Le riviste cattoliche/2: il primo Novecento
Luogo di formazione e di confronto, la rivista fu il canale principale attraverso il quale passarono nei primi anni del Novecento le inquietudini e le ansie di riforma di una parte consistente del cattolicesimo italiano decisa a interpretare le dimensioni e gli interrogativi legati alla modernità, superando gli antichi steccati del conservatorismo clericale legato al paradigma intransigente antirisorgimentale1.
Nell’universo delle riviste edite in questo arco di tempo, «Cultura sociale» e «Il Rinnovamento» furono tra i periodici che più caratterizzarono il risveglio della cultura religiosa in Italia.
La costruzione di una «democrazia religiosa», frutto di una completa adesione della religione cristiana alla società contemporanea era lo scopo centrale della rivista romana «Cultura sociale» (1898-1906) quando venne fondata dal giovane sacerdote marchigiano Romolo Murri. Occorreva cioè, liberare «la coscienza attuosa della vita cattolica da tutte le limitazioni, le sopracostruzioni, i formalismi sotto i quali essa era nascosta e compressa» e «rivivere le norme e gli ideali della fede in modo più puro e più largo e in tutte le manifestazioni della vita privata e pubblica»2. Di qui il profondo interesse per gli studi religiosi del tempo e la necessaria distinzione fra ciò che era vivo e ciò che era morto nella Chiesa nel suo rapporto con la modernità. In questo senso si esprimeva l’articolo che apriva l’annata 1901, Alba d’un secolo, in cui Murri sottolineava la positività dell’abbandono del potere temporale dei papi e la nuova missione che la Chiesa era chiamata a svolgere nella società contemporanea. La caduta del temporalismo pontificio fu infatti un inizio,
«perché proprio da allora può datarsi il principio d’una rinascita religiosa e cattolica che riporta la Chiesa alla direzione della civiltà […] un fatto d’indole più vasta può connettersi in qualche modo a quella data: la conversione della Chiesa alla vita nuova dei popoli, alle questioni moderne, ai problemi sollevati dalla scienza nuova, alle lotte sociali: il ritorno della Chiesa […] nell’attività dei popoli moderni come forza dirigente e impellente»3
nuovo avamposto di difesa e insieme di promozione degli interessi delle classi più umili nelle quali bisognava instillare, attraverso un autonomo movimento politico democratico cristiano, una nuova coscienza, portatrice di un cattolicesimo nella sua versione sociale e «leonina»: un cattolicesimo battagliero, volto a raccogliere le sfide della modernità, capace di dar vita a un apparato dottrinale organico alternativo all’idea e alla prassi del liberalismo del ceto dirigente e del socialismo rivoluzionario.
Dal canto suo, «Il Rinnovamento» (1907-1909) fu un’impresa compiuta dalle punte più avanzate dell’aristocrazia milanese, inserite culturalmente nel tronco del cattolicesimo liberale lombardo in un territorio attraversato dalle correnti di trasformazione economica e politica dell’età giolittiana. Antonio Aiace Alfieri, Alessandro Casati e Tommaso Gallarati Scotti4 diedero vita a una rivista nella quale si svilupparono le discussioni negli ambiti della filosofia, della ricerca storica, del rapporto fra autorità e libertà, dell’esegesi dei testi sacri, dello studio di altre culture e religioni in prevalenza orientali. Le Parole di introduzione rispecchiano i caratteri della rivista: «La parola rinnovamento [si legge] indica solo un desiderio di rinnovare noi stessi e quelli che in un comune ideale ci sono vicini nella ricerca della verità […] noi non siamo dei predicatori di palingenesi sociale, non abbiamo promesse di felicità da distribuire», ma un’opera di graduale educazione delle coscienze degli italiani da realizzare nella convinzione che «per riformare la coscienza di un paese bisogna cominciare a riformare delle coscienze, o per dir meglio bisogna condurle al punto in cui la verità stessa, che è nel profondo di ciascuno, le liberi». Non una rivista «scritta per il gran pubblico», ma «una rivista di coscienze dedicata ai fratelli della nostra anima»5. Il carattere elitario de «Il Rinnovamento» non inficiava l’eticità che era alla base della sua impostazione editoriale e insieme una delle più autorevoli concezioni del cristianesimo del periodo: una concezione dinamica, storicamente presente nei suoi cambiamenti e nella forza espansiva fondata sulla forza liberatrice e ristoratrice della Verità evangelica intesa sia come dono divino che come conquista della meditazione consapevole della coscienza individuale:
«il Cristianesimo è Vita: è inesauribile aspirazione, è speranza, è anelito di tutto l’essere verso ciò che nella vita partecipa dell’eterno […] esso è per sua natura in un continuo divenire che spezza gli antichi involucri per ricrearne perennemente dei nuovi, che plasma e riplasma le forme attraverso le quali si comunica all’intelletto umano»6.
L’intento di fondo era rinsaldare il legame fra cattolicesimo e patria, fra fede e nazione, di superare i dissidi del Risorgimento e di agire per un risveglio della cultura nazionale a partire dal suo ramo religioso. Di qui il perché del richiamo a Vincenzo Gioberti, uomo di Chiesa e allo stesso tempo patriota, membro del clero e (nella prospettiva adottata dalla rivista) assertore della libertà di ricerca interiore nell’esperienza comune di fede. Il dogma, sottolineava Gallarati Scotti in un suo intervento proprio sul pensiero dell’abate torinese, era
«solo virtuale e intuitivo, non attuale e riflessivo, da ciò apparisce che per ripensarlo, crederlo, esprimerlo, uopo è determinarlo, concretizzarlo, attuarlo col pensiero, il che non si può fare senza l’aggiunta di qualche elemento opinabile […]. Questa tradizione della parola è un vero esame individuale che è inevitabile anche nel cattolicismo»7.
La lotta per la libertà della persona non poteva andare disgiunta da un’autentica vita di fede, allo stesso modo che la fede non poteva essere vissuta nella sola imposizione esterna di norme e metodi comportamentali; una visione della Chiesa come comunità di fratelli e della società come terreno fertile di inculturazione spirituale che conobbe negli ultimi fascicoli della rivista, nel ben mezzo della polemica con l’autorità ecclesiastica, le sue pagine più nobili e coraggiose.
