Le riviste cattoliche/1: l'Ottocento
Il rapporto tra riviste cattoliche e identità culturale nazionale è la questione principale intorno alla quale ruotano le pagine di questo saggio. L’arco cronologico preso in considerazione è di per sé fondamentale: l’Ottocento e l’Unificazione dell’Italia. Lungo un secolo, sono stati scelti ed esaminati, in modo estremamente sintetico, alcuni periodici e scrittori cattolici che hanno suscitato vivaci dibattiti, influenzando l’opinione pubblica e lo svolgimento dell’azione politica e sociale nel nostro paese. Alle pagine che seguono è sottesa una domanda relativa ai modi e ai tempi secondo i quali il sentimento religioso, come parte della vita quotidiana degli italiani, abbia rappresentato e in che misura un elemento di coesione della comunità nazionale.
Sebbene sia di rado affiancato alla triade classica del cattolicesimo risorgimentale, quella composta da Rosmini, Gioberti e Manzoni, il nome di padre Gioacchino Ventura richiama uno snodo fondamentale per comprendere l’evoluzione dei rapporti tra religione cattolica, cultura moderna e pensiero liberale. Una figura cruciale, la sua, e tuttavia irrisolta.
Formatosi negli anni della Restaurazione, Ventura conobbe una evoluzione tutt’altro che lineare che lo condusse dall’area del cattolicesimo intransigente all’approdo, negli anni Trenta e Quaranta, a posizioni liberal-nazionali, per poi tornare di nuovo a riflettere, nel decennio successivo, su una politica a fondamento teocratico. Spirito ‘inquieto’, il suo percorso biografico restituisce il profondo travaglio vissuto dalla coscienza cattolica europea «nell’età delle rivoluzioni»1.
Il processo di laicizzazione dello Stato e di tutta la società civile avviato dalla Rivoluzione francese aveva significato per la Chiesa l’aprirsi di una fase di resistenza e di opposizione. LaRestaurazione operata dai governi europei nel 1814-1815 era giudicata insufficiente a ricomporre l’unità religiosa e civile della società cristiana, mentre una folta e vivace pubblicistica cominciava a chiamare i fedeli, il laicato, a «un impegno nuovo e una assunzione di maggiori responsabilità», proprio in chiave antirivoluzionaria2.
Da parte sua,Ventura si confrontò, non soltanto sul piano teorico, con le tre fasi rivoluzionarie che attraversarono l’Europa nella prima metà del secolo XIX, tutte accomunate dalla loro «natura diffusiva». Le notizie di un moto rivoluzionario in un angolo del continente accendevano immediatamente altri focolai di rivolta altrove. E l’Italia vi si trovò sempre coinvolta: nel 1820-1821, poi dieci anni più tardi e, infine, nel 1848-1849, a testimoniare «una singolare instabilità degli assetti socio-politici della penisola»3.
Ciò che qui interessa rilevare dell’esperienza di Ventura è la sua capacità di anticipare, tra gli scrittori politici dell’Ottocento, alcuni temi che avrebbero segnato l’ingresso dei cattolici nella vita pubblica italiana. Conviene allora partire dalla metà degli anni Venti, quando il giovane procuratore generale dei Teatini iniziò la sua collaborazione al «Giornale ecclesiastico di Roma», un periodico nato nel 1786 e considerato ‘quasi ufficiale’ o, comunque, molto vicino alla Santa Sede4.
L’invito gli venne direttamente da papa Leone XII, che era stato eletto al pontificato nel 1823, come successore di quel Pio VII a cui Ventura aveva appena dedicato un importante testo commemorativo. Dato alle stampe nel 1824, l’Elogio di Pio VII si era segnalato per una prosa affascinante e ricca di riferimenti storici, guadagnandosi velocemente numerose edizioni e una enorme diffusione in tutta Italia. L’autore vi affrontava, con particolare riferimento all’incoronazione a Notre Dame del 1804, il problema del rapporto tra Napoleone e il papato. Ne usciva delineato, per la prima volta,
«il concetto tutto venturiano della Rivoluzione esorcizzabile soltanto attraverso il riconoscimento di un fatto rivoluzionario, in grado di esplicare, con la propria potenzialità distruttiva e per una sorta di rovesciamento dialettico, il ritorno all’ordine ed alla legittima autorità»5.
Facendo affidamento sulla notevole fama di pubblicista già riconosciuta a Ventura, l’intenzione di Leone XII era quella di rilanciare il «Giornale ecclesiastico», dopo che molti dei primi collaboratori erano venuti meno. In linea con il passato, il periodico si proponeva, innanzitutto, come luogo privilegiato per «un’analisi ragionata de’ buoni o cattivi libri che d’ora in ora si producono colle stampe». Questo lavoro bibliografico sarebbe stato arricchito, però, con «qualche operetta composta dagli stessi giornalisti a difesa della Religione» (così si leggeva nella Prefazione redazionale al primo tomo del gennaio-marzo 1825).
La collaborazione di Ventura si intensificò velocemente, tanto che si può parlare senza incertezze dello stabilirsi di una sua egemonia sul periodico romano, benché essa non venisse mai formalizzata con un incarico di direzione e non durasse più di qualche mese, esaurendosi nel corso del 18256. Quell’estate apparve sul «Giornale ecclesiastico» e con lieve anticipo anche nelle «Memorie di religione, di morale e di letteratura», che si pubblicavano a Modena, un lungo saggio storico-ideologico dedicato allo ‘spirito pubblico religioso’. Si trattava di un vero e proprio testo programmatico, del quale vale la pena ricordare per esteso il titolo: Della disposizione attuale degli Spiriti in Europa rispetto alla Religione; e della necessità di propagare i buoni principj per mezzo della stampa.
Ventura vi rifletteva sulla funzione civile della religione, attingendo a piene mani alla cultura romantica e all’idea della religione cristiana come culla della civiltà europea7. Secondo le parole dell’autore, la «massa delle popolazioni» era essenzialmente «buona», mentre faceva eccezione «un pugno di uomini degradati dai vizj e dagli errori», che sarebbero rientrati nell’anonimato non appena si avesse avuto «il coraggio di spogliarli dei mezzi di nuocere». In sostanza, per Ventura, «malgrado i traviamenti della opinione in qualche alta classe della società; non già la filosofia o la rivoluzione, ma la Religione vera, un poco di pane, e l’ordine formano l’oggetto legittimo dei desiderj come costituiscono i veri bisogni delle nazioni»8. Per questo, l’autore individuava la necessità di rivolgersi a un pubblico ampio, di fare ricorso a strumenti capaci di raggiungere i ‘cristiani’ fuori dai luoghi di culto, sempre più spesso disertati:
«Nei libri perciò di piccola mole, nei fogli volanti, nei giornali (poiché il secolo, posseduto dalla smania di leggere, sdegna però le serie e profonde letture) lo zelo cristiano ha un mezzo efficacissimo da propagare i lumi religiosi; da apprestare armi a chi ne manca per la difesa della verità; da tener desti gli spiriti onde non si addormentino nel funesto letargo dell’indifferenza; da riaccender la fede, da ispirare il cristiano coraggio, da risvegliar la pietà»9.
Alla frattura introdotta nel corpo sociale dalla rivoluzione liberale e borghese, Ventura contrapponeva la possibilità di una reintegrazione organica della società su basi cattoliche. Nella sua riflessione già si intravedevano alcune premesse per la nascita di un partito cattolico (l’espressione non è da intendersi in senso stretto, ma piuttosto come coagulo di gruppi culturali), sia attraverso la promozione di una stampa rivolta a formare una corrente di opinione pubblica, sia accennando a un’organizzazione delle forze cattoliche. Ma ancora più importante è osservare come attraverso l’idea di ‘popolo cristiano’ cominciasse a inserirsi nella cultura ecclesiastica italiana l’idea di nazione10.
Se a metà degli anni Venti, il procuratore generale dei Teatini professava ancora convinzioni legittimiste, sostenendo i governi della Restaurazione, appena cinque anni più tardi la svolta rappresentata dalla Rivoluzione di luglio, con la larga insurrezione che abbatteva a Parigi il regno di Carlo X, della casa dei Borboni, e portava al trono Luigi Filippo d’Orléans, fautore di un governo liberale e costituzionale, avrebbe segnato in profondità, in Italia come in Francia, la vicenda politica e religiosa di tanti autori cattolici e, tra questi, di Ventura. Del resto, dopo le giornate parigine del luglio 1830, sarebbe stato difficile pensare soprattutto tra le nuove generazioni a una automatica adesione ai dettami della tradizione monarchico-legittimista11.
A pochi anni di distanza dai moti liberali, e precisamente nel 1833, Ventura dettava a un amanuense un testo dal titolo assai significativo: Dello spirito della rivoluzione e dei modi di farla cessare. Opera rimasta inedita e giuntaci in maniera frammentaria, nella quale il teatino prefigurava una alleanza tra papato e popolo, anticipando vari argomenti sviluppati, dieci anni più tardi, dal Primato di Gioberti: a partire dal ruolo del pontefice come animatore e condottiero della società civile, fino ad arrivare alla riflessione intorno al rapporto tra religione, civiltà e nazionalità.
Intorno agli anni Trenta dell’Ottocento, si andò irrobustendo la produzione culturale di ispirazione cattolico-liberale. Specie nelle aree urbane dell’Italia padana e toscana, emerse una generazione di uomini di Chiesa che non aveva più molto in comune con il clero settecentesco. E se il cattolicesimo liberale non ebbe mai le sembianze di un movimento organizzato, si può tuttavia fare riferimento a una somma di esperienze e proposte individuali, tese verso un comune impegno: la sintesi tra cattolicesimo e liberalismo. In questo ambito, Antonio Rosmini e Raffaello Lambruschini furono capaci di arrivare più avanti di altri nell’apertura problematica verso l’età nuova segnata dalla rivoluzione. Si può, dunque, essere d’accordo con Jemolo, quando parla di loro come delle due figure maggiori in tema di «riforma cattolica»12.
La ricerca di un principio di unificazione nella storia d’Italia in accordo con il cattolicesimo e il papato, così come il dibattito che si sviluppò sui rapporti tra religione cattolica, idea di nazione e principio di sovranità, ebbero conseguenze importanti non solo sul piano politico, ma anche su quello pedagogico. Negli ambienti del cattolicesimo liberale si andò definendo in modo sempre più chiaro la percezione che nella scuola fosse implicato un progetto di società, parte di un disegno politico generale13.
In effetti, uno dei caratteri più rilevanti della storia italiana della prima metà dell’Ottocento fu il «fervore educativo» dei migliori uomini di pensiero e di azione di quel periodo. Come se, alla vigilia dell’indipendenza della patria, si intravedesse la necessità di avviarne «la vagheggiata redenzione civile e politica» prendendo le mosse proprio dall’infanzia. Ed è significativo che, a più di un secolo di distanza, nell’Italia uscita dallaSeconda guerra mondiale, il dibattito pedagogico del Risorgimento fosse ancora sentito come una fonte di ispirazione, un richiamo ai «valori spirituali ed eterni» e un esempio di amore verso il popolo, in grado di ridonare speranza alla «patria infelice»14.
