alla fine "la tradizione spiegava, velava la realtà e rendeva meno urgenti le riforme" (58). Questo "discorso ortodosso sulle istituzioni della Repubblica", come giustamente lo chiama Del Negro (59), si ripropone di lì a qualche anno nei Principi di storia civile della Repubblica di Venezia (1755-1772) di Vettor Sandi, un modesto nobile nuovo che con un'ampia indagine storica illustra i modi e i tempi con cui l'aristocrazia veneziana ha creato ed esercitato il proprio potere politico (60). Storia dell'aristocrazia dunque, nel segno del mito di Venezia e della sua costituzione secolare e intangibile: non a Sandi si può chiedere qualche progetto di riforma costituzionale. Quando tocca la scottante storia degli inquisitori di stato, al centro di velenosi conflitti durante le correzioni del 1760-1761 e 1780, egli nega addirittura che sia lecito saper troppo di questo "tribunale gravissimo", giustamente "vestito di quella venerabile segretezza che è dovuta alla essenza ed al frutto della cosa": lo storico, cittadino e suddito, deve solo "rispettar con sagra riverenza senza indagarne e molto meno esporne le apparenze, che né ponno né debbono esser conosciute da altri fuorché da chi è scelto a sostenerla" (61).
Radicali ed innovatrici invece le riforme proposte nel Saggio politico del corpo aristocratico della Repubblica di Venezia per l'anno 1756 di Giacomo Nani, uomo di punta del "discorso eterodosso sulla politica marciana"; bisogna "eguaglia[re] in qualche modo le fortune [...] col diminuire il numero de' Poveri, affinché non si rendano pesanti [...], coll'obbligar le famiglie ricche a dividersi". "Era, in fin dei conti [conclude Del Negro], la linea promossa dal moderato Donà: in entrambi i casi aveva prevalso, oltre all'istinto di ῾classe' dei medi, il desiderio di conservare intatto ῾il principio aristocratico', di strappare alla ῾propria e natural decadenza' il patriziato e la Repubblica" (62).
Mito-decadenza di Venezia, tradizione-innovazione, immobilismo costituzionale-riforme (ovvero correzioni): queste idee forza, aspirazioni, progetti di impegno politico, e di converso rinunce, abbandoni, delusioni, trovano la loro esemplare personificazione nei due patrizi di maggior rilievo intellettuale e politico nella Venezia settecentesca, Andrea Tron e Andrea Memmo. Al paron di Venezia, così chiamato, ora con ammirazione e rispetto ora con malcelata insofferenza, da molti patrizi contemporanei, Giovanni Tabacco e Franco Venturi hanno dedicato pagine puntuali, che ne definiscono con precisione il ruolo nella Venezia dei lumi. Uomo chiave negli anni centrali del secolo, Andrea Tron è per Tabacco soprattutto un patrizio "della tradizione veneta di governo", il rappresentante migliore di tutti della "coscienza di una classe politica certamente indebolita e qualche volta distratta, ma ancora volenterosa" (63); conoscitore attento dei filosofi francesi, ma alieno da ogni radicalismo religioso, politico, sociale (una sorta di "illuminismo in statu nascendi", condizionato "dal persistere di una vigorosa tradizione morale" (64)), attento conoscitore ed interprete delle vicende politiche europee, assertore convinto di una neutralità rigorosa, promotore all'interno di un cautissimo riformismo dai molti volti, audace e quasi radicale in campo ecclesiastico, vigile, timoroso, spesso contraddittorio e tradizionalista nella politica economica, "nella quale si ritrova lo stesso instabile equilibrio fra una visione spregiudicata delle cose e un'invincibile diffidenza verso il libero giuoco degli interessi economici", e quindi convinto della necessità di "un energico impulso dall'alto, un organico sistema di protezioni, di aiuti e di controlli, nella tradizione del mercantilismo, con un radicale rinnovamento delle strutture corporative delle arti, da adeguare alle reali esigenze della produzione e del commercio e non da sopprimere" (65). Dalla vittoriosa battaglia anti-curiale ai controversi interventi su piccoli e grandi problemi della vita economico-sociale (le liste, le gondole, le poste, l'olio, le Arti, la ricondotta degli Ebrei (66)), Andrea Tron, nonostante vistosi alti e bassi, nella sua fortuna politica, passa indenne attraverso le tre fallite correzioni del Settecento. Tradizionalista su molti aspetti della vita civile e sociale, ma aperto ai lumi e ad un cauto e pragmatico riformismo tutto veneziano, ammirato e inviso paron di una Venezia aristocratica agitata da contrasti economici e politici durante la correzione del 1774-1775, quando tenta di "richiamare alla camera pubblica tutti i corrieri e le poste dello stato", Tron ascolta i suoi avversari bollare la sua proposta come "antipolitica, antieconomica, anticivile, antiforense, antirepubblicana, offensiva alla costituzione", addirittura "anticostituzionale" (67).
Andrea Memmo è un altro caso esemplare della contraddizione tra ricezione ampia e convinta dei lumi europei, coscienza della decadenza economica e politica di Venezia e della necessità di ampie e radicali riforme, e incapacità di attuarle o progressivo svuotamento di quelle effettivamente progettate (68). Tra il 1774 e il 1775 egli si cimenta col nodo essenziale della riforma delle Arti ma si impantana nella consueta defatigante prassi riformistica veneziana, che spende tutte le energie in ricognizioni, inventari, richieste e proposte di pareri e progetti e poi lentamente disperde e affoga ogni concreta riforma nell'immota palude dei rinvii e del placido oblio temporale; quando muore, il 23 gennaio 1793, pochi anni prima della fine della Repubblica, le Arti sono ancora intatte nel loro secolare ordinamento; se ne occuperà, di lì a qualche anno, il ben più dinamico e decisionista riformismo napoleonico (69). E che dire della drammatica situazione sociale ed economica della Dalmazia, altro oggetto delle fatiche riformatrici di Memmo? Situazione tragica quella della società dalmata, corrosa da miseria, arretratezza dell'agricoltura, squilibri nei rapporti sociali, malgoverno ormai consolidato (70): eppure la vivace fioritura delle accademie agrarie, la rinascita culturale di alcune élites colte, il ruolo propulsivo di alcuni intellettuali illuminati di ampio respiro europeo, come Giulio Bajamonti, Domenico Stratico, Rados Antonio Michieli Vitturi, si coagulano in un moto riformatore che è, suggerisce Venturi, "uno dei più vigorosi e indubbiamente uno dei più originali tra i molti che [...] erano andati sviluppandosi nelle provincie venete negli ultimi decenni del Settecento" (71). "Anche se lo poniamo a raffronto con il fermento delle isole greche, pur così importante, destinato a diventare uno dei germi vigorosi del risorgimento ellenico, il movimento dalmata rivelava una capacità eccezionale di analisi della società", ma a questa poi, osserva ancora Venturi, non corrispondono adeguati, concreti, visibili atti di riforma (72); nel 1807, in piena età napoleonica, Rados Antonio Michieli Vitturi ricorda a Vincenzo Dandolo, animoso giacobino nella municipalità veneziana del 1797 e ora energico riformatore napoleonico (73), che sino al 1767 Venezia non ha sistemato l'agricoltura e anche in seguito si è mostrata debole e incapace di operare "grandi cangiamenti" (74): meno drasticamente negativo il bilancio di Torcellan, che alla "volontà" e "generosa applicazione" di Memmo attribuisce il merito di molti progetti riformistici, come ad esempio il Catechismo agrario stilato dal parroco Domenico Giannizzi e poi stampato nel 1792 a cura di Michieli Vitturi (75).
Analisi impietose dei mali della Repubblica e progetti di riforme si succedono nel corso del Settecento tra i nobili veneziani e ancor più tra i filosofi borghesi esclusi dal potere politico. Nessuna riforma invece nella costituzione; in verità di qualche riforma, o per dirla alla veneziana, correzione, si discute, e anche aspramente, in ben tre occasioni, ma non si approda ad alcuna conclusione ed anzi i nobili promotori di novità o turbolenze sono arrestati ed esclusi dalla vita politica: in ogni caso le riforme dibattute durante le correzioni restano dentro la cornice dell'ordinamento aristocratico dello stato e attingono solo i limiti e gli equilibri di potere all'interno delle varie classi di patrizi o dei principali organi del potere politico-giudiziario. Nei secoli precedenti le più importanti correzioni avevano sempre toccato il nodo dell'equilibrio di potere tra il consiglio dei dieci, e poi gli inquisitori di stato, e il maggior consiglio: così nel 1582-1583, dopo il rifiuto di eleggere la zonta, il consiglio dei dieci viene riportato alle preminenti competenze giudiziarie fissate nel 1468 (e quindi privato di decisivi poteri in politica estera, in materia di zecca e finanza), nel 1628 si cerca di limitarne il potere penale, nel 1677 se ne vuole invece rafforzare il "ruolo oligarchico" (76).
Inquietudini e velleità di riforma a Venezia nel 1761-62 e Un riformatore mancato: Angelo Querini, i titoli di questi due saggi scritti da Bozzola e Brunelli Bonetti esprimono con grande efficacia i caratteri salienti (desiderio o velleità di riforma, impotenza e fallimento della riforma) della correzione di Angelo Querini nel 1761-1762 (77). Verso il 1761 attorno al Querini, una figura, nota Venturi, "non facile da penetrare e spesso contraddittoria", che "partiva cioè dalla tradizione aristocratica per aprirsi, con un ritmo e per vie che vorremmo conoscere meglio, alle idee dell'Europa dei lumi" (78), si coagula una sorta di "partito", dai contorni non ben definiti, di patrizi innovatori: difende le quarantie e attacca l'arbitrio, il dispotismo, la segretezza del rito del consiglio dei dieci e degli inquisitori di stato. Dopo il suo improvviso arresto, il 12 agosto 1761, Querini, che nel 1758 era stato eletto avogadore di comun, scompare dalla scena politica: di lì a qualche tempo, liberato, riprende una vita appartata e priva di rilievo politico, nella quale spazio crescente assumono le aperture al mondo dei lumi d'Oltralpe, testimoniate tra l'altro da un celebre viaggio in Svizzera per incontrare Voltaire. All'arresto seguono il boicottaggio, da parte dei giovani patrizi quarantiotti, delle elezioni del consiglio dei dieci, la nomina di cinque correttori, un lungo e vivacissimo dibattito sul ruolo e i limiti dei poteri degli inquisitori di stato e soprattutto sulla saggezza e sull'arbitrio delle loro procedure giudiziarie: alla fine i conservatori, che hanno in Marco Foscarini uno dei leaders più autorevoli, trionfano senza riserve, tra la gioia non dissimulata dei borghesi e del popolo minuto, timorosi che una riforma in senso anti-oligarchico degli inquisitori di stato faccia sparire quest'organo giudiziario, tremendo e segreto, ma efficace nel tenere a freno gli eccessi della nobiltà (79): a sentire Nicolò Balbi il "minuto popolo [...] tremava al solo pensiero che tentar si potesse la benché minima innovazione del governo" (80).
La correzione del 1774-1775 trae origine dal già ricordato tentativo di Andrea Tron "di richiamare alla camera pubblica tutti i corrieri e le poste dello stato", una riforma analoga all'abolizione della ferma nella Lombardia austriaca: ma quanto diversi gli esiti! La discussione si infiamma d'improvviso e assume toni accesi: Tron viene accusato di attentare addirittura alla costituzione e così ben presto uno degli obiettivi della correzione diventa la limitazione dell'attività del collegio dei savi, centro del potere oligarchico dei signori (81); nella città si parla "senza ritegno in qualunque luogo [...] nei caffè e nelle pubbliche conversazioni senza ribrezzo" (82), il consiglio dei dieci ordina di chiudere caffè e casini alle due di notte, poi fa marcia indietro, l'agitazione politica tra le varie correnti dei nobili diventa quasi incontrollabile e si arriva ad una nuova correzione.
Mentre la dialettica politica tra i nobili sostenitori del senato e dei savi e quelli favorevoli alle quarantie assume toni aspri, i correttori affrontano due nodi difficili del malessere del corpo aristocratico, le difficoltà economiche dei "patrizi meno provveduti di beni allodiali", a favore dei quali si propongono aumenti dei salari di molte magistrature, sgravi fiscali e provvidenze pensionistiche, e il declino demografico della classe patrizia, cui si pensa di ovviare con la riapertura, dopo mezzo secolo, delle aggregazioni (83): ancora una volta aspre e complesse le discussioni, con frequente ricorso da tutte le parti alla storia di Venezia e al mito della sua intangibile costituzione, pochi, frammentari e di scarso respiro i provvedimenti adottati (84). Dogane, poste, marina, questi e altri problemi restano di viva attualità negli anni successivi (85): un po' alla volta si va formando, senza una precisa coscienza ed un coerente piano politico, un "partito" di nobili che fa capo a Carlo Contarini e Giorgio Pisani: quest'ultimo, eletto l'8 marzo 1780 alla prestigiosa carica di procuratore di S. Marco, imprime al movimento una precisa carica riformatrice e, per certi aspetti, addirittura eversiva. Mentre Carlo Contarini dipinge con accenti apocalittici e demagogici la miseria del popolo ("geme ridotto a mangiar il schiffoso cibo delle zucche") e l'oppressione politica ed economica dei "prepotenti oligarchi", chiama la religione "oppiato dei poveri" (86) e chiede radicali riforme economiche e sociali (tra le quali l'abolizione dei dazi sui generi di prima necessità), Pisani prende apertamente di mira le sperequazioni economiche tra i patrizi; ormai osannato dai nobili poveri come "generalissimo della libertà", propone aumenti e regalie ai nobili barnaboti e una sorta di legge agraria, ispirata a Gracco, per distribuire appezzamenti di terra alle famiglie patrizie più sfortunate: intanto crescono le riunioni, pubbliche e clandestine, dei novatori, si parla impunemente di "leggi agrarie, senza saper cosa fossero e quali turbolenze abbiano generato nella repubblica romana", si va proferendo "di far ricco il povero togliendo i beni ai proprietari più ricchi senza conoscer la forza e la giustizia della proprietà [...] in una parola si proponevano generalmente ricchezze e giocondità in uno stato di riforma, quasi che il governo potesse maneggiarsi con le arti de' ciarlatani", si citano gazzette e libri stranieri, circola un piano di riforme, che comprende un nuovo catasto, l'abolizione di molti fedecommessi e di molti feudi con giurisdizione, nuove soppressioni di regolari, l'istituzione di nuovi "istituti di educazione e ospedali", insomma, per riprendere ancora una volta le parole del segretario Pietro Franceschi, fedele portavoce delle posizioni del senato e consiglio dei dieci, "discorsi liberi, fastidiosi e contraddittori [...] con pericolo di qualche rivoluzione" (87). Il 10 maggio 1780 vengono eletti i cinque correttori, ma già il 30, prima ancora che la discussione sulle riforme entri nel vivo, Giorgio Pisani, da tempo oggetto dell'attenta vigilanza dei confidenti degli inquisitori di stato, viene arrestato, con l'accusa di brogli elettorali, e deportato nel castello di S. Felice a Verona; Carlo Contarini è relegato a Cattaro e analoga sorte subiscono altri loro seguaci. I consueti metodi terroristici degli inquisitori chiudono le bocche e le penne dei più audaci, il "partito" di Pisani si dissolve in un baleno, i patrizi più poveri non vanno oltre i consueti mugugni e qualche velleitario tentativo di boicottaggio elettorale (ad esempio nella consueta occasione dell'elezione dei dieci), la correzione, per parte sua, si trascina con la solita lentezza e inconcludenza tanto da far sorgere, scrive Franceschi, "il ragionevole sospetto che vi fosse un partito muto e segreto di persone intese fra di loro a far abortire ogni proposizione per aprir l'adito a qualche nuova insorgenza" (88). Una appassionata interpretazione della correzione viene già nella primavera del 1780 dal principe Luigi Gonzaga di Castiglione: nelle sue Riflessioni filosofico politiche dell'antica democrazia romana precettrice di tutte le nazioni libere ad uso del popolo inglese, scritte o almeno riviste con la collaborazione di Matteo Dandolo (un patrizio aperto ai lumi di Francia e autore di un celebre Spirito dell'Enciclopedia), sotto lo schermo di una rivisitazione polemica dei contrasti tra patrizi e plebei nell'antica Roma attacca i grandi di Venezia e difende la legge agraria di Pisani, ispirata ai Gracchi, "i più grandi Eroi della libertà romana" (89): "la ῾sana filosofia' di Dandolo [osserva Del Negro] innestava per la prima volta il lessico illuminista nel discorso politico veneziano" (90). Deciso fautore del partito di Pisani, dunque, Matteo Dandolo, ostile invece Giacomo Nani, convinto della decadenza ormai irreparabile della Repubblica ("non manca che l'urto di una qualche interna o esterna combinazione, che faccia crollar quella fabbrica"): egli aborre "innovatori" e "riforme" e invoca solo il "mantenimento dell'ordine", unico mezzo per "conservare in pace e in tranquillità" (91).
Stanche, rassegnate, ormai prive di vis propositiva le ultime riflessioni politiche uscite a Venezia negli anni che vanno dalla correzione del 1780 al 1797. Nei Mémoires historiques et politiques sur la République de Venise, apparsi nel 1795 ma scritti nel 1792, Leopoldo Curti, un patrizio fuggito all'estero per evitare un processo per malversazione, ripete le consuete ragioni della nobiltà quarantiotta, denuncia il "pouvoir oligarchique" dei "riches", ma si tiene lontano da proposte radicali e si limita ad invocare la completa parità tra case vecchie e case nuove; del resto, osserva ancora Del Negro, egli aveva appoggiato la correzione del 1774 ma avversato quella del 1780 (92); quanto a Giovanni Pindemonte, la cui famiglia veronese è stata aggregata solo nel 1782, ben riflette l'incertezza e lo smarrimento di molti nobili negli ultimi anni del secolo: in un sonetto esalta Giorgio Pisani, poi si compiace della repressione dei plebei ("che quai sfrenati tauri/qua e là muggian"), critica, nel marzo 1797, la "pessima oligarchia" dominante a Venezia, che ha impedito la fortuna politica di Angelo Querini, "reputato un grand'huomo da tutta l'Europa, il primo uomo della Repubblica", infine scrive un sonetto in lode, sia pure tutta poetica, al "Raggio di libertà" sparso dalla Francia rivoluzionaria (93).
Quanto a Giorgio Pisani e Carlo Contarini, i protagonisti della correzione del 1780, sono destinati ad una singolare parabola politica; Pisani non viene più liberato dagli inquisitori di stato, i cui confidenti ne sorvegliano mosse, amicizie, frequentazioni nella lunga, dorata prigionia di Verona, poi di Monastier (Treviso) e Brescia: quando le porte del carcere si aprono, a Brescia, ad opera della municipalità democratica, l'ex leader dei nobili poveri tenta una patetica rentrée politica, riverniciandosi giacobino e paladino della novella democrazia, ma viene rapidamente emarginato (94); Carlo Contarini invece è già morto quando cade la Repubblica ed il figlio Domenico, nel clima infuocato e rancoroso dei primi giorni della democrazia veneziana, promuove una veemente campagna di stampa contro gli inquisitori di stato e adombra il sospetto di una morte del padre per veleno propinato da sicari, un'accusa infondata nel caso specifico, ma storicamente non inverosimile, vista la secolare e comprovata perizia inquisitoriale nell'uso politico dei veleni (95).
Le riforme di Pisani sono tutte dentro la cornice dello stato aristocratico: più eguaglianza, soprattutto di fortune, tra i nobili, per rafforzarne l'egemonia sociale, nessuna apertura alle altre classi sociali. Di correzioni a Venezia, dopo il 1780, non si parla più sino a quella, davvero conclusiva e rivoluzionaria, del 12 maggio 1797, imposta dalle baionette francesi.
Analisi e riflessioni sulla Repubblica, lotta di potere tra i nobili delle varie classi, correzioni, insomma tutta la lotta politica veneziana del Settecento si svolge all'interno del corpo aristocratico; altri ceti sociali, sia nel loro complesso sia a titolo individuale, sono rigorosamente esclusi e anzi gli inquisitori di stato vigilano attentamente affinché ognuno stia al suo posto, chi non è patrizio non si occupi di politica e chi lo è se ne occupi nei luoghi, nei modi e nei limiti sanciti da un'ormai secolare legislazione. In questi stessi anni i lumi francesi e di altri paesi europei e italiani penetrano profondamente nella Repubblica, influenzano molti nobili e un'ampia fascia di uomini colti del ceto medio-alto borghese; questa presenza dei lumi d'Oltralpe comprende anche i grandi scrittori politici dell'illuminismo, Voltaire, Montesquieu, Rousseau, oltreché ovviamente gli artefici dell'Enciclopedia, ma il dibattito sui grandi temi della libertà, democrazia, uguaglianza, separazione dei poteri, ordinamenti costituzionali, non emerge e non decolla a Venezia: la censura, l'autocensura, la vigilanza repressiva degli inquisitori di stato contro qualsiasi accenno di dibattito politico non circoscritto ai luoghi istituzionali della lotta politica tra i patrizi, impediscono agli spiriti forti (o filosofi, come per lo più amano chiamarsi) del Veneto di cimentarsi pubblicamente coi grandi temi politici. Due esempi tra i molti offerti dalla vita politica e culturale veneziana nella seconda metà del Settecento. Angelo Querini, il colto e illuminato protagonista della fallita correzione del 1761-1762, esce praticamente dalla scena politica veneziana e trascorre quasi tutto il resto della sua vita negli ozi letterari ed artistici della splendida villa di Altichiero ("ospizio filosofico", lo chiama) (96). Nel 1777 si reca in Svizzera, ufficialmente per visitare l'accademia militare di Colmar: "compie un tipico viaggio filosofico, per vedere terre e popoli stranieri, visitare monumenti e opere d'arte, industrie, collezioni e gabinetti di curiosità naturali, incontrare uomini illustri, tra i quali, sommo tra i filosofi, il vecchio Voltaire"; lo accompagna, e scrive il Giornale del viaggio, una delle figure più emblematiche dei filosofi veneti di estrazione borghese, Girolamo Festari, medico di Valdagno (Vicenza), massone, moderato spirito forte, dotto e appassionato orittologo (geologo), cultore di fossili e di acque minerali (per alcuni anni è ispettore delle fonti di Recoaro) più tardi membro della municipalità democratica valdagnese (97). I dibattiti politici suscitati dai philosophes francesi, l'amicizia con Angelo Querini, leader della fallita correzione, i confronti tra la situazione politica veneziana e quella di altri stati italiani ed europei, tanti, diversi e suggestivi dovrebbero essere i temi e le occasioni di dibattito e riflessione, tuttavia Festari se ne ritrae con rassegnata ma decisa convinzione ed esprime un esplicito riferimento alla sua condizione di minorità civile di borghese illuminato escluso dal potere politico: i suoi interessi in questo viaggio sono quasi esclusivamente orittologici e lascerà dunque "quello poi che riguarda il politico e l'economico (provincie da me affatto sconosciute)" alle cure del nobile Querini, "destinato per la nascita, e pe' rari talenti a calcare quelle dignità che esigono cotali ricerche" (98); qualche anno più tardi, il 27 febbraio 1787, in visita a Napoli, ribadisce di voler interessarsi solo dei "fenomeni fisici" (sta esplorando il Vesuvio) lasciando invece le considerazioni di quelli "morali" "a' politici, il cui esame non spetta al mio oggetto né alla mia naturale destinazione nell'ordine della società" (99). Eppure Festari quando vuole sa capire quell'alta politica, a Venezia riservata in esclusiva al ceto patrizio: così a Ginevra, negli anni 1763-1770 agitata da vivaci contrasti tra patriziato e borghesia e poi natifs (100), mostra di conoscere bene la natura delle turbolenze, che hanno suscitato tanta eco nelle gazzette di tutta Europa e l'attivo intervento di d'Alembert, Rousseau, Voltaire, ed è anche capace di tracciare un acuto paragone tra la piccola Repubblica ginevrina e la più grande, ma ormai non meno debole, Repubblica di Venezia: "li torbidi nel governo nati da qualche tempo, la gelosia del popolo verso li signori, suggeriscono molti riflessi al politico sulla debole e precaria sussistenza di un governo aristocratico" (101).