Prima ancora di quei drammatici momenti, il foglio diede ampio spazio al pensiero e all’opera di uno dei protagonisti del movimento modernistico europeo, George Tyrrell, perché in lui ravvisava l’interpretazione più potente (non aliena tuttavia da punte eccessive di immanentismo) di come l’uomo contemporaneo avrebbe dovuto vivere il suo sentimento religioso senza rimanere ostaggio di schemi e paure. In uno dei suoi contributi Tyrrell era assai chiaro nella sua diagnosi dei mali della Chiesa cattolica e dei suoi possibili rimedi: «Quello di cui la Chiesa ha bisogno [scriveva] ora come ai giorni di Cristo, non è riforma, ma trasformazione. Riformare è restituire alla forma primitiva, come Lutero tentò di fare: ad una forma adatta ad un’età remota e perciò disadatta alla nostra»8. Ciò che emergeva era la rivendicazione di una Chiesa come realtà spirituale, come «credenza intimamente vissuta, non una teoria né un insieme di pratiche esteriori»9, ma realizzazione graduale dello spirito di Cristo in tutti i fedeli, rivelazione del Salvatore nello spazio intangibile della coscienza umana. Il cristianesimo avrebbe dovuto essere la religione della libertà politica, a proposito della quale Angelo Crespi adduceva come esempio l’Inghilterra, ove la vita sociale riceveva ampi benefici da una concezione comunitaria dello spirito religioso: «la religione suscita e mantiene il senso della responsabilità individuale evitando che si formi la mentalità di un paternalismo di stato, alimenta lo spirito di riforma e di miglioramento sociale, frena le impazienze per le realizzazioni materiali»10.
Il risveglio religioso riguardò, seppur in tono minore, anche il Mezzogiorno11. Non mancarono infatti soggetti e attività editoriali: il riferimento è a Gennaro Avolio, Carlo De Cardona, Giuseppe Traina, don Vincenzo D’Elia, i fratelli vescovi Nicola e Ignazio Monterisi12, Luigi Sturzo13 che con le loro riviste e con il loro spirito giovanile cercarono di imprimere dinamismo al movimento cattolico meridionale.
Avolio costituì con il foglio napoletano «Battaglie d’oggi» (1905-1912, quando la rivista assunse il titolo de «La Nuova riforma») una delle voci più rilevanti dell’idea democratico-cristiana murriana nel Sud. Impegno sociale, politico e religioso si intrecciarono profondamente nell’opera dell’ex tenente dell’esercito che da laico si profuse per un cambiamento radicale della Chiesa piana, laddove il cattolicesimo stentava a darsi un’organizzazione e una presenza capillare stabile e si confondeva con il clericalismo, con la copertura di ambizioni, interessi personali, vanità. Di qui la proposta di un anticlericalismo cristiano, «quello dei Santi: quello di Caterina da Siena, di Pier Damiano, di Savonarola […] i quali tutti combatterono […] l’alleanza funesta della religione con la politica, della Chiesa con i potenti della terra, con gli sfruttatori del popolo» al fine di marcare i valori ritenuti indispensabili per vivere una corretta vita cristiana: come la libertà di fronte agli eccessi delle autorità ecclesiastiche, la democrazia del Cristianesimo primitivo dinanzi «all’aristocrazia della Chiesa ufficiale», la laicità, «cioè la cessazione del privilegio e il ritorno [...] al diritto comune, che non è altro che ritorno al Cristo e al Vangelo»14.
In questa prospettiva sulle colonne del periodico trovò spazio la denuncia del disagio dei ceti più poveri, quelli più esposti ai processi di industrializzazione che stavano raggiungendo a fatica il Mezzogiorno e Napoli15. Non mancavano però le proposte per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori: abolizione del lavoro notturno, regolamentazione per l’impiego di donne e bambini, protezione e tutela della gravidanza e della maternità, riposo festivo obbligatorio, municipalizzazione dei servizi pubblici fondamentali, igiene sui posti di lavoro, fondazione di scuole per l’elevazione giuridica dei lavoratori, provvedimenti per l’invalidità e la vecchiaia, difesa degli italiani emigranti all’estero, protezione dagli infortuni, valorizzazione del ruolo femminile nella società con estensione del diritto di voto e legge sul divorzio16.
La reazione a questo complesso fenomeno di riforma sul piano pubblicistico trovò forse ne «La Civiltà cattolica» la sua espressione più importante. Sorto per difendere la dottrina cattolica e il Romano Pontefice dagli attacchi della rivoluzione liberale risorgimentale, la rivista si impose nei primi anni del Novecento soprattutto attraverso la penna di padre Enrico Rosa, sul terreno della denuncia di personalità, iniziative, idee che potevano minare l’autorità e la tradizione della disciplina cattolica. Il caso forse più clamoroso e doloroso riguardò «Il Rinnovamento», i cui protagonisti vennero definiti sprezzantemente «silenziosi riformatori»17, in polemica con il ruolo che Gallarati Scotti, Casati e Alfieri pensavano di assumere nel mondo culturale laico di orientamento cattolico.
Il primato della libertà di coscienza individuale, il rapporto con il mondo moderno e la laicità18, l’impegno politico democratico e autonomo dei cattolici nella vita pubblica, insomma i caratteri più genuini dell’esperienza modernista urtarono violentemente dinanzi allo scoglio della Prima guerra mondiale, un evento che impresse un’accelerazione forsennata al processo di riavvicinamento dei cattolici allo Stato liberale. Come ha scritto Francesco Traniello in relazione al tema nazione e cattolicesimo,
«[l’] idea che i destini della nazione fossero intimamente connessi alla sua identità cattolica e, viceversa, che la grandezza e la potenza della nazione si traducessero in gloria per la Chiesa e la religione, penetrò di fatto, oltre ogni distinzione di principio [...], nella profondità del sentire collettivo, lasciando durevoli tracce sul versante religioso come su quello politico»19.
L’atmosfera di «conciliazione silenziosa» che era stata costruita da Giovanni Giolitti nell’ottica di un liberalismo «non dottrinario ma dinamico, non dogmatico ma costruttivo e realizzatore»20 non resse nel nuovo clima nazionalista creatosi durante la guerra di Libia e consolidatosi alla vigilia del conflitto mondiale.
Per una significativa parte del laicato cattolico gli anni che vanno dalla Grande guerra all’avvento del fascismo furono il laboratorio politico-ideologico per la formazione di una cultura connotata da valori e modelli di matrice autoritaria, confessionale, tradizionalista, antitetici allo sforzo rinnovatore compiuto nel periodo precedente da uomini e riviste come per l’appunto «Il Rinnovamento» in grado di fare dell’appartenenza religiosa un terreno di incontro e dialogo con la modernità in tutti i suoi aspetti21. Insomma le lancette dell’orologio della storia culturale sembravano tornare indietro e di questo sul piano della pubblicistica fu testimone soprattutto la rivista milanese facente capo a padre Agostino Gemelli, «Vita e pensiero», fondata proprio nel dicembre 1914 assieme a Lodovico Necchi e Francesco Olgiati, quando la battaglia antimodernista pareva ormai vinta e in un clima di acceso scontro fra neutralisti e interventisti in merito a un conflitto che era già scoppiato da alcuni mesi.
La rivista apriva i battenti con un manifesto programmatico di matrice neoromantica orientato a restituire la società a Cristo e a un Medioevo inteso come dimensione spirituale in cui Chiesa e Stato, cattolicesimo e cultura, fede e ragione non erano stati separati dalla Riforma luterana, ma congiunti in una «armonica» espressione di civiltà cristiana. «Noi ci sentiamo [recitava il manifesto] profondamente lontani, nemici anzi della cosiddetta “cultura moderna”, così povera di contenuto, così scintillante di false ricchezze tutte esteriori» disgregata in tutti i suoi elementi, cresciuta nel positivismo e quindi arida spiritualmente, schiacciata sul dottrinarismo materialista e incapace di elevarsi a Dio e di riconoscere la sua potestà sugli uomini e sulle cose.