Nonostante la geografia della cultura religiosa ed ecclesiastica del tempo sia ancora da ricostruire in maniera esaustiva, è possibile dire che le origini del cattolicesimo liberale italiano sono profondamente caratterizzate da radici regionali, cioè da particolari tradizioni culturali e religiose appartenenti alla storia locale. Sotto questo aspetto si possono mettere in luce almeno tre nuclei cattolico-liberali: il gruppo piemontese, quello lombardo-veneto e il gruppo toscano. Nelle scuole ecclesiastiche lombarde e piemontesi ebbero una larga diffusione il filone rosminiano e i movimenti educativi popolari promossi dal sacerdote cremonese Ferrante Aporti, mentre in Toscana si radicò l’esperienza pedagogica dell’abateRaffaello Lambruschini, di origine genovese. Al contrario, per quanto riguarda il Mezzogiorno e le Isole, l’esame degli organi di stampa dell’epoca preunitaria mostra uno scarso o tardivo interesse verso la trattazione delle tematiche educative e scolastiche15.
Furono diverse le direzioni lungo le quali la «grande scuola del cattolicesimo liberale» contribuì alla formazione della classe dirigente moderata protagonista del Risorgimento. È possibile, tuttavia, isolare alcuni temi centrali: i valori della coscienza individuale riscoperti e riaffermati da Lambruschini e Capponi; la sostituzione del «cittadino» al «suddito» in Tommaseo; le concezioni costituzionali di Rosmini e la sua attenzione al diritto e alla libertà della persona in opposizione allo Stato etico16.
Cominciarono a stabilirsi, così, le basi di una presenza nuova dei cattolici nella vita sociale, svincolata dal rifiuto puramente negativo della nuova realtà e del mondo moderno.
A partire dagli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, insieme all’interesse per la pedagogia, crebbe il ruolo che fu chiamata ad assolvere la stampa periodica specializzata in problemi scolastici. Tanto che la sua funzione ci appare oggi molto più consistente e complessa di quella ricoperta dalla stessa stampa di informazione.
Alla testa del moto pedagogico risorgimentale si pose la «Guida dell’educatore», pubblicata a Firenze, nel periodo 1836-1845, dal Gabinetto scientifico e letterario di Giovan Pietro Vieusseux. Il mensile «compilato da Raffaello Lambruschini» (così si leggeva sul frontespizio dei fascicoli) tenne a presentarsi fin dall’inizio ai propri lettori come un periodico impegnato, un «giornale serio» e «di studio». Lambruschini insisteva sulla novità di questo approccio:
«L’idea che si ha fra noi d’un giornale (idea che pur troppo i giornali medesimi hanno generalmente contribuito a destare di sé) è quella d’un’opericiattola da passatempo, e se posso dirlo, da risparmia-tempo: o si vuol ridere e ingannare la noja dell’ozio e delle saziate voluttà, leggicchiando novellette, aneddoti, frizzi, estratti di romanzi e simili altre composizioni commoventi o sollazzevoli: o si vuole con poca fatica e in poche ore apprendere dal giornale ogni sorta di sapere, di erudizione, di arte pratica; nella guisa che si impara a far una tinta o un piatto di cucina da un libro di ricette. Io ho colto tutte le occasioni che mi si sono presentate, per far bene intendere al pubblico che la Guida dell’Educatore non era un’opera periodica di questo genere; ch’io non intendevo né di contendere coi letterati, né di spassare gli oziosi, né di indottorare i frivoli, né di dar pascolo ai curiosi, o sian curiosi spensierati o sian curiosi maligni»17.
Lambruschini aveva già alle spalle numerose esperienze di lavoro culturale ed educativo. Redattore dell’«Antologia» di Vieusseux, pubblicata tra il 1821 e il 1833, aveva fondato in quello stesso periodo (per la precisione nel 1827) il «Giornale agrario toscano». Parallelamente, si era adoperato per promuovere, nella tenuta paterna di San Cerbone a Figline Valdarno, un istituto aperto a fanciulli provenienti sia da famiglie agiate che da famiglie di agricoltori, dove veniva impartita a tutti la medesima educazione. Questo impegno multiforme e instancabile si traduceva anche in una critica sociale senza sconti verso la società italiana:
«Quel che più nuoce all’Italia, quel che più ritarda i progressi nostri (parlo del gran numero; i pochi eletti non sono mai mancati, non mancano e non mancheranno), quel che più ritarda i progressi nostri nell’educazione come in qualsiasi opera veramente maschia, è l’amore del viver lieto, è l’aborrimento d’un applicazion d’animo intensa e perseverante»18.
L’abate genovese non si accontentava di un discorso elitario, ma guardava alla maggioranza. L’educazione per Lambruschini doveva essere, innanzi tutto, una scuola dei doveri, capace di insegnare «la pazienza nell’indagare», «la forza di sopportar la fatica», «l’abnegazione umile e continua», l’amore per i «sacrifizj eroici» e di formare, in definitiva, sia la futura classe dirigente sia i nuovi cittadini:
«E queste qualità che ci mancano, deve infonderci l’educazione; e infonderle contemporaneamente nell’educatore e nell’educato. Ché l’educazione, io lo diceva al principio de’ miei ragionamenti, ha questo di proprio e di sublime, che non può trasmettere sapere e virtù se non viene da animo sapiente e virtuoso; non può essere scuola di miglioramento morale a fanciulli, se già non abbia migliorato o non migliori nel tempo stesso i Genitori e gli istitutori.
A me dunque preme grandemente che questi effetti mirabili operi l’educazione fra noi; che ella dia all’Italia le virtù che le mancano, e mancando le quali, le altre belle doti che l’Italia possiede, non valgono quasi ad altro che a renderla oggetto di nobile sollazzo o di orgogliosa compassione dello straniero. Mi preme perciò che un libro il quale tratta di educazione, sia considerato come opera d’un’austera serietà, come argomento di tacita e profonda meditazione»19.
Nella riflessione di Lambruschini i temi politici, pedagogici, filosofici e religiosi si intrecciavano in maniera quasi inestricabile, come mostrano magistralmente le raccolte di scritti curate alla fine degli anni Trenta da Angiolo Gambaro20. È significativo, ad esempio, che la censura toscana si opponesse alla fine del 1838 alla pubblicazione sulla «Guida» di uno scritto intitolato La religione condizion generale dell’educazione, che sarebbe apparso postumo solamente nel 1895 sulla «Rassegna nazionale». In quelle pagine la pedagogia si poneva come attività sociale fondamentale, come possibile strumento di una riforma complessiva della società, in senso spirituale e culturale, ma anche socio-economico e politico21. Lambruschini indicava nella religione la prima virtù alla quale si sarebbero dovuti formare i giovani. Una religione da attingere direttamente al Vangelo, una religione di carità, ma anche d’ordine e di sapienza:
«Non mancherà forse fra’ miei lettori chi pensi, ch’io avrei dovuto astenermi dal trattare quest’argomento: perché da un lato non v’ha oggi chi non riconosca la necessità della religione; dall’altro l’insegnarla è speciale attribuzione dei sacerdoti, e all’educatore basta di rimettersene a loro. Quest’obiezione, se da qualcuno mi fosse fatta, proverebbe ancora più la necessità che mi corre di entrar francamente in una simile discussione; perché proverebbe l’idea confusa e non affatto retta che molti annettono alla parola religione, e per conseguenza la poca importanza pratica che le attribuiscono nell’educazione. E quando ciò pure non fosse vero di coloro, che oggi sentono con sincerità i vantaggi privati e pubblici d’una educazione buona, e quanto è da loro, la promuovono e la procurano; vero è purtroppo di innumerevoli altre persone. Ed io non avrò mai speranza che questa cara nostra Italia risplenda di maschie virtù e goda di quei veri beni di cui è capace, se non quando vedrò che l’italiana gioventù faccia a se medesima nell’intimo della sua coscienza, e con uno schietto e forte ed operativo amore della verità, queste due interrogazioni: debbo io essere religioso? In qual modo lo sarò io?»22.
Nelle parole dell’abate genovese, la religione richiamava la fraternità, l’«amor fraterno», il sentirsi membri di una medesima famiglia, di una stessa comunità (fu tipico di Lambruschini l’accostamento della parola «fraternità» con quella di «nazione», qui da intendersi come «vincolo che congiunge»), una comunità nella quale la «vita dello spirito, cioè libertà, pace, potenza, sapienza, amore», prevalesse sulla dimensione materiale:
«Io lo so: educare fanciulli alla religione considerata come dev’esserlo, è impresa ben più ardua che non quella di dargli una religione di pura forma. Ma quando mai un educatore potrà vantarsi d’aver ottenuto qualche intento, se egli non opera profondamente sull’animo del suo alunno, e non soltanto sopra i suoi atti esteriori, o sulla sola (dirò così) superficie del suo spirito? Eh persuadiamocene, finché noi non ci piglieremo pensiero, più che non ci pigliamo, dell’uomo interiore, non otterremo nessun bene veramente solido né per gli individui, né per le famiglie, né per la società. Noi parliamo sempre di miglioramenti sociali, di progresso dell’umanità, di istituzioni; e di ciò da cui ogni miglioramento, ogni avanzamento, ogni bella ed utile opera può sol derivare, cioè delle qualità interne di ciascun uomo, ci curiamo come di cosa secondaria, come di cosa da ottenersi indirettamente. Si procede da di fuori al di dentro, e si dovrebbe fare il rovescio. Non che le buone opere esteriori non si debbano desiderare e procurare, non che le cose tutte poste fuori dell’uomo non abbiano potere sopra di lui, e non sia perciò sommamente utile che l’ordinamento della famiglia e l’ordinamento pubblico sian tali da stimolare, da ajutare al bene: ma perché le opere sian buone davvero, perché il buon ordine domestico e sociale sia dagli uomini mantenuto, e per quanto si può perfezionato ancora di più, bisogna che l’individuo sia interiormente conformato al bene, ch’egli si muova per fini retti, che operi per una forza interiore più potente, più regolare, più costante, che non sono tutti gli impulsi di quaggiù; ch’egli pensi più ai suoi doveri che ai suoi piaceri, e che giunga al punto di mettere in pratica abitualmente fortemente volonterosamente la gran massima evangelica di odiarsi per amarsi»23.
La massima qui menzionata richiamava le regole dell’autodisciplina, della moralità, della rinuncia e, in definitiva, di una faticosa costruzione di sé. In una visione religiosa della vita, per Lambruschini come per Mazzini e come in altri scrittori politici del Risorgimento il principio dell’educazione era il dovere e bisognava, dunque, parlare prima dei doveri che dei diritti, altrimenti si sarebbe giunti a una educazione all’egoismo e all’avidità, piuttosto che a un miglioramento delle condizioni sociali.