L'altro caso esemplare, ricostruito da Torcellan, è la storia della "sfortuna" e "fortuna" a Venezia di Dei delitti e delle pene, il testo simbolo dei lumi italiani. "Il paragrafo sulle ῾accuse segrete' di Dei delitti e delle pene che denuncia la barbarie di un governo ῾ove chi regge sospetta in ogni suo suddito un nemico', ovvio riferimento alle procedure segrete e incontrollate del Consiglio dei dieci e degli Inquisitori di stato viene letto dall'oligarchia al potere come un attacco, magari vergato da mano patrizia, di quel ῾partito' di Angelo Querini, Alvise Zen, Polo Renier e altri che nel 1761-62 ha vanamente tentato con una `correzione' di mettere in discussione il potere degli Inquisitori. L'opera viene proibita, ma chiarito poco dopo ogni dubbio sul nome dell'autore, la Repubblica si apre ad una pronta e fiduciosa penetrazione delle opere e del pensiero di Beccaria. Lo stesso Beccaria fa un viaggio a Venezia; nel 1781 esce un'edizione della sua opera che ne segna, osserva Torcellan, ῾l'acquisizione definitiva [...] come un classico del pensiero filosofico e civile settecentesco': tra i promotori c'è quell'inquisitore di stato Zuanne Zusto che nel 1764 ne aveva decretato il sequestro (῾dimostrazione migliore di questo irrimediabile divorzio tra cultura, coscienza intellettuale e mentalità politica nella classe politica veneziana del secolo non si sarebbe potuto trovare', è l'incisivo commento di Torcellan) e ben 509 associati, che comprendono pressoché per intero il Gotha del patriziato ῾illuminato', dei giornalisti e filosofi di Venezia, delle città e dei centri minori di terraferma, sanzionano il trionfale successo di Dei delitti e delle pene in terra veneta, cui degno epilogo avrebbe dovuto essere il monumento al suo autore progettato dalla municipalità democratica nei pochi ma fervidi giorni della sua precaria esistenza" (102).
Che poi a Venezia, come hanno ben dimostrato Cozzi e Simonetto (103), nulla, o quasi nulla, si riformi nella procedura penale (anzi le denunce segrete restano sino alla fine uno dei tratti più peculiari dello stato veneziano e sono perciò duramente attaccate da illuministi prima, giacobini poi), non fa che confermare ancora una volta la distanza, quasi costante a Venezia, tra la discussione sulle riforme e le riforme concretamente realizzate.
Temi politici di ampio respiro e di viva attualità sono numerosi negli scritti dei philosophes d'Oltralpe che così largamente circolano in terra veneta, anche se va sempre ricordata la natura cauta e moderata della ricezione veneta dei lumi, ben visibile del resto nelle riserve che circondano le opere più radicali del partito filosofico francese (La Mettrie, Helvétius, d'Holbach, Boulanger, d'Argens) (104). Emblematica a questo riguardo la forma di diffusione e conoscenza dell'Enciclopedia: ampia e capillare, oltre ogni previsione, nel testo integrale, nell'edizione francese o più frequentemente nelle varie ristampe europee e italiane, in singoli articoli riprodotti nei giornali e nei periodici culturali e scientifici, in ampie sillogi pluritematiche o monotematiche, sino ai due bei torni de Lo spirito dell'Enciclopedia raccolto dal celebre Dizionario enciclopedico e di note illustrato, raccolti ed editi da Matteo Dandolo (e purtroppo sinora sfuggiti alle più attente ricerche bibliografiche), che vi espone, osserva Del Negro, una sorta di "abbozzo di un programma di ῾partito'" per "far filtrare le idee e i progetti dei ῾novatori', di quell'ala radicale del patriziato medio e basso, che si opponeva al ῾partito' oligarchico espressione delle grandi case" (105). L'Enciclopedia nel Veneto è conosciuta ed apprezzata, nelle forme più moderate e tradizionali, per lo più come strumento pratico di informazione e di arricchimento culturale e scientifico, con l'esclusione, ora tacita e cauta, ora esplicita e organizzata, dei suoi contenuti più radicali ed eversivi in materia filosofica, politica e soprattutto religiosa; difficile immaginare che per mezzo di questa "opera che racchiude tutte le cognizioni umane, che comprende il dettaglio di tutte le arti e scienze", questo "magazzino universale di tutte le umane condizioni" e "fonte del sapere" (106), passino occasioni di dibattito e di polemica su grandi temi politici, e quindi anche di riforme da praticare a Venezia. L'Enciclopedia non è un veicolo di inquietudini politiche ma nell'agosto 1797, quando ormai la Repubblica è caduta e a Venezia governa la democrazia, un anonimo giornalista di aperti sentimenti reazionari, sulle colonne del "Nuovo Giornale Enciclopedico d'Italia", pallido erede, ormai di diverso segno culturale e politico, del "Giornale Enciclopedico" di Fortis e Scola, lancia questo velenoso attacco al "libro de' libri": è un simbolo dei "filosofi ventanarj de' caffè e de' casini", sempre pronti a parlare con fasto di umanità e patriottismo, il cui vero male "sta nel veleno insinuatoci a poco a poco per via di scritti seduttori nel cuor de' padri, trasfusosi ne' figli, che ha esausto in tutte le famiglie infette quella eccitabilità cristiana, senza la quale è inefficace lo stimolo della predicazione, dell'istruzione, dell'esempio, a mantener la vita spirituale", mentre "uno sciame di filosofi, di disperati, d'ambiziosi, di feccia delle carceri, de' lupanari, delle galere si è disperso per ogni dove, si è fatto ardito e nell'inerzia e nella scostumatezza quasi universale, e le pecorelle innocenti vedendolo col bastone alla mano sono costrette d'ubbidirne i cenni come a pastori" (107).
Ampia e incontrastata, salvo le consuete cautele verso le sue posizioni più radicali in materia religiosa, è la fortuna di Voltaire; tra le maglie di una censura blanda e permissiva e grazie ad un esteso e ramificato contrabbando dei pochi libri effettivamente vietati, le sue opere circolano largamente in tutti gli ambienti colti: il teatro e le opere storiche sono conosciute pressoché universalmente, gli elogi ammirati dei filosofi veneti, spesso espressi in recensioni giornalistiche dai toni entusiastici, sono numerosi e sinceri, ma la fortuna del sommo tra i filosofi francesi non attinge la sfera del dibattito politico di attualità e mai i suoi scritti suscitano dibattiti politici sulle riforme che egli va sollecitando in Francia, Prussia, Russia (108).
"In questo secolo un buon libro può avere conseguenze molto più riguardevoli, che non sono quelle d'una vittoria strepitosa, e le può avere spezialmente quello tra i libri, che s'accorda non solo alle pubbliche mire, ma le giustifica agli occhi del popolo, sempre difficilmente removibile de' pregiudizi che in qualche modo s'appoggiano alla Religione, perché sempre in pericolo d'essere in essi confermato con arti tanto più perniciose quanto più segrete" (109): queste parole di fiducia confidente nella forza "illuminante" dei libri compaiono nel "Magazzino Italiano", un giornale che nel biennio 1767-1768 vede operosi i due filosofi più lucidi del Veneto, Griselini e Fortis. Il libro filosofico forse più letto ed apprezzato nella Venezia del secondo Settecento è l'Esprit des lois: come nota Berengo sono "il carattere ῾moderato' del suo pensiero, l'attenzione ai fatti economici su cui si basava, il riformismo cauto ma sicuro che era lo sfondo di tutte le sue opere" ad assicurargli così largo favore tra giornalisti, uomini colti, politici (110).
C'è qualche critico, tra i conservatori Daniello Concina e Vettor Sandi, tra i filosofi Francesco Mengotti (ostile solo alle sue idee economiche) (111), ma i più sono ammiratori sinceri e convinti del suo progetto politico, in funzione polemica contro il "folle incendiario" Rousseau, come Pietro Mocenigo (112), o più genericamente contro gli "spiriti forti", atei, empi, dissolutori della religione rivelata (113). Tra i filosofi veneti che più lucidamente assorbono il lievito liberale dell'Esprit des lois spiccano Alessandro Pepoli, "di cui Berengo ricorda lo schietto ardore anti-tirannico consumato a 39 anni nella Milano democratizzata dai francesi" (114), Girolamo Bocalosi, che dagli iniziali spiriti anti-clericali e anti-autoritari approda a ferventi ardori democratico-giacobini (115), Giuseppe Fantuzzi, che a Rousseau deve la primaria ispirazione del suo pensiero democratico ma da Montesquieu trae il progetto federale per la neonata repubblica Cisalpina (116) e infine Gian Domenico Brustolon, che nel compendio divulgativo L'uomo di Stato ossia Trattato di politica elogia "l'elevato filosofo, il ragionatore profondo, l'osservatore ingegnoso e altresì l'uomo fornito di vasta erudizione, di genio sublime, di sincero interesse per l'universal società" (117). Interesse, ammirazione, discussione appassionata ed intelligente, quella su Montesquieu nella cultura veneta del secondo Settecento: ma vanamente si cercherebbe nelle recensioni e negli scritti ispirati all'Esprit des lois un solo intervento che applichi qualcuna delle idee chiave del suo disegno politico (la celebre teoria della divisione dei poteri, tanto per fare l'esempio più ovvio) alla realtà politico-costituzionale della Repubblica di Venezia. Prendiamo Giovanni Scola, un avvocato vicentino che aderisce pienamente ai lumi francesi e ne sviluppa il contenuto liberale e democratico sino all'adesione convinta alla municipalità democratica del 1797 (118); ostile al contrattualismo ed egualitarismo rousseauiani, sulle pagine del "Giornale Enciclopedico" indica la proprietà privata come fondamento del consorzio civile e l'Esprit des lois come l'opera capitale "che rovesciò ugualmente tutti i passati sistemi di gius pubblico i quali erano appoggiati sopra certi malintesi precetti della poco osservata natura e sopra infantati dettami della ragione di pubblicisti, ch'essi chiamavano retta e si accinse a provare che la diversità dei climi, delle circostanze e dei tempi ne' quali si formarono e crebbero i corpi politici, decidono de' loro rapporti così esterni che interni e quindi tentò di dimostrare la ragione dei vari costumi e delle leggi degli antichi e dei moderni" (119): limpida ricezione di una delle più fortunate teorie storico-politiche di Montesquieu ma nessun accenno, né qui né in altri passi, alle loro applicazioni alla società veneta.
Diverso il destino di Rousseau; "dal 1771 in poi [ricorda Franco Piva] appare l'autore globalmente più colpito dalla censura veneziana" (120) e il revisore Anton Maria Donadoni definisce le sue opere "ripiene di empietà, e di calunnie contro la Religione Cristiana e di massime perniziose contro i Principati", l'Émile un "libro empio, principalmente per il tomo terzo, che tratta della religione" e il Contrat social sommamente pericoloso, perché infirma la sovranità dei principi, nega al governo di Venezia il carattere di aristocrazia, "pretende" che la religione cristiana "sia la sola, che abbia introdotto negli Stati la discordia, la divisione e la persecuzione, che sia più nociva che utile alla costituzione di uno Stato, perché rompe il vincolo dell'unità sociale, e mette l'uomo in contraddizione con sé medesimo, è finalmente tanto cattiva, che sarebbe tempo perduto a volernela dimostrare" (121). I giornali veneziani sono unanimi nella condanna, che non vuol dire ignoranza o misconoscimento della rilevanza del suo pensiero (122); singolare l'evoluzione del "Giornale Enciclopedico" che gli riserva, nota Piva, "più interesse di curiosità che una vera e propria attenzione" e che però, dopo la sua scomparsa, lo rivaluta con aperta convinzione, sia pure in una "prospettiva più umana che ideologica" (123). Nella condanna della censura e di tanti giornali pesano certamente le preoccupazioni religiose, ma non sono estranee quelle politiche: se in lui, osserva Berengo, Venezia vede soprattutto "l'eversore della fede cattolica, poiché la morale di natura si svincolava di necessità da ogni ossequio per la verità rivelata o dogmaticamente asserita", non può certo dimenticare "il contrattualismo così rigorosamente proclamato in nome della sovranità popolare", il disprezzo per le istituzioni aristocratiche marciane (il governo ereditario è "le pire de tous les gouvernements"), per i miserabili barnaboti, quasi una plebe, e per questo "simulacre" di repubblica, che "existe encore uniquement parce que ses lois ne conviennent qu'à des méchants hommes" (124).
Temi politici di attualità si trovano sia nella schiera, vasta e multiforme, dei critici e detrattori, che annovera oltre ai già ricordati Roberti, Mocenigo, Brustolon, e altri minori scrittori, nomi di spicco della cultura veneta del secondo Settecento, come Gian Rinaldo Carli, Melchiorre Cesarotti, Gian Maria Ortes (125), sia in quella, più esigua, dei simpatizzanti. Tra gli intellettuali che sul pensiero di Rousseau modellano progetti o utopie riformatrici e democratiche Pietro Caronelli, appassionato promotore dell'accademia agraria di Conegliano, poi presidente di quella municipalità, ammiratore del "genio grande del Ginevrino filosofo", fautore dell'eguaglianza, compassione, naturale bontà dell'uomo (126), ancora Alessandro Pepoli, "che a nessuno meglio che a Rousseau può chiedere ispirazione per la fervida passione democratica ed anti-dispotica così pregna di umori sentimentali e pre-romantici" (127), Giuseppe Compagnoni, che negli Elementi di diritto costituzionale, democratico, ossia principi di giuspublico universale, scritti in piena età democratica, propone "una specie di commento a diversi e cospicui passi del Contratto sociale", opera di un "supremo maestro di questa materia" (128), ancora Girolamo Bocalosi, che di fronte alla sovranità popolare, che si perde nel momento della delega ai rappresentanti, esclama: "peccato che Giangiacomo abbia ragionato così", volendo significare non un rifiuto ma semmai un fecondo superamento delle premesse contrattualistiche e democratiche di Rousseau (129). Ricordo infine il patriota e giacobino bellunese Giuseppe Fantuzzi che nel Discorso filosofico-politico, uno dei primi coerenti progetti politici per un'Italia unita, indipendente, democratica, invoca il "maestro, mio duce, divino Rousseau" a "presieder" le idee, "dirigere la penna", ispirare al suo cuore "quel filantropico orgoglio" che lo "rese quaggiù celebre ed immortale" (130).
Quale influenza hanno avuto i philosophes francesi sui loro confratelli veneti? C'è stato a Venezia, tra i patrizi o tra i borghesi, un partito delle riforme illuminate? Dumarsais definisce, in una celebre voce dell'Enciclopedia, il filosofo: "Le philosophe est donc un honnête homme qui agit en tout par raison, et qui joint à un esprit de réflexion et de justesse les moeurs et les qualités sociables. Entez un souverain sur un philosophe d'une telle trempe, et vous aurez un parfait souverain" (131). Sovrani come Federico II, Caterina II, Pietro Leopoldo, Carlo III, Gustavo III di Svezia possono ben attagliarsi a questo ritratto del perfetto despota illuminato tracciato da Dumarsais, ma già in Francia, culla dei lumi, le cose vanno diversamente; per commentare il fallimento dell'esperienza riformatrice del filosofo Turgot, che segna "il divorzio fra ogni forza e tendenza progressiva della società e dell'opinione francese, e qualsiasi istanza della struttura dell'῾ancien régime' e apre la strada a ben più radicali contestazioni dell'ordine costituito", Furio Diaz titola un conclusivo capitolo: "I philosophes non regneranno" (132). A Venezia hanno mai regnato i filosofi? Ho scritto qualche anno fa a conclusione di un panorama dell'illuminismo veneto, e ripeto con convinzione oggi: "se in uno stato monarchico basta innestare la filosofia nella testa di un sovrano per avere un despota illuminato e le sospirate riforme, a Venezia, immobile stato aristocratico, bisogna far penetrare i ῾lumi' nelle teste di centinaia di patrizi, e già l'impresa è ardua, e poi sperare che la complessa macchina dello stato cominci a muoversi, a riformarsi, a guardare al futuro e non al passato: a Venezia ci sono patrizi ῾illuminati' ma i loro ῾lumi' sono sempre filtrati e assorbiti dalla paralizzante ῾venezianità' ricordata da Torcellan e i pochi filosofi borghesi non riescono a costituire un movimento forte e consapevole, con un deciso e avanzato programma di rinnovamento politico e sociale, e comunque mai si pongono consapevolmente l'obiettivo di condizionare e conquistare il potere politico; dal potere politico, così com'è costituito, neppure riescono a ottenere funzioni di commis d'état" (133).
I patrizi più illuminati, i Tron, Memmo, Querini, Dandolo, e altri meno noti, non esprimono un coerente partito delle riforme ma "danno protezione e impulso, non senza scarti di umore e impennate retrive, ad una cultura pratica, attenta alle cose, all'agricoltura, al commercio, all'industria, alle innovazioni tecniche, intorno a cui aggregano per qualche anno le forze più attive e intelligenti dell'Illuminismo borghese veneto" (134).
"Tutto quello che nelle scienze non giova all'uomo è perdimento di tempo. Sc la filosofia ci ha giovato in qualche cosa, ella è per appunto questa, di averci disingannato di molti inutili applicazioni de' nostri maggiori [...]. E certo se noi studiassimo un poco più la storia naturale, e meno arzigogoli metafisici, forse l'Italia sarebbe meno infelice": a questo programma, formulato da Antonio Genovesi in una lettera del 25 giugno 1765 (135). Francesco Griselini si attiene con lucidità ed impegno e il suo "Giornale d'Italia spettante alla Scienza Naturale e principalmente alla Agricoltura alle Arti e al Commercio" si apre alla collaborazione di quanto di meglio la cultura agronomica, tecnica e scientifica del Veneto offre in questi anni, ma, osserva Torcellan, evita sempre un impegno politico che "traducesse in un chiaro e coerente discorso politico e sociale le istanze e i problemi di fondo del mondo contadino che giungevano alle pagine del periodico e si facevano largo prepotentemente tra le righe di questi tecnici e delle dimostrazioni pratiche" (136).