«Noi vogliamo [replicavano i redattori della rivista] invece diffondere una coltura organica, una coltura che sia il complesso armonico di tutta la nostra attività spirituale, una coltura capace di permettere alla personalità umana di svolgersi, creando il pensiero […]. E una coltura avente questi caratteri noi crediamo non possa essere data che da chi chiede i principi di vita al Medioevo».
Gemelli e i suoi collaboratori sentivano che era in corso in parallelo alla guerra delle nazioni anche una guerra delle idee, dei semi spirituali da cui sarebbe dovuta sorgere una nuova civiltà, una nuova società nazionale, una nuova umanità: «soldati di un’idea, dobbiamo vincere, perché l’idea per la quale combattiamo domina i secoli»22.
All’interno di questo umore profondamente intessuto della tradizione intransigente del Sillabo di Pio IX e della condanna quindi di tutta la cultura moderna giudicata anticristiana e inorganica, individualistica ed egoistica, la guerra era vista come il risultato conclusivo dell’apostasia dell’uomo contemporaneo dalla fede e da Dio:
«Noi guardiamo [scriveva Lodovico Necchi] con suprema tristezza a questo miserando spettacolo! E pensiamo che la felicità dei popoli, come quella degli individui, poggia su basi che non si possono impunemente scuotere o minare. L’individuo umano e l’aggregato sociale hanno anzi tutto e sopratutto bisogno di principi: hanno bisogno di sapere con certezza chi sono, perché sono, d’onde vengono, dove vanno, hanno bisogno, sia nel campo intellettuale che nel morale, dell’Assoluto!»
senza il quale la civiltà, il progresso e la scienza risultavano parole vane, vuote di valenza interiore23.
Vissuta come fenomeno espiatorio, la guerra assumeva le vesti della massima occasione storica di rigenerazione cristiana e integrale dell’Italia, per cui dinanzi al dibattito fra neutralismo e interventismo, egemonizzato rispettivamente da socialisti e nazionalisti anticlericali e statolatri, si preferiva un nazionalismo cristiano in virtù del quale i cattolici volevano sentirsi italiani, «se per italiani si intende uomini che hanno quella virtù dell’amor di patria, che oggi impone di tacere e di obbedire»24, di essere insomma sostegno al governo di Antonio Salandra (marzo 1914-giugno 1916) che aveva proclamato una neutralità temporanea volgente all’intervento.
Che questo fosse l’obiettivo di fondo della rivista emerge chiaramente negli articoli successivi, laddove si tende a sottolineare la sincerità e la forza del ritrovato patriottismo cattolico. Giacinto Tredici, ad esempio, in un suo articolo proprio sul patriottismo dei cristiani valorizzava l’amor di patria in funzione predominante rispetto al concetto evangelico dell’amore universale, della paritaria figliolanza divina:
«Tuttavia a torto si vedrebbe [scriveva] in questa universale fratellanza umana la condanna dell’idea di patria. Come l’uguaglianza di natura non impedisce che vi siano fra gli uomini diversità individuali, così non toglie le diversità di quei gruppi naturali di uomini che sono le razze e le nazioni. E la comune origine non toglie una diversa gradazione di colleganza tra gli uomini. Ne segue che noi, pur sentendoci tutti membri della grande famiglia umana, sentiamo anche di appartenere più specialmente a quel gruppo di persone che ci circondano e colle quali abbiamo comune, con un’origine più prossima, un complesso di attitudini e di tradizioni, sì da vivere con esse della medesima vita. A questo nucleo a noi più legato è dunque giusto che si volga prima che ad altri il nostro amore»25.
Da qui a una giustificazione convinta della guerra e dei suoi risvolti benefici il passo fu breve. Gemelli, discutendo proprio dei contrasti e dei paradossi della guerra, poneva in evidenza le conseguenze benefiche del conflitto definito «un male che accompagna, insieme con altri, la vita dell’uomo che è decaduto per causa del peccato originale; ma un male che può destare reazioni di bene e di giustizia, un male benefico». Tra questi benefici la formazione degli Stati nazionali impossibile senza conflitti sociali, la sua virtù pacificatrice per un diritto conculcato, la sua attività selezionatrice di popoli vecchi e decadenti per cui la guerra «viene quindi ad essere un terribile e severo eliminatore di quei popoli che hanno tradito la loro missione e uno strumento nelle mani della Provvidenza per guidare le genti»26.
L’abbinamento fra fede e patria, fra impegno nelle trincee e militanza religiosa27 si fa ancor più forte allorquando il governo sancisce la fine della neutralità e l’entrata in guerra. Notizia accolta con una nota redazionale intitolata Per la patria in cui ci si allineava tempestivamente ai doveri del momento:
«Anche questa rivista [si legge] non mancherà di cooperare all’esecuzione di questi doveri. Sentinella vigile, essa arriverà nelle case, nelle scuole, eventualmente anche nelle trincee e negli ospedali, a dire una parola di conforto e di incitamento, a svolgere la sua missione in difesa della nostra Fede, a mostrare che la grandezza della patria si realizzerà solo nei sentieri tracciati dalla mano provvidenziale di Dio»28.
L’articolo che forse più di tutti sintetizza quest’avvitamento del cattolicesimo nel tronco del nazionalismo bellicista religioso è La filosofia del cannone, in cui Gemelli, sulla scorta della sua esperienza come capitano medico nelle fila dell’esercito italiano, offriva una meditazione approfondita sulla genesi e sul significato presente e futuro dell’evento bellico. «La guerra [scriveva] come ogni altro male, è una prova morale, che trova però nella sua amarezza la dimostrazione della sua grandezza e della sua utilità […] prova austera e sublime, che nella ascensione dolorosa verso l’immortalità fa toccare all’animo i sommi gradi dell’ideale». Citando poco dopo Joseph De Maistre e la sua lettura della guerra come espressione divina, Gemelli rimarcava la ragione di fondo dell’adesione di buona parte dei cattolici ovvero la missione di palingenesi sociale e morale che avrebbe dovuto significare per la società: «Io intendo dire soltanto che l’effusione del sangue umano, per opera della guerra, nelle terribili lotte dei popoli, ha un valore speciale, per il quale esso coopera al governo divino del mondo. Lo spargimento di tanto sangue innocente è una forma di espiazione della colpa del genere umano, espiazione che ha valore di rigenerare non solo gli individui, ma anche le nazioni». Nazioni che vivono attraverso l’esperimento bellico preoccupazioni, ansie, dolori che sono «il terreno fertile, nel quale la semente divina fa germogliare gli atti della fede, della speranza e dell’amore» soprattutto nei cuori di quei giovani che davano la loro vita non solo per la grandezza politica della patria, ma anche per la sua resurrezione morale. Ecco allora che solo passando attraverso la via angusta del castigo divino l’Italia avrebbe potuto ritrovare se stessa, la sua identità cristiana, il suo spirito unitario:
«Così la guerra, anche se disastrosa, anche se sanguinosissima, anche se sventurata, viene a scuotere profondamente l’animo dell’uomo, a incidere nel più intimo del suo cuore l’amore sublime della patria, l’abitudine maschia allo sforzo, all’energia, al sacrificio, lo spirito di concordia, di amore, il senso della tradizione e della gerarchia, in una parola tutte le più elevate lezioni del vivere civile […]. Nella guerra e nella sventura le nazioni hanno appreso a prendere più solida e più vigorosa coscienza di se stesse e dei loro doveri. Durante i giorni di angoscia patriottica, hanno costrutto per i giorni della grandezza. Per esse la guerra è stato un flagello misericordioso e divino. Per angusta ad augusta».