Inoltre, in modo simile al pensiero rosminiano, la riflessione di Lambruschini implicava un capovolgimento della prospettiva settecentesca (l’idea illuministica dei diritti dell’uomo), che faceva derivare i doveri dai diritti, anziché i diritti dai doveri. Sia in Rosmini che in Lambruschini, il diritto era ricondotto alla morale, a una «riforma interiore» o «rigenerazione», che nel discorso pedagogico diventava propriamente una «nuova nascita del fanciullo» che toccava alla religione operare:
«Né l’educatore crederà d’aver punto contribuito all’educazione religiosa del suo alunno, finché non vedrà che questa operazione interna sia, non dirò compita (non basta a ciò la vita intiera dell’uomo) ma cominciata, e cominciata in guisa che si possa sperare non debba ella più essere sospesa, quando il giovane sarà abbandonato a sé medesimo. Non trattasi dunque solamente d’un insegnamento espresso e d’un esercizio pratico di religione in tali e tali momenti: ma la religione deve entrare nell’educazione tutta, deve modellarla, colorirla, esserne l’anima il vigore. Io lo diceva perciò dal bel principio: la religione non è solamente una virtù alla quale il fanciullo si deve avanti ogn’altra formare; è una condizione generale dell’educazione tutta. In una casa d’educazione ove la religione regni veramente, non si sentirà forse di religione parlar tanto spesso, e con enfasi artefatta; non si vedranno pratiche religiose così frequenti e così prolungate che stanchino e svoglino; non si sentirà gettar in faccia ai ragazzi il nome di Dio e di peccato ad ogni leggerezza o scapataggine infantile: ma la religione traspirerà da ogni discorso; penetrerà nel medesimo insegnamento scientifico, si respirerà per così dire con l’aria»24.
In questo modo l’educazione avrebbe potuto produrre quella rinascita interiore dell’uomo, quella connessione quotidiana di motivi materiali e spirituali (altrimenti separati) che sarebbe stata finalmente in grado di rendere «i nomi di felicità, di libertà, di progresso, di virtù sociali, di fratellanza umana» non più delle semplici parole ma delle realtà effettive.
Passando dalla teoria pedagogica alla proposta di concrete riforme, Lambruschini si accinse, pochi anni più tardi, ad affrontare l’esame di quelle «massime fondamentali» sulle quali avrebbe dovuto poggiare «l’ordinamento della pubblica istruzione». Riflettendo, in particolare, Sulla libertà d’insegnamento25, l’abate genovese auspicò, da una parte, un interessamento massimo da parte dello Stato al campo dell’istruzione, con la istituzione e il mantenimento di scuole modello, dall’altra sostenne la causa della più ampia libertà di insegnamento da accordare ai privati, vedendo in essa la possibilità di una sana concorrenza che avrebbe finito per giovare al perfezionamento della scuola pubblica26.
La discussione sulla libertà d’insegnamento si era accesa in Italia sull’onda di quanto accadeva in Francia, dove la Monarchia di luglio aveva sottoposto a riesame l’impostazione monopolistica di Napoleone. Questa parte del programma ‘rivoluzionario’, come molti altri suoi aspetti, non poteva lasciare indifferenti i liberali italiani. Lambruschini lo raccolse e lo affrontò sotto forma di un dialogo, nel quale l’autore si celava sotto la figura di un «professore solitario», che affermava con nettezza:
«Vi dirò quel ch’io vorrei, quel ch’io domando, e spero. Questo è: che alla pubblica istruzione sia da chi governa ampiamente ed efficacemente provveduto; che ad istruire nelle pubbliche scuole si scelgano sempre i più morali, i più abili maestri che siano nello stato [...]. Insomma alle scuole de’ fanciulli e de’ giovani dal Governo fondate e mantenute e rette, nulla manchi perché conseguiscano il fine a quelle proposto [...]. Ma poniamo che scuole private si aprano e sian frequentate. O il maestro è capace e virtuoso, e la sua scuola produce frutti migliori di quelle del pubblico; e in tal caso voi i primi dovete riconoscere che è un bene di cui rallegrarsi, non un disordine da deplorare; e in tal caso, soggiungo io, ecco un esempio proposto a chi presiede alla pubblica istruzione; ecco un uomo degno, ch’egli il primo deve onorare e far di tutto per attirarlo a sé, e attribuirgli una conveniente parte nel pubblico insegnamento. O il maestro privato è ignorante, inetto, e anche soltanto meno abile dei pubblici; ed egli non reggerà al paragone; i suoi alunni lo screditeranno; i genitori degli alunni si pentiranno di avergli avuto fede, e fede non gli avranno più, e toglieranno a lui i loro figliuoli per darli alle pubbliche scuole; e la scuola privata non buona si chiuderà»27.
In definitiva, Lambruschini accordava la più ampia libertà all’iniziativa individuale e privata nel campo dell’istruzione, non perché il potere pubblico dovesse disinteressarsi di questa materia, ma proprio perché a esso spettava il dovere di promuovere nel migliore dei modi la cultura nazionale. Le scuole statali, infatti, avrebbero finito per giovarsi di quel movimento spirituale spontaneo che sarebbe venuto dalla libera istruzione privata, potendo da essa attingere continuamente nuove energie.
Diretto dal sacerdote biellese Agostino Fecia, «L’Educatore primario» cominciò a uscire a Torino nel gennaio 1845. L’editore era Giorgio Paravia, che stava ampliando, in quegli anni, la sua attività in direzione scolastica e pedagogica. Pensata appositamente per l’educazione elementare e popolare, la rivista era animata da uomini di scuola: a partire dal suo direttore, già ben noto negli ambienti educativi di quegli anni in seguito alla pubblicazione, nel 1839, di un Metodo pratico e progressivo per l’insegnamento della lingua italiana. L’elenco dei collaboratori risultava poi composto da personalità piuttosto in vista nei dibattiti sull’istruzione e l’educazione popolare. Un nucleo consistente era costituito da allievi di Aporti, comeVincenzo Troya, Casimiro Danna, Vincenzo Garelli e Giovanni Antonio Rayneri. Quest’ultimo, sacerdote di formazione rosminiana, poi alla scuola di Aporti, teneva in quegli anni la cattedra di pedagogia all’Università di Torino e si può dire affiancasse Fecia alla direzione del giornale.
Del resto, come ha rilevato Giorgio Chiosso, «L’Educatore primario» raccolse presto la collaborazione di numerose altre personalità della cultura religiosa, filosofica, politica ed educativa del tempo. Occorre ricordare, tra i più noti, gli stessi Rosmini e Aporti, Tommaseo, Bon Compagni e Pier Carlo Boggio:
«Ma il suo nucleo costitutivo restò ad ogni modo quello dei professori di metodo usciti dalla scuola aportiana e questa composizione indicava in modo evidente gli intenti ed i propositi del giornale paraviano; essere espressione della pedagogia e della metodica dell’Aporti con le implicanze e le conseguenze che la venuta dell’abate lombardo a Torino per volontà degli ambienti liberali e il consenso del sovrano portava con sé: non solo spiegare e diffondere un nuovo metodo, ma partendo da questo spostare dal piano della carità a quello filantropico e politico la questione educativa»28.
Non può sfuggire la pregnanza in qualche modo ‘politica’, oltre che educativa, del periodico di Fecia e Rayneri, non appena si consideri che il suo obiettivo dichiarato era quello di tradurre in elementi popolari «le idee giuste delle cose e soprattutto ben determinate». Infatti, secondo le parole dei redattori, «la vera popolarità è quella che ha per iscopo di istruire il popolo, non quella di prendere dal popolo le sue stesse idee, poche e semplici, indefinite, esclusive e imperfette e avvolte in un mare di parole e di frasi»29.
Istruzione ed emancipazione erano strettamente legate non solo nella militanza educativa aportiana, ma anche nella riflessione pedagogica di Rosmini. In opposizione all’individualismo empiristico degli illuministi, che non aveva altra conclusione dell’utilitarismo, Rosmini sosteneva che la persona fosse portatrice di un valore religioso e morale, che doveva essere rafforzato dall’educazione e dal quale discendeva il dovere del pari morale di rispettarla:
«E appunto di qui, secondo il Rosmini, nasce il diritto. Il prius è il dovere morale di rispettare l’altrui soggetto in quanto persona; il diritto che questa possiede in tanto esiste in quanto gli altri hanno il dovere di rispettarla»30.
All’inizio del 1847 la semplificazione della testata, da «L’Educatore primario» a «L’Educatore», preannunciò l’infittirsi del rapporto tra pedagogia e politica, passando da un approccio essenzialmente pratico-operativo a una attenzione crescente per i problemi pedagogico-generali. Una tendenza che proseguì per tutto il biennio 1847-1848 e che aprì la strada alla nuova esperienza della Società d’istruzione e d’educazione:
«L’educazione pubblica [scrivevano Fecia e Rayneri aprendo l’annata 1848] segue le vicende della vita politica delle nazioni. In tutte le grandi epoche della storia, quando si vide imminente un gran male od accadde una grande sventura, si pensò a porvi riparo colla educazione. Quando nuovi fati si aspettarono e nuova gloria da acquistarsi in più splendide prove, gli uomini assennati, gli uomini di azione più che di parole si accinsero a preparare le generazioni novelle con nuova e più potente educazione»31.
Se a una universale opera di alfabetizzazione si affidava il compito di rimediare ai mali sociali del tempo (dal pauperismo alla corruzione dei costumi, spiegati come effetti dell’ignoranza), nello stesso tempo i redattori del periodico torinese si contrapponevano alle pedagogie libertarie ed egualitarie dei Saint-Simon e dei Fourier, la cui eco era giunta anche nel regno sabaudo. Di questi approcci si rigettava l’idea di una libertà sfrenata, di un piano di educazione che paradossalmente cancellava ogni obbedienza, disciplina e rigore, elementi comunque indispensabili per coltivare la mente dei fanciulli. Per giunta, a ciò si accompagnavano, di volta in volta, il disprezzo della religione, l’odio contro ogni autorità stabilita, la liquidazione della proprietà privata e delle gerarchie sociali. Certamente, si trattava di prospettive remote, che nondimeno «L’Educatore» teneva a contrastare in via di principio, vedendo in esse «il punto estremo del disordine sociale ed educativo della rivoluzione francese»32.
«L’Educatore» concluse le pubblicazioni alla fine del 1848. Una parte del suo nucleo redazionale diede vita, sempre a Torino, alla Società d’istruzione e d’educazione, che ebbe in Vincenzo Gioberti e Antonio Rayneri i suoi primi punti di riferimento. La società pubblicò per circa tre anni un proprio bollettino (il «Giornale della Società d’istruzione e d’educazione»), che però non riuscì a mantenere quella tradizione di popolarità e di vicinanza all’attività quotidiana degli insegnanti elementari che aveva caratterizzato il primo periodico paraviano, scontando invece un «carattere piuttosto elitario»33.