Vediamoli dunque questi filosofi veneti, attivi nella seconda metà del Settecento, pronti a misurarsi con un riformismo tutto concreto e pratico, distaccato dalla sfera politica alta, riservata all'aristocrazia dominante: "proprio nelle personalità più di spicco di questa vivace cultura pratica veneta possiamo misurare il distacco e il divorzio tra i più lucidi e coerenti filosofi del Veneto e una classe politica che non li associa ad un disegno organico di riforma" (137). Ecco innanzitutto Giovanni Arduino (1714-1795), tecnico minerario a Schio ed in Toscana, scopritore di cave di allume e caolino, studioso di geologia di fama europea (di notevole rilievo scientifico la sua classificazione stratigrafica) e infine soprintendente all'agricoltura (138); le pagine del "Giornale d'Italia", che ospitano molti dei suoi contributi scientifici, e l'epistolario testimoniano di una cultura ampia, aggiornata, profondamente inserita nel solco dei lumi e della scienza di tutta Europa: la sua attività di tecnico minerario e di agronomo, al servizio delle magistrature economiche della Repubblica, documenta in modo esemplare questa cultura illuministica veneta tutta tecnica e pratica, sorretta, come scrive Massimo Petrocchi, da un "sano realismo veneto [...] un acuto e realistico senso delle necessità pratiche e tecniche dell'economia coeva" (139). Interessante figura di studioso e di tecnico è anche il fratello Pietro (1728-1805), botanico apprezzato anche da Linneo, titolare dal 1765 della prima cattedra di agricoltura dell'Università di Padova e direttore dell'annesso orto agrario (140); in una comune area di interessi scientifico-pratici si muovono il veronese Anton Maria Lorgna (1735-1796), fondatore della Società italiana delle scienze, meteorologo, studioso di matematica e balistica, astronomo, ingegnere e idraulico noto ed apprezzato nel Veneto e all'estero (141); Giuseppe Toaldo (1719-1797), dal 5 maggio 1766 docente di astronomia e meteore a Padova e pioniere delle osservazioni meteorologiche scientifiche (celebre il suo saggio sulla Meteorologia applicata all'agricoltura, uscito a Venezia nel 1775) (142); Marco Carburi (1731-1808), docente di chimica all'Università di Padova (la scuola di chimica è fondata nel 1762) ma anche tecnico militare e minerario, creatore di un nuovo metodo di fusione della ghisa e nel 1797 tra i membri della municipalità democratica di Padova (143); Vincenzo Dandolo (1758-1819), farmacista, diffusore in Italia della "nuova chimica" di Lavoisier, acceso democratico nel 1797 e più tardi ministro di Napoleone in Dalmazia ed insieme imprenditore ed attivo promotore di innovazioni nell'agricoltura (144). Un filosofo veneto fino a qualche anno fa poco noto, l'abate Domenico Michelessi (1746-1773), spende la sua breve vita a gettare un ponte di speranze riformatrici tra Venezia e la Svezia: come ricorda Venturi, che ne ha riscoperto la singolare vicenda biografica, Michelessi vive a Stoccolma la breve ma intensa stagione riformatrice di Gustavo III, uno dei momenti più alti del dispotismo illuminato ("la rivoluzione più felice della quale possa parlare la storia", scrive il 19 agosto 1772), ne redige un vivace resoconto e lo propone all'attenzione dell'opinione pubblica illuminata di Venezia, secondando così il desiderio dello stesso sovrano che vuol far conoscere e giustificare la sua azione riformatrice, culminata in un colpo di stato contro la Dieta, ai politici e filosofi veneziani di cui lo stesso Michelessi gli ha più volte parlato (145). Riforme nella lontana Svezia, suggestive certo, ma difficilmente capaci di suscitare un contagio imitativo nella classe patrizia veneziana. Concrete e feconde riforme nell'agricoltura veneta propone nel 1767-1768 Giovan Francesco Scotton[i] (1737-dopo 1783), un minore conventuale bassanese (peraltro "miscredente ed ateista" già in convento), che tra il 1765 e il 1767 traduce nelle succinte paginette del "Diario Veneto" e poi degli "Avvisi Utili Riguardanti le Scienze, la Letteratura, le Arti" la sua umana sollecitudine per la penosa realtà di miseria ed oppressione del mondo contadino veneto (146); dopo aver ristampato il "Caffè" e il Ricordo di agricoltura di Camillo Tarello (147), nei Semi per una buona agricoltura pratica italiana e in una Memoria [...] contenente il dettaglio di alcuni preparativi e delle leggi agrarie italiane (148) Scotton[i] propone indagini agrarie, catasti, riduzione della coltivazione del mais, rotazioni, salvaguardia dei boschi e dei pascoli, intensificazione degli allevamenti, riforma dei contratti agrari (un prolungamento della loro durata ad almeno venti anni), educazione dei contadini, limitazione di primogeniture e fedecommessi, invalidazione degli acquisti di terreni per i proprietari con più di 400 campi, unificazione dei pesi e delle misure (un provvedimento richiesto insistentemente nei Cahiers de doléances del terzo stato francese e poi attuato nella celebre riforma metrica della Convenzione) (149), "insomma [cito da Venturi] una legge agraria, anche a costo di una ῾crisi' salutare" (150). In pratica Scotton[i], ricorda Infelise, "non ebbe fortuna, né come uomo né come riformatore" e "in campo agricolo e sociale nessuna delle sue radicali proposte venne discussa o accolta" (151): un destino comune ai più noti filosofi veneti.
Per l'avvocato Giovanni Scola, illuminista e massone vicentino, l'attenzione per le istanze liberali e democratiche di Montesquieu e Rousseau non si traduce mai in concreta azione riformatrice: si esprime infatti nei molti articoli sul "Giornale Enciclopedico" ma il passaggio dall'adesione, tutta intellettuale, alle istanze umanitarie, filosofiche, riformatrici dei lumi europei, alle concrete riforme della sua società vicentina avviene solo nel 1797, al crollo della Repubblica, dentro la cornice rivoluzionaria della municipalità democratica.
Piena adesione ai lumi, alle idee e alla prassi delle riforme illuminate, e coerente tentativo di coniugare teoria e azione nella società veneta, caratterizzano invece l'itinerario biografico di Alberto Fortis e Francesco Griselini. Giornalista, naturalista, viaggiatore, attento lettore dei filosofi francesi e italiani, studioso appassionato dei costumi e delle strutture economiche e sociali della Dalmazia (il suo Viaggio in Dalmazia è una delle testimonianze più alte della filosofica attenzione per quella che oggi chiameremmo un'"area depressa"), Alberto Fortis (1741-1803), frate eremitano inquieto e poi secolarizzato, gira il Veneto, l'Italia e l'Europa alla ricerca di esperienze culturali ma anche di una concreta collocazione professionale, dove spendere, a beneficio della società e degli uomini, la sua ardente passione riformatrice: collabora ai più vivaci giornali illuministi ("L'Europa Letteraria", "Giornale Enciclopedico"), altri giornali fonda e dirige (come il "Genio Letterario d'Europa"), cerca miniere in Puglia e nel Veneto, in particolare nel suo prediletto territorio vicentino, diffonde l'amore per l'orittologia (la moderna geologia) e le scienze naturali. Subito e concretamente egli vorrebbe operare per la felicità dei suoi concittadini veneti, soprattutto quelli meno fortunati, ma il suo genuino, appassionato anelito riformistico, ispirato ai lumi e alle esperienze politico-sociali d'Oltralpe ma attento a restare nei confini della moderazione veneta e di una sofferta seppur genuina ortodossia religiosa, non trova una corrispondenza fattiva e operosa nella classe dirigente veneta: non ottiene il modesto posto di bibliotecario del vescovo di Vicenza Marco Corner, tanto meno la cattedra di storia naturale nell'Università di Padova, è costretto per quasi vent'anni (1778-1798) a vivere nel "romitorio" dell'ex convento di S. Pietro al Costo, vicino a Arzignano (Vicenza), un "ritiro filosofico" dal quale intrattiene una fitta corrispondenza con scienziati e filosofi d'Italia e d'Europa, ma nel quale consuma gli anni più attivi e fecondi della sua vita senza alcun concreto intervento nella società che lo circonda. Solo le armate rivoluzionarie francesi, che abbattono la Repubblica di Venezia, gli aprono la via ad un'esperienza di lavoro nella società e per la società; lascia Vicenza per Parigi, si schiera coi "termidoriani" contro i "giacobini", soffre per le deludenti esperienze della municipalità democratica vicentina e si offre di rappresentarne, sia pure a titolo privato, gli interessi a Parigi, partecipa al frenetico dibattito dei patrioti sul destino del Veneto dopo il trattato di Campoformido, ritorna a Vicenza proprio nel momento dell'arrivo degli Austriaci, fugge nuovamente a Parigi ed infine nel 1802 assume la carica di direttore della biblioteca dell'Istituto Nazionale di Bologna (152); come si vede, poco o nulla della sua intelligenza e volontà d'azione viene utilizzato dalla Repubblica di Venezia: esemplare caso di filosofo veneto che non regna.
Francesco Griselini (1717-1787) interpreta al livello più alto e cosciente le ansie e le aspirazioni riformatrici del piccolo gruppo di filosofi borghesi attivi a Venezia nel secondo Settecento; amico di Marco Foscarini esordisce sulla scena pubblica con alcuni studi su Paolo Sarpi che lo immettono, nota Venturi, nel "cuore stesso della polemica per il rinnovamento dei rapporti tra società civile e società religiosa", poi passa "dalle dispute giurisdizionali a quelle economiche, cercando e trovando, anche su questo terreno, un nuovo rapporto con i patrizi più attivi (così come gli scienziati e gli scrittori della Repubblica)" (153). Il suo "Giornale d'Italia", nota Torcellan, svolge un'azione di divulgazione delle scienze agrarie e insieme di tutte le novità del mondo produttivo ed imprenditoriale veneto, "tenace e persuasiva, accorta e limpida, stimolata dai problemi concreti postigli dal suo incontro col mondo contadino" (154): sulle sue pagine si coagula ed esprime tutta la vivace esperienza riformatrice delle accademie agrarie venete, compaiono i nomi dei più illustri filosofi veneti e di tanti altri meno noti seguaci dei lumi, che spesso vivono ed operano nei più piccoli ed appartati centri della Repubblica. Esperienza luminosa, forte, aperta, incisiva sul piano della formazione di un gruppo di intellettuali e riformatori quella del "Giornale d'Italia" di Griselini, ma qual è poi il concreto contributo dello stesso Griselini al moto delle riforme nel Veneto? Al lavoro nel "Giornale d'Italia" segue quello nel Dizionario delle arti e de' mestieri, secondo Torcellan "il tentativo più organico e volenteroso di mettere la terra veneta a contatto con la spinta del riformismo economico e sociale" (155). Tutti i problemi dell'economia e della società veneta, nelle sue strutture sociali, nella sua articolazione produttiva, nei suoi duri e spesso drammatici problemi di povertà contadina, sono percorsi, rovesciati, studiati sulle limpide pagine del "Giornale d'Italia" e nelle severe e spesso così concrete colonne del Dizionario; è ora il momento di passare alle riforme e chi più di Griselini stesso dovrebbe essere associato ad un organico progetto di rinnovamento della società veneta? Dopo l'esperienza del "Giornale d'Italia" e del Dizionario Griselini lascia Venezia, opera per un po' nel banato di Temesvar e infine ripara sotto le ali del dispotismo illuminato asburgico che gli assicura a Milano un sicuro, seppur sfortunato, epilogo alla sua carriera di "riformatore" (156). Griselini, dunque, è un altro illustre filosofo veneto che non regna: a lui "come alle decine di altri agronomi, tecnici, professori, intellettuali, che nelle accademie agrarie, nelle università, nei giornali, nei circoli massonici, nelle professioni burocratiche, nel commercio e nelle intraprese industriali, hanno recepito i ῾lumi' nella forma ῾moderata', realistica, pratica, tipica del mondo veneto, la sclerosi e chiusura dello stato aristocratico non offrono né la speranza di regnare né quella di operare come tecnici di uno stato avviato alle riforme" (157).
È ora di tracciare un bilancio di tutte le riforme nella Venezia del Settecento: riforme suggerite dai filosofi veneti or ora ricordati e rimaste inerti sulle pagine del "Giornale d'Italia", del "Giornale Enciclopedico", di altri periodici illuminati, o nelle molte memorie inedite delle accademie agrarie; riforme ideate e discusse da alcuni patrizi, in collaborazione ideale e pratica con qualche filosofo, e mai arrivate al dibattito politico degli organi deliberativi della Repubblica; riforme proposte al maggior consiglio, al senato, ad altre magistrature politiche, finanziarie o tecnico-amministrative, lì discusse e poi accantonate secondo una prassi ormai consolidata nella vita politica della Serenissima; riforme, infine, attuate in alcuni settori della società. Un ampio panorama di tutte queste riforme, auspicate, progettate, tentate, insabbiate, realizzate è stato disegnato qualche anno fa da Franco Venturi e poi, in forma agile ed efficace, da Giovanni Scarabello; da quest'ultimo traggo un passo suggestivo sull'iter, ideale e pratico, seguito da una qualsiasi riforma nella Venezia del Settecento: "Lo schema delle operazioni con l'obiettivo delle riforme fu abbastanza fisso: constatazione delle disfunzioni da superare; creazione, settore per settore, di organismi a carattere straordinario (responsabili politici più staff tecnico-realizzativo) che se ne occupassero affiancando i magistrati ordinari; larga ricostruzione storica delle vicende delle strutture per le quali si era ravvisata l'esigenza di interventi riformatori; inchieste conoscitive ed analisi delle situazioni (spesso accompagnate da dure e lucide denunce su distorsioni, anacronismi ecc.), assunzioni di informazioni sulle specifiche iniziative estere; elaborazione di proposte e programmi di riforma (spesso con la collaborazione di esperti e di intellettuali estranei al gruppo patrizio dominante); dibattiti su di essi nei grandi consigli politici; eventuali decreti dispositivi di riforme; eventuali concrete applicazioni di quanto disposto nei decreti stessi" (158).
È giusto cominciare dal settore in cui più coerenti sono disegno riformatore e volontà politica e concrete e incisive le riforme.
La discussione sulle riforme ecclesiastiche si riapre a Venezia, ricorda Venturi, negli anni Sessanta, quando Francesco Griselini, sollecitato da Marco Foscarini, pubblica le Memorie aneddote spettanti alla vita e agli studi del sommo filosofo e giureconsulto f. Paolo Servita, "che ripresentarono la figura di Sarpi in una luce chiaramente riformatrice e illuminista" (159). Ampi e vivaci sono il dibattito e la polemica sui Gesuiti, in questi anni attaccati e soppressi in tutta Europa dalle iniziative congiunte di filosofi e despoti illuminati, sul febronianesimo, sui punti chiave di un rinnovato e combattivo giurisdizionalismo di dichiarata ascendenza sarpiana (160); Tommaso Antonio Contin, docente e teologo a Padova, e poi nella Parma di du Tillot, parte da una fiera contestazione della bolla In coena Domini per riaffermare le ragioni del tradizionale giurisdizionalismo veneziano (161), che del resto trova alimento quotidiano nell'azione dei consultori in jure: si può ben affermare, come dimostra Antonella Barzazi, che le riforme ecclesiastiche si realizzano a Venezia "anche in virtù del corpus di cultura giuridico-politica costituito dalle scritture depositate in Secreta" nel corso di due secoli dai fedeli eredi di Sarpi (162). È proprio un consultore in jure, Antonio Montegnacco, a riproporre con forza al patriziato dominante il tema della proprietà ecclesiastica (163); la sua proposta di impedire o almeno di limitare le mani morte agisce da catalizzatore delle volontà riformatrici di una parte del patriziato, guidata da Andrea Tron (164), è poi la sua scrittura del 1760, che rivendica esplicitamente alla "podestà sovrana" il diritto-dovere di mettere in circolazione e impiegare a sollievo dei bisognosi i beni ecclesiastici superflui (165), ad aprire una stagione di dibattiti e proposte legislative.
Nell'aprile 1766 è istituita una deputazione straordinaria aggiunta al collegio dei dieci savi sopra le decime di Rialto, comunemente chiamata deputazione ad pias causas, cui, nel 1768, si affianca un aggiunto ai provveditori sopra i monasteri; ad un'imponente e minuziosa attività di ricerca e informazione storica sulle strutture ecclesiastiche secolari e regolari di tutta la Repubblica, sintetizzata in una bella relazione conclusiva (12 giugno 1767) del segretario Pietro Franceschi, seguono concrete riforme: dopo aver suddiviso i regolari in tre classi (autosufficienti economicamente, mantenuti in parte dalle questue, mantenuti totalmente dalle questue), maggior consiglio e senato sospendono le vestizioni per la seconda e terza classe, aboliscono le carceri ecclesiastiche, vietano vestizioni di ogni tipo prima dei ventuno anni e professioni prima dei venticinque, chiudono i collegi per chierici, con l'eccezione dei seminari, vietano le questue, chiudono i monasteri incapaci di mantenere almeno dodici religiosi, recuperano allo stato una massa imponente di beni ecclesiastici indebitamente trasferiti ai monasteri, poi vendono all'asta quasi 11.000 ettari di terra (circa 1/6 di tutti i beni detenuti dagli ecclesiastici), per l'ingente valore di 6 milioni di ducati, e alimentano così una "cassa civanzi" destinata al sostegno economico del clero secolare povero, degli ospedali e di altri istituti di assistenza, di nuove strutture educative pubbliche (166). Altre riforme seguono in questi anni: nel 1766 viene ridimensionato il potere del Sant'Uffizio, a beneficio dei savi all'eresia, nel 1769 è abolita la bolla In coena Domini e sono limitati i privilegi fiscali dei beni ecclesiastici, il 17 settembre 1772, sotto l'urgenza della "penuria di viveri", sono ridotte le feste ecclesiastiche, nel 1773 infine la Repubblica si adegua alla soppressione, decretata da Clemente XIV, della Compagnia di Gesù (167). Radicali ed incisive dunque queste riforme ecclesiastiche, non a caso seguite con grande interesse da Kaunitz, come hanno riconosciuto, con diverse sfumature, gli storici più recenti, Tabacco, Berengo, Cozzi, Venturi; Venturi in particolare sottolinea che "fu proprio la Repubblica a perseguire una delle più coerenti linee giurisdizionali tra le molte che si affacciarono nell'Italia di allora, e la realtà dei rapporti tra stato e chiesa fu studiata meglio a Venezia di quanto avvenisse altrove" e che insomma, ancora una volta, la tradizione di Sarpi seppe allora incidere sulla politica italiana (168).
La spinta alle riforme ecclesiastiche, vivace e vincente negli anni Sessanta, si va poi esaurendo negli anni seguenti, anche per la crescente influenza del partito filo-curiale, guidato da Piero Barbarigo e Francesco Pesaro.
Fortuna, o sfortuna, del diritto veneto nel Settecento è il titolo di un bel saggio di Gaetano Cozzi: a lui, in questo ed in altri contributi, e ai molti allievi della sua "scuola" veneta di storia, diritto, politica (una mia definizione che spero gli piacerà) dobbiamo una conoscenza limpida e approfondita del diritto, civile e penale, nella Venezia del Settecento (169), un tema questo già ampliamente affrontato, in questo stesso volume, nel capitolo di Michele Simonetto: La politica e la giustizia.
Nell'Europa del dispotismo illuminato il riformismo giuridico, sotto la guida di sovrani filosofi come Maria Teresa, Giuseppe II, Caterina II, Carlo III e altri, coglie i frutti più maturi e significativi (170); ma proprio in questo campo, la citazione da Cozzi è d'obbligo, "l'aspetto più interessante consiste nel fatto che laddove ora altri Stati stavano tentando di affrancarsi dal diritto comune, la Repubblica di Venezia, antesignana di tale politica del diritto, pur attenta, lo si vedrà, nel seguire le novità del moderno pensiero giuridico, così ardita nell'attuare innovazioni in un settore incandescente come quello delle relazioni tra Stato e Chiesa, sembrava invece ritirarsi, in tema di rapporti tra diritto veneto e diritto comune, dalla sua primitiva posizione, fino a rimettere in discussione la validità della sua antica ostilità nei confronti di quest'ultimo" (171).
"Sfortuna" del diritto veneto nel Settecento, dunque, indica Cozzi; e anche "sfortuna" di molte riforme proposte nel campo civile e penale. Nell'ambito penale, ricorda Simonetto, l'avogaria di comun promuove "ora timide, ora contraddittorie, ora coraggiose posizioni riformatrici": "l'eco della lezione di Beccaria sollecita l'etica e la sensiblerie, ma le proposte di riforme concrete si fanno desiderare", anche se in effetti la pratica della tortura cade in desuetudine e sempre più forti sono "le tendenze, pur frammentarie, verso una maggior umanizzazione di alcuni aspetti del sistema" (172).
Emblematico del povero riformismo giuridico settecentesco veneziano il caso della mancata codificazione penale; a Venezia, cito ancora da Simonetto, l'opinione pubblica legge, si informa "più o meno apertamente, sulle novità e su ciò che si discute e si realizza in tutta Europa", si fanno progetti di "compilazione, correzione, raccolta delle leggi [...] si corregge, si raccoglie, si scarta, si compila, si rivede, si sceglie tra l'utile e il desueto, si ordina, si classifica, ma [...] non si codifica, non si crea una legislazione": gli aggiunti soprintendenti al sommario delle leggi iniziano nel 1784 il lavoro di raccolta e riordino delle leggi penali venete, lo riprendono nel 1790-1791, lo sospendono di nuovo, anche per la morte di uno dei più solerti esecutori del lavoro, Vincenzo Ricci, e in conclusione, alla vigilia della caduta della Repubblica, "la vicenda della compilazione veneziana pare esaurirsi da sé, quasi per consunzione, perché in realtà la classe dirigente aristocratica veneziana non vuole, non ha mai voluto il codice nel senso che tendiamo noi, oggi, ad attribuire", anzi, conclude Simonetto, "Venezia del codice proprio non ha bisogno" (173). Analogo il destino del nuovo codice civile: nel 1751 i soprintendenti alle leggi progettano un riordino della legislazione civile, nel 1773 il senato ordina di compilare una raccolta delle leggi civili in materia ecclesiastica, nel 1781, sollecitato da Andrea Tron, dispone un progetto organico di "riordinazione del veneto civile statuto", e ne affida ancora la realizzazione ai soprintendenti al sommario delle leggi, ed in particolare al loro colto ed efficiente funzionario Jacopo Chiodo, il quale in effetti presenta per ben due volte, nel 1785 e nel 1789 (in quest'occasione stila anche un nitido Albero della veneta giurisprudenza civile), dei precisi piani per un "codice veneto civile", ma tutto si insabbia, anzi, per citare Ernesto Garino, la sua sorte resta "per così dire sospesa" (174). Tenue e marginale la riforma introdotta il 30 aprile 1781, uno dei pochi frutti della fallita correzione di Contarini-Pisani: per riordinare il confuso mondo professionale degli intervenienti, i causidici che operano nella fase preliminare delle azioni forensi, il maggior consiglio nomina una commissione "incaricata dell'espurgo degli intervenienti in modo da formare un collegio composto dai cento usciti meglio dalle ricognizioni" e questa sarà comunque, sottolinea Simonetto, "una delle poche riforme che a Venezia non si arenerà stancamente tra l'inerzia e l'indifferenza, mentre una regolamentazione dell'avvocatura si farà inutilmente attendere". "Immancabilmente, fino alla fine della Repubblica, l'esigenza di una maggiore certezza nel diritto si sublima, nel più perfetto stile veneziano, in deludenti, vecchie, noiose diatribe sul nulla, o quasi" (175); in questa sconsolata analisi di Simonetto sull'inanità del riformismo giuridico veneziano del Settecento spiccano due eccezioni, minori ma non insignificanti; dopo dieci anni di lavori, iniziati il 30 agosto 1770 e conclusi il 22 dicembre 1779, nel 1780 esce alle stampe il Codice feudale della Serenissima Repubblica di Venezia, accurata "compilazione delle leggi di massima, di governo e di relativa, occasionale esecuzione, sì antiche, che recenti, finora emanate" (176); ben più lunghi e travagliati i lavori per il codice del diritto marittimo, iniziati nel 1748 e conclusi solo nel 1786: il Codice per la veneta mercantile marina, di recente ristampato e studiato da Giorgio Zordan, è scritto, sottolinea Cozzi, "con oculata apertura sui vari aspetti delle attività marittime [...] con incisività, [...] agilità e organicità: era un'opera che dava la misura del salto qualitativo che era in corso a Venezia, tra un modo antico ed uno attuale di concepire il diritto e di redigere le leggi" (177).