Il conflitto era quindi il parto travagliato ma necessario per un ritorno a Cristo della società italiana, senza il quale non era possibile legame alcuno. Occorreva un «rinnovamento cristiano» capace di sfruttare al massimo l’«occasione meravigliosa della guerra» per restaurare un’Italia cattolica, una nazione fedele alla sua storia e alla sua radice spirituale in Cristo e nel suo Vicario in terra:
«Noi raccogliamo questo grido, lo facciamo nostro, per preparare l’Italia di domani, per formare un’Italia degna del suo genio cristiano e delle sue tradizioni, per formare un’Italia giovane e grande. Ecco la missione che renderà fiorente la giovinezza, che ci canta nel cuore, allorché, dopo la vittoria, deporremo il fucile, e della quale ci renderemo sempre meno indegni mediante i sacrifici e le sofferenze di oggi [...]»29.
Questa missione di riconquista cattolica della nazione non era un sentimento limitato alla sola «Vita e pensiero» ma radicato nelle coscienze di una vasta parte dei credenti italiani, persuasi che la guerra e il dopoguerra con l’inarrestabile crisi di legittimità morale e politica del liberalismo fossero gli anni giusti, più confacenti a tale impresa30.
Esempio di questa disposizione morale e politica fu la rivista fiesolana nata nel 1919, l’anno del nascente popolarismo sturziano e della caduta definitiva e ufficiale del non expedit pontificio a opera di Benedetto XV, «Fede e Ragione» fondata e diretta dal sacerdote friulano Paolo De Töth che, già collaboratore della torinese «Armonie della Fede», non ebbe difficoltà a innestare la tematica antimodernista nel vecchio solco dell’intransigenza margottiana31. La rivista cercò di promuovere una Chiesa concentrata a rinsaldare la sua struttura gerarchica attraverso l’obbedienza, la disciplina, la propaganda della tradizione pietistica e devozionale, la risoluzione della ‘questione romana’ in quanto dissoluzione del liberalismo e del popolarismo32.
Sin dai primi numeri infatti, obiettivo polemico costante fu l’aconfessionalismo del Partito popolare, giudicato inaccettabile da un cattolicesimo che mirava ad essere abito e sostanza della nuova Italia uscita stremata e disillusa dall’incubo bellico.
«Lo dichiariamo francamente [si scriveva nel dicembre 1919] noi siamo di coloro i quali pensano, credono e sono persuasi e convinti che un partito politico formato di cattolici non può e non deve essere, se non nel nome e nel titolo […] un partito cattolico; per noi hanno ragione coloro i quali […] asseriscono e sostengono che un partito di cattolici non cattolico è una contraddizione».
La dicitura di cristiano, di ispirazione cristiana adottata dal Ppi era insufficiente, lasciava zone di ambiguità entro le quali si rafforzava il veleno del laicismo, di quell’autonomismo dalla Chiesa e dal papa che screditava la coscienza cattolica dinanzi alla società italiana. «Ora, appunto per la mancanza di questo Nome, noi non ci intendiamo più, noi cittadini di un’unica patria, fratelli sopra di una medesima terra»33.
La frattura col partito di don Luigi Sturzo, considerato un fenomeno di deprecabile ‘modernismo politico’, era quindi netta e non ricomponibile già nel 1919, a segnalare le due anime del cattolicesimo italiano del primo dopoguerra (quella integralista-reazionaria e quella democratica cristiana) tanto che nel numero successivo si chiariva quale sarebbe dovuto essere il vero campo in cui operare: l’Azione cattolica. Prendendo spunto infatti da una pastorale del cardinale di Genova Tommaso Pio Boggiano, tale associazione veniva indicata come l’unica via per la salute dei cattolici tutti, come «il vero esercito armato di tutti i figli della Chiesa e del Cristo»; occorreva tornare a formare «un buon cristiano a tutta prova, convinto della sua Fede, sodamente istruito nelle cose della religione, sinceramente ossequiente alla Chiesa ed in particolare al Vicario di Cristo, il Papa», «uomini di vera, maschia virtù, di costumi intemerati, di intenzioni rette, superiori, disinteressate»34.
Riformare l’Italia voleva dire eliminare questo equivoco, questa dimenticanza di Cristo nella politica come negli altri ordinamenti della società civile.
«Tale è l’errore di tutti i partiti politici e di tutte le associazioni economiche e sociali, nazionali ed estere, di cattolici a base autonoma e aconfessionale, i due cancri che, rampollo e germoglio del modernismo o sia […] del naturalismo più puro e autentico, logorano e rodono le opere dei cattolici nei quali per la infatuazione pestifera del liberalismo, è venuto e viene, pur troppo!, sempre più diminuendo il sentimento della verità»35.
L’Italia se voleva liberarsi dal suo particolare ‘peccato originale’ (la breccia di Porta Pia e l’usurpazione della Roma papale per quella monarchica liberale) avrebbe dovuto ritrovare come suo esclusivo fondamento la dottrina cattolica, abbandonare una volta per tutte il magistero liberale foriero inevitabile di socialismo e anarchismo e abbracciare la fede come perno attorno a cui far ruotare il concetto di patria in un quadro di aperta restaurazione autoritaria e cristiana del consorzio civile. «Oggi più che mai è il tempo [si scriveva nel febbraio 1921, quando il paese era sconvolto da violenti scontri di piazza e da instabilità di governo] dei fatti e non delle formule; più che mai il tempo del potere e delle responsabilità assoluti. Il popolo vuole avere, vuole sentire la mano che lo governa»36. Tutto ciò però non voleva indicare un consenso facile al fascismo che al contrario fu duramente criticato almeno fino alla sua presa del potere, a causa della sua impostazione repubblicana e massonica che vanificava il suo impegno antisocialista. «È inutile illudersi: [scriveva la rivista nell’aprile del 1921] l’Italia, in sfacelo, è portata alla deriva dalle fazioni e dalle sette. Le quali si preparano, dopo di aver dati i colpi estremi al regime politico, ad assaltare la Chiesa»37. Ancora nel settembre 1922, «Fede e ragione» lanciava un monito ai cattolici di stare in guardia dinanzi al pericolo fascista, «Chi non vede la tempesta che si addensa è un cieco o è un traditore: pensiamoci e, finalmente, scuotiamoci. Non è don Sturzo, non è il Cornaggia, non sono i partiti quelli che noi cattolici possono salvarci: noi ci salveremo e trionferemo unicamente obbedendo e stando fedeli alla Chiesa»38.