Tali difficoltà si tradussero nella nascita, nel 1852, di una nuova rivista settimanale, «L’Istitutore», diretta da Domenico Berti, che veniva dall’esperienza dell’«Educatore primario». Berti fu ben presto coadiuvato, per la parte didattica, dal giovane sacerdote e pedagogista Giovanni Lanza, al quale nell’aprile 1856 lasciò la direzione del periodico. Si aprì, così, una stagione fortunatissima durante la quale «L’Istitutore» si arricchì di nuovi apporti, il più autorevole dei quali fu quello di Niccolò Tommaseo.
Lo scrittore dalmata prese l’impegno con Lanza di consegnare un articolo alla settimana e fu redattore assai prolifico. Amico di Rosmini e Manzoni, già collaboratore dell’«Antologia» di Vieusseux, era giunto a Torino dopo un periodo di esilio in Grecia. Nel 1848-1849 aveva lottato per la Repubblica di Venezia, ricoprendo per alcuni mesi il ruolo di ministro della Pubblica istruzione nel governo Manin. Era convinto che il severo controllo esercitato dai governi della Restaurazione sulla libertà di espressione si riflettesse sull’insegnamento, erroneamente inteso come instrumentum regni anziché come servizio pubblico. Da qui, l’importanza che nel suo pensiero assunse la riflessione pedagogica. A questo proposito Tommaseo, secondo le parole di un suo giovane studioso,
«affermò che la causa dei mali che opprimevano il popolo italiano stava proprio nella scarsa cultura e nella mancanza di educazione, non soltanto intellettuale, ma anche morale e politica. Di conseguenza, l’educazione intesa come formazione della coscienza nazionale e civile, sulla base di una solida formazione morale era indispensabile per preparare le rivoluzioni, per realizzarle e per mantenere e accrescere i risultati ottenuti. Anche per queste ragioni rifletté sulla progettazione di nuove istituzioni educative, più rispondenti alle necessità del tempo e quindi adatte a migliorare la stessa società»34.
L’interesse di Tommaseo per i problemi dell’educazione sociale era in linea con la spiccata attitudine de «L’Istitutore» verso la fase pratica e le questioni di metodo relative al problema didattico. Per merito dell’instancabile lavoro di Lanza, allievo di Rayneri e amico di Aporti, la rivista ebbe ampia diffusione presso i maestri elementari, pubblicando anche i resoconti delle società di mutuo soccorso fra gli insegnanti. Di particolare rilevanza, proprio per la sua novità, era la pubblicazione di esercizi dedicati alle varie materie e a tutte le classi: in tal modo il giornale esemplificava, di volta in volta, i contenuti dei nuovi programmi delle scuole elementari e le nuove impostazioni pedagogiche, agevolando la loro comprensione a una schiera di insegnanti spesso scarsamente preparati. È lecito ritenere che i maestri del tempo traessero dalle pagine del settimanale paraviano nozioni di storia, geografia e scienze, così come prendessero spunto per dettati, riassunti, problemi e tracce di temi:
«Il peso dell’“Istitutore” derivò dalla capacità di tradurre sul piano della vita educativa e della prassi didattica la forza della tradizione cristiana secondo una accorta declinazione di motivi religiosi, morali e pratici all’interno di un progetto politico che pensava alla presenza dei cattolici nella società laica e liberale più in termini di innervamento etico e di garanzia del “senso educativo comune” che in forme antagoniste. Questa complessiva impostazione filtrò in spunti didattici ed addirittura microdidattici (come i diversi esercizi settimanalmente proposti) nei quali l’esaltazione delle doti popolari di laboriosità, senso del dovere e rispetto delle gerarchie sociali si congiungeva, d’un lato, con una visione e giustificazione religiosa della vita e, dall’altro, con la cordiale accettazione dello sviluppo moderno della società. Si trattava, a ben vedere, del prolungamento dell’intuizione educativa che aveva sorretto la stagione dell’“Educatore”»35.
Nel corso del tempo la rivista diBerti e di Lanza divenne uno strumento insostituibile, prima per i maestri piemontesi, poi, dopo l’Unità, per un gran numero di italiani, continuando le pubblicazioni per oltre quarant’anni fin verso la metà degli anni Novanta.
Dopo il tentativo neoguelfo del 1848, che aveva provato a conciliare il papato con la rivoluzione nazionale ed era fallito in seguito al rifiuto di Pio IX di appoggiare la Prima guerra di indipendenza, il dissidio tra la Chiesa cattolica e il movimento liberale divenne sempre più acuto. Il progressivo inasprimento dei rapporti si protrasse per almeno tre decenni, trovando espressione tanto sul piano delle dottrine quanto su quello politico. Il momento culminante può essere individuato nella dichiarazione con la quale il pontefice, nel 1874, si pronunciò contro la partecipazione dei cattolici italiani alle elezioni politiche36.
A partire dal 1850, il gruppo de «La Civiltà cattolica», in stretto contatto con la Segreteria di Stato vaticana, fu il laboratorio privilegiato del pensiero cattolico intransigente, la tribuna più autorevole di quella parte del cattolicesimo che non era disposta a transigere con il liberalismo e con gli errori moderni e che, anzi, nel clima da «seconda restaurazione» degli anni post-184837, era propensa a individuare nel cattolicesimo liberale il primo e più pericoloso nemico della Chiesa.
Il quindicinale dei Gesuiti fu la prima rivista italiana a diffusione effettivamente nazionale («pubblicazione periodica per tutta l’Italia», si leggeva sul frontespizio delle prime annate), arrivando a contare dopo pochi anni di vita circa diecimila abbonamenti. Numeri e caratteristiche che rispecchiavano, in pieno, la volontà di insistere sul «tema romantico della relazione tra Chiesa e popolo» e che rafforzavano l’intendimento di svincolarsi, gradualmente, dalla sorte ormai segnata dei sovrani assoluti, insistendo piuttosto sul relativismo delle forme di governo:
«Per vari aspetti “La Civiltà cattolica” faceva opera di ammodernamento ideologico del cattolicesimo, ma selezionando e ricollocando gli impulsi provenienti dalla cultura del proprio tempo nell’alveo di un apparato dottrinale guidato dal principio di autorità, inteso come carattere distintivo ed esclusivo del cattolicesimo»38.
Attraverso «La Civiltà cattolica» entrò in circolazione una immagine guelfa e antiliberale della nazionalità, la rappresentazione di una intima coerenza storica tra la civiltà italiana e il papato, tesa da una parte alla prosperità della «nazione», ma dall’altra non disposta a riconoscere alla comunità nazionale il diritto di sovranità. Nella strumentazione dottrinale della rivista dei Gesuiti e, più in particolare, di uno dei suoi fondatori, padre Taparelli, il papa si costituiva, nella sua duplice veste di capo spirituale e di sovrano temporale, come polo politico per molti aspetti sostitutivo dello Stato nazionale:
«Le tracce di quest’idea di nazione furono diffuse nell’immaginario collettivo di tutta una pubblicistica, ed entrarono stabilmente a far parte dell’apologetica cattolica. Analoghi orientamenti si riversavano nel tessuto di una letteratura popolare o rivolta ai giovani, rimasta per lungo tempo inesplorata dalla storiografia nonostante la sua straordinaria diffusione»39.
Fin dal 1847, riflettendo sulle caratteristiche che avrebbe dovuto avere la futura rivista, Luigi Taparelli mostrava in una lunga lettera indirizzata a padre Pasquale Cambi grande attenzione per una questione che sentiva essere fondamentale: «come diffondere in ogni classe di lettori le buone dottrine?».
Pensava, in proposito, alla necessità di allestire una «parte popolare del giornale» che si affiancasse a quella più erudita. E proseguiva:
«Abbiasi presente non solo d’illuminar la mente, ma anche di far sentire al cuore le sane dottrine principalmente in ciò che riguarda la religione e la chiesa: giacché questa è la maniera di tirare più facilmente il volgo. [...]. Il bene dell’opera sarà dunque sempre limitato e poco durabile, finché non si riesca a fare che il popolo conosca e gusti i principii veri di quelle scienze dalle quali dipendono gli errori più funesti: Religione, Morale, Diritto pubblico, Diritto maritale e paterno, ecc. Opportunissimo parrebbe dunque che di ciascuna di esse si componesse un trattatello che adattasse all’intelletto del volgo i principii sani».
Un ruolo importante, all’interno di questa strategia editoriale rivolta al popolo, avrebbe ricoperto la rubrica delle segnalazioni librarie: «La bibliografia poi dovrebb’essere non un semplice annuncio, corredato della protesta che non s’intende né lodare, né biasimare, ma un mezzo somministrato al lettore per formarsi una biblioteca veramente cattolica»40.
È stato soprattutto Gabriele De Rosa a evidenziare l’acutezza delle osservazioni di Taparelli, la sua capacità di approfondire il problema della rivista «in termini nuovi, uscendo dalla visione del giornale di dotti, fatto per dotti». Taparelli comprese che la grande sfida era ormai quella «di scendere al popolo, di difendere nel popolo i buoni convincimenti adottando un linguaggio medio, a tutti accessibile»41.
Mantenendosi su questa linea, «La Civiltà cattolica» dedicò frequenti recensioni alle collane popolari degli editori cattolici. Il riferimento è a tutta una produzione di opere devozionali, piccoli catechismi, romanzi brevi, racconti morali che crebbe proprio a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta dell’Ottocento, rappresentando lo strumento privilegiato delle gerarchie ecclesiastiche per mantenere il dialogo e un ‘rapporto educativo’ con le masse popolari, in risposta alla laicizzazione liberale dello Stato e della società. Come ha rilevato recentemente una giovane studiosa, Isotta Piazza, «La Civiltà cattolica» non aveva dubbi in materia di stampa popolare e uno dei suoi redattori affermava in proposito: «I torchi sono più potenti e fanno miglior giuoco che i cannoni», riprendendo del resto, quasi alla lettera, una posizione espressa dallo stesso Pio IX nell’enciclica Noscitis et nobiscum del 184942.
Attraverso le pagine de «La Civiltà cattolica» emergono, così, aspetti della vita religiosa popolare e si può affermare con una certa sicurezza che l’impegno a unificare su base nazionale le prospettive d’azione del movimento cattolico intransigente ebbe l’effetto di depotenziare le tradizioni spirituali regionalistiche, spesso permeate di regalismo e di giurisdizionalismo43. Nello stesso tempo, è necessario interrogarsi sugli effetti che la trasmissione di una immagine della nazione incentrata sulla Roma pontificia ebbe negli atteggiamenti collettivi di fronte agli eventi politici che interessarono la penisola, arrivando giustamente a chiedersi se questa letteratura apologetica non abbia contribuito a produrre «una sotterranea delegittimazione degli Stati preunitari, parallela e contraria a quella indotta, a livello di classi dirigenti, dalle idee liberali di nazionalità e di rappresentanza»44.