"L'agricoltura è finalmente venuta di moda, come volea ragione", scrive nel marzo 1769 Alberto Fortis (178): certo per qualche anno a Venezia l'agricoltura è anche la "moda" del momento e non sono pochi quei "professori dell'agricoltura sedentaria e ciarliera" che nel 1790 il filosofo e agronomo Pietro Caronelli deride sulle colonne del "Nuovo Giornale d'Italia" (179). Non solo "moda" però: in quegli anni Sessanta e Settanta nei quali più vivaci e promettenti fioriscono le speranze del riformismo veneto, intorno alle accademie agrarie e ad alcuni giornali un eletto manipolo di proprietari illuminati, nobili e borghesi, riformatori moderni e tecnici, dà vita ad un articolato movimento che si propone una riforma, sia pure dai contenuti incerti e spesso divergenti, delle campagne venete. Come sottolineano gli storici dell'agricoltura veneta settecentesca l'occasione immediata della fioritura di scritti di agronomia è la drammatica carenza di carne bovina, che costringe a imponenti importazioni e determina un grave deficit nella bilancia commerciale: di fatto poi, ricorda Gullino, "ben presto la soluzione del problema venne riassorbita nel quadro del generale programma di ripresa economico-finanziaria che negli anni '60 e '70 fece capo all'entourage del Tron e di quanti si riconobbero nell'azione della Deputazione ad pias causas, che del riformismo veneto fu il motore ed il vero banco di prova" (180). Fulcro e motore del dibattito sull'agricoltura e sui progetti di riforma sono le accademie agrarie: la prima nasce a Udine, nel 1762, per impulso di Antonio Zanon, Prospero Antonini e Fabio Asquini (181), seguono via via tutte le altre nelle città di Terraferma, di solito per spontanea trasformazione di precedenti accademie letterarie, stimolata il 10 settembre 1768 da una precisa direttiva del senato (182). Le istanze riformatrici degli accademici agrari ma anche di tanti altri proprietari, tecnici, appassionati del mondo agricolo, trovano espressione pubblica in molte memorie, parte rimaste inedite nelle singole accademie e presso l'archivio dei deputati all'agricoltura, parte pubblicate sul "Giornale d'Italia" (183), che nel corso delle sue tre successive serie diventa un vero e proprio organo semi-ufficiale del movimento agronomico veneto e anche, nota Venturi, "una sorta d'enciclopedia del mondo rurale" (184). Intorno alle accademie e al "Giornale d'Italia" l'interesse dell'opinione pubblica illuminata è forte; anche la classe dirigente non si sottrae a questa ventata di aria nuova che sembra spirare verso le campagne venete e così tra il 1764 e il 1773 si susseguono iniziative e misure riformatrici: il 3 maggio 1765 è affidata a Pietro Arduino la prima cattedra patavina di agricoltura (185), il 26 settembre 1765 si introducono le prime parziali limitazioni al pensionatico (il diritto delle greggi di pecore di transumare e pascolare sui campi privati della pianura), un tema più volte agitato nelle accademie e sulle pagine del "Giornale d'Italia" (186), del 10 settembre 1768 è l'invito alle società culturali di Terraferma a trasformarsi in accademie agrarie, il 1° ottobre 1768 il senato delibera che i cinque provveditori ai beni inculti scelgano al loro interno due deputati all'agricoltura specificamente rivolti ai problemi del mondo agricolo (187), il 6 maggio 1769 Giovanni Arduino è nominato soprintendente generale all'agricoltura veneta (188), nel 1771-1772 tre sindaci inquisitori in Terraferma redigono per i provveditori alle biave e poi per il senato una analitica relazione sui prodotti agricoli delle varie provincie (189), il 9 settembre 1773 Giuseppe Orus, un professore originario di Parma, ottiene la prima cattedra patavina di veterinaria (190). Questa ondata riformatrice, rileva Gullino, si va però esaurendo, negli anni successivi, sia per il mutato clima politico generale, a Venezia come nel resto d'Italia e d'Europa, sia per la "lunga serie di disastri climatici": ne è specchio fedele proprio il "Nuovo Giornale d'Italia", che, nella sua terza ed ultima serie (1789-1797), "manifesta un ῾taglio' più tecnico e freddo rispetto alle precedenti esperienze" (191): il fatto è, osserva Berengo, che "or più or meno consapevolmente il legame dei ῾dotti' e dei ῾filosofi' con la loro società si era spezzato: l'agraria tornava ad essere quel che sino alla metà del secolo era stata, una scienza specializzata" (192). Un ultimo, breve sussulto riformatore si coglie nell'ultimo decennio del secolo: nel 1788 viene abolita la decima verde, cioè, cito da Gullino, "la possibilità di bonificare parte delle gravezze dovute mediante versamenti di frumento ai Provveditori alle biave" (193), tra il 1789 e il 1791 si defiscalizza la commercializzazione dei bovini (194) e nel 1794 vengono abolite le dogane interne (195).
I temi toccati e discussi, spesso con passione e sincera partecipazione, da questi agricoltori filosofi del Veneto (Zanon, Caronelli, Canciani, Carrera, Scotton[i] sono solo i più noti di una fitta schiera) sono tanti e di suggestivo interesse: l'educazione dei contadini, i contratti agrari e i rapporti padroni-contadini, la libertà di estrazione dei grani, le imposte, l'allevamento, le rotazioni, il legname e la torba, le nuove colture, le macchine (196). Ed è un fervore di discussioni e proposte che dalla Terraferma si allarga all'Istria e alla Dalmazia dove anzi, come documenta Venturi, il moto riformatore promosso dalle accademie conosce un'energica ripresa negli anni Ottanta e Novanta, per impulso di alcuni filosofi (Giulio Bajamonti, Domenico Stratico, Pietro Nutrizio Crisogono, Rados Antonio Michieli Vitturi) (197).
Un bilancio del moto riformatore nelle campagne venete è stato più volte tentato dagli storici, con conclusioni in parte divergenti; richiamo alcune delle sintesi più convincenti. Introducendo il suo panorama su L'agricoltura veneta dalla caduta della repubblica all'unità Berengo sostiene che "l'ondata riformatrice del secondo '700, pur spesso ricca di tanto generoso entusiasmo, passa come un rapido colpo di vento sulle vecchie pratiche colturali senza scalfirle" (198). Un giudizio drastico, sostanzialmente condiviso da molti studiosi degli anni successivi; anche Venturi, che pure del movimento degli agricoltori filosofi ha ricostruito le aspirazioni, molte, e le realizzazioni, poche, è costretto ad ammettere nei riformatori veneti "il rifiuto o almeno la ritrosia a passare dall'agronomia all'economia" (199); nella mia sintesi sull'illuminismo veneto scrivevo che il "bilancio finale [delle accademie agrarie venete] non va al di là di un imponente inventario delle condizioni dell'agricoltura e di un vasto ma inerte contributo di proposte": esse hanno avuto "il merito di aver smosso le acque degli ambienti proprietari, fatto conoscere esperienze straniere, e riunito nobili e borghesi (come in molte contemporanee logge massoniche) in esperienze culturali comuni" (200). Riprendendo alcuni studi di Georgelin e Ciriacono (201), Gullino è giunto di recente ad alcune conclusioni più problematiche: riconosce che, sulla base di alcuni dati statistici, per ora ancora "esigui e dall'attendibilità quantomeno opinabile", "non emerge alcun diffuso progresso nel mondo rurale veneto; si possono certo cogliere elementi favorevoli, realtà nuove e suggestive, sia pure ancora allo stato embrionale, ma nel complesso accanto ad ogni segnale positivo troviamo sempre un riscontro di segno opposto" e "tuttavia qualcosa si fece, nel Veneto, dopo il 1760: ci fu pure chi tentò di applicare le teorie degli agronomi", ma in ogni caso invita ad evitare un'analisi troppo condizionata da Campoformido, dalla realtà che ne seguì e insomma post res perditas, ipotizzando "un peggioramento dell'agricoltura veneta avvenuto dopo la fine della Repubblica, e di tali dimensioni da farci smarrire l'esatta percezione della precedente realtà" (202). Ma forse si potrebbe applicare all'agricoltura l'impietosa analisi di Facchinei sulle mancate riforme nella giustizia: "tre o quattromila" (!) agronomi o agricoltori filosofi hanno riempito per anni i cassetti delle accademie e le colonne del "Giornale d'Italia" di progetti di riforme, ma poi il "gotico governo" della Repubblica non ha riformato nulla, o quasi nulla.
Dal mercantilismo trionfante della prima metà del secolo, di cui i lanifici di Schio e Follina di Nicolò Tron sono il "capolavoro" (Venturi) (203), al possibile liberismo e alle vivaci discussioni sulle Arti nella seconda metà del secolo la politica industriale della Repubblica segnala ampiezza e ricchezza di dibattiti ma rare e poco incisive riforme. Al "Giornale d'Italia" si deve uno dei più significativi interventi conoscitivi della situazione industriale veneta: infatti in uno dei primi fascicoli viene pubblicato un ampio e dettagliato inventario delle manifatture tessili esistenti nella Terraferma e a Venezia (204).
L'unica vera e grande occasione riformatrice nel mondo economico-industriale veneto è l'ampio dibattito che si apre nella seconda metà del Settecento sulle Arti, la loro funzione nella società, la loro eventuale apertura o scioglimento, temi che rimbalzano a Venezia da altri stati italiani ed europei ed in particolare dalla Francia, nelle pagine dell'Enciclopedia. Il problema è già all'attenzione delle magistrature veneziane alla metà del secolo, prima dell'ondata riformistica degli anni Sessanta e Settanta: l'11 gennaio 1719 il senato ammette, ma solo in linea di principio, il libero esercizio delle Arti; nel 1751 il ripristinato inquisitore delle Arti è invitato a progettare qualche riforma, nel senso dell'apertura e dell'abolizione o accorpamento delle Arti veneziane, che un'indagine di qualche anno posteriore indicherà nel numero di 130; nel 1759 vengono aperte 33 Arti di "sola industria", costituite di soli lavoratori manuali, come tessitori e tintori (205). Tra il 1770 e il 1775 "le esigenze di riforme trovano in Andrea Memmo chi volle farne [...] l'elemento essenziale della sua battaglia politica" (206): nel 1772 i sopra-provveditori e provveditori alla giustizia vecchia redigono 4 scritture, che dovrebbero costituire la piattaforma originaria di un organico progetto riformatore, l'anno successivo la nuova deputazione straordinaria delle Arti, guidata dallo stesso Memmo, raccoglie un imponente materiale informativo, storico e corrente, poi sintetizzato nei Fogli dimostranti [...] lo stato attuale delle arti e mestieri di Venezia configurati in corpo [...], comunemente chiamati Statistica delle Arti, premessa di un radicale progetto riformatore; l'inchiesta, ampia, e accurata, resta fine a se stessa e nessuna riforma viene attuata (207). Il problema torna d'attualità negli anni Ottanta: sotto la pressione di Andrea Tron nel 1782 viene riformata l'Arte della seta, con la subordinazione dei tessitori ai mercanti-imprenditori riuniti nell'università della seta, nel 1786 vengono aperti i ruoli dell'Arte dei laneri, dei tessitori e dei cimadori, anche questi ultimi ricondotti sotto la subordinazione dei mercanti-capitalisti, riuniti nella camera del purgo (208). Nel 1789 la Società agraria di Verona ripropone alla discussione dei filosofi e dei patrizi illuminati una radicale riforma delle Arti; numerosi e interessanti, tra il 1789 e il 1792, gli interventi, tra i quali spiccano quelli dei conti Luigi Torri e Giangiuseppe Marogna, del matematico vicentino Agostino Vivorio e di Giambattista Vasco e Massimo Marachio, acute analisi, intelligenti proposte, nessuna eco da parte del governo: il problema delle Arti è ancora aperto, sospeso tra riforme (apertura o scioglimento) e conservazione, durante la municipalità democratica (209).
Su mercantilismo e liberismo fioriscono per tutto il secolo, ma soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, discussioni teoriche su giornali e libri e all'interno delle magistrature: solo nel 1794 si arriva alla completa abolizione delle dogane interne (210).
Massimo Costantini ha già ricordato, in questo volume, che "Venezia non era pregiudizialmente chiusa a misure di riforma del proprio sistema protezionistico, in particolare di quello doganale" (211): dopo aver sperimentato, tra il 1662 e il 1684, con esiti negativi sul piano fiscale, il cosiddetto "portofranco", la deputazione al commercio, ideata nel 1703 ma effettivamente operante dal 1708, studia a lungo i problemi del commercio in Levante e Ponente, coinvolge nella sua azione i capi di piazza, cioè gli esponenti dei mercanti, e i capi dei parcenevoli, gli armatori, e il 21 luglio 1736 riforma il sistema doganale, abbassando le tariffe in entrata ed uscita, e incentiva le costruzioni navali, con il sostegno pubblico alle navi atte, armate con l'aiuto statale e più adatte all'autodifesa dai corsari: un parziale ripensamento dell'assetto doganale seguirà con la regolazione del 1751-1752, anch'essa, come le precedenti e le seguenti, dagli esiti incerti e contraddittori (212).
Anche per il commercio gli anni Sessanta segnano una vivace ripresa di interesse tra i filosofi e la parte più illuminata della classe dirigente: segno evidente di questa rinnovata apertura allo "spirito di commercio" è, sottolinea Venturi, la pubblicazione, tra il 1759 e il 1760, del "Giornale di Commerzio", versione italiana del "Journal de Commerce" stampato a Bruxelles, che introduce alla conoscenza e riflessione dei Veneziani tempi e problemi del dibattito economico-commerciale agitati in questo momento in Inghilterra e in Francia (213). Anche se, ancora Venturi, "contrariamente a quanto accadeva contemporaneamente a Firenze e a Livorno, non esiste nella Dominante e nelle provincie venete, alla fine degli anni '60, un forte movimento per il libero commercio dei grani" e "relativamente debole, soprattutto se messa a raffronto con la fervida predicazione agronomica, fu la discussione sulla libertà economica tra i collaboratori del ῾Giornale d'Italia'" (214), il 26 aprile e 16 settembre 1769 il senato abbandona la secolare politica vincolistica e consente la "libera circolazione dei grani in ogni tempo, la libera uscita dei formenti e sorghi turchi da tutta la terra ferma per gli altri stati allora quando il loro valor non eccede in quanto ai primi le lire 22 per staro e ai secondi le lire 11" (215); misure liberistiche, che escludono in ogni caso la capitale Venezia (prevalgono i tradizionali timori per l'approvvigionamento della "povertà"), sono perfezionate e ribadite nel corso del 1771 ma non reggono all'urto della grave "penuria di viveri" del triennio 1771-1773 e nel 1774-1775 sono sospese e poi in gran parte abrogate (216). Analoga la vicenda della lana: nel 1771 i cinque savi alla mercanzia ne liberalizzano la circolazione nella Terraferma, ma escludono Padova e mantengono il divieto di esportazione (217). Esemplare delle incertezze e contraddizioni della politica commerciale veneziana di questi anni è la questione del commercio dell'olio, sollevata nel 1769-1770, in funzione anti-ebraica, da Andrea Tron: le esportazioni dell'olio gestite dagli Ebrei sono gravate di nuovi dazi, con l'evidente proposito di "trasferire nei sudditi veneti il maneggio di un prodotto che nasce e si consuma in essi" (218), ma già nel marzo 1772 la complessa operazione, commerciale e politica ad un tempo, fallisce e Vincenzo Barzizza e Agostino Sagredo convincono il senato ad abrogare le misure vincolistiche, opinando vittoriosamente che "praticata la libertà, la concorrenza, ne risultava il vero vantaggio del possessore, del venditore, del consumatore" (219).
La deputazione al commercio è stata soppressa nel 1756 e così nel 1773 tocca alla conferenza tra i savi cassier attuale e uscito e i cinque savi alla mercanzia riprendere in mano il problema delle tariffe daziarie: nel 1775 viene effettuato un censimento dei dazi esistenti e nel 1776 si propone di ridurre la congerie di dazi a due, uno di consumo e uno di commercio, gestiti da un'unica magistratura centrale; discussioni, proposte, polemiche, durano per anni fino al definitivo affossamento, nel 1779, di ogni progetto riformistico (220). Il problema torna alla ribalta nel 1785 con la creazione di una nuova magistratura, i tre deputati alla regolazione delle tariffe commerciali; dopo quasi nove anni di lavori finalmente nel 1794 si arriva all'unificazione daziaria per tutta la Repubblica, con l'abolizione delle dogane interne (221).
L'attività riformatrice dei neonati deputati alla regolazione delle tariffe commerciali trae slancio anche dalla pubblicazione, avvenuta il 21 settembre 1786, del già ricordato Codice per la veneta mercantile marina. Per due riforme arrivate felicemente in porto, sia pure dopo decenni di faticosa elaborazione, una miseramente abortita; dopo una prima vaga idea lanciata, nel 1713, dai deputati al commercio, la proposta di una camera di commercio, presentata dai cinque savi alla mercanzia il 30 luglio 1763, va avanti per cinque anni tra spinte innovatrici e tenaci resistenze conservatrici. Il 30 luglio 1768 il senato affossa definitivamente, sia pure con un lieve scarto di voti, il progetto definito "contrario" alla costituzione politica veneziana: a tutti doveva apparir chiaro, osserva Costantini, che "quando si arriva a toccare il punto della rappresentanza, sia pure non direttamente politica, dei nuovi ceti economico-sociali, scattava nel vecchio ceto dominante un rifiuto condizionato, che riusciva a saldare il fronte conservatore nel rifiuto di ogni riforma, considerata letteralmente eversiva della tradizionale struttura di potere" (222). Più luci che ombre invece nell'istruzione tecnica marittima, dove la secolare tradizione marinara dell'aristocrazia veneziana anziché da freno immobilistico agisce da impulso a iniziative innovatrici e concretamente riformistiche. Dal 1739 al 1797 funziona regolarmente, e con ottimi risultati, una scuola nautica (223); all'interno dell'accademia dei nobili alla Giudecca dal 1750 è attivata una cattedra di nautica, peraltro soppressa nel 1782, in occasione del riordino complessivo del corso di studi (224); nel 1745 l'Ateneo di Padova istituisce la cattedra di teoria nautica ed architettura navale, che rimane vuota nel 1750 in seguito al trasferimento a Milano del suo prestigioso titolare, l'economista Gian Rinaldo Carli (225); il 22 settembre 1769 la stessa Università attiva l'insegnamento di diritto marittimo e commerciale, aggregato alla cattedra di diritto feudale (226); nel 1770-1771 viene creato il corpo degli ingegneri navali e di artiglieria, ospitato all'Arsenale, dove a partire dal 1777 comincia a funzionare anche un corso quinquennale di studi fisico-matematici relativi all'architettura navale (227): a ragione Panciera può concludere che "la caduta della Repubblica colse l'Arsenale all'apice di un processo di adeguamento tecnico e organizzativo che lo stava trasformando nuovamente in un complesso all'avanguardia" (228).
Negli ultimi anni del Settecento, quando da ogni parte sembrava isterilirsi l'efficacia dei lumi e bloccarsi ogni velleità di riforme, spiccano per il loro limpido e conseguente radicalismo le posizioni liberistiche di due uomini diversi per collocazione sociale, il borghese Francesco Mengotti e il nobile Francesco Battaglia: il primo risale dalla storia dei Romani, dei quali condanna con insolita durezza lo "spirito di conquista", alle dottrine contemporanee di Adam Smith, per rivendicare l'indiscussa preminenza della libera concorrenza sul colbertismo e ricordare ai pavidi governanti che "il miglior rimedio per le carestie" è "di lasciare i grani nella loro libertà di commercio naturale" (229), il secondo, attivissimo, ricorda Venturi, nei "più importanti dibattiti economici fra il 1777 e il 1790", chiamato ad esprimersi sui rimedi all'infelice situazione economica dell'Istria, sulla quale ancora una volta stanno attirando l'attenzione i battaglieri accademici Risorti di Capodistria, si limita seccamente a suggerire, da perfetto discepolo di Smith: "Si pubblichi con un proclama l'abolizione di tutti i dazi, decime, ecc. ecc. cosicché e le azioni e le cose godessero di un'intera libertà" (230). Non è certo casuale la loro parabola politica nel 1797; Battaglia, nominato in extremis provveditore straordinario in Terraferma, nonostante i suoi malcelati sentimenti filo-francesi, dà un contributo importante, anche se forse meno decisivo di quanto i colleghi conservatori e molti storici abbiano voluto accreditare, allo sfacelo della Repubblica; Mengotti aderisce senz'altro alla municipalità democratica, apportandovi un prezioso contributo di moderazione e di pragmatico spirito riformistico (231). Accanto ad un celebre saggio sulle pecore spagnole e italiane, del farmacista, filosofo, giacobino, funzionario napoleonico, Vincenzo Dandolo, Venturi ha scelto quello di Mengotti sulle acque correnti, stampato nel 1810 a Milano, a simboleggiare "l'eredità riformatrice che il moto veneto dei lumi trasmise all'Italia napoleonica" (232). "Sono due bellissimi libri [e con queste parole Venturi conclude il suo volume sui lumi e le riforme a Venezia] solidi e pieni di energia e intelligenza, quasi frutti fuori stagione di quella forza che aveva alimentato anche a Venezia il moto riformatore" (233). Mengotti passerà dai lumi alle riforme della rivoluzione, alle più moderate riforme del napoleonico Regno d'Italia, e finirà per portare le sue concrete competenze tecniche al servizio dell'amministrazione austriaca, un itinerario biografico non raro tra i molti uomini nuovi che emergono dal declino della Repubblica e negli sconvolgimenti rivoluzionari del 1797 e degli anni seguenti.