Ma i primi provvedimenti in materia di massoneria, di insegnamento religioso e di crocefisso nelle scuole adottati dal nuovo governo fascista, per una rivista cattolica che amava issare la bandiera spiegata della propria fede davanti a qualunque tipo di avversario e interlocutore, fecero intravedere in Mussolini l’uomo di un nuovo tempo della storia italiana, lontano dalle ostilità e diffidenze del periodo liberale. Un primo segno di questo cambiamento di rotta è riscontrabile nel dicembre 1922 allorché la direzione invitava il regime ad accostare alla forza il consenso, un consenso reperibile solo attraverso l’appoggio cattolico:
«Per governare la forza non basta. Bisogna sia unita alla sapienza. La quale non è […] la minuscola sapienza del ragioniere o dell’economista […]. È la sapienza dei governanti, che sanno qual’è il loro posto nella divina gerarchia dei poteri, stabilita da Dio, che sanno di poter esigere l’obbedienza dai sudditi, perché anch’essi, alla loro volta, obbediscono a chi li ha costituiti»39.
In questo contesto va letto il lungo articolo Politica e Religione in cui viene ben delineato il rapporto di subordinazione dello Stato alla Chiesa, della ragione umana alla fede cattolica:
«Non potendo lo Stato essere amorale, né avendo in sé la fonte della moralità, esso dovrà rimettersi e soggettarsi al giudizio della Chiesa e ricevere da lei le norme per cui ogni sua legislazione riesca conforme al dettato della ragione e della legge di Dio, regola suprema di ogni moralità. Non potendo lo Stato essere Dio – il dio Stato o lo stato-dio è un assurdo di pazzi –, esso dovrà accettare e ricevere la religione dalla Chiesa, che è la rappresentanza di Dio sulla terra»;
ciò nella convinzione che una
«pura politica in senso assoluto non esiste, che nel fondo di ogni questione politica e sociale v’è una questione teologica, stanteché nel mondo non possa pensarsi altro ordine fuori di quello che Dio ha stabilito e di cui la Chiesa, per volontà di Dio e del Cristo, per la salute degli uomini, venne costituita vindice e ministra»40.
Insomma i cattolici di «Fede e ragione», espressione della persistenza della tradizione intransigente e antidemocratica all’interno della cultura cattolica, ben speravano nell’avvento del nuovo governo fascista, pur ribadendo in più circostanze la loro esclusiva appartenenza al cristianesimo come ‘nome’ e al cattolicesimo come ‘cognome’, quindi a una identità irriducibile ai partiti e ai movimenti. Indicativa al riguardo era la lettera aperta indirizzata a Mussolini, di poco successiva alle elezioni del 6 aprile del 1924 che avevano consolidato il potere politico del fascismo e la sensazione che un nuovo capitolo dei rapporti fra Chiesa e Santa Sede si fosse aperto, improntato a una «risurrezione nazionale»41.
Il consolidamento del regime fascista e soprattutto la stipula dei Patti Lateranensi nel febbraio 1929, determinarono una situazione nella quale i cattolici avvertivano come concreta la possibilità di egemonizzare la cultura e la società italiana sulla base del magistero pontificio (in particolare delle due encicliche programmatiche di Pio XI: la Ubi arcano Dei e la Quas Primas, rispettivamente del 1922 e del 1925) e della dottrina tomista. Insomma, rimarginata la ‘ferita’ secolare inferta dalla breccia di Porta Pia e sconfitto definitivamente il liberalismo, per i circoli più importanti e influenti della cultura cattolica italiana, a partire dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano guidata da Gemelli, era giunto il momento di ‘edificare’ sul favorevole terreno fascista una nuova civiltà cristiana già preannunziata nel 1914 ma ora in grado di tradursi nella realtà politica e civile con i nuovi spazi di azione assicurati dal Concordato42, pur tuttavia non riuscendo nell’obiettivo di ‘catturare’ a sé il fascismo, che riuscì a mantenere la sua autonoma specificità ideologica e politica totalitaria43.
Si assisteva sul piano della produzione di cultura allo sviluppo di un cattolicesimo fascista ovvero di un’esperienza intellettuale che vide nel movimento delle camicie nere, diventato espressione unica dello Stato italiano, un fatto nuovo, rivoluzionario, moderno e non soltanto reazionario, con cui non solo bisognava collaborare ma verso cui occorreva svolgere una funzione di apostolato per fornire alla popolazione una nuova classe dirigente, caratterizzata da una visione della vita e della politica alternativa all’idealismo assoluto di Giovanni Gentile, considerato il principale ostacolo sul piano filosofico per via del suo radicale immanentismo tendente a fagocitare il cristianesimo e incorporarlo nella sua filosofia neo-hegeliana, base della dottrina dello Stato etico.
Cardini di questa stagione culturale erano: il primato della società sull’individuo, fondato sulla identificazione totale della verità comunitaria con quella ‘teologica’; un’interpretazione apocalittica del malessere sociale contemporaneo, incominciando dalla apostasia dell’Europa dal cattolicesimo iniziata con la Riforma di Lutero44; il rigetto e il disprezzo dei principi liberali e democratici del 1789 francese in una percezione radicalmente pessimistica delle capacità individuali e della libertà laica della persona; la conseguente ipotesi ricostruttiva incentrata sulla formula politica ‘organica’ caratterizzata dall’opzione nazionale e cattolica di un Stato autoritario.
In questo quadro di concetti trovano il loro pieno senso storico le attività pubblicistiche svolte, legate a figure centrali del periodo quali il già menzionato Gemelli ed Egilberto Martire.
Le riviste della Cattolica («Vita e pensiero», e «Rivista internazionale di scienze sociali» in particolare) sintetizzarono con lucidità questo proposito di cambiamento rivoluzionario e nello stesso tempo di restaurazione cristiana della società, di «modernismo reazionario»45, mirante a essere l’alternativa radicale alla modernità democratica, capitalistica e individualistica in un Novecento immaginato come il secolo del ritorno a Dio dopo che l’Ottocento era stato vissuto come il periodo del predominio della massoneria, dell’anticlericalismo e del laicismo: «L’Italia [scriveva Gemelli nel 1934] è stata la prima che nel mondo contemporaneo ha segnato il nuovo orientamento anti-individualista. E furono, in principio, derisioni, incomprensioni, disprezzi. Ma a poco a poco il significato storico dell’opera di Benito Mussolini fu apprezzato e seguito».