Ormai alla vigilia dell’Unità, la rivista dei Gesuiti promosse senza incertezze una ampia circolazione della Storia d’Italia raccontata alla gioventù didon Bosco, pubblicata nel 1856 da Paravia e più volte riedita. Opera nella quale il prete torinese, come è stato ricordato anche di recente45, valorizzava i caratteri di una civiltà italiana che appariva tanto più elevata quanto più intimamente accostata alla causa ecclesiastica e papale. Secondo un anonimo recensore de «La Civiltà cattolica», don Bosco aveva avuto il merito di raccogliere diligentemente, «nell’angusto spazio di 558 pagine in 16°», i principali avvenimenti della «patria nostra». Se era quasi inevitabile che un lavoro così ambizioso mostrasse dei difetti, «ad ogni modo noi facciam voti, perché dato bando a tante storie d’Italia scritte con leggerezza od anche con perverso fine, questa del Bosco corra per le mani de’ giovani che s’iniziano allo studio delle vicende della nobilissima Penisola»46.
Con don Bosco siamo all’origine della cultura popolare cattolica: ai primi tentativi, cioè, di «modernizzare la pastorale cattolica» e di ristabilire, attraverso una stampa di larga diffusione, un rapporto di educazione con le masse popolari. Veniva superato il regionalismo preunitario e nasceva, insieme all’apostolato di massa, un cattolicesimo nazionale47. Nel campo dell’educazione popolare cominciava a giocarsi una partita, che era sentita come decisiva, tra diversi e alternativi sistemi di valori.
Durante l’epoca di governo della Sinistra liberale, apertasi con la «rivoluzione parlamentare» del 1876, si assistette a un processo di lenta e complessa trasformazione del movimento cattolico, che di fronte al sempre più chiaro emergere della «moderna questione sociale», intese costruire una «alternativa cristiana» al regime liberale e al temuto collettivismo socialista48.
La riforma elettorale del 1882, che apriva prospettive inedite per il nascente movimento operaio e socialista, allarmò una parte dell’opinione pubblica liberale e diede più voce all’interno del mondo cattolico alla tendenza conciliatorista, fautrice della partecipazione al voto. L’accantonamento del non expedit venne appoggiato da molti vescovi e dagli ambienti intellettuali cattolici raccolti intorno alla «Rassegna nazionale» di Firenze, impegnata in quegli anni a lanciare un ponte verso la classe dirigente liberale, sostenendo l’idea della formazione di un grande partito conservatore. Firenze non era certamente un luogo casuale, bisogna pensare alla peculiare apertura culturale che la «Rassegna nazionale» ereditava dalla ricca tradizione del cattolicesimo liberale del primo Ottocento, quello dei Capponi e dei Lambruschini49.
Il tentativo conciliatorista sarebbe fallito, anche a causa dell’irrigidimento di Crispi di fronte alle manifestazioni e alle pressioni del ‘partito’ clericale, ma era indicativo di una situazione in corso di trasformazione. Per descriverla, Traniello ha parlato di un passaggio da una «opposizione per così dire tradizionale», alimentata cioè dalle tipiche motivazioni religiose ed ecclesiastiche, a una opposizione che si arricchiva di istanze economico-sociali e politico-istituzionali. Tenendo presente che le vicende del cattolico nell’ultimo ventennio del secolo vanno naturalmente inserite
«nel quadro dell’aurorale formazione dei partiti organizzati in senso moderno, a base di massa e con propri programmi d’azione: fenomeno che si svolge in stretto parallelismo con il trasformismo e con la perdita d’identità dei partiti risorgimentali tradizionali. Un partito, quello clericale, capace potenzialmente di riassumere in sé due qualità essenziali: un’ideologia complessiva e onnicomprensiva, a forma enciclopedica, cui gli intellettuali cattolici allaToniolo si sentivano chiamati a dar vita; e una capacità di diffusione capillare dovuta sia al suo radicarsi alla rete delle istituzioni ecclesiastiche, sia ai collegamenti accuratamente perseguiti con la subcultura popolare, segnatamente contadina, ancor tutta impregnata di elementi sacrali e di una moralità da secoli predicata dai pulpiti»50.
Questo coagularsi del cattolicesimo secondo strutture prepartitiche o partitiche coincise con il fiorire di forme associative e solidali, in un’epoca di transizione e di incertezze nel vissuto degli strati popolari. Il riferimento è all’universo dell’associazionismo cattolico: società di mutuo soccorso, casse rurali, cooperative di credito, produzione e consumo, comitati di studio, propaganda e azione, cioè l’insieme delle realtà sociali collegate alla parrocchia e ai comitati locali dell’Opera dei congressi, che cominciavano a fornire una base di consapevolezza organizzativa alle energie cattoliche.
Il sentimento religioso si confermava un valore di coesione nella vita quotidiana, mentre parroci e preti assumevano il ruolo, per certi versi inedito, di intellettuali organici: forse gli unici che la nostra società abbia mai avuto.
A un ruolo di questo tipo pensava sicuramente Romolo Murri quando nel 1898, su «Cultura sociale», invitò il clero a prepararsi a un «nuovo compito», alla «direzione cioè del movimento religioso e sociale in mezzo al loro popolo», in appoggio al laicato più intraprendente. Ne discendeva la necessità per i sacerdoti, sempre secondo le parole di Murri, di «un giusto apprezzamento delle questioni politiche» e, dunque, dell’acquisizione di «una certa cultura politica, composta specialmente di storia contemporanea e di elementi di diritto costituzionale e di economia politica»51.
Le indagini socio-religiose avviate e stimolate da De Rosa hanno dimostrato l’importanza delle strutture di base dell’organizzazione ecclesiastica, con particolare riferimento alle parrocchie. Una articolazione di comunità locali che contribuì a favorire, se si vuole indirettamente e paradossalmente, il consolidamento della recente Unità del paese, collegando italiani di ogni regione e introducendo «nella vita nazionale, anche se in opposizione al dominante regime, dei ceti rimasti indifferenti od ostili al movimento liberale»52. L’universo del cattolicesimo sociale, in maniera non dissimile dal movimento socialista, cioè all’altro polo antagonista del liberalismo, «costruì molte occasioni di cittadinanza sociale e politica, in fondo più incisive in una dimensione nazionale rispetto alle reali alternative che lo Stato liberale dell’epoca poteva e intendeva consentire per le masse popolari»53. Per entrambe le culture politiche, la ‘bianca’ e la ‘rossa’, la dimensione locale e municipale rappresentava la base di partenza per ricostruire una diversa visione della nazione.
Si assistette a un processo di aggiornamento e di vivace elaborazione culturale che trovò espressione in un pullulare di giornali e riviste, attraverso cui il cattolicesimo sociale di fine secolo rispose alle sollecitazioni provenienti dalle nuove scienze della società (l’economia, la sociologia e le scienze sociali quantitative, la demografia e la statistica), già diffuse nella cultura sociale di lingua francese e soprattutto tedesca. Negli anni Novanta si aprì un momento di particolare vitalità per l’insieme della cultura cattolica, «sotto lo stimolo del confronto fattosi più stringente, con le posizioni dei cattolici di altri paesi, con le indicazioni delle encicliche leoniane, con la crisi sociale e l’avanzata socialista»54.
Indubbiamente la Rerum novarum, affrontando la questione dei rapporti tra capitale e lavoro, riconoscendo i diritti del secondo sul primo e cercando di promuovere i termini di un accordo sociale, rispose a una attesa che andava oltre l’ambito del cattolicesimo, «per porsi come fatto storico obbiettivamente decisivo»55. La parte più ricca dell’enciclica del 1891 era quella relativa al movimento associazionistico e mutualistico cattolico, che si auspicava autonomo e libero rispetto al potere pubblico, richiamando la tradizione corporativa ma riconoscendo, altresì, la necessità di un suo aggiornamento rispetto ai bisogni del tempo, che vedevano ormai la presenza sempre più massiccia di organizzazioni esclusivamente operaie.
Storicamente, è significativo che il nome assunto dall’organo ufficiale del comitato permanente dell’Opera dei congressi, ossia l’organizzazione che dal 1875 costituiva l’ossatura fondamentale e il luogo di coordinamento, «in senso papale e antiliberale», di tutte le attività associative del laicato cattolico italiano, fosse proprio «Movimento cattolico»56.
Il primo numero uscì a Venezia nel gennaio 1880, ma il periodico non ebbe sede stabile, in quanto si adeguò a quella dei vari presidenti dell’Opera dei congressi. Si trasferì, infatti, a Bologna nel 1887, tornò a Venezia quattro anni più tardi e passò a Ferrara nei primi anni del nuovo secolo.
Sulle sue pagine si assistette alla maturazione delle idee sociali del movimento intransigente; una evoluzione che avvenne specialmente su impulso della Sezione seconda dell’Opera, a cui era affidato il capitolo dell’assistenza e dell’economia sociale. In questo senso, sono da segnalare due interventi di Toniolo: Dell’importanza degli studi sociali per parte dei cattolici nell’odierno momento storico e Alcune linee e quesiti di un programma di economia sociale cristiana, entrambi del 1886, ma vorremmo qui soffermarci piuttosto sulle posizioni di Stanislao Medolago Albani, presidente della Sezione seconda dal 1885 al 1904, e sull’importanza del pragmatismo e del possibilismo da lui espressi nei confronti dello Stato liberale. Posizioni che segnarono un passo in avanti rispetto alle tenaci preclusioni antistatali di altri membri dell’Opera e che accompagnarono la nascita del cattolicesimo sociale italiano57.
Intorno alla metà degli anni Ottanta, Medolago espresse ripetutamente delle critiche alla stampa ufficiale dell’Opera, che spesso non era in grado o, meglio, mostrava reticenze nel mettere in piena luce l’azione sociale dei cattolici e a garantire, dunque, un panorama giornalistico più aperto sull’intero movimento. Non senza momenti di polemica e di incomprensione con la presidenza dell’Opera, caldeggiò una riorganizzazione del bollettino ufficiale, «Il Movimento cattolico», in base alla quale si prevedesse una rubrica esplicitamente dedicata a «studi e lavori sul movimento cristiano sociale, tanto nell’ordine delle idee come nella sfera dell’azione», e si giungessero a delineare, in prospettiva, i contorni di un vero e proprio periodico della Sezione seconda58.
Quest’ultima soluzione, desiderata anche da Toniolo, non si sarebbe realizzata; tuttavia a partire dal 1886 la sezione presieduta da Medolago collaborò sempre più intensamente al bollettino dell’Opera. Nel gennaio di quell’anno, venne pubblicato sul «Movimento cattolico» un breve programma di intenti in materia di «economia sociale cristiana», concordato con Toniolo. Medolago vi ricordava come il fine della Sezione seconda consistesse, stando alle sue parole, nel «propugnare e favorire la ricostruzione dell’ordine cristiano nella società in generale, e nella nostra patria in particolare, avuto riguardo alla sua qualità di nazione cattolica, alla sua missione storica e alle sue attuali circostanze di fatto»59.