Le condizioni generali della finanza pubblica veneziana, i progetti di riforme e le riforme concretamente attuate sono chiaramente analizzate in questo stesso volume nel saggio di Zannini (234); mi limito dunque a richiamarli per sommi capi, per completare il quadro del riformismo veneto del Settecento. Zannini sottolinea innanzitutto la crescita del ruolo del savio cassier, nell'ambito di "una certa tendenza all'accentramento della funzione di governo in organi ristretti", e la crescente importanza dei deputati ed aggiunti alla provvision del denaro pubblico, che "costituirono di fatto nell'ultimo secolo di vita della Repubblica il vero centro programmatore della vita finanziaria" (235). Nel 1735 Girolamo Costantini compila il primo bilancio generale della Repubblica, ripetuto poi negli anni successivi (236); nel 1743 viene istituito un inquisitore alle revisioni ed appuntadure, addetto al controllo della contabilità pubblica e nel 1787 l'inquisitorato sopra l'esazione dei pubblici crediti (237). Tra il 1768 e il 1775 scorrono, per usare la felice espressione di Zannini, gli anni dell'"impossibilità delle riforme amministrative": nel 1768 i deputati aggiunti, guidati da Costantini, redigono le Anagrafi venete, "una delle più complesse operazioni amministrative portate a compimento dall'amministrazione marciana [...] funzionali ad operazioni di riordino amministrativo di grande impegno riformatore", ma di fatto rimaste senza alcuna concreta utilizzazione pratica (238).
Accantonato ogni progetto di riforma del bilancio Venezia passa i suoi ultimi anni con "una finanza pubblica nelle sue grandi linee immutata rispetto a quella con cui aveva chiuso cento anni prima la guerra di Marea": "in alcuni casi [conclude Zannini] si procedette a utili operazioni di riordino, in altri a efficaci manovre finanziarie, ma mai ci si staccò da una visione dello stato e della amministrazione che risaliva al Quattrocento" (239).
Le alterne fortune dell'editoria veneziana nel Settecento sono ampiamente conosciute dopo la fondamentale ricerca di Mario Infelise (240). La prima metà del secolo vede una rinnovata espansione dell'editoria veneziana, che stimola imprenditori e patrizi a metter mano ad una complessa riforma della legislazione (241). Il primo passo, come al solito, consiste nella ricognizione storica, riordino e "rinnovo" delle molteplici leggi e norme emanate dalle più diverse magistrature, ed in particolare dai riformatori dello Studio di Padova, su questa materia e su quella, ad essa strettamente connessa, della censura: il 25 gennaio 1726 i riformatori, riprendendo una proposta lanciata sulle colonne della "Galleria di Minerva" da Almorò Albrizzi, uno degli editori più noti ed intraprendenti, riuniscono in un'antica terminazione tutte le disposizioni legislative precedenti in materia di revisione (= censura), stampa e vendita dei libri "privilegiati" (242); il 5 giugno 1730 ripristinano, dopo quasi cento anni di desuetudine, la carica di soprintendente alle stampe (temporaneamente affidata a Giovan Francesco Pivati, editore di fortunati dizionari enciclopedici), resa poi permanente il 9 gennaio 1734 (243). Nella seconda metà del Settecento l'Arte della stampa subisce profonde trasformazioni: esplode il boom dei Remondini, nel 1780 l'Arte si divide tra ricchi e poveri (i librai con capitale superiore a 200 ducati e gli stampatori con macchinari di valore superiore a 500 ducati mantengono i pieni diritti, tutti gli altri, con capitali inferiori, sono esclusi dall'elettorato attivo e passivo), poi entra in crisi, anche per il crollo di vendite seguito alla soppressione dei Gesuiti, si riprende con l'edizione sistematica di opere dei filosofi e di molti giornali e si fa dunque strumento della penetrazione dei lumi nella Repubblica (244). Tra il 1764 e il 1767, per impulso dello scrittore Gasparo Gozzi, dal febbraio 1764 soprintendente alle stampe ed estensore materiale di quasi tutte le terminazioni riformatrici di questi anni, i riformatori dello Studio di Padova rinnovano radicalmente l'Arte della stampa e ne rilanciano le capacità imprenditoriali e la competitività: nel giugno-agosto 1764 tagliano e poi riducono gli obblighi della casa Remondini "a non imporre più sui propri libri la data di Venezia, a non peggiorare nelle ristampe la qualità delle edizioni e a non ripubblicare le opere del Baglioni" (245); il 3 agosto 1765, accogliendo le ricorrenti proteste degli editori contro la censura del Sant'Uffizio, che tra l'altro ha condotto alla pratica diffusissima dei permessi con falsa indicazione topica (a volte città straniere, a volte luoghi immaginari), e facendo proprie le proposte del segretario Pietro Franceschi (in una lunga e dotta relazione storica Della proibizione de' libri e delle stampe) e di Gasparo Gozzi il senato riforma radicalmente la vecchia legge sulla censura del 1603: all'inquisitore viene affiancato nell'incarico di revisione, "in questioni di religione", dei testi proposti per la stampa un "suddito nostro", ecclesiastico secolare, consentendo ai librai di scegliere tra i due: in questo modo si evitano le maglie strette della censura del Sant'Uffizio e tra quelle, ben più larghe, del primo revisore Natale dalle Laste e dei suoi successori passano quasi tutte le opere più significative dei lumi italiani e veneti (246).
Altre riforme proposte da Gozzi e attuate dai riformatori dello Studio di Padova: nel maggio 1765 è istituito un correttore generale per il controllo dell'esattezza delle edizioni e il 23 maggio 1766 un albo di quarantotto "correttori abilitati alla verifica delle bozze, il cui nome sarebbe dovuto comparire su ciascuna edizione controllata" (247); il 2 maggio 1767 viene imposto "un altro tariffario minimo sui salari dei torcolieri e dei compositori, per impedire che retribuzioni inadeguate favorissero l'assunzione di manodopera priva della necessaria esperienza" (248); infine il 29 luglio 1767 si regolamenta e si riduce l'accesso di nuovi garzoni nelle botteghe dei librai, si ribadisce il divieto di importazione dei libri già editi a Venezia, si allarga da venti a trent'anni la durata dei privilegi di stampa e si dà una nuova regolamentazione alle stamperie di Terraferma (249). Tra i tanti progetti riformatori stesi da Gozzi in questi tre anni solo quello di istituire una stamperia dell'Università di Padova viene accantonato (250); tutti gli altri sono pienamente accettati dai riformatori: seguiranno nel 1780-1781 la chiusura dell'Arte e infine, il 1° maggio 1789, il ripristino del limite di venti anni per il privilegio di stampa, peraltro abolito per i testi scolastici e ascetici (251).
Come ricorda Infelise "la terminazione del 1789 fu l'ultimo tentativo dei riformatori di regolamentare la corporazione prima della caduta della Repubblica. Negli ultimi anni nessun altro provvedimento degno di nota venne preso al di fuori dell'inasprimento delle norme sulla censura [...]" (252); grazie all'energica attività riformatrice di Gasparo Gozzi l'editoria veneziana arriva in discreta salute al "fatale" 1797, che vede il tracollo e la dissoluzione di questa Arte, che con tanto successo economico e ritorno di immagine nella cultura europea ha accompagnato la storia secolare della Repubblica.
La storia della scuola e dell'università nella Venezia del Settecento è una storia di riforme, come hanno illustrato in anni recenti gli studi di Gullino e Del Negro (253). "Intellettuale impegnato tra conservazione e moderno", così viene definito Gasparo Gozzi da Michele Cataudella (254) ed è davvero singolare e peculiare del rapporto lumi-riforme a Venezia che proprio a questo giornalista, romanziere e scrittore dai forti tratti anti-razionalisti e anti-illuministici la classe dirigente veneziana affidi il rinnovamento del sistema educativo, oltreché dell'editoria. La riforma delle scuole veneziane prende l'avvio insieme a quella delle strutture ecclesiastiche, perché tra i vari fini cui è destinata la "cassa civanzi", istituita dalla deputazione ad pias causas con i proventi delle alienazioni ecclesiastiche, è compreso il finanziamento delle istituzioni educative (255). Anche in questo caso il progetto riformatore è preceduto ed alimentato da un'ampia attività di ricognizione, storica e attuale, sulle strutture scolastiche di Venezia e della Terraferma, condotta dai riformatori dello Studio di Padova, a ciò specificamente stimolati dal senato, con due decreti del 7 settembre 1768 e 20 settembre 1770. Seguono nel 1774-1775 concrete e incisive riforme: le rinnovate scuole primarie sono istituite in tutti i sestieri di Venezia, è fissato un calendario scolastico, è abolito il latino, gli allievi sono distribuiti in classi a seconda dell'età, vengono forniti gratuitamente i libri di testo, sono aumentati i salari ai maestri, forniti anche di alcune misure di previdenza; l'impianto pedagogico delle rinnovate scuole di sestiere, cui continuano ad affiancarsi le vecchie scuolette private, è suggerito ancora una volta da Gasparo Gozzi, seguace delle idee di Antonio Genovesi (256). Anche le scuole superiori vengono riordinate: nei locali abbandonati dai Gesuiti sono istituiti corsi gratuiti di otto anni, con un preciso programma di studi e un calendario direttamente controllati dallo stato, dentro la cornice degli Statuti delle scuole pubbliche di Venezia, emanati nel 1775 (257).
Nell'Università di Padova i primi progetti di riforma, resi impellenti da una decadenza sempre più visibile, datano ai primi decenni del secolo, quando, ricorda Del Negro, "prevalgono a Venezia i Savi, quei politici che pensavano, come scriveva Giacomo Nani, a ῾regolar la corrente, a tenerla nel suo letto, non a cambiarla di corso'. ῾Non imbarazzare il paese in negozi aspri e fastidiosi', ma ῾contentarsi della situazione presente, senza tentar di migliorarla'" (258). Del 1715 è il Ricordo per la riforma dello studio di Scipione Maffei, che propone l'eliminazione di cattedre ormai obsolete e l'introduzione di nuove materie (259); del 1716, o posteriore, è l'Informazione sopra lo Studio di Padova, probabilmente del savio di consiglio Francesco Grimani Calergi, pure centrata sulla soppressione di alcune materie e attivazione di altre (260). Nel 1738 i riformatori dello Studio accolgono, almeno in parte, le proposte avanzate da Giovan Francesco Pivati nelle Riflessioni sopra lo stato presente dello Studio di Padova (dodici le cattedre da sopprimere, quattro le nuove da istituire) e modificano i ruoli dell'Ateneo, con eliminazione di vari insegnamenti e attivazione di nuovi, vincendo le prevedibili opposizioni di molti docenti (261). Con il 1760 entriamo nell'anno delle riforme; Simone Stratico, docente di istituzioni mediche, nelle Riflessioni sullo stato presente dello Studio di Padova e progetto d'una riforma possibile demolisce, come scrive Del Negro, "i pilastri dell'università ereditata dal Medioevo", proponendo di unificare tutti i docenti in "un solo corpo", eguagliare gli stipendi, diversificare i curricula professionali, valorizzare gli insegnamenti scientifici e medici rispetto a quelli teologici, attivare nuove discipline più attente alla realtà economica, politica, sociale, ridurre il monopolio linguistico del latino (alla lezione in latino segue il giorno successivo una in italiano) e infine riformare i collegi per gli scolari (262). "Un vento di riforma spirava nella città lagunare", scrive Del Negro e così il 2 maggio 1761 Bernardo Nani riesce a far approvare dal senato un progetto dei riformatori che accoglie in larga parte le idee di Stratico: viene introdotto l'avvicendamento delle lezioni pubbliche e private, sono "varati dei piani di studio molto più articolati di quelli tradizionali, che erano quasi esclusivamente incentrati sulle cattedre primarie", alcune cattedre sono soppresse, altre nuove sono istituite, secondo "un orientamento illuministico-῾popolare' quanto mai avanzato (῾de morbis mulierum, puerorum et artificum'; scienza agraria: ῾scienza che non solo si rese universale nei Paesi del Nord e nella Francia, ma che prende vigore in Fiorenza, trattandosi in essa materie alla maggiore utilità e felicità de' Popoli inservienti e dirette')" (263). Strano e triste destino quello della riforma del 1761: già il 29 settembre 1762 è abrogata quasi integralmente sotto l'offensiva dei conservatori di Venezia, molti nobili, e di Padova, molti professori; di riforme si torna a parlare e discutere nel 1768, nel pieno di quello che giustamente Del Negro chiama il "῾dispotismo illuminato' alla Andrea Tron": si sopprimono cattedre, si conservano "a casa" molti insegnamenti, si attivano nuove materie ed altre mutano denominazione e contenuto e poi nel 1771, nonostante le solite, reiterate proteste dei docenti più conservatori, si riconfermano le linee essenziali di questo "ordinamento didattico che sarebbe rimasto in vigore fino alla caduta della Repubblica" (264).
Nel 1772, per iniziativa di Sebastiano Foscarini, la riforma viene completata con la chiusura di sette collegi, il riordino di altri tre e l'apertura di quello nuovo di S. Marco: non vanno invece in porto due riforme caldeggiate da Gasparo Gozzi, la già ricordata istituzione di una stamperia dell'Università di Padova e l'erezione di un collegio per "la educazione della Nobile Gioventù Veneta ed altra" (in verità Gozzi lo voleva aperto a patrizi, nobili di Terraferma, cittadini originari, mentre Foscarini lo voleva riservato ai patrizi) (265). Nel 1786 il senato decide "di dispensare dal primo e secondo anno gli scolari legisti veneziani che studiassero nelle pubbliche scuole di quella città", una misura, sottolinea Del Negro, che "non indicava altro che la politica delle riforme, una politica che, nell'università patavina come altrove, aveva inevitabilmente assunto caratteristiche accentratrici, si era esaurita" (266). Ancora Del Negro ci ricorda peraltro che prima del definitivo inaridimento dello slancio riformatore la Repubblica prende altre due iniziative volte al potenziamento culturale e scientifico dell'Ateneo patavino: la trasformazione, guidata nel 1773 dallo Stratico, "della biblioteca universitaria in uno strumento di ricerca" e l'istituzione, nel 1779, dell'accademia patavina di scienze, lettere ed arti, per offrire ai docenti un luogo di espressione pubblica delle proprie ricerche e al governo un proficuo centro di consulenza (267).
La Repubblica di Venezia arriva al Settecento con un'organizzazione sanitaria ormai collaudata da secoli e abbastanza efficiente, per lo meno in rapporto allo standard medio degli altri stati europei; è nata e si è consolidata dal Trecento in poi, soprattutto in funzione della prevenzione e della lotta alle epidemie di peste, il terribile flagello che periodicamente falcidia le popolazioni europee (268).
Nel Settecento la peste scompare, salvo le due incursioni di Marsiglia (1720) e di Messina (1743), ma Venezia conserva l'apparato preventivo che dal 1630-1631 l'ha salvata dalla malattia (rastrelli, cordoni sanitari, contumacie, lazzaretti, espurghi): le strutture presentano però qualche sintomo di crisi, tant'è che nel 1775 il senato ammette che il lazzaretto di S. Erasmo è in "pessima condizione" (269); nel 1786 l'avvocato inglese John Howard riconosce che le norme di contumacia sono "sagge e buone" ma poi deplora la "trascuratezza e corruzione" nella loro applicazione e il degrado dell'edificio (270). Per tutto il Settecento, e segnatamente nel periodo più incisivo del riformismo, i provveditori alla sanità vedono una progressiva estensione delle loro competenze: così il protomedico, il cui ruolo è ormai preminente nell'azione della magistratura, si occupa ora di nuovi sistemi di profilassi, come ad esempio dal 1769 l'inoculazione del vaiolo, dell'espurgo delle case e degli effetti dei malati di tisi, della formazione delle levatrici e degli specialisti in chirurgia e anatomia (271). Il secolo dei lumi vede dispiegarsi a Venezia, nel campo dell'organizzazione sanitaria, un riformismo concreto, pratico, attento alle novità scientifiche, che prosegue e integra una tradizione di buongoverno sanitario che non a caso ha fatto della Repubblica, almeno per un certo periodo, un modello per altri stati italiani ed europei.
Vediamo ora, con l'ausilio di molti studi usciti in questi anni, ed in particolare di una recente sintesi di Nelli-Elena Vanzan Marchini (272), un rapido profilo delle principali riforme progettate e/o attuate dai provveditori alla sanità. Le misure preventive contro la peste sono perfezionate dopo le due epidemie di Marsiglia e Messina: il 19 aprile 1760 è istituita la figura del chirurgo del Lazzaretto nuovo, destinato a curare le milizie in quarantena; nel 1771 viene ridefinita la legislazione sui bastazzi, addetti agli espurghi nei lazzaretti; nel 1793, in occasione dell'arrivo di una tartana infetta, si abbandona l'ormai fatiscente Lazzaretto nuovo e si istituisce il nuovissimo, nell'isola di Poveglia, che resterà in funzione anche dopo la caduta della Repubblica (273).
Significativi anche gli interventi nel campo della medicina e della chirurgia: il 2 maggio 1770 si apre una scuola di ostetricia (nel 1774 attivata anche a Padova) per ovviare all'"imperizia delle levatrici"; nel 1773 gli studenti di chirurgia sono obbligati a frequentare un corso annuale e il senato acquista macchine moderne per il suo funzionamento; quando nel 1795 la scuola cessa la sua attività è lo stesso Collegio medico-chirurgico ad assumere a proprie spese la direzione e farla funzionare dal 2 gennaio 1796 (274). Come rileva la Vanzan "l'organizzazione dell'assistenza nel XVIII secolo [...] si avvalse delle nuove concezioni scientifiche e risentì dei movimenti riformatori" (275): così nel 1783 Bartolomeo Guelfi e nel 1786 Andrea Giuseppe Garbini, ambedue medici condotti, propongono due piani di riforma della medicina pratica che prevedono lo studio sistematico delle storie dei mali da parte dei medici condotti e di quelli delle fraterne e delle Arti, e la privatizzazione delle condotte della Terraferma, con il trasferimento dell'onere salariale a carico delle famiglie più ricche (276).
Momento alto e fecondo del riformismo veneto in campo sanitario è l'espressione del "Giornale di Medicina" di Pietro Orteschi (1762-1781), "il primo esempio italiano di giornale volto alla diffusione delle scoperte medico-scientifiche ed all'aggiornamento professionale" (277); mentre a Padova Toaldo introduce la meteorologia scientifica, il 10 dicembre 1791 il senato favorisce la nascita a Venezia di un'accademia dei medici che studia i rapporti tra i mutamenti del clima e le malattie individuali (278).
Per tutto il Settecento, osserva la Vanzan, la Repubblica evita la spedalizzazione, potenzia invece "l'assistenza nel territorio" e rivaluta l'azione del medico condotto, o di fraterna, e del chirurgo (279); molti gli interventi riformistici di rilievo nell'organizzazione sanitaria: viene istituito un pronto soccorso per gli annegati, con l'introduzione, il 24 dicembre 1768, della respirazione bocca a bocca e poi, nel 1770 e nel 1778, delle macchine per la rianimazione (280); nel 1766, 1768, 1775 si prendono misure per la prevenzione della rabbia canina (281); nel 1772, sollecitati dal protomedico Giovan Battista Paitoni, i provveditori alla sanità cercano di fronteggiare il contagio della tisi con l'emanazione di severe norme sul divieto di uso e di vendita di abiti e cose dei malati, l'obbligo di denuncia dei decessi e l'espurgo degli effetti personali (282); nel 1776 e 1781 si esperimenta la cura della tigna; nel 1781 si apre un ambulatorio per piagati (283); nel 1776 e 1789 nell'ospedale degli Incurabili si esperimentano nuovi rimedi contro la sifilide (284). Di particolare rilievo è l'inoculazione del vaiolo, che segue le più moderne concezioni mediche sperimentate in altri paesi d'Europa; sollecitato da una puntuale e aggiornata Memoria scientifica del dottor Francesco Visentini il senato avvia i primi esperimenti nell'ospedale dei Mendicanti, il 17 settembre 1768: per i trent'anni successivi l'innesto del vaiolo è praticato su larga scala nella capitale e, sia pure con minore incisività (per la refrattarietà di molti contadini), in Terraferma (285).
Una riforma del tutto singolare nella Venezia del Settecento riguarda i malati di mente; molti pazzi di povere condizioni vengono infatti trasferiti nella vecchia fusta del consiglio dei dieci, ancorata davanti a piazza S. Marco e inizialmente destinata all'addestramento preliminare dei condannati alla pena del remo in galera: "mentre dunque la follia degli indigenti era punita come una colpa nella nave dei Dieci [osserva la Vanzan] quella degli agiati era curata come una malattia nell'Ospedale Militare" (286).
Da ricordare infine che nel 1770, dopo due anni di ricerca archivistica, l'avvocato fiscale dei provveditori alla sanità Giovan Antonio Banoncio compila una Rubrica con i regesti di tutte le leggi sanitarie emanate nei secoli precedenti (287).
Poche le riforme nel campo dell'assistenza, dove Venezia, come sottolinea Scarabello, nel Settecento si limita per lo più a gestire e conservare le strutture create tra Quattrocento e Cinquecento, le Scuole grandi e piccole, gli ospedali, le fraterne parrocchiali dei poveri e quella generale di S. Antonio, le singole istituzioni specializzate, come i ricoveri per le ex prostitute (Zitelle, Soccorso, Convertite, Penitenti), la fraterna del Santissimo Crocifisso di S. Bartolomeo dei poveri prigioni, la fraterna dei Catecumeni, l'accademia dei nobili e le fraterne delle varie comunità nazionali (288). In un secolo caratterizzato da una crisi generale di queste istituzioni, per il crescente squilibrio tra spese e risorse economiche, spicca il fallimento dell'unica vera grande riforma progettata nel campo dell'assistenza; nel 1752-1753, poi nel 1760-1762, 1766, 1769-1770 varie magistrature e anche la neonata deputazione all'albergo studiano, con il consueto ampio dispiegamento di indagini conoscitive, l'istituzione di un grande albergo universale dei mendicanti e sfaccendati, dove concentrare e unificare l'assistenza e la repressione di tutti i poveri ed emarginati dello stato: un progetto già più volte realizzato in altri stati europei sin dal Cinquecento e Seicento ma che a Venezia viene accantonato anche questa volta (289). Del resto anche la lotta ai vagabondi, condotta con impegno dalla Repubblica per tutto il Settecento, segna qualche successo ma anche parecchie sconfitte (290). Allo stato di puro progetto resta anche un'altra riforma, questa volta nel sistema carcerario; il 24 settembre 1794 gli aggiunti soprintendenti al sommario delle leggi presentano al senato un piano, in realtà steso da Vincenzo Ricci, che recepisce molti principi di Cesare Beccaria e propone di abolire, tranne che per i ladri e i nobili, il carcere come mezzo di pena e di sostituirlo coi "pubblici lavori": il senato loda, il 6 febbraio 1790, la "ragionevolezza" del piano, ma poi non ne fa nulla (291).