Occorreva, dinanzi alla minaccia internazionale del comunismo, unirsi al fascismo, baluardo di ordine e stabilità in un mondo in preda a guerre e rivoluzioni atee: «Il nome di Benito Mussolini [proclamava il rettore] significa la speranza che un giorno tutta l’Europa sarà guarita da questa spaventosa epidemia». I collaboratori della Cattolica, vista la drammatica situazione della guerra civile spagnola, erano chiamati a essere «i migliori soldati ai quali è affidata la difesa della civiltà cristiana ed italiana». «Vita e pensiero» dedicava un numero speciale alla lotta fatale, escatologica al comunismo, risultato finale della degenerazione protestante. A una visione critica del regime nazista si accompagna l’entusiasmo con il quale si prepara e segue la campagna d’Etiopia, giudicata su «Vita e pensiero» un passaggio obbligato per un’opera di civilizzazione cristiana portata avanti da un popolo risorto alla luce della fede. Scriveva Mario Alberti nel dicembre 1935: «Gli italiani concepiscono le attività coloniali come una missione di civiltà e di elevamento morale, e non come un metodo di appropriazione e di sfruttamento... l’Italia è stata moralmente costretta a far liberare da un dominio barbarico e straniero le popolazioni soggette al potere dispotico e regressivo di Addis Abeba»46.
Sulle pagine de «La Rassegna romana» di Martire la formula ‘Roma-Cattolicesimo-Italia-Fascismo’ diventava il tratto peculiare di una rivista che nasceva proprio nel 1929 e che finiva nel 1938, allorché questa formula parve minacciata dall’avvicinamento fascista alla Germania di Hitler. Presentandosi al pubblico il periodico recava queste parole: «La Rassegna sorge nel nome di Roma e nell’ora solenne in cui lo splendore dell’Urbe appare rinnovato al cospetto del popolo italiano e di tutti i popoli […] la grande pace del Laterano sanziona anche nell’ordine giuridico la duplice incomparabile maestà di Roma “cuore e madre del mondo cattolico, cuore e madre della Nazione Italiana”». Il topos del primato della Roma cristiana e imperiale diveniva il fulcro del consenso cattolico al regime, laddove questo lineamento fosse stato oscurato per altre ideologie e obiettivi anzitutto culturali, come lasciava intendere l’alleanza con Hitler, allora anche la funzione storica del connubio fra Chiesa e fascismo sarebbe venuta meno. Al germanista Guido Manacorda infatti, che pretendeva di porre ai cattolici il dilemma «con o contro il fascismo» nei termini di «con o contro Roma», Martire replicava nel 1936: «Ma questo bivio è nell’ordine spirituale e solo mediatamente nell’ordine politico. Perché il dilemma del M. abbia un valore occorre che questa sua “Roma” sia uguale a “Chiesa cattolica” [...] Insomma, noi riteniamo […] che non sia esatto né opportuno stabilire una eguaglianza assoluta tra Fascismo e Cattolicismo»: il vincolo fra i due soggetti storici avrebbe dovuto attingere la propria forza nella consapevolezza della distinzione delle due sfere di incidenza, l’una politica l’altra spirituale, parallelamente impegnate a costruire una civiltà fascista perché cristiana e non viceversa: l’avallo dato invece dal duce all’accordo con Hitler vanificò questa aspirazione culturale e politica e suggellò la fine della rivista divenuta ormai scomoda47.
Fondata a Firenze nel 1929 da Piero Bargellini e Domenico Giuliotti (già promotore del foglio antimodernista e reazionario senese «La Torre», del 1913) la rivista «Il Frontespizio» cercò anch’essa di fare del cattolicesimo il perno attorno al quale far ruotare in chiave antigentiliana la cultura italiana durante gli anni del regime fascista ma con una maggiore elasticità e articolazione di propositi rispetto al prevalente integralismo cattolico-fascista di un Gemelli o di un Martire. Al foglio toscano presero parte diverse generazioni di scrittori e di intellettuali italiani e stranieri come Nicola Lisi, Carlo Betocchi, Carlo Bo (promotore dell’ermetismo in letteratura), Giovanni Papini e don Giuseppe De Luca.
Svolgendo un rapido ‘giro d’orizzonte’ De Luca poneva in evidenza quale avrebbe dovuto essere la prospettiva che la Chiesa cattolica avrebbe dovuto adottare di fronte alla questione religiosa: «i problemi religiosi [scriveva il sacerdote romano] […] non possono impostarsi altro che tra Roma cattolica e la varia eresia. Il secondo millennio cristiano è pieno del tragico dissidio, oscilla tutto fra i due poli che si è detto: o cattolici o eretici»48. Di qui la duplice sollecitazione ad assimilare quanto c’era di buono nella modernità (in questo caso nella ricerca storica e religiosa) in un’ottica che permaneva comunque gelosamente cattolica, non disposta a un dialogo autenticamente libero con altre confessioni e realtà intellettuali; e ad attingere la vera fede alle «fontane della pietà»: ossia alla sofferenza scaturita da una prassi di vita ascetica e allo sforzo di unione a Cristo «col proposito di non vivere più una vita vana e illusoria, ma vivere, meglio che si possa per noi, la vita medesima di Gesù»49.
A questo tipo di cattolicesimo vissuto prevalentemente nella sua dimensione pietistica e mistica si affiancava il temperamento poliedrico di Papini, proveniente dall’esperienza della iconoclastia delle avanguardie del primo Novecento, dal radicalismo nazionale antigiolittiano e promotore del primato della romanità come espressione più alta dell’italianità fascista. In questo senso il suo ritratto-necrologio di Pio XI assume particolare rilievo. In Pio XI, papa romano Papini sottolineava di Achille Ratti soprattutto «l’amore per la grandezza e la dignità della Chiesa, il profondissimo affetto per l’Italia unita e per la sua gloria», retaggio della sua educazione nella terra della Lombardia ottocentesca, quella del Manzoni, del suo liberalismo credente che finalmente con la Conciliazione vedeva riunirsi al Gioberti, visto stavolta come profeta del primato spirituale e politico della nuova Italia: «le due Rome – la Roma di Augusto e la Roma di Gregorio Magno – per tanti secoli separate, e solo da sessant’anni materialmente riunite, poterono così ricongiungersi, grazie all’uomo “inviato dalla Provvidenza” e all’uomo prescelto dallo Spirito Santo»50.
Questa convinzione (seppur sfumata nei diversi personaggi dell’esperienza pubblicistica trattata) di vivere col fascismo un’epoca insieme nuova e antica, tradizionalistica e moderna, illuminata sia dal magistero della Roma dei papi che dal mito palingenetico fascista della Roma imperiale, capitale di una nuova civiltà51, caratterizzò la rivista fino al congedo del dicembre 1940, in cui Barna Occhini rivendicava il bisogno di continuare questa «missione di civiltà»: «Si tratta, evidentemente, di riconquistare l’idea, e scriviamola pure con la lettera maiuscola, l’Idea della romanità, della cattolicità, della classicità. Essa vive in un cielo eterno dell’uomo; non mai si vuota nelle congiunture della storia»52.