A livello storiografico, la disponibilità di Medolago a seguire il dibattito culturale senza preclusioni di ordine ideologico, ma anzi guardando con interesse all’intervento del potere pubblico in materia economico-sociale, ha portato a problematizzare l’identificazione tra cattolicesimo sociale e mondo intransigente, tanto che, secondo le parole di Scoppola60, «le due posizioni, conciliatorista e intransigente, sono insomma abbastanza definite al vertice, ma i fili che fanno capo ad esse si intrecciano, alla base, in un fitto e variopinto tessuto sul quale appunto si inseriscono le iniziative dei cristiano-sociali, le cui posizioni perciò appaiono distinte ed autonome rispetto a quelle intransigenti».
La «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», che iniziò le pubblicazioni a Roma nel gennaio 1893, trovava la propria ragione d’essere nella riflessione intorno ai temi della dottrina sociale cristiana e nell’impegno per la diffusione e l’approfondimento della Rerum novarum. Il suo artefice era Giuseppe Toniolo, che circa tre anni prima a Padova aveva promosso l’Unione cattolica per gli studi sociali in Italia, proponendosi di rinsaldare il legame tra società italiana e Chiesa cattolica61. Benché cattivo economista, come hanno spesso sostenuto gli studiosi di economia, Toniolo fu figura emblematica nel processo di formazione di una sociologia cattolica62.
Come rilevato dallo stesso Traniello, uno studio soddisfacente sull’insieme di cultura sociale, economica e politica espressa dal movimento cattolico in epoca leoniana attraverso periodici come la «Rivista internazionale di scienze sociali» sarebbe di capitale importanza e si può dire non sia stato ancora realizzato.
Nel Programma dei cattolici di fronte al socialismo, cheToniolo pubblicò sulla «Rivista internazionale» nel 1894, dopo che il documento era stato approvato dall’assemblea generale dell’Unione cattolica per gli studi sociali, si faceva chiarezza sull’atteggiamento della scienza cristiana di fronte al disagio sociale contemporaneo. Una presa di posizione necessaria affinché gli strati popolari non fossero indotti a credere che solo i socialisti e i sovversivi si occupavano di loro e risultasse invece palese, secondo le parole dello stesso Toniolo, che «la causa del popolo è la causa stessa dei cattolici, e le inquietudini presenti di esso sono una prova di più della ragionevolezza delle loro antiche proteste»: contro il liberalismo, il trionfo dell’individualismo svincolato da ogni legge religiosa e la prospettiva di una società sempre più disarticolata e atomizzata63.
Trascorsi ormai alcuni anni dalla Rerum novarum, i contenuti positivi della dottrina sociale cattolica rimanevano, tuttavia, in uno stato di indeterminatezza; una situazione di impasse che venne autorevolmente constatata in un articolo fondamentale pubblicato nel febbraio 1896 da monsignor Salvatore Talamo, che, non va dimenticato, ricopriva il ruolo di direttore della rivista (benché, come detto, il principale animatore fosse Toniolo). Se l’enciclica del 1891 aveva segnato inequivocabilmente i tratti distintivi del cattolicesimo sociale rispetto al movimento socialista, soprattutto da un punto di vista metafisico, marcando l’opposizione al materialismo, aveva lasciato aperto e controverso il vero problema-chiave dell’azione sociale cattolica: quello dei modi di organizzazione delle classi lavoratrici e dell’ordinamento professionale64.
Nel suo intervento, intitolato La questione sociale e i cattolici, Talamo dava dignità di problema al socialismo, indicandolo come «un sistema estremamente complesso» all’interno del quale «a pretese eccessive si uniscono non ingiuste rivendicazioni» e «ad una ricostruzione fantastica della società avvenire s’aggiunge una critica acerba ma in alcuna parte anche vera della società presente»65. Proseguiva sottolineandone acutamente una debolezza, nella «ricerca appassionata ed esclusiva dei beni terrestri», che costituiva appunto la «quintessenza» del socialismo:
«Il suo ideale è la giustizia, la felicità per tutti sulla terra prescindendo dalla giustizia, dalla felicità del di là, o anche meglio negandola. Ho detto beni terrestri e non già materiali, perché sarebbe troppo basso e vile il socialismo se fosse occupato e preoccupato solo dei corpi; ma è certo che si occupa e preoccupa solo del tempo, non della eternità; della terra, non del cielo.
In questa esclusiva ricerca dei beni della terra propria del socialismo apparisce il suo vivo contrasto con il cristianesimo. Giacché il cristianesimo è una elevazione della mente e del cuore dell’uomo al cielo, alla felicità immortale quivi riserbata alla virtù. Esso predica il disprezzo delle ricchezze, comprendendo sotto questo nome tutti i beni di quaggiù, disprezzo che non va inteso nel senso assoluto e cinico, ma nel senso relativo, in quanto cioè dobbiamo stimare i beni materiali meno degli spirituali, i temporali meno degli eterni, e in un contrasto pratico tra gli uni e gli altri preferire gli spirituali ed eterni ai temporanei e materiali. Invece il socialismo predica in fondo l’amore alle ricchezze, al benessere presente, amore assoluto e incondizionato, in quanto che il procurarne la maggior possibile quantità a sé ed agli altri dev’essere lo scopo supremo della vita.
Quando perciò il Vangelo e il cristianesimo, che ne conserva la dottrina, si scaglia contro i ricchi e ad essi minaccia guai, v’è bensì una materiale somiglianza con le dottrine dei socialisti contro i grassi borghesi, somiglianza che può illudere gli spiriti superficiali, ma v’è un’intima e sostanziale differenza che non può sfuggire ad un osservatore acuto e leale. Gesù e il Vangelo condannano piuttosto l’amore che il fatto delle ricchezze, e le ricchezze stesse condannano come pericolose moralmente per l’individuo che le possiede, non come eticamente ingiuste. Gesù non dice “la ricchezza è un furto”, ma dice “è un pericolo”. In fondo alle condanne di Gesù vi è il disprezzo dei beni della terra per quelli del cielo; in fondo alle invettive del socialismo vi è la cupida ed unica brama dei beni della terra»66.
Passando dal piano ideale alla prassi, la Rerum novarum aveva indicato la strada dell’«organamento professionale» per rispondere alle «associazioni dei nemici dell’ordine sociale», ammettendo sia la forma mista, di lavoratori e padroni, sia quella composta da soli operai67. Quest’ultima era preferita dai «cattolici-sociali», che vedevano in essa «un mezzo di difesa sociale», mentre era guardata con preoccupazione dai «cattolici conservatori», secondo i quali «sindacati esclusivamente operai» avrebbero finito per fomentare la «lotta di classe». Del resto, notava Talamo,
«come i padroni si uniscono a difendere i propri interessi, è giusto ed utile che si uniscano gli operai a difendere i loro. Certo la pace è da preferirsi alla lotta; ma quando la pace vera non è possibile per il cozzo degl’interessi, è preferibile alla guerra selvaggia una lotta tra eserciti regolari e disciplinati. Questi sindacati puri possono diventare e stanno diventando la base di sindacati misti, in quanto delegati del sindacato degli operai possono unirsi con delegati del sindacato dei padroni»68.
I «cattolici-sociali» andavano oltre, innestando sul tronco dell’organizzazione operaia il principio della cooperazione. L’ideale di fondo era stato fissato nel Programma sociale dei cattolici italiani redatto dall’Unione per gli studi sociali di Toniolo e accolto dal Congresso cattolico italiano che si era tenuto a Roma nel febbraio 1894. Esso era sintetizzato, come ricordava Talamo, in forma prescrittiva: «Conviene restringere la classe precaria e miserabile dei semplici salariati», puntando a «rinfrancare e diffondere» i benefici della proprietà69.
Un’ultima controversia era rimasta aperta in merito al programma sociale cattolico dopo l’enciclica leoniana del 1891: l’atteggiamento da tenere verso l’intervento dello Stato a favore degli strati popolari. Sembrava a molti discutibile l’opportunità che i cattolici invocassero l’intervento dello Stato liberale e, in particolare, i «cattolici conservatori» mantenevano «una diffidenza generica» per l’azione del potere pubblico, ma, aggiungeva Talamo, appellandosi al buon senso «questi timori altri cattolici li credono esagerati». Infatti,
«sieno pure ostili in massima alla Chiesa cattolica molti governi, ci sono però dei provvedimenti puramente economici, in cui il principio religioso non è punto implicato: come il cattolico malato si giova anche della perizia di un medico non cattolico, così se di certi rimedi sociali lo Stato laico ha il monopolio, il suo laicismo non è una buona ragione per non servircene noi»70.
Il movimento sociale cattolico uscì faticosamente dal dilemma liberismo-interventismo attraverso figure come Giuseppe Toniolo e come Medolago Albani. O si ammetteva che lo Stato potesse intervenire in materia economica e sociale, con una legislazione protettiva dei lavoratori, e allora il tradizionale apoliticismo cattolico-intransigente perdeva di senso, o lo si negava, e allora il movimento sociale cattolico, senza leggi che tutelassero il lavoro nelle fabbriche o la formazione del credito nelle campagne, avrebbe preso una strada senza sbocchi.
Tuttavia, i Toniolo e i Medolago Albani non sarebbero riusciti a tanto senza la Rerum novarum, che, pur non dando soluzioni definitive, «bruciò molte perplessità e resistenze tra i cattolici intransigenti, dando fiducia all’ultima e più spregiudicata generazione di cristiano-sociali, alla corrente democratica cristiana, che finì per mettere in minoranza la vecchia guardia»71.