Sulla municipalità democratica di Venezia, e sulle consorelle della Terraferma veneto-lombarda, grava una sorta di pregiudizio storiografico, che le vuole impotenti e inconcludenti nel riformare; peggio ancora, la postuma damnatio memoriae lanciata dai controrivoluzionari, dai conservatori, dai nostalgici di ogni risma, sino ai nostri giorni, ha esagerato sino al grottesco l'ampiezza e la portata delle novità negative, che pure hanno caratterizzato la loro attività, specie nei primi giorni, ha eretto a dogma la loro totale subordinazione alla volontà conquistatrice e prevaricatrice dei Francesi, con gli ovvi corollari di odiosi eccessi (requisizioni, spoliazioni, rappresaglie), e ha totalmente rimosso sia i valori di democrazia, libertà, eguaglianza, fraternità generosamente e appassionatamente (sia pure con tante dosi di utopica ingenuità) proclamati e dibattuti, sia le riforme politiche, civili, economiche, sociali, progettate e talvolta avviate a realizzazione. Quasi che il fantasma di Cuoco, e della sua "rivoluzione passiva", aleggi anche sulle lagune, si è negato alla municipalità veneziana ogni concretezza riformatrice; verità e onestà storica impongono invece di riconoscere che a Venezia, ma anche in molte città della Terraferma, la municipalità democratica non si limita a discutere con passione di idee astratte e generose utopie (rinnovamento, rivoluzione, rigenerazione, libertà, democrazia, fraternità, eguaglianza, sovranità, patria, ecc.), ma discute e progetta concrete e innovatrici riforme in molti aspetti fondamentali della società. Com'è ovvio quando cominciano a circolare le prime indiscrezioni sulla pace di Campoformido, e quindi le sorti del neonato governo democratico paiono ormai compromesse, lo slancio riformatore si affievolisce o scompare del tutto e così alla fine dei pochi mesi di vita il bilancio delle riforme effettivamente realizzate appare misero. Un esempio illuminante della concreta progettualità riformatrice di una municipalità democratica viene da Padova: qui nel giro di pochi mesi i democratici impostano una radicale e innovativa riforma fiscale, ispirata a principi di equità e perequazione, e capace, come rileva Silvano, di "modificare radicalmente i rapporti sociali, politici ed economici, che si erano venuti cristallizzando nel passato" (292).
Vediamo dunque, in rapida sintesi, le riforme della rivoluzione del 1797. Oltre alle basilari riforme democratiche (abolizione della nobiltà, dei titoli, degli stemmi, eguaglianza giuridica di tutti i cittadini, libertà di parola, di stampa, religione, emancipazione degli Ebrei) spicca innanzitutto l'intervento sui fidecommessi, un nodo irrisolto della vecchia società aristocratica, che tante discussioni e progetti riformistici aveva prodotto nell'età dei lumi: il 13 giugno 1797 i fidecommessi sono aboliti (293), nella speranza, ricorda Scarabello, "di indurre importanti dosi di liberalizzazione nell'economia e di dare movimentazione al mercato dei beni immobili con una prospettiva di vantaggi non da poco sia diretti (imposta sulla vendita dei beni liberati) e sia indiretti per l'erario" (294).
Un settore in cui, cito ancora da Scarabello, "i municipalisti si mossero - e con prudenza - sul solco della politica giurisdizionalistica che era stata della repubblica e non certo nella direzione delle politiche nuove della Francia rivoluzionaria" (295), è quello delle riforme ecclesiastiche: si progetta la riduzione delle parrocchie, il blocco dell'espansione numerica del clero, sia secolare che regolare, l'accorpamento dei monasteri femminili (296).
Di singolare rilievo è il progetto di Vincenzo Dandolo, uno dei patrioti più attivi e radicali (estremista addirittura, lo definisce qualcuno), per la compilazione di nuove Anagrafi, che devono assicurare un più attento controllo sociale e fiscale (297); innovativo e ispirato ad alti ideali filosofici il piano per una ridivisione democratica di Venezia in sei sezioni (sul modello francese), al posto dei vecchi sei sestieri (298).
Anche il problema delle Arti torna sul tappeto e qua e là, nelle municipalità di Terraferma, spuntano progetti radicali di scioglimento; a Brescia tanto per fare un esempio, il 31 maggio 1797 il comitato militare fa appello ai "sacri diritti di libertà e di eguaglianza" dell'uomo per "spezzare le catene, che fin'ora hanno tenuta vincolata la libertà de' cittadini" e liberare "le arti figlie del genio, e dell'industria" dai ceppi di "leggi barbare, e gotiche": alla perentoria richiesta di sciogliere in tutta la Repubblica le Arti, affinché "tutti possano appigliarsi a quell'arte, o professione, o mestiere, che più gli si aggrada, e che l'industria nazionale sia l'appannaggio del libero cittadino", segue senz'altro l'abolizione del "tombone" (Arte) dei maestri lavoratori delle armi (299). Più cauti, su questo spinoso tema, i municipalisti veneziani: infatti la proposta di abolire trenta Arti, avanzata da Rocco Melancini il 27 ottobre, quando ormai gli Austriaci sono alle porte, viene accantonata senza discussione (300); analoga sorte tocca al progetto di unificare in un'unica deputazione alla Casa Patria e all'amministrazione generale delle cause pie diversi istituti assistenziali per orfani, poveri, inabili, vagabondi e mendicanti oziosi (301).
Mentre la società di istruzione pubblica, promossa dai patrioti illuminati, opera fattivamente, con discussioni e dibattiti ideologici, per "diffondere rapidamente i lumi, mostrare al popolo i suoi veri interessi, dargli i mezzi sicuri per riconoscere i suoi veri amici e smascherare quelli che cercano di ingannarlo" (302), il comitato d'istruzione pubblica progetta una riforma scolastica improntata a principi di libertà, democrazia, eguaglianza sociale: scuola pubblica gratuita e aperta a tutti, educazione civica e politica dei giovani cittadini, ristrutturazione delle scuole superiori con introduzione dell'insegnamento del francese e della figura del preside, eliminazione delle scuole per chierici (303).
Un settore in cui la municipalità vuole subito fare tabula rasa del vecchio sistema è la giustizia; qui davvero le riforme sono rivoluzione: il 16 maggio è decretata la "chiusura del foro", sono prontamente installati tribunali straordinari, si preparano progetti per una radicale riforma della giustizia civile e penale, si introducono la figura dell'accusatore pubblico ed una procedura che fonde il vecchio sistema inquisitorio con quello accusatorio, si dibatte il ruolo dell'avvocatura, con progetti di radicale revisione dell'ordinamento in vigore sotto la Repubblica: forse in nessun altro campo la municipalità è così fervida di idee e progetti di riforme radicalmente innovative rispetto al passato (304). Anche la polizia si vuole radicalmente riformata: il piano di Organizzazione della polizia per il comune di Venezia, presentato il 3 settembre 1797 dal cittadino Giuseppe Andrea Giuliani, e approvato il 2 ottobre, ipotizza un nuovo corpo razionalmente distribuito sul territorio, ispirato ai nuovi principi di libertà e democrazia (non senza qualche punta di utopia democratica, come l'idea di fare a meno dei confidenti, odiato retaggio del dispotismo degli ex inquisitori di stato), reclutato con criteri di severa moralità, insomma, come scrive la Tessitori, "una polizia del popolo e per il popolo" (305): un progetto che incontra ostilità e critiche e che comunque non fa in tempo a diventare realtà. Pazzi e carcerati, due ultimi oggetti delle riforme della rivoluzione: la municipalità provvisoria toglie i pazzi poveri dalla fusta dell'ormai defunto consiglio dei dieci e li trasferisce nell'ospedale di S. Servolo, destinato così a diventare il manicomio ordinario di tutti i Veneziani (306); caduta la Repubblica e liberati i prigionieri rinchiusi nei Piombi e nei Pozzi, si scatena una furibonda campagna di stampa contro gli orrori di queste prigioni, ormai simbolo privilegiato di dispotismo, barbarie, orrore (ecc.) del caduto regime ed in particolare del consiglio dei dieci e degli inquisitori di stato: nasce e si avvia a prodigiosa fortuna storiografica e letteraria la leggenda nera delle tetre prigioni veneziane; Rocco Melancini si affretta a far murare sulle loro pareti una lapide a eterna condanna "Carceri della barbarie aristocratica triunvirale demolite dalla Municipalità Provvisoria veneziana il giorno venticinque di maggio anno primo della libertà italiana" (307), discussioni e progetti per un nuovo ordinamento dell'istituto carcerario non mancano tra i municipalisti (e talvolta si recuperano idee maturate nei piani di riforme del Settecento), ma poi l'urgenza dei problemi immediati porta a rinviare ogni decisione innovatrice e così, conclude Scarabello, "se le strutture dell'amministrazione della giustizia veneziana, le quali del resto in gran parte materialmente si identificavano con le strutture politiche stesse, non sopravvivono di un attimo, neppure nei nomi, alla caduta della Repubblica, l'istituzione prigione non presenta invece, nel concreto, grossi cambiamenti" (308).
Con l'arrivo degli Austriaci le riforme abbozzate dalla municipalità sono cancellate; alcune riappariranno, in un clima sociale e politico profondamente mutato, durante il napoleonico Regno d'Italia.
1. Ferdinando Facchinei, Miscellanea che può servire anche di aggiunta al saggio di un nuovo metodo per insegnare gli elementi di scienze a' fanciulli, Bergamo 1797, p. XXXIX, cit. in Gianfranco Torcellan, Cesare Beccaria a Venezia, "Rivista Storica Italiana", 76, 1964, nr. 3, p. 748 (pp. 720-748), rist. in Id., Settecento veneto e altri scritti storici, Torino 1969, p. 234 (pp. 203-234); Paolo Preto, L'Illuminismo veneto, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/I, Il Settecento, Vicenza 1985, p. 45 (pp. 1-45).
2. Paolo Preto, Facchinei, Ferdinando, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIV, Roma 1994, pp. 29-31.
3. Rosario Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, Bari 1987, p. 8.
4. Piero Del Negro, Proposte illuminate e conservazione nel dibattito sulla teoria e la prassi dello Stato, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 138-140 (pp. 123-145); Id., Giacomo Nani. Appunti biografici, "Bollettino del Museo Civico di Padova", 60, 1971, pp. 115-147; Id., La distribuzione del potere all'interno del patriziato veneziano del Settecento, in I ceti dirigenti in Italia in età moderna e contemporanea. Atti del convegno. Cividale del Friuli, 10-12 settembre 1983, Udine 1984, pp. 311-337.
5. Id., Proposte, p. 140.
6. Giacomo Nani, Saggio politico, cc. n.n., cit. in P. Del Negro, Proposte, p. 140.
7. Giacomo Nani, Discorsi sul governo della Repubblica di Venezia, in Padova, Biblioteca Universitaria, ms. 2234, fasc. 7, c. 1221 e Principi d'una amministrazione ordinata e tranquilla, in Padova, Biblioteca Civica, C.M. 125, cc. 2, 66, 69, 75, cit. in P. Del Negro, Proposte, pp. 142-143.
8. P. Del Negro, Proposte, p. 143.
9. Marco Foscarini, Della letteratura veneziana, Padova 1752; Id., Necessità della storia e Della perfezione della Repubblica Veneziana, a cura di Luisa Ricaldone, Milano 1983; Emilio Morpurgo, Marco Foscarini e Venezia nel secolo XVIII, Firenze 1880; Franco Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria (1730-1764), Torino 1969, pp. 276-292; Id., Venezia nel secondo Settecento, Torino 1980, pp. 7-8, 30-32; Erasmo Leso, nota introduttiva a Marco Foscarini, in AA.VV., Dal Muratori al Cesarotti, V, Politici ed economisti del primo Settecento, Milano-Napoli 1979, pp. 169-202; P. Del Negro, Proposte, pp. 127-129; Id., recensione al saggio di Erasmo Leso, "Rivista Storica Italiana", 92, 1980, nr. 3-4, pp. 793-803.
10. E. Morpurgo, Marco Foscarini, p. 204; F. Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, p. 286.
11. Pietro Franceschi, Istoria dei correttori eletti nell'anno 1761, scritta da [...] segretario delli stessi, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 1684, c. 124; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 27, 192.
12. Gianfranco Torcellan, Barbaro, Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, VI, Roma 1964, pp. 113-114, rist. in Id., Settecento veneto, pp. 485-487.
13. Enrico Basaglia, Il diritto penale, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 166 (pp. 163-178).
14. Marco Barbaro, Tre orazioni criminali a difesa, Venezia 1786, p. 13.
15. Pietro Franceschi, Memorie della correzione 1780 scritta da [...] segretario della medesima, in A.S.V., Correttori delle leggi, b. 3, cc. 121 ss.; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 179-180.
16. Franco Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, 1761-1797, Torino 1990, p. 274.
17. Andrea Rubbi, Rapporti del lusso colla vita sociale. Opuscoli cinque di [...], socio della Reale accademia di scienze e delle lettere di Mantova, o sia del lusso politico, letterario, civile, domestico e patrio, Venezia 1783, pp. 26, 28; F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 274. Anche i cittadini originari veneziani, quando si trovano a contatto col riformismo asburgico in Lombardia, sentono "quell'oscuro timore che era tanto diffuso in quel tempo fra i veneziani nei confronti di tutto ciò che poteva costituire anche una remotissima minaccia alla tranquillità della Repubblica" (Alba Tirone, I residenti veneti e il riformismo in Lombardia, "Studi Veneziani", 8, 1966, p. 488 [pp. 481-492]).
18. Pietro Mocenigo, Riflessioni sull'uomo in società di [...] patrizio veneto, Venezia 1784, pp. LIV ss., cit. in F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 287.
19. Pietro Mocenigo, Discorso ragionato sopra gli innovatori politici, Venezia 1788, p. XI, e Lettera presentata il 28 maggio 1797 al Comitato di salute pubblica dal cittadino Pietro Mocenigo, ambedue cit. in F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 288, 291.
20. Erasmo Leso, Lingua e rivoluzione. Ricerche sul vocabolario politico italiano del triennio rivoluzionario 1796-1799, Venezia 1991, p. 212.
21. Ibid., pp. 215-219.
22. F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 34-45; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 42-50.
23. Antonio Zanon, Dell'agricoltura, dell'arti e del commercio in quanto unite contribuiscono alla felicità degli stati. Lettere di [...] cittadino ed Accademico d'Udine e dell'Accademia dei risorti di Capo d'Istria. Dedicato al serenissimo DD. Alvise Mocenigo doge di Venezia, II, Venezia 1763, p. 317.
24. A.S.V., Collegio, Relazioni, b. 54, Polo Renier, 5 luglio 1732.
25. E. Leso, Lingua, pp. 232-233.
26. Per un profilo biografico di Mengotti v. F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 433-450.
27. Ibid., p. 444.
28. "Il Nuovo Postiglione", 17 maggio 1797, pp. 323 ss., cit. in F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 450-451.
29. Gianfranco Torcellan, Giornalismo e cultura illuministica nel Settecento veneto, "Giornale Storico della Letteratura Italiana", 40, 1963, pp. 234-253, rist. in Id., Settecento veneto, p. 189; P. Preto, L'Illuminismo, p. 1.
30. Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, II, Milano-Messina 1946, p. 236.
31. Massimo Petrocchi, Il tramonto della Repubblica di Venezia e l'assolutismo illuminato, Venezia 1959, pp. 1-2, 4, 31, 197, 200, 209-211, 227, 229, 251; P. Preto, L'Illuminismo, p. 2.
32. Marino Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956.
33. P. Preto, L'Illuminismo, p. 2.
34. M. Berengo, La società, pp. 41-43, 133-134, 153-154, 166, 187-189; P. Preto, L'Illuminismo, p. 2.
35. Giornali veneziani del Settecento, a cura di Marino Berengo, Milano 1962, pp. XL, LVIII-LXIV.
36. Giovanni Tabacco, Andrea Tron e la crisi dell'aristocrazia senatoria a Venezia, Udine 1982 [Trieste 1957], pp. 14, 46, 58.
37. G. Torcellan, Settecento veneto; Id., Una figura della Venezia settecentesca: Andrea Memmo. Ricerche sulla crisi dell'aristocrazia veneziana, Venezia-Roma 1963.
38. Id., Una figura, pp. 10, 11, 13, 15, 29, 30-38, 40, 45-47, 56-57, 60, 86-90, 98, 203, 205; P. Preto, L'Illuminismo, p. 5.
39. Gianfranco Torcellan, Un problema aperto: politica e cultura nella Venezia del '700, "Studi Veneziani", 8, 1966, pp. 493-513, rist. in Id., Settecento veneto, p. 312.
40. Id., Settecento veneto, pp. 314-319.
41. Tra gli storici che più incisivamente hanno contribuito a ricostruire il quadro della cultura, dell'economia, della società veneta nell'età dei lumi ricordo almeno Caizzi, Cozzi, Georgelin, Del Negro, Gullino, Infelise, Scarabello.
42. F. Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, pp. 272-299; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia; Id., Venezia nel secondo Settecento.
43. Id., Venezia nel secondo Settecento, pp. 33 ss.; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 37 ss.
44. Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. XI.
45. Id., Settecento riformatore, II, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, 1758-1774, Torino 1976, p. 152.
46. Id., Venezia nel secondo Settecento, p. 176.
47. Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 264.
48. Id., Venezia nel secondo Settecento, pp. 135-136.
49. Jacob Burckhardt, la civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1953, p. 61; Angelo Ventura, Scrittori politici e scritture di governo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Tento; Vicenza 1981, pp. 513-515 (pp. 513-563).
50. Luciano Guerci, Le monarchie assolute, II, Permanenze e mutamenti nell'Europa del Settecento, Torino 1986 (Storia universale dei popoli e delle civiltà, X/2), p. 590.
51. F. Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, passim.
52. Scipione Maffei, Consiglio politico finora inedito presentato al governo veneto nell'anno 1736, Venezia 1797 (rist. anast. Napoli 1977), pp. 10-12, 37, 41, 81-82, 112-113, 115-118; Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, I-X, Venezia 19753: X, p. 24; Antonio Scolari, Il Consiglio politico di Scipione Maffei, "Atti e Memorie dell'Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere di Verona", sez. V, 9, 1932, pp. 37-87; Manlio Dazzi, Testimonianze sulla società veneziana al tempo di Goldoni, in Studi goldoniani, a cura di Vittore Branca - Nicola Mangini, I, Venezia-Roma 1960, pp. 49-57; P. Del Negro, Proposte, pp. 136-137; F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 292; Paolo Ulvioni, Note per una nuova edizione del "Consiglio politico" di Scipione Maffei, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 301-308.
53. Scarabello del resto nota, sicuramente a ragione, che "l'associazione al governo centrale di rappresentanze di nobili dei territori" non avrebbe "significato granché di progresso e di rinnovamento, anzi, probabilmente" avrebbe "solo portato confusione nel quadro aggiungendo al patriziato veneziano, di per se stesso abbastanza logoro, esponenti della mediocre nobiltà e dei mediocri ceti di notabili della Terraferma" (Giovanni Scarabello, Il Settecento, in Gaetano Cozzi - Michael Knapton-Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992 [Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII/2], p. 647).
54. P. Del Negro, Proposte, p. 137.
55. Ibid., pp. 129-131 (con le citazioni dello scritto principale di Garzoni, βάσανοϚ, cioè paragone usato da Pietro Garzoni Senatore sù la Repubblica di Venezia per fare pruova della sua qualità, degli anni 1725-1727).
56. P. Del Negro, Proposte, pp. 131-135 (con ulteriore bibliografia specifica).
57. F. Venturi, Settecento riformatore, I, Da Muratori a Beccaria, pp. 285-287.
58. Ibid., p. 290; Id., Venezia nel secondo Settecento, p. 8.
59. P. Del Negro, Proposte, p. 137.
60. F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 8-16; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 3-12; Francesco dalla Colletta, I principi di storia civile di Vettor Sandi. Diritto, istituzioni e storia nella Venezia di metà Settecento, Venezia 1995.
61. Vettor Sandi, Principi di storia civile della Repubblica di Venezia dalla sua fondazione sino all'anno del N.S. 1700 [e dall'anno del N.S. 1700 sino all'anno 1767], I-IX, Venezia 1755-1769, pp. 718 ss., cit. in F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, p. 13.
62. P. Del Negro, Proposte, pp. 138-140.
63. G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 138-140.
64. Ibid., p. 46.
65. Ibid., p. 173.
66. F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 128-164; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 141-149, 196-198; G. Tabacco, Andrea Tron, passim.
67. S. Romanin, Storia, VIII, p. 198, cit. in F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, p. 171 e Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 205.
68. G. Torcellan, Una figura.
69. Ibid., pp. 77-112; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 119-127; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 132-141, 313-339, 463; Massimo Costantini, L'albero della libertà economica. Il processo di scioglimento delle corporazioni veneziane, Venezia 1987.
70. Marino Berengo, Problemi economico-sociali della Dalmazia veneta alla fine del XVIII secolo, "Rivista Storica Italiana", 66, 1954, pp. 469-510.
71. F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 424.
72. Ibid.
73. Paolo Preto, Un "uomo nuovo" dell'età napoleonica: Vincenzo Dandolo politico e imprenditore agricolo, "Rivista Storica Italiana", 94, 1982, nr. 1, pp. 44-97; Id., Vincenzo Dandolo e l'amministrazione napoleonica della Dalmazia (1806-1809), "Abruzzo. Rivista dell'Istituto di Studi Abruzzesi", 21, 1983, nr. 1-3, pp. 39-57; Virgilio Giormani, L'irresistibile ascesa dello speziale veneziano Vincenzo Dandolo tra il 1775 e la caduta della Repubblica Veneta, "Atti e Memorie della Accademia Italiana di Storia della Farmacia", 4, 1987, nr. 3, pp. 1-7; Id., Vincenzo Dandolo, uno speziale illuminato nella Venezia dell'ultimo '700, "Ateneo Veneto", 175, 1988, pp. 59-130.
74. Lettera del cavalier Vincenzo Dandolo, provveditore generale della Dalmazia, in Lettera di Diocleziano a Massimiliano Erculeo con altre lettere del conte Rados Michieli Vitturi dalmata, Venezia 1817, pp. 77, 84, cit. in F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 424.
75. G. Torcellan, Una figura, pp. 223-224.
76. Martin J.C. Lowry, The Reform of the Council of Ten, 1582-83: an Unsettled Problem?, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 275-310; Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 229-283; Id., Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 145-216.