Il progressivo avvicinamento fascista alla Germania e alla sua campagna duramente razzista nella seconda metà degli anni Trenta, fece maturare all’interno della coscienza cattolica un atteggiamento di critica verso un’alleanza che veniva vista come innaturale per un paese vincolato dalla sua storia e dalla sua tradizione al mito universalistico della Roma cristiana. Di qui la consapevolezza nei cattolici, resa ancor più forte dallo scoppio del Secondo conflitto mondiale, di dover agire per un avvenire in cui si sarebbe dovuto continuare a coltivare il progetto di riconquista della società in ottemperanza alle direttive del nuovo pontefice, Pio XII, contenute nella sua enciclica di inizio magistero, Summi Pontificatus.
In questa cornice di rivendicato primato spirituale della dottrina tradizionale cattolica contro qualsiasi ideologia mondana va collocata l’avventura di «Principi», rivista mensile fiorentina nata nel gennaio 1939 come supplemento al foglio ascetico del convento domenicano di S. Marco di Fiesole, «Vita cristiana», e durata un solo anno perché soppressa dalle autorità governative. «È innegabile [si legge nel numero primo del foglio fondato da Giorgio La Pira] che la complessità e la disarmonia sociale e culturale del nostro tempo ha posto questo problema in primo piano: urge, il ritorno alla luce chiarificatrice dei principi»53. Principi che avrebbero dovuto essere rivelati esclusivamente alla luce della teologia cattolica, qualsiasi altra tradizione di pensiero e di azione era ritenuta falsa e nociva per l’uomo e la società.
Ciò che si proponeva sulla scorta dell’insegnamento dei Padri e dei dottori della Chiesa (s. Tommaso e s. Agostino anzitutto) e della Grecia classica (Platone e Aristotele) era una concezione teocentrica e organicistica della vita umana per cui tutto era finalizzato al possesso mistico di Dio, all’unione col Primo Amore e Bene supremo in virtù della sua azione di attrazione verso la volontà e l’intelligenza di ciascun uomo:
«Il valore della persona umana [affermava Giorgio La Pira] è costituito dal suo essere spirituale che viene da Dio e che tende intrinsecamente a Dio […]. Il posto che la persona umana occupa nella creazione e nella società è, esso pure, definito dal fine a cui la persona tende. Tutti i valori creati, compresi quelli sociali […] hanno per l’uomo funzione di mezzo […] costituiscono quella scelta gerarchica di valori che egli deve normalmente percorrere per giungere al suo ultimo fine; sono l’itinerario al termine e al di là del quale c’è il riposo e la perfezione: Dio raggiunto e posseduto per sempre […]»54.
Gli uomini erano tutti fratelli (affermazione coraggiosa in un clima avvelenato dalla propaganda nazifascista) perché figli di uno stesso Dio, ma insieme diseguali perché fra di loro c’era una gerarchia «i cui gradi sono definiti dalla intensità di desiderio con cui gli uomini tendono al loro fine supremo». Solo l’intrinseca ordinazione e armonizzazione dell’individuo con gli altri nell’ambito della struttura armonica e unitaria di tutto il genere umano suddiviso per ‘cerchi concentrici’ (famiglia, città, nazione e in ultimo l’umanità) e il suo amore verso Dio qualificavano la specificità della dignità umana55.
Si proponeva l’immagine del Medioevo come tempo nel quale il moto separatista della Riforma luterana e le sue conseguenze politiche, a partire dal liberalismo, ancora non avevano intaccato l’unità di comando in mano alla Chiesa di Roma e in particolare al suo Vicario: il Papa.
«Il tempo posteriore [precisava La Pira] ha corretto qualche contorno, che era, forse, troppo rigido […] ma questo assoluto primato dello spirituale, questa legittima potestà di comando della Chiesa negli affari fondamentali delle nazioni cristiane, costituisce una verità che ha la saldezza di una verità di fede: subesse Romano Pontifici omni humanae creaturae declaramus, dicimus, definimus et pronuntiamus esse de necessitate salutis (bolla unam sanctam) […]. L’ideale ha avuto attuazioni concrete: e la respublica christianorum è non solo un documento del passato, ma anche una aspirazione – l’unica! – del presente»56.
I riferimenti al passato antecedente l’Illuminismo e la Rivoluzione francese non erano qualcosa di estrinseco al foglio ma la traccia della radicata aderenza a un magistero cattolico intransigente che, sotto il pontificato di Pio XI e ora con quello di Eugenio Pacelli, rimaneva elemento cardine di una Chiesa intesa come societas perfecta, corpo mistico di Cristo e come tale depositaria unica del bene e della salvezza civile e spirituale dell’intera umanità. La Pira e i suoi collaboratori (Piero Marrucchi, Stanislao Ceschi e altri ancora) sottolinearono nelle pagine della rivista più volte questo aspetto di primazia spirituale e secolare sulle genti da parte della Chiesa cattolica: «Fra la società precristiana e quella germogliata dal cristianesimo esiste una netta differenza: perché solo la seconda possiede nella sua struttura, visibilmente, un centro interiore di unificazione nel quale, infine, è possibile fondare stabilmente – quando che sia! – l’equilibrio, l’unità, la prosperità e la pace dei popoli»57.
Ecco allora che dinanzi alla catastrofe della guerra appena esplosa, la rivista assunse un criterio di analisi che metteva in evidenza il carattere di crociata che i cristiani, sulle orme di Gregorio VII, erano chiamati a condurre contro il paganesimo nazista e l’ateismo comunista in quel frangente storico alleati nel distruggere la fragile Polonia: «Tempo di crociata è il nostro; l’invito ardimentoso del grande e santo Gregorio VII ha sapore di attualità; bisogna decisamente affrontare e debellare un nemico che cerca di abbattere le fondamenta sociali della civiltà cristiana»58. Nella prospettiva neomedievalistica della rivista, la realtà del secolo XI e quella attuale non conoscevano diversità: ieri come oggi occorreva fronteggiare l’insidia arrecata da «tiranni nemici di Cristo» (i comunisti atei e i nazisti neopagani) che cercavano di sostituire il divino Redentore alla base del consorzio umano con altri riferimenti religiosi: la razza, lo Stato e il proletariato.
«Principi» nei suoi ultimi numeri accentua ancor più la critica verso il regime fascista e la situazione italiana, ponendo il dovere dell’obbedienza alla legge in quanto tale e non all’arbitrio di un uomo solo59: «Se comanda l’uomo e non la legge, la libertà è alla mercé dell’arbitrio di chi comanda; se comanda la legge la libertà è saldamente garantita; perché la legge precisa immutabilmente i confini entro i quali l’uomo può liberamente operare»60. Esempio di quest’approccio antifascista è l’articolo di chiusura della rivista: Precisazioni: mistica cattolica, nel quale si rivendicava l’originalità cristiana di questa espressione usata e inflazionata dai potentati del regime per esaltare la figura di Mussolini e che invece avrebbe dovuto tornare ad essere patrimonio esclusivo della prassi religiosa cattolica e romana: «Per i cristiani – e per gli uomini di buon senso – la parola mistica non esprime che una sola realtà: quella della unione dell’anima con Dio». Denuncia che poneva la rivista nell’alveo di un antifascismo maturato nella consapevolezza dell’allontanamento dello stesso fascismo dal cattolicesimo romano e dell’abbraccio letale col nazismo.