Toniolo delineò un quadro completo del concetto cristiano di democrazia in una serie di articoli pubblicati nel 1897 sulla «Rivista internazionale», largamente ripresi nel sempre utile lavoro antologico che Giuseppe Are dedicò, quasi cinquant’anni fa, al rapporto tra cattolici e questione sociale72. Nelle parole di Toniolo la democrazia cristiana veniva definita come un ordinamento civile improntato alla cooperazione per il «bene comune» da parte di tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche. Benché la «naturale e storica gerarchia delle classi» non venisse messa in questione, il nuovo senso di responsabilità personale e collettiva e l’osservanza dei doveri sociali avrebbero finito per alleviare la condizione delle classi inferiori. Era necessario far chiarezza, insisteva Toniolo, dal momento che, anche all’interno del movimento sociale cattolico,
«nel linguaggio o nel contegno pratico qualcuno alimenta il sospetto che il programma della democrazia fra noi cattolici involga una qualche partecipazione allo spirito rivoluzionario del secolo e susciti o irriti le lotte di classe; mentre altri fa credere per contrario che la prudenza, a non inasprire i conflitti sociali già aperti fra le classi, imponga di tacere la verità e di non agire apertamente per il diritto da qualunque parte si trovi. Indubbiamente, se taluno trascorse in proposito, bisogna che rientri nel dominio sacro delle due virtù sovrane della giustizia e carità, le quali non riguardano soltanto i fini, ma anco i mezzi [...]. E ciò precisamente per richiamare di nuovo le classi superiori, che oggi con sì grave colpa ignorano, obliano e spesso calpestano i propri doveri sociali, al riconoscimento ed all’osservanza pratica dell’altissima e doverosa funzione che loro spetta verso il progresso civile e in ispecie verso il benessere delle moltitudini da cui dipende la loro stessa grandezza e conservazione; e insieme per educare le classi inferiori oggi così pervertite e riottose a riconoscere ancora la dignità della povertà cristiana e le elevazioni pur sempre legittime che a loro ha riservato il cristianesimo in premio della docile loro cooperazione ai comuni avanzamenti sociali. Può dubitarsi che (salvo parziali e onorifiche eccezioni) fra i cattolici stessi le classi più elette sieno convinte appieno dell’eccellenza e gravità della missione sociale loro affidata dal cristianesimo; e può asseverarsi essere immensa la via da percorrersi, perché i volghi popolari e traviati che oggi bestemmiano la Chiesa come stromento di oppressione, l’abbraccino amorosamente come autrice della loro redenzione. Il compito della democrazia qui si identifica con una vera palingenesi o resurrezione sociale»73.
Se il gruppo che faceva capo alla «Rivista internazionale» mantenne un approccio alla questione sociale essenzialmente dottrinario, a partire dal 1898 sarebbe stato l’ambiente della «Cultura sociale», la rivista quindicinale diretta da Romolo Murri, a pensare forme di propaganda e di azione per il ‘cattolicismo militante’, sviluppando ulteriormente l’elaborazione e l’applicazione della sociologia cattolica. Entrando in campo, così si intitolava l’articolo di apertura della nuova rivista, Murri si proponeva, infatti, di concentrare il proprio lavoro sullo «studio de’ problemi che l’azione incontra mano mano nella sua via»74.
La «Cultura sociale» nacque con l’ambizione di porsi come guida del movimento della Democrazia cristiana, avendo presente l’esempio, in qualche misura ricalcato, della «Critica sociale» di Filippo Turati e della funzione da essa svolta in campo socialista. Nella concezione murriana erano evidenti i risultati del lavorio compiuto dalla sociologia cattolica negli anni Novanta, ma anche il confronto ravvicinato con il pensiero socialista e più esattamente con il materialismo storico di Antonio Labriola, del quale Murri era stato allievo all’Università di Roma. Nel quadro della crisi di fine secolo «era, quello murriano, un impasto culturale dai difficili e delicati equilibri, ma a suo modo rappresentativo dei fermenti della nuova stagione della cultura cattolica»75.
Quando, il 1° gennaio 1898, uscì a Roma la «Cultura sociale» Romolo Murri era già di fatto il leader dei giovani democratico-cristiani, grazie all’azione svolta nel triennio 1894-1897. Le radici della prima Democrazia cristiana vanno cercate, infatti, nell’inquietudine che percorreva il mondo cattolico dopo la Rerum novarum e, più in particolare, «nel clima culturale delle università», dove stavano emergendo i quadri direttivi di una nuova intellettualità cattolica. È, dunque, opportuno fare cenno alle origini dell’associazionismo universitario cattolico, con particolare riferimento alle pagine de «La Vita nova»76.
Tra la fine del 1894 e il 1895 aveva cominciato a prendere corpo l’idea di un gruppo di studenti universitari romani, riuniti intorno a Murri, di raccogliere in federazione i nuclei cattolici presenti da alcuni anni in vari atenei italiani. Il gruppo romano, nato nell’abitazione di Murri nel dicembre 1894, fondò la rivista «La Vita nova», che cominciò a uscire nel febbraio 1895 con il proposito di costituire un punto di riferimento per la nascente federazione. In realtà, il progetto murriano venne presto scavalcato da una analoga iniziativa sviluppatasi all’interno dell’Opera dei congressi, sotto l’egida della quale si costituì, nel 1896, la Fuci. All’inizio dell’anno successivo venne sottratta agli ambienti murriani anche «La Vita nova», trasformata in organo ufficiale del movimento e trasferita a Napoli77.
La prima fase di vita della rivista, quella del 1895-1896, fu comunque sufficiente per vedere all’opera «un nuovo tipo di giornalismo cattolico, non più chiuso nella protesta cattolico-papale, ma in grado di muoversi attorno ai temi sociali ed economici tipici di una società in trasformazione»78. Il massimo sforzo diMurri, secondo le sue stesse parole, si orientò nel tentativo di dare un «contenuto giovane» all’«involucro esteriore vecchio» del movimento cattolico. Così si esprimeva nel 1896 sulla «Vita nova», con l’obiettivo di sviluppare in direzione democratica e, se si vuole, classista i motivi tradizionali della polemica intransigente contro lo Stato liberale. Si trattava, intanto, di avvicinarsi alla vita degli universitari cattolici e di stringere i primi legami fra studenti e giovani laureati delle varie università, coinvolgendoli nelle istanze di rinnovamento religioso e spingendoli verso un crescente impegno sociale. La constatazione della crisi culturale del movimento cattolico di fronte ai processi di polarizzazione e di antagonismo sociale di fine secolo avrebbe poi condotto a una critica sempre più aperta nei riguardi dei suoi contenuti mutualistico-corporativi79.
Da qui, l’impegno del movimento di Murri a perseguire una svolta nel campo dell’organizzazione popolare. Nei primi numeri di «Cultura sociale» del gennaio 1898, Murri illustrava le linee programmatiche della rivista parlando di «politica nell’azione» e della necessità di «accompagnare passo passo, studiando ed illustrando», il movimento sociale cattolico nel suo operare quotidiano, esercitando dall’interno «una critica sana e vitale». Gli interlocutori privilegiati della rivista erano quei «giovani» che si preparavano «alla serietà dell’azione nella serietà dello studio»: facendo affidamento su di loro si poteva «preparare di lontano, per una Italia cattolica colta e rigogliosa, la formazione di un partito politico nazionale ispirato nel suo programma ai principii della fede»80.
Tornavano in Murri concetti già espressi da Toniolo e segnatamente quello della «cooperazione sociale», dal quale derivava la possibilità di una «coesistenza delle classi» regolata dal «dovere sociale» di ogni professione e gruppo economico nei confronti degli altri, in vista del «bene comune», ma con una declinazione programmatica molto più netta e precisa. In una lettera aperta a Turati del febbraio 1898, Murri scriveva:
«Adunque i mezzi che lo Stato ha per conservare l’equilibrio delle classi sono: innanzi tutto la retta amministrazione; poi la legislazione sociale, diretta appunto a rimediare agli inconvenienti dove si verifichino, col richiamare la proprietà privata, p.e. le grandi coltivazioni estensive, al proprio compito sociale, quando essa se ne allontani quasi normalmente, col regolare il passaggio da un sistema di coltivazione all’altra, con la tutela e in certi casi anche la ricostruzione della proprietà sociale, e via dicendo; poi un sistema largo e complesso di rappresentanze, di autonomie, di cooperazione, e la produzione collettiva di certi servigi nelle società politiche minori; infine, mezzo potentissimo, la distribuzione degli oneri pubblici. In caso di cooperazione normale delle classi lo Stato deve distribuire i servigi pubblici in modo che ognuna ne sia avvantaggiata quanto richiede la sua cooperazione al bene comune e paghi a seconda del valore o della utilità finale che quei servigi pubblici rappresentano per essa in particolare, esclusi dal contributo i consumi di prima necessità, e quindi abolite le imposte indirette su quei consumi e regolate le altre su d’una scala progressiva. In caso di anormalità l’imposta deve colpire i consumi parassitari in modo da assorbire l’intiera quantità malamente spesa di ricchezza e sottratta per ciò stesso a chi aveva dritto; e sollevare le classi inferiori o con l’immunità tributaria, in via di riparazione, o con favori positivi; sinché l’ordine non fosse ristabilito»81.
Pubblicando su «Cultura sociale», il 15 maggio 1899, il manifesto del costituendo partito della Democrazia cristiana (Propositi di parte cattolica. Per un partito nazionale), Murri compiva un salto evidente rispetto alla tradizione dell’Opera dei congressi, andando verso una distinzione di compiti e responsabilità tra la gerarchia ecclesiastica, l’organizzazione nazionale dei cattolici e la Democrazia cristiana. Il partito in formazione non poteva, secondo le sue parole, essere «movimento di società parrocchiali e diocesane, condotte da parroci e da prelati o da loro luogotenenti, né un movimento nel quale ci sia posto per tutti»82.
Bisognava, invece, insistere sia sul principio di autonomia delle organizzazioni di classe, sia su una cultura popolare riformulata in un’ottica pienamente democratica. Inoltre, proseguiva Murri, era necessario rientrare nel campo propriamente politico, «innanzi tutto cercando di affermarci nei municipi», ma preparandosi anche a «un utile intervento nelle elezioni politiche»83.
Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e all’inizio del Novecento questi aspetti si intrecciarono sulle pagine di una pubblicistica solitamente più vivace e ben fatta del resto della stampa cattolica. Gli effetti non si fecero attendere, se è vero che
«la parziale conversione, avviata sul finire del secolo, della tradizionale azione popolare cattolica dal mutualismo delle società operaie alle forme proto-sindacali delle unioni professionali, rurali, del lavoro, sino alle leghe bianche di resistenza, avvenne in larga misura nel contesto e sotto l’impulso culturale e spesso anche organizzativo dei democratico-cristiani»84.
I Propositi di parte cattolica, del resto, rappresentarono per molti militanti cattolici un vero programma di lavoro, sia in direzione di una organizzazione sempre più capillare, con gruppi di base da costituire in tutte le città, sia per l’attenzione verso la propaganda, con la stampa di materiale di larga diffusione e di strumenti di collegamento; toccando insomma tutti i punti essenziali per chi sognava il partito85.
La crisi del sistema liberale poneva il problema non aggirabile dello Stato-istituzione, cioè di una valutazione complessiva del potere pubblico, dell’importanza del Parlamento e delle garanzie statutarie. Pur tra molte incertezze, emergeva con Murri il disegno di un partito cattolico esplicitamente autonomo dalla Chiesa e capace di misurarsi sul piano della realtà sociale e della riforma politica86.
In questa direzione, il passo decisivo sarebbe stato compiuto, solamente più tardi, da un altro prete democratico, Luigi Sturzo. E un peso determinante avrebbero avuto le esperienze nelle amministrazioni locali e negli organi sindacali compiute, nei primi due decenni del Novecento, da tanti militanti e quadri del movimento cattolico. Le antiche idee-forza che privilegiavano il ‘sociale’ e il ‘religioso’ impararono a misurarsi sempre più con la ‘grande politica’, al contatto quotidiano con i gangli e le burocrazie di Stato87.