77. Annibale Bozzola, Inquietudini e velleità di riforma a Venezia nel 1761-62, "Bollettino Storico Bibliografico Subalpino", 46, 1948, pp. 93-116; Bruno Brunelli Bonetti, Un riformatore mancato: Angelo Querini, "Archivio Veneto", ser. V, 48-49, 1951, pp. 185-200.
78. F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, p. 18; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 16.
79. P. Franceschi, Istoria; Antonio del Piero, Angelo Querini e la Correzione del Consiglio dei Dieci del 1761-62, "Ateneo Veneto", 19, 1896, nr. 1, pp. 280-303; nr. 2, pp. 79-102, 358-363; Lelio Ottolenghi, L'arresto e la relegazione di Angelo Querini. 1761-63, "Nuovo Archivio Veneto", 15, 1898, pp. 99-145; A. Bozzola, Inquietudini; B. Brunelli Bonetti, Un riformatore; Piero Del Negro, Politica e cultura nella Venezia di metà Settecento: la "poesia barona" di Giorgio Baffo "quarantiotto", "Comunità", 184, 1982, pp. 404-420 (pp. 312-425); F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 16-30; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 12-31; G. Scarabello, Il Settecento, pp. 577-581.
80. Relazione delle cose occorse e delle dispute tenute in Maggior Consiglio per la Correzione dell'Eccelso Consiglio di Dieci e delli suoi magistrati interni seguita l'anno 1762, estesa in dodici lettere (a Marin Zorzi, podestà di Brescia) da N.B.P.V. (Nicolò Balbi Patrizio Veneto), in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII (= 7483), c. 225.
81. P. Del Negro, Proposte, p. 141.
82. Storia delle turbolenze di Venezia del 1761 e negli anni consecutivi da quelle prime derivate fino al 1789, in Parma, Biblioteca Palatina, ms. 842.
83. Jasies C. Davis, The Decline of the Venetian Nobility as a Ruling Class, Baltimore 1962.
84. Storia delle turbolenze; Relazione delle cose occorse; Storia della correzione che fu instituita nel Governo Veneto l'anno 1774, in Padova, Biblioteca Universitaria, ms. 2216; Angelo Ventura, Introduzione a Bilanci generali della Repubblica di Venezia, IV, Padova 1972, pp. LXXIX-LXXXV; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 151-166; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 174-198; P. Del Negro, Proposte, pp. 140-141.
85. F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 191-198.
86. Memoria dei fatti e della sventura accaduta a Carlo Contarini nell'anno 1780, scritta dal cittadino Domenico suo figlio e pubblicata dallo stesso in unione al di lui fratello, Venezia anno primo della libertà italiana [1797]; osserva Venturi che questa è forse "la prima volta in cui appare la definizione, destinata a diventare celebre, della religione come oppio dei popoli" (Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 201 n. 17).
87. G.M. Balbi, Memorie storiche della Correzione 1780, in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, ms. cl. IV, 433; P. Franceschi, Memorie della correzione 1780, b. 3; Carlo Grimaldo, Giorgio Pisani e il suo tentativo di riforma, Venezia 1907; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 171-183; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 198-220; P. Del Negro, Proposte, pp. 141-142; G. Scarabello, Il Settecento, pp. 587-590.
88. P. Franceschi, Memorie della correzione 1780, c. 155.
89. Luigi Gonzaga di Castiglione, Riflessioni filosofico-politiche dell'antica democrazia romana precettrice di tutte le nazioni libere ad uso del popolo inglese, Venezia 1780; F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 207-214; P. Del Negro, Proposte, p. 142.
90. P. Del Negro, Proposte, p. 142.
91. G. Nani, Discorsi, c. 121; Id., Principi, cc. 2, 66, 69v, 75, cit. da P. Del Negro, Proposte, pp. 142-143.
92. Leopoldo Curti, Mémoires historiques et politiques sur la République de Venise, Kempten 1795 (rist. Paris 1802); P. Del Negro, Proposte, pp. 143-144; Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano 1994, pp. 442, 583.
93. A.S.V., Inquisitori di Stato, b. 1238, 25 giugno 1785; Giovanni Pindemonte, Poesie e lettere, raccolte illustrate da Giuseppe Biadego, Bologna 1883, cit. da P. Del Negro, Proposte, p. 144; Giovanni Mantese, Memorie storiche della chiesa vicentina, V/1, Vicenza 1982, p. 21; Paolo Preto, I "lumi" a Vicenza, in AA.VV., Storia di Vicenza, III/2, L'età della Repubblica Veneta (1404-1797), Vicenza 1990, pp. 382, 389 (pp. 379-390); Id., La caduta della Repubblica di Venezia e la municipalità democratica, ibid., p. 410 (pp. 409-427).
94. G. Scarabello, Il Settecento, p. 590; P. Preto, I servizi, pp. 186, 338, 466, 540, 551, 553-554, 563, 566-567, 587, 589.
95. Memoria dei fatti e della sventura accaduta a Carlo Contarini; Paolo Preto, Contarini, Carlo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 134-136; Id., I sevizi, pp. 338, 395, 436, 553-554, 587, 589.
96. Giulia Ericani, La storia e l'utopia nel giardino del senatore Querini ad Altichiero, in AA.VV., Piranesi e la cultura antiquaria, Roma 1985, pp. 171-185.
97. Paolo Preto, Girolamo Festari. Medicina "lumi" e geologia nella Valdagno del '700, Valdagno 1995; in appendice, alle pp. 59-179, la ristampa, con annotazioni critiche, del Giornale del viaggio nella Svizzera fatto da Angelo Querini nel MDCCLXXVII descritto dal dottore Girolamo Festari di Valdagno, pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1835.
98. G. Festari, Giornale, prefazione e p. 27 (dell'edizione 1835); P. Preto, Girolamo Festari, pp. 19, 86.
99. Girolamo Festari, Lettera al nipote Giuseppe, Napoli, 27 febbraio 1787, in Vicenza, Biblioteca Bertoliana, ms. 3366 (27.9.20); P. Preto, Girolamo Festari, p. 19.
100. Franco Venturi, Settecento riformatore, III, La prima crisi dell'Antico Regime, 1768-1776, Torino 1979, pp. 343-353.
101. G. Festari, Giornale, p. 27 (ediz. 1835); P. Preto, Girolamo Festari, pp. 33, 107.
102. Riprendo qui alla lettera un passo (pp. 32-33) del mio saggio L'Illuminismo. Per i riferimenti bibliografici v. G. Torcellan, Cesare Beccaria; Gaetano Cozzi, Politica e diritto nei tentativi di riforma del diritto penale veneto nel Settecento, in Sensibilità e razionalità nel Settecento, a cura di Vittore Branca, I, Firenze 1967, pp. 379, 386 (pp. 373-421), e Id., Note e documenti sulla questione del "divorzio" a Venezia (1782-1788), "Annali dell'Istituto Storico Italo-Germanico in Trento", 7, 1981, pp. 289-293.
103. V. il saggio di Michele Simonetto, La politica e la giustizia in questo volume.
104. Sulla diffusione, ma anche netta condanna, delle opere dell'illuminismo radicale francese v. M. Berengo, La società, pp. 143, 195-196; Franco Piva, Cultura francese e censura a Venezia nel secondo Settecento. Ricerche storico-bibliografiche, Venezia 1973, pp. 57-58; Id., Contributo alla fortuna di Helvétius nel Veneto del secondo Settecento, "Aevum", 45, 1971, pp. 234-287, 430-463 e P. Preto, L'Illuminismo, pp. 20-22.
105. Piero Del Negro, Due progetti enciclopedici nel Veneto del tardo Settecento: dal patrizio Matteo Dandolo all'abate Giovanni Coi, "Studi Settecenteschi", 16, 1996, p. 295 (pp. 289-331); F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 174-190. Sulla diffusione dell'Enciclopedia nel Veneto v. P. Preto, L'Illuminismo, pp. 23-31 e Mario Infelise, Enciclopedie e pubblico a Venezia a metà Settecento: G.F. Pivati e i suoi dizionari, "Studi Settecenteschi", 16, 1996, pp. 161-190.
106. "L'Europa Letteraria", ottobre 1769, p. 78; "Gazzetta Urbana Veneta", 23 aprile 1794, p. 249, 3 ottobre 1795, p. 625; per altri giudizi sull'Enciclopedia come fonte di informazione culturale e scientifica v. P. Preto, L'Illuminismo, pp. 27-31.
107. "Nuovo Giornale Enciclopedico d'Italia", agosto 1797, p. 121; P. Preto, L'Illuminismo, p. 31.
108. Sulla fortuna di Voltaire nel Veneto v. P. Preto, L'Illuminismo, pp. 13-15.
109. "Magazzino Italiano", 1, 1768, p. 161.
110. M. Berengo, La società, p. 149.
111. Daniello Concina, Della religione rivelata, contra gli ateisti, deisti, materialisti, indifferentisti che negano la verità de' misteri libri cinque, Venezia 1754, pp. 362-363; V. Sandi, Principi, I, pp. 298-300; Francesco Mengotti, Del commercio dei Romani dalla prima guerra punica a Costantino, Verona 1797, pp. 8, 27-33, 38. Per un panorama completo della fortuna di Montesquieu nella Repubblica di Venezia v. Paola Berselli Ambri, L'opera di Montesquieu nel Settecento italiano, Firenze 1960, pp. 123-143; Salvatore Rotta, Montesquieu nel Settecento italiano: note e ricerche, in Materiali per una storia della cultura giuridica, a cura di Giovanni Tarello, I, Bologna 1971, pp. 55-209 e P. Preto, L'Illuminismo, pp. 15-16.
112. P. Mocenigo, Riflessioni, pp. XXII-XL; Id., Trattato universale filosofico e politico sopra lo stato dell'uomo libero relativamente alle di lui facoltà sopra la forza de' sistemi, la disciplina, le arti, il commercio, l'economia, Venezia 1789, pp. 33-44, 50-65.
113. Marco Zaguri, Piano per dar regolato sistema al moderno spirito filosofico, Roma 1779, pp. VIII, 77; Gian Battista Roberti, Opere, VI, Bassano 17972, pp. 77-85.
114. Alessandro Pepoli, Saggio di libertà sopra vari punti, Ginevra 1783, pp. 38, 64; M. Berengo, La società, pp. 196-201.
115. Girolamo Bocalosi, Dell'educazione democratica da darsi al popolo italiano, Milano anno I repubblicano [i 796], pp. 24-25; Id., Dell'inutilità della storia libri due, Milano 1798, pp. 13-19; P. Berselli Ambri, L'opera, pp. 139-140; M. Berengo, La società, pp. 207-217.
116. Giuseppe Fantuzzi, Discorso filosofico-politico sopra il quesito proposto dall'amministrazione generale della Lombardia quale de' governi liberi meglio si convenga alla felicità d'Italia, Milano 1797, rist. in Armando Saitta, Alle origini del Risorgimento: i testi di un "celebre" concorso (1796), I, Roma 1964, pp. 213-262; Paolo Preto, Fantuzzi, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIV, Roma 1994, pp. 723-726; Id., Giuseppe Fantuzzi: da Kościuszko a Bonaparte per la patria e i "diritti del popolo", in Polonia 1795 - Venezia 1797. Morte ed eredità di due repubbliche. X convegno promosso e organizzato dall'accademia polacca delle scienze, dal centro studi sulla tradizione classica dell'università di Varsavia e dalla fondazione Giorgio Cini, Varsavia 1997, in corso di stampa.
117. Gian Donienico Brustolon, L'uomo di Stato ossia Trattato di politica, I-II, Venezia 1798: I, pp. XIX, XXIII, 41, 54-95, 98-130; II, pp. 11, 34-37, 107 ss.; P. Berselli Ambri, L'opera, pp. 140-141.
118. Franco Piva, Illuminismo e cultura francese nel Veneto del secondo Settecento - Giovanni Scola, in Pubblicazioni dell'università cattolica del Sacro Cuore. Contributi dell'istituto di filologia moderna. Sezione francese, VII, Milano 1972, pp. 51-146; Umberto Meoli, Un economista veneto del Settecento: Giovanni Scola, in Atti del Convegno Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori, Trieste, 23-24 ottobre 1980, a cura di Aurelio Tagliaferri, Milano 1981, pp. 311-333; Federico Seneca, Appunti sul "Compendio storico" di Giovanni Scola, "illuminato" vicentino, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, IV, Tra illuminismo e romanticismo, Firenze 1983, pp. 57-73; P. Preto, L'Illuminismo, p. 16; Id., I "lumi" a Vicenza, pp. 382, 386, 387, 388; Id., La caduta, pp. 410-412, 416, 418, 419, 422.
119. Giovanni Scola, Dissertatio de impero et iurisdictione [...]. Dissertazione intorno al sommo imperio ed alla giurisdizione, "Giornale Enciclopedico", gennaio 1778, pp. 7-8.
120. F. Piva, Cultura francese, p. 52; Silvia Rota Ghibaudi, La fortuna di Rousseau in Italia (1750-1815), Torino 1961.
121. A.S.V., Riformatori dello Studio di Padova, filza 356, "riferta" giugno 1774; filza 358, "riferta" 16 maggio 1782; filza 372, "riferta" 24 aprile 1767; F. Piva, Cultura francese, pp. 53-55; P. Preto, L'Illuminismo, pp. 16-17.
122. P. Preto, L'Illuminismo, pp. 17-18.
123. Franco Piva, Gli echi della morte di Voltaire e Rousseau nel "Giornale Enciclopedico", "Aevum", 53, 1979, pp. 499-501, 510-518.
124. M. Berengo, La società, pp. 136-137.
125. S. Rota Ghibaudi, La fortuna, pp. 20, 29, 31, 81, 91-95, 127-134, 184, 272-275, 297.
126. Pietro Caronelli, Osservazioni sopra il principio di Obbes intorno alla società, Firenze 1764; S. Rota Ghibaudi, La fortuna, pp. 79-80; Paolo Preto, Caronelli, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 536-540; Alcuni aspetti del Settecento nel Trevigiano e nel Coneglianese, "Storia Dentro", 3 (in partic. i saggi di Liana Martone Biasi, Maria Sartor, Marina Salamon).
127. A. Pepoli, Saggio di libertà sopra vari punti, pp. 61, 80, 85, 89, 146, 148; M. Berengo, La società, pp. 140-148.
128. Giuseppe Compagnoni, Elementi di diritto costituzionale, democratico, ossia principi di giuspublico universale del cittadino [...] professore nell'università di Ferrara, Venezia 1797; Giuseppe Gullino, Compagnoni, Giuseppe, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVII, Roma 1982, pp. 654-661; Roberto Ellero, Giuseppe Compagnoni e gli ultimi anni della Repubblica di Venezia, Roma 1991; Giuseppe Compagnoni. Un intellettuale tra giacobinismo e restaurazione, a cura di Sante Medri, Bologna 1993.
129. M. Berengo, La società, p. 212; S. Rota Ghibaudi, La fortuna, p. 255.
130. G. Fantuzzi, Discorso filosofico politico, pp. 14-15, 111.
131. Encyclopédie, XII, sub voce.
132. Furio Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Torino 1962, pp. 564-641.
133. P. Preto, L'Illuminismo, p. 41.
134. Ibid.
135. "Giornale d'Italia spettante alla Scienza Naturale e principalmente alla Agricoltura alle Arti e al Commercio", 1, 1765, p. 31.
136. Gianfranco Torcellan, Nota introduttiva a Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato Pontificio e delle isole, a cura di Giuseppe Giarrizzo - Gianfranco Torcellan - Franco Venturi, Milano-Napoli 1965, p. 105 (pp. 93-120), rist. in Id., Settecento veneto, pp. 246-247.
137. P. Preto, L'Illuminismo, p. 44.
138. Mario Gliozzi, Arduino, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, IV, Roma 1962, pp. 64-66; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 53-54, 201-202; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 58-59, 61, 71, 72, 92, 99, 100, 104, 105, 122, 123, 127, 149, 308, 323, 380; Ezio Vaccari, Giovanni Arduino (1714-1795). Il contributo di uno scienziato veneto al dibattito settecentesco sulle scienze della terra, Firenze 1993.
139. M. Petrocchi, Il tramonto, pp. 64, 97.
140. F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 50-53, 201; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 58, 59, 61, 71, 72, 92, 99, 100, 104, 105, 122, 123, 127, 149, 308, 323, 380; Giuseppe Lusina, Arduino, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, IV, Roma 1962, pp. 66-68.
141. Franco Piva, Anton Maria Lorgna e la Francia, Verona 1985; Id., Anton Maria Lorgna e l'Europa, Verona 1993; Calogero Farinella, L'Accademia repubblicana. La Società dei Quaranta e Anton Maria Lorgna, Milano 1993.
142. F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 54-56; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 72, 96, 149, 232-234, 284, 311, 326; Giampiero Bozzolato, Giuseppe Toaldo, uno scienziato europeo nel Settecento veneto, in Id. - Piero Del Negro - Cecilia Ghetti, La Specola dell'Università di Padova, Brugine 1984, pp. 7-246.
143. Ugo Baldini, Carburi, Marco, in Dizionario Biografico degli Italiani, XIX, Roma 1976, pp. 723-725; Virgilio Giormani, L'insegnamento della chimica all'Università di Padova dal 1749 al 1808, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 17, 1984, pp. 91-133.
144. P. Preto, Un "uomo nuovo"; Id., Vincenzo Dandolo; V. Giormani, L'insegnamento.
145. F. Venturi, Settecento riformatore, III, La prima crisi, pp. 296-308, 312, 315-321.
146. G. Torcellan, Un problema aperto, pp. 493-513, rist. in Id., Settecento veneto, pp. 303-321; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 77-80, 99-101; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 70, 84-95, 98-105, 111-113, 116, 149; Id., Settecento riformatore, II, La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti, p. 123; Mario Infelise, Appunti su Giovanni Francesco Scottoni illuminista veneto, "Archivio Veneto", ser. V, 112, 1982, pp. 39-76.
147. Camillo Tarello, Ricordo di agricoltura, a cura di Marino Berengo, Torino 1975.
148. I Semi per una buona agricoltura pratica italiana, stampati da Antonio Graziosi nel 1766, sono ripubblicati nel "Giornale d'Italia" del Griselini (4, 19 agosto 1767, pp. 68-72); la Memoria [...] è pubblicata nel "Giornale d'Italia", 5, nr. 16, 15 ottobre 1768.
149. Witold Kula, Le misure e gli uomini dall'antichità ad oggi, Roma-Bari 1987, pp. 170-303.
150. F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, p. 80.
151. M. Infelise, Appunti, pp. 72-73.
152. Gianfranco Torcellan, Profilo di Alberto Fortis, in Illuministi italiani, VII, a cura di Giuseppe Giarrizzo - Gianfranco Torcellan - Franco Venturi, Milano-Napoli 1965, pp. 280-310, rist. in Id., Settecento veneto, pp. 273-301; Tullio Motterle, Dal Conte Azzolino ad Alberto Fortis, "Valle del Chiampo. Antologia", 1974, pp. 225-253; Id., Il ventennio arzignanese di Alberto Fortis (1778-1798), ibid., 1975, pp. 123-170; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 65-77; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 71-84, 309-311, 347-350, 356-366, 413-415; Paolo Preto, La valle del Chiampo nell'età della Repubblica di Venezia (1404-1797), in La valle del Chiampo. Vita civile ed economica in età moderna e contemporanea, a cura di Id., Vicenza 1981, pp. 127-133; Id., I "lumi" a Vicenza, pp. 397-400; Id., La caduta della Repubblica, pp. 409, 414, 426; Luca Ciancio, Autopsie della terra. Illuminismo e geologia in Alberto Fortis (1741-1803), Firenze 1995.
153. Gianfranco Torcellan, Profilo di Francesco Griselini, in Illuministi italiani, VII, a cura di Giuseppe Giarrizzo - Gianfranco Torcellan - Franco Venturi, Milano-Napoli 1965, pp. 94-120, rist. in Id., Settecento veneto, pp. 235-262; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 45-51, 109-114; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 51-59, 66-70, 90-93, 101-103, 124-133.
154. G. Torcellan, Profilo, in Settecento veneto, p. 248.
155. Ibid., p. 251.
156. P. Preto, L'Illuminismo, p. 44.
157. Ibid.
158. G. Scarabello, Il Settecento, p. 596.
159. F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, p. 101.
160. Ibid., pp. 101-123.
161. Ibid., pp. 122-131; Paolo Preto, Contin, Tommaso Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXVIII, Roma 1983, pp. 509-512.
162. Antonella Barzazi, I consultori "in iure", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/Il, Il Settecento, Vicenza 1986, p.198 (pp. 179-199).
163. F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, pp. 132-139.
164. G. Tabacco, Andrea Tron.
165. Giuseppe Tassini, I Friulani (ignoti) consultori in iure della repubblica di Venezia, I, Don Antonio Montegnacco, Udine 1908, pp. 169-176; G. Tabacco, Andrea Tron, p. 131; F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, p. 138.
166. Daniele Beltrami, La penetrazione economica dei veneziani in Terraferma. Forze di lavoro e proprietà fondiaria nelle campagne venete dei secoli XVII e XVIII, Venezia-Roma 1961; Giovanni Zalin, Ricerche sulla privatizzazione della proprietà ecclesiastica nel Veneto. Dai provvedimenti Tron alle vendite laiche, in AA.VV., Studi in memoria di Luigi Dal Pane, Bologna 1982, p. 538 (pp. 537-555); G. Tabacco, Andrea Tron; F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, pp.139-150; G. Scarabello, Il Settecento, pp. 633-636.
167. F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, pp. 145-149, e V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 118; Id., Venezia nel secondo Settecento, p. 106; G. Scarabello, Il Settecento, pp. 636-637.
168. F. Venturi, Settecento riformatore, II, La chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, p. 144
169. G. Cozzi, Politica e diritto, II, pp. 373-421; Id., Repubblica di Venezia e stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982; Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, I-II, Roma 1980-1985. Altri contributi su giustizia e riforme nella Venezia del Settecento sono citati nel saggio di M. Simonetto, La politica e la giustizia.
170. Mario A. Cattaneo, Illuminismo e legislazione, Milano 1966; Giuliana D'Amelio, Illuminismo e scienza del diritto in Italia, Milano 1965; Giovanni Tarello, Storia della cultura giuridica moderna, I, Assolutismo e codificazione del diritto, Bologna 1976; G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 346-349.
171. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 350-351.
172. M. Simonetto, La politica e la giustizia.
173. Ibid.; E. Basaglia, Il diritto penale, pp. 163-178; Giovanni Scarabello, Progetti di riforma del diritto veneto criminale, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, II, Roma 1985, pp. 381-415; Id., Il Settecento, pp. 630-632.
174. Ernesto Garino, Il diritto civile, in AA.VV.. Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 161 (pp. 147-162); G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 385-392; G. Scarabello, Il Settecento, pp. 630-631.
175. M. Simonetto, La politica e la giustizia; G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 379-380; Ernesto Garino, Fori di terraferma e foro veneziano. Considerazioni sulla giustizia civile nella seconda metà del '700, in Atti del Convegno Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori, Trieste, 23-24 ottobre 1980, a cura di Amelio Tagliaferri, Milano 1981, pp. 167-168 (pp. 167-178).
176. Gina Fasoli, Lineamenti di politica e legislazione feudale veneziana in Terraferma, "Rivista di Storia del Diritto Italiano", 25, 1952, pp. 92-93 (pp. 58-94); Giuseppe Gullino, I patrizi veneziani di fronte alla proprietà feudale (secoli XVI-XVIII). Materiale per una ricerca, "Quaderni Storici", 15, 1980, nr. 1, p. 166 (pp. 162-193); G. Cozzi, Repubblica di Venezia, p. 370.
177. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, p. 371; Giorgio Zordan, Il codice per la veneta mercantile marina, I-II, Padova 1981-1987; G. Scarabello, Il Settecento, pp. 632-633.
178. "L'Europa Letteraria", marzo 1769, p. 27.
179. "Nuovo Giornale d'Italia spettante alla Scienza Naturale e principalmente all'Agricoltura, alle Arti e al Commercio", 2, 1790, p. 259.
180. Giuseppe Gullino, Le dottrine degli agronomi e i loro influssi sulla pratica agricola, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 381 (pp. 379-410).
181. Luciana Morassi, Tradizione e "nuova agricoltura". La Società d'agricoltura pratica di Udine (1762-1797), Udine 1980; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 58-60; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 42-50, 90-115.
182. "Giornale d'Italia spettante alla Scienza Naturale e principalmente all'Agricoltura, alle Arti ed al Commercio", 5, 1769, p. 311; S. Romanin, Storia, VIII, p. 167; Gianfranco Torcellan, Un tema di ricerca: le accademie agrarie del Settecento, "Rivista Storica Italiana", 76, 1964, nr. 2, pp. 530-552, rist. in Id., Settecento veneto, pp. 331-348; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, pp. 61-62; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 64-70; Ugo Baroncelli, L'Accademia agraria di Brescia (secolo XVIII), "Archivio Storico Lombardo", 97, 1970, pp. 37-55; Anna Bellesia, L'accademia di agricoltura, in AA.VV., Storia di Vicenza, III/2, L'età della Repubblica Veneta (1404-1797), Vicenza 1990, pp. 367-377; Paolo Preto, L'agricoltura bellunese nella seconda metà del '700 e l'Accademia degli Anistamici, "Critica Storica", 15, 1978, pp. 64-108; Id., Le accademie di agricoltura e il riformismo veneto nella seconda metà del '700, in Le società economiche alla prova della storia (secoli XVIII-XIX). Atti del convegno internazionale di studi. Chiavari, 16-17-18 maggio 1991, Rapallo 1996, pp. 93-97; L. Morassi, Tradizione, p. 17; G. Gullino, Le dottrine, p. 382; Piero Del Negro, La politica di Venezia e le accademie di agricoltura, in AA.VV., La politica della scienza. Toscana e stati italiani nel tardo Settecento, Firenze 1996, pp. 451-489.
183. Sono quasi tutte pubblicate nel 1789 dall'editore Giovan Antonio Perlini: Raccolta di memorie delle pubbliche accademie di agricoltura, arti e commercio dello Stato veneto.
184. F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, p. 110; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 123.
185. G. Lusina, Arduino, Pietro; F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 58; G. Scarabello, Il Settecento, p. 610.
186. Andrea Gloria, Leggi sul pensionatico emanate per le provincie venete dal 1200 a' dì nostri raccolte e corredate di documenti, Padova 1851, pp. 63-67; Michele Lecce, L'agricoltura veneta nella seconda metà del Settecento, Verona 1958, pp. 32-33; G. Gullino, Le dottrine, p. 382; G. Scarabello, Il Settecento, pp. 612-613.
187. G. Scarabello, Il Settecento, p. 610; G. Gullino, Le dottrine, p. 382.
188. Giovanni Arduino, Discorso, 10 luglio 1769, in Raccolta di memorie, I, p. 62; Id., Memoria, ibid., II, p. 37; F. Venturi, Venezia nel secondo Settecento, p. 83.
189. S. Romanin, Storia, VIII, pp. 465-491; G. Scarabello, Il Settecento, p. 611; G. Gullino, Le dottrine, p. 383.
190. G. Gullino, Le dottrine, p. 383; Alba Veggetti - Bruno Cozzi, La scuola di medicina veterinaria dell'Università di Padova, Trieste 1996.
191. G. Gullino, Le dottrine, p. 383.
192. M. Berengo, Introduzione a Giornali veneziani del Settecento, p. L.
193. G. Gullino, Le dottrine, p. 384.
194. P. Preto, L'agricoltura bellunese, p. 94.
195. M. Petrocchi, Il tramonto, p. 126.
196. F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 90-123, 257; P. Preto, L'agricoltura bellunese; Id., La torba: un esempio del rapporto "lumi"-territorio nel Veneto del '700, in AA.VV., La Nuova Olanda. Fabio Asquini tra accademia e sperimentazione, Udine 1992, pp. 69-74.
197. Franco Venturi, Le Accademie agrarie nella Dalmazia settecentesca, "Rivista Storica Italiana", 101, 1989, nr. 1, pp. 125-194; Id., Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 346-429.
198. Marino Berengo, L'agricoltura veneta dalla caduta della repubblica all'unità, Milano 1963, p. 15.
199. F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 115.
200. P. Preto, L'Illuminismo, p. 44.
201. Jean Georgelin, Une grande propriété en Vénétie au XVIIe siècle: Anguillara, "Annales E.S.C.", 23, 1968, pp. 483-519; Id., Une bonification dans la "bassa" frioulane (1779-1809), "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 623-646; Id., Le mouvement saisonnier des prix du froment et du maïs à Pordenone (fin XVIIe-début XIXe siècle), in AA.VV., Mélanges en l'honneur de M. Labrousse, Paris 1974, pp. 173-185; Id., Venise au siècle des lumières, Paris-La Haye 1978, pp. 201-392; Id., Une grande exploitation face à la revolution agricole: Bottenigo (Venise): 1755-1791, in Les passages des économies traditionnelles européennes aux sociétés industrielles, a cura di Paul Bairoch e Anne -Marie Piuz, Genève-Paris 1985, pp. 257-283; Salvatore Ciriacono, Investimenti capitalistici e colture irrigue. La congiuntura agricola nella Terraferma veneta (secoli XVI e XVII), in Atti del Convegno Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori, Trieste, 23-24 ottobre 1980, a cura di Amelio Tagliaferri, Milano 1981, p. 155 (pp. 127-158).
202. G. Gullino, Le dottrine, pp. 400, 408-410.
203. F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 38.
204. Notizie spettanti alle privilegiate manifatture che si trovano sparse nello Stato della Serenissima Repubblica di Venezia e sua capitale. Fabbriche di telerie, "Giornale d'Italia", 1 nr. 3, 21 luglio 1764.
205. Luigi Dal Pane, Il tramonto delle corporazioni in Italia (secoli XVIII e XIX), Milano 1940, pp. 25-30, 43-194; G. Scarabello, Il Settecento, pp. 622-623; Walter Panciera, L'economia: imprenditoria, corporazioni, lavoro, in questo volume.
206. F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 133.
207. G. Torcellan, Una figura, pp. 77-111; F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 132-141. Sulla base dei molti progetti di riforma delle Arti elaborati nel 1798-1799 Apollonio del Senno compila un prospetto statistico che però sarà pubblicato solo nell'aprile 1814: v. W. Panciera, L'economia.
208. G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 194-198; G. Scarabello, Il Settecento, p. 265; W. Panciera, L'economia.
209. F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 313-339, 463; M. Costantini, L'albero.
210. W. Panciera, L'economia; Massimo Costantini, Commercio e marina, in questo volume.
211. M. Costantini, Commercio.
212. Ibid.; G. Scarabello, Il Settecento, p. 603.
213. F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 39-41.
214. Ibid., p. 114.
215. Ibid., p. 116.
216. Ibid., pp. 116-120.
217. M. Petrocchi, Il tramonto, p. 159; F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 127.
218. Salvatore Ciriacono, Olio ed ebrei nella Repubblica veneta del Settecento, Venezia 1975, p. 72.
219. Ibid., p. 77; G. Tabacco, Andrea Tron, pp. 172-193; F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 145-147.
220. Paolo Ulvioni, Politica e riforme a Venezia nel secondo Settecento. Il "Piano daziale", in AA.VV., Profili di storia veneta. Sec. XVIII-XIX, Venezia 1985, pp. 65-94.
221. G. Scarabello, Il Settecento, p. 606.
222. W. Panciera, L'economia; M. Costantini, Commercio.
223. M. Costantini, Commercio.
224. Ibid.
225. Ibid.
226. Ibid.
227. W. Panciera, L'economia; M. Costantini, Commercio.
228. W. Panciera, L'economia. Nel 1792-1794 gli inquisitori all'Arsenal progettano di abbattere i faggi dei boschi del Cansiglio per sostituirli con abeti: su questa riforma è imminente un saggio di Antonio Lazzarini.
229. Francesco Mengotti, Del commercio de' romani dalla prima guerra punica a Costantino. Dissertazione coronata dall'Accademia reale delle iscrizioni e belle lettere di Parigi li XIV novembre 1786, Padova 1787; Id., Il colbertismo. Disertazione coronata dalla reale Società economica fiorentina li 13 giugno 1792, Venezia 1792; Id., Del commercio de' Romani ed il Colbertismo, Verona 1797; F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 433-449.
230. Baccio Ziliotto, Aspetti di vita politica ed economia nell'Istria del Settecento, "Pagine Istriane", ser. IV, 2, 1965, p. 64, cit. in F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, p. 428.
231. F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 448-450, 452, 454-455.
232. Ibid., p. 463.
233. Ibid.
234. Andrea Zannini, La finanza pubblica, in questo volume.
235. Ibid.
236. A. Ventura, Il problema storico, pp. XX-L; A. Zannini, La finanza.
237. G. Scarabello, Il Settecento, p. 601; Andrea Zannini, Il sistema di revisione contabile della Serenissima. Istituzioni, personale, procedure (sett. XVI-XVIII), Venezia 1994; Id., La finanza.
238. A. Zannini, La finanza.
239. Ibid.
240. Mario Infelise, L'editoria veneziana nel '700, Milano 1989; Id., L'editoria, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/I, Il Settecento, Vicenza 1985, pp. 91-111.
241. M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 1-38; Marino Zorzi, La stampa, la circolazione del libro, in questo volume.
242. M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 39-44; M. Zorzi, La stampa.
243. M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 45-47.
244. Ibid.; M. Zorzi, La stampa.
245. M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 303-304. Su questa attività riformatrice di Gasparo Gozzi v. anche Piero Del Negro, Gasparo Gozzi e la politica veneziana, in Gasparo Cozzi. Il lavoro di un intellettuale nel Settecento veneziano. Atti del convegno (Venezia-Pordenone 4-6 dicembre 1986), a cura di Ilaria Crotti-Ricciarda Ricorda, Padova 1989, pp. 45-63 e Angela Caracciolo Aricò, Gasparo Cozzi, sopraintendente e revisore alle stampe, ibid., pp. 65-78.
246. M. Infelise, L'editoria veneziana, pp. 99-122.
247. Ibid., p. 304.
248. Ibid., pp. 304-305.
249. Ibid., pp. 305-308.
250. Id., Il progetto di Gasparo Cozzi per una stamperia dell'Università di Padova (1766), "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 14, 1981, pp. 81-87; Id., L'editoria veneziana, pp. 302-303.
251. Id., L'editoria veneziana, pp. 308-334.
252. Ibid., pp. 333-334.
253. Giuseppe Gullino, La politica scolastica veneziana nell'età delle riforme, Venezia 1973; Piero Del Negro, L'università, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/I, Il Settecento, Vicenza 1985, pp. 47-76.
254. Michele Cataudella, Antilluminismo e progresso nell'ultimo Gozzi, in Gasparo Gozzi. Il lavoro di un intellettuale nel Settecento veneziano. Atti del convegno (Venezia-Pordenone 4-6 dicembre 1986), a cura di Ilaria Crotti-Ricciarda Ricorda, Padova 1989, pp. 445-453; Del Negro sottolinea che "profondamente innovatore sul fronte dell'educazione popolare (le veneziane scuole dei sestieri rappresentarono inizialmente un modello per la stessa Lombardia austriaca), più tradizionalista nei confronti della scuola secondaria, Gozzi lasciò un'impronta poco profonda nell'ambito universitario, mentre andò incontro al più completo fallimento quando si impegnò nel settore dell'educazione delle classi dirigenti" (Gasparo Cozzi e la politica, p. 51).
255. G. Scarabello, Il Settecento, p. 637.
256. G. Gullino, La politica scolastica, pp. 1-45.
257. Ibid. pp. 45-66; Bruno Rosada, Un capitolo di storia dell'istruzione secondaria. Le "Pubbliche scuole" a Venezia (1774-1807), "Istruzione Tecnica Professionale", n. ser., 19, 1982, nr. 71, pp. 185-192; Id., Gasparo Gozzi tra morale e pedagogia, in Gasparo Cozzi. Il lavoro di un intellettuale nel Settecento veneziano. Atti del convegno (Venezia-Pordenone 4-6 dicembre 1986), a cura di Ilaria. Crotti-Ricciarda Ricorda, Padova 1989, pp. 79-93.
258. P. Del Negro, L'università, p. 58.
259. Biagio Brugi, Un parere di Scipione Maffei intorno allo Studio di Padova sui principi del Settecento, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 69, 1909-1910, pp. 575-591; P. Del Negro, L'università, pp. 59-60.
260. P. Del Negro, L'università, pp. 59-61.
261. Per il dettaglio delle soppressioni e attivazioni v. ibid.
262. Ibid., pp. 66-68; Id., I "Pensieri di Simone Stratico sull'Università di Padova" (1760), "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 17, 1984, pp. 191-229.
263. Id., L'università, pp. 69-70; Id., Bernardo Nani, Lorenzo Morosini e la riforma universitaria del 1761, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 19, 1986, pp. 87-141.
264. Id., L'università, pp. 71-72; Maria Cecilia Ghetti, Struttura e organizzazione dell'Università di Padova dalla metà del '700 al 1797, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 16, 1983, pp. 71-102; Ead., Struttura e organizzazione dell'Università di Padova dal 1798 al 1817, ibid., 17, 1984, pp. 133-182.
265. P. Del Negro, L'università, pp. 72-73; Giuseppe Gullino, Una riforma settecentesca della Serenissima: il Collegio di S. Marco, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 515-586.
266. P. Del Negro, L'università, p. 74.
267. Tiziana Pesenti Marangon, La Biblioteca Universitaria di Padova dalla sua istituzione alla fine della Repubblica Veneta (1629-1797), Padova 1979, pp. 143- 156; Andrea Moschetti, La R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Padova. Appunti Storici, "Atti e Memorie dell'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Padova", n. ser., 41, 1934-1935, pp. 1-25; Brendan Dooley, Le accademie, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/I, Il Settecento, Vicenza 1985, p. 88 (pp. 77-90); Piero Del Negro, Giacomo Nani e l'Università di Padova nel 1781: per una storia delle relazioni culturali tra il patriziato veneziano e i professori dello Studio durante il XVIII secolo, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 13, 1980, pp. 87-91; Id., L'università, pp. 75-76; Id., Appunti sul patriziato veneziano, la cultura e la politica della ricerca scientifica nel secondo Settecento, in Giampiero Bozzolato - Piero Del Negro - Cecilia Ghetti, La Specola dell'Università di Padova, Brugine 1984, pp. 247-294.
268. AA.VV., Venezia e la peste. 1348/1797, Venezia 1979, in partic. i saggi di Giampaolo Lotter (L'organizzazione sanitaria a Venezia, pp. 99-102), Richard J. Palmer (L'azione della Repubblica di Venezia nel controllo della peste. Lo sviluppo della politica governativa, pp. 103-110) e Andreina Zitelli (L'azione della Repubblica di Venezia nel controllo della peste. Lo sviluppo di alcune norme di igiene pubblica, pp. 111-112); Paolo Preto, Peste e società a Venezia nel 1576, Vicenza 1978; Id., La società veneta e le grandi epidemie di peste, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 377-406; Nelli-Elena Vanzan Marchini, I mali e i rimedi della Serenissima, Vicenza 1995, pp. 13-38.
269. A.S.V., Provveditori alla sanità, b. 563, Scrittura del N.U. Giovanni Antonio Ruzini Provv. [...], sopra il progetto del Lazzaretto Nuovissimo (1777), c. IV.
270. John Howard, Ragguaglio de' principali Lazzaretti in Europa, con varie carte relative alla peste [...] ed una descrizione delle prigioni, penali leggi, e nuovo codice di Russia di Guglielmo Coxe A.M., a cura di Pietro Antoniutti, Venezia 1814, p. 49, cit. in Paolo Morachiello, Howard e i Lazzaretti da Marsiglia a Venezia: gli spazi della prevenzione, in AA.VV., Venezia e la peste. 1348/1797, Venezia 1979, pp. 157-164.
271. N.-E. Vanzan Marchini, I mali; AA.VV., Difesa della sanità a Venezia. Secoli XIII-XIX. Catalogo-mostra documentaria, Venezia 1979.
272. N.-E. Vanzan Marchini, I mali.
273. Ibid., pp. 65-97.
274. Ibid., pp. 146-155; La memoria della salute. Venezia e il suo ospedale dal XVI al XX secolo, a cura di Nelli-Elena Vanzan Marchini, Venezia 1985; Nadia Maria Filippini, Levatrici e ostetricanti a Venezia tra Sette e Ottocento, "Quaderni Storici", 58, 1985, pp. 149-180.
275. N.-E. Vanzan Marchini, I mali, p. 157.
276. Ibid., pp. 175-176.
277. Ibid., p. 180; M. Berengo, Introduzione a Giornali veneziani del Settecento, p. XLV.
278. N.-E. Vanzan Marchini, I mali, p. 182.
279. Ibid., p. 188.
280. Ibid., pp. 249-251.
281. Ibid., pp. 253-256.
282. Ibid., pp. 257-260.
283. Ibid., pp. 274-279.
284. Ibid., pp. 279-285.
285. Ibid., pp. 261-269; Ugo Tucci, Innesto del vaiolo e società nel Settecento veneto, "Annales Cisalpines d'Histoire Sociale", ser. I, 4, 1973, pp. 199-233.
286. Nelli-Elena Vanzan Marchini, La follia, una nave, una città. Storia di pazzi e di pazzie a Venezia nel '700, Mira 1981; Ead., I mali, pp. 195-220.
287. Ead., I mali, pp. 232-233; Le leggi di sanità della Repubblica di Venezia, a cura di Ead., I, Vicenza 1995.
288. G. Scarabello, Il Settecento, pp. 641-645.
289. Id., L'albergo universale dei poveri: una riforma mancata nella Venezia settecentesca, in Chiesa società e stato a Venezia. Miscellanea di studi in onore di Silvio Tramontin nel suo 75° anno di età, a cura di Bruno Bertoli, Venezia 1994, pp. 175-196.
290. Francesca Meneghetti Casarin, I vagabondi. La società e lo stato nella Repubblica Veneta alla fine del '700, Roma 1984.
291. Giovanni Scarabello, Carcerati e carceri a Venezia nell'età moderna, Roma 1979, pp. 149-222.
292. Giovanni Silvano, Padova democratica (1797). Finanza pubblica e rivoluzione, Venezia 1996, p. 14.
293. Verbali delle sedute della Municipalità provvisoria di Venezia 1797, I, pt. I, Sessioni pubbliche e private, a cura di Annibale Alberti-Roberto Cessi, Bologna 1928, p. 166; Comitati segreti e documenti diplomatici, II, Bologna 1932, pp. 11-12.
294. Giovanni Scarabello, La municipalità democratica, in questo volume.
295. Ibid.
296. Ibid.
297. Giovanni Distefano - Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, I, Dai Dogi agli Imperatori, Venezia 1996, pp. 163 ss.; G. Scarabello, La municipalità.
298. Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. L'architettura, l'urbanistica, Venezia 1988, pp. 19-25.
299. Brescia, Archivio di Stato, stampe, b. 28, nrr. 158-159, 31 maggio 1797.
300. F. Venturi, Settecento riformatore, V, L'Italia dei lumi, 2, La Repubblica di Venezia, pp. 339, 463; M. Costantini, L'albero.
301. G. Scarabello, La municipalità.
302. Umberto Corsini, Pro e contro le idee di Francia, Venezia 1990, pp. 55-75; G. Scarabello, La municipalità.
303. G. Scarabello, La municipalità.
304. Michele Simonetto, Magistrati veneti e politica giudiziaria austriaca. Problemi e contrasti di potere in una fase di transizione. 1798-1805, "Studi Veneziani", n. ser., 26, 1993, pp. 117-195; Id., Un dibattito sull'avvocatura durante la municipalità provvisoria di Venezia del 1797, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", classe di scienze morali, lettere ed arti, 147, 1988-1989, pp. 263-277; G. Scarabello, La municipalità.
305. Paola Tessitori, L'"utopia" di Giuliani. Un progetto di polizia per Venezia (1797), in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 369-382; Ead., "Basta che finissa 'sti cani". Democrazia e polizia nella Venezia del 1797, Venezia 1997.
306. N.-E. Vanzan Marchini, La follia, pp. 96-107; Ead., I mali, pp. 219-220.
307. G. Scarabello, Carcerati, p. 204; P. Preto, I servizi, p. 588.
308. G. Scarabello, Carcerati, pp. 204-205.