Il vasto ‘consenso’ tributato dalla componente cattolica di fronte al fascismo, motivato da convinta adesione o da strumentale interesse di predominio culturale, non esaurì di certo le voci e le sensibilità del cattolicesimo italiano. I fermenti di libertà, di partecipazione alla modernità democratica, pluralistica e laica del primo Novecento non si diluirono soltanto nella zona grigia di un neoguelfismo integralista e reazionario, ma seppero essere il lievito di esprimenti pubblicistici che dagli anni Venti fino alla Resistenza e oltre determinarono esperienze di ferma opposizione alla dittatura e di riscatto nazionale.
In questo senso il Partito popolare italiano, stretto fra la crisi irreversibile dello Stato liberale e l’intransigentismo ierocratico promosso da Pio XI, seppe comunque dar vita a riviste espressione di una capacità di analisi e di critica del reale coraggiosa e innovativa, in un clima di paura e di conformismo religioso incipiente quale era quello dei primi anni Venti.
Modello di un popolarismo moderato, «Civitas», fondata nel 1919 da Filippo Meda, si impegnò nella ricerca di una temperanza politica in grado di legarsi a una visione dinamica della vita e della storia, per cui capacità, competenze tecniche, formazione religiosa, culturale e politica erano momenti di un unico processo che definiva concretamente l’antifascismo cattolico. Un antifascismo che seppure cauto inizialmente, mantenne salda la tutela imprescindibile dell’autorità dello Stato inteso come bene generale e non solo di una fazione, dato che rinviava alla tradizione cattolica liberale diffidente dei partiti in quanto componenti centrali dell’architettura statale ma contemporaneamente antidoto a quel progetto di ricostruzione ierocratica della società messo in campo in questo periodo. «L’atteggiamento di Meda», ha osservato Giorgio Vecchio, «contribuiva, pur sconfitto, a riportare invece la politica sul suo terreno proprio, quello di una costruzione laica e se si vuole prosaica delle strutture più adeguate a regolare la convivenza collettiva»61, forte della solidità della sua ispirazione cristiana e volta all’avvenire, a una riforma delle istituzioni in senso democratico e responsabilizzante ciascun deputato e uomo di governo, come si evince in un articolo del marzo 1920 sulla crisi dello Stato italiano: «Si pone così il dilemma: o confessare la impotenza legislativa, od allargare le facoltà del potere esecutivo a danno del Parlamento»62. La risposta di Meda e di «Civitas» era la proposta di un reale decentramento amministrativo e la creazione di corpi tecnici che elaborassero il materiale delle leggi, riservando al Parlamento il solo esame politico. Ma per fare questo occorreva, a monte, la coscienza della necessità di una politica di collaborazione, «ispirata da un alto senso di responsabilità» per un «graduale risanamento degli istituti statali, e il rinvigorimento del potere sociale sovrano e dominatore in mezzo agli interessi ed ai programmi delle classi e delle scuole».
Queste e altre iniziative culturali furono oscurate dalla repressione fascista, agevolata anche dalla scelta vaticana di liquidare l’esperienza popolare e affidarsi alla diplomazia dei vertici al fine di trovare un proficuo modus vivendi col nascente regime. Gli anni che seguirono furono così scanditi da una prevalente volontà di scolpire sulla materia fascista un particolare modello di cristianità e di cattolicesimo conservatore e paternalistico piuttosto che a edificare un’alternativa efficace all’assetto di potere vigente e a operare per una effettiva opera di autonomia culturale e di rinnovamento liturgico, presente ciò nonostante in alcune riviste dell’Azione cattolica, a cominciare da «Studium», che seppe interagire con le riviste più attive e intraprendenti del cattolicesimo democratico e sociale europeo come «La Vie intellectuelle», la «Nouvelle revue théologique», «La Vie catholique»63.
Germi, questi ultimi, destinati a maturare nel periodo resistenziale, quando i cattolici furono parte attiva nel processo di liberazione nazionale: testimonianza di ciò fu l’intensa attività pubblicistica messa in campo subito dopo l’8 settembre 1943. «Il Popolo», che fu l’organo del vecchio partito popolare, ricominciò le pubblicazioni a Roma il 23 ottobre per iniziativa di Giuseppe Spataro, Guido Gonella, Mario Scelba e Alcide De Gasperi, motore dell’iniziativa editoriale e intento a dare alla rivista un tono moderato, riformista alieno dagli accenti radicali, se non rivoluzionari, di altri fogli di estrazione cattolica come la «Voce operaia», organo del Movimento dei cattolici comunisti, diretto da Fedele D’Amico e diffuso ampiamente, specie a Roma: obiettivo del foglio era congiungere la causa di libertà degli operai con quella della Chiesa affinché quest’ultima non ritornasse di nuovo su posizioni conservatrici e filofasciste64.
Ma il cattolicesimo fascista con tutta la sua carica integralistica era ormai al tramonto. Lo spirito di riforma pacifica delle coscienze e di distacco dal quadro autoritario prevaleva nelle menti e nei cuori dei combattenti per la libertà, convinti che occorresse operare, come si legge sulla rivista della formazione partigiana bresciana Fiamme verdi, «Il Ribelle», per una città «più libera, più giusta, più solidale», attraversata dalla fede nella forza salvifica delle idee65.
La rivista cattolica voleva essere, negli anni del dopoguerra, palestra libera di formazione religiosa e culturale, genuino elemento prepolitico in grado di interagire con la società in funzione propositiva per non rimanere attardata rispetto a un rinnovato risveglio culturale laico «caratterizzato dal desiderio impaziente di esplorare le nuove terre che nel frattempo erano emerse [...], dal bisogno di un sapere più positivo»66. Su questi due versanti nasce l’esperienza che chiude di fatto la prima metà del Novecento, «Cronache sociali», fondata nel 1947 da Giuseppe Dossetti, diretta da Giuseppe Glisenti, e che sperimentò, con il gruppo dei ‘professorini’ della Cattolica di Milano (La Pira, Giuseppe Lazzati e Amintore Fanfani), l’‘utopia’ di una cultura politica religiosa capace di tessere un fitto dialogo con le diversità religiose, politiche, culturali del paese senza pretese dominanti. Lo scopo era fare del periodico, come si legge nel primo numero della rivista (maggio 1947), una «zona d’incontro» fra uomini e donne diversi per formazione e prospettive politiche nella convinzione «che tutto