Alla base delle riflessioni sia di Murri che di Sturzo continuava a essere rintracciabile, tuttavia, una visione organicistica della società, una convergenza ideale tra società civile e società religiosa, che richiamava idee della cultura cattolica della Restaurazione e risaliva fino a Ventura.
1 M. Tesini, Gioacchino Ventura. La Chiesa nell’età delle rivoluzioni, Roma 1988, pp. 8-10; G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, I, Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Bari 1966, p. 40.
2 P. Scoppola, Idea di partito cattolico, in DSMC, I, 1, pp. 196-198.
3 A.M. Banti, Il Risorgimento italiano, Roma-Bari 2007, p. 44.
4 S. Fontana, La controrivoluzione cattolica in Italia (1820-1830), Brescia 1968, p. 281.
5 M. Tesini, Gioacchino Ventura, cit., p. 35.
6 S. Fontana, La controrivoluzione cattolica in Italia, cit., p. 282.
7 G. Campanini, Cristianesimo e civiltà in Ventura, in Gioacchino Ventura e il pensiero politico d’ispirazione cristiana dell’Ottocento, Atti del Seminario internazionale (Erice 1988), a cura di E. Guccione, Firenze 1991, pp. 102-103.
8 G. Ventura, Della disposizione attuale degli Spiriti in Europa rispetto alla Religione e della necessità di propagare i buoni principj per mezzo della stampa, con appendice, «Giornale ecclesiastico di Roma», 3, 1825, p. 55.
9 G. Ventura, Della disposizione attuale degli Spiriti, cit., p. 50.
10 F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna 2007, pp. 72-73.
11 A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1948, 19523, p. 18.
12 A.C. Jemolo, Movimenti religiosi nel Risorgimento, in Il 1848-1849. Conferenze fiorentine, Firenze 1950, p. 145; P. Scoppola, Idea di partito, cit., p. 199.
13 F. Traniello, introduzione a Scuola e stampa nel Risorgimento. Giornali e riviste per l’educazione prima dell’Unità, a cura di G. Chiosso, Milano 1989, pp. 7-9.
14 A. Gambaro, Premessa a F. Aporti, Scritti pedagogici, I, Educazione infantile, a cura di A. Gambaro, Torino 1944, pp. VI-VII; Id., Ferrante Aporti e gli asili nel Risorgimento. Storia e critica, introduzione a F. Aporti, Scritti pedagogici e lettere, a cura di M. Sancipriano, S.S. Macchietti, Brescia 1976, p. 3; G. Talamo, Questione scolastica e Risorgimento, in Scuola e stampa nel Risorgimento, cit., p. 14.
15 F. Traniello, Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano 1990, p. 21.
16 G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, I, Dalla Restaurazione, cit., p. 125; P. Scoppola, Idea di partito, cit., p. 199.
17 R. Lambruschini, Ai lettori, «Guida dell’educatore», 3, 1838, p. 4.
18 Ibidem, p. 5.
19 Ibidem, p. 6.
20 Con particolare riferimento a R. Lambruschini, Scritti politici e di istruzione pubblica, a cura di A. Gambaro, Firenze 1937 e R. Lambruschini, Scritti di varia filosofia e di religione, a cura di A. Gambaro, Firenze 1939.
21 F. Cambi, Lambruschini pedagogista/educatore. Prospettive di un pensiero, in Raffaello Lambruschini pedagogista della libertà, Atti del Convegno (Figline Valdarno 2005), a cura di F. Cambi, Firenze 2006, pp. 15-16.
22 R. Lambruschini, Scritti di varia filosofia e di religione, cit., p. 309.
23 Ibidem, pp. 319-320, 347.
24 Ibidem, pp. 320-321.
25 «Guida dell’educatore», novembre-dicembre 1841, poi in R. Lambruschini, Scritti politici e di istruzione pubblica, cit.
26 La sua posizione è sintetizzata da G. Gentile, introduzione a B. Spaventa, La libertà d’insegnamento. Una polemica di settant’anni fa, a cura di G. Gentile, Firenze 1920, pp. 14, 39-40.
27 R. Lambruschini, Scritti politici e di istruzione pubblica, cit., pp. 486-487, 489.
28 G. Chiosso, L’educazione del popolo nei giornali piemontesi per la scuola, in Scuola e stampa nel Risorgimento, cit., p. 31.
29 F. Traniello, introduzione a Scuola e stampa nel Risorgimento, cit., p. 8.
30 G. Fassò, Storia della filosofia del diritto, III, Ottocento e Novecento, edizione aggiornata a cura di C. Faralli, Roma-Bari 2001, p. 107.
31 I compilatori [A. Fecia, G.A. Rayneri], Introduzione, «L’educatore», 4, 1848, p. 1.
32 Scuola e stampa nel Risorgimento, cit., pp. 33-34.
33 Ibidem, pp. 57-58.
34 A. Del Ben, Da «L’Educatore Primario» a «L’Istitutore»: Rosmini, Tommaseo e altri in alcune riviste pedagogiche piemontesi del Risorgimento, in Chiesa e cultura nell’Italia dell’Ottocento, a cura di E. Barbieri, Bologna 2009, p. 28.
35 G. Chiosso, L’educazione del popolo nei giornali piemontesi per la scuola, cit., p. 61.
36 F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’Unità, Roma 1960, pp. 10, 32.
37 C. Barbagallo, Storia universale, II, Dall’età napoleonica alla fine della Prima guerra mondiale, 1799-1919, Torino 1942, 19742, p. 1342.
38 F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, cit., pp. 96-97.
39 Ibidem, pp. 99-100.
40 F. Dante, Storia della «Civiltà Cattolica» (1850-1891). Il laboratorio del Papa, Roma 1990, pp. 126-132.
41 G. De Rosa, introduzione a Civiltà Cattolica. 1850-1945. Antologia, a cura di G. De Rosa, 4 voll., Firenze 1971, p. 10.
42 I. Piazza, Un’editoria cattolica per il popolo, in Chiesa e cultura nell’Italia dell’Ottocento, cit., p. 38.
43 Storia del movimento cattolico in Italia, diretta da F. Malgeri, 6 voll., Roma 1980-1981, p. 277.
44 F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, cit., p. 100.
45 G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Dal Risorgimento a oggi, Bologna 1998, 20102, pp. 29-30.
46 «La Civiltà cattolica», 1857, 5, pp. 482-483; la recensione è datata febbraio 1857 ed è compresa nella rubrica «Annunzii bibliografici italiani».
47 S. Pivato, Don Bosco e la «Cultura popolare», in Don Bosco nella storia della cultura popolare, a cura di F. Traniello, Torino 1987, pp. 257-260.
48 A. Roveri, Movimento cattolico e lotte agrarie in area padana dalla fine dell’800 al primo ’900, in Istituto di storia contemporanea del movimento operaio e contadino di Ferrara, Il movimento cattolico italiano tra la fine dell’800 ed i primi anni del ’900. Il Congresso di Ferrara del 1899, Ferrara 1977, p. 303.
49 F. Fonzi, I cattolici e la società italiana, cit., pp. 43-46; O. Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La «Rassegna Nazionale» dal 1898 al 1908, Bologna 1971, pp. 4-5; Id., I cattolici e la «fede nella libertà». «Annali Cattolici» / «Rivista Universale» / «Rassegna Nazionale», Roma 1989, p. 46.
50 F. Traniello, Da Gioberti a Moro, cit., p. 73.
51 G. Are, I cattolici e la questione sociale in Italia. 1894-1904, Milano 1963, p. 280.
52 F. Fonzi, I cattolici e la società italiana, cit., p. 60.
53 G. Formigoni, L’Italia dei cattolici, cit., p. 45.
54 F. Traniello, Da Gioberti a Moro, cit., p. 76.
55 F. Traniello, Cattolicesimo e società moderna (Dal 1848 alla «Rerum novarum»), in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, diretta da L. Firpo, V, L’età della rivoluzione industriale, Torino 1972, p. 641.
56 M. Belardinelli, Per una storia della definizione di movimento cattolico, in DSMC, I, 1, p. 4.
57 F. Traniello, Cattolicesimo e società moderna, cit., pp. 632-633.
58 C. Brezzi, Cristiano sociali e intransigenti. L’opera di Medolago Albani fino alla “Rerum Novarum”, Roma 1971, pp. 226-232.
59 Ibidem, p. 233.
60 Contenute nella densa prefazione ibidem, p. XI.
61 G. Are, I cattolici e la questione sociale, cit., p. 14.
62 F. Traniello, Da Gioberti a Moro, cit., p. 77.
63 G. Are, I cattolici e la questione sociale, cit., p. 22.
64 Ibidem, p. 23.
65 S. Talamo, La questione sociale e i cattolici, «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie», 4, 1896, p. 184.
66 Ibidem, pp. 201-202.
67 Ibidem, pp. 211-212.
68 Ibidem, p. 213.
69 Ibidem, pp. 213-214.
70 Ibidem, pp. 215-216.
71 G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, I, Dalla Restaurazione, cit., pp. 167, 174.
72 G. Are, I cattolici e la questione sociale, cit., pp. 200 segg.
73 Ibidem, pp. 212-213, 215.
74 M. Guasco, Romolo Murri. Tra la «Cultura sociale» e «Il Domani d’Italia» (1898-1906), Roma 1988, pp. 55-56.
75 F. Traniello, Città dell’uomo. Cattolici, partito e Stato nella storia d’Italia, Bologna 1998, pp. 88-89.
76 F.M. Cecchini, introduzione a R. Murri, «La Vita nova» (1895-1896), a cura di F.M. Cecchini, Roma 1971, pp. VII, XX.
77 M.C. Giuntella, Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci) e Laureati cattolici, in DSMC, I, 1, pp. 295-301, in partic. pp. 295-296.
78 Storia del movimento cattolico in Italia, diretta da F. Malgeri, cit., p. 281.
79 F. Traniello, Da Gioberti a Moro, cit., pp. 107-108; F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, cit., pp. 212-213.
80 G. Are, I cattolici e la questione sociale, cit., p. 221.
81 Ibidem, p. 233.
82 Ibidem, p. 303.
83 Ibidem, p. 305.
84 F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, cit., p. 217.
85 M. Guasco, Romolo Murri, cit., p. 22.
86 F. Traniello, Da Gioberti a Moro, cit., pp. 110-112; F. Traniello, S. Fontana, Aspetti politico-sociali, in Romolo Murri nella storia politica e religiosa del suo tempo, Atti del Convegno di studio (Fermo 1970), a cura di G. Rossini, Roma 1972, pp. 60-61.
87 G. Vecchio, Politica e democrazia nelle riviste popolari (1919-1926), Roma 1988, pp. 78-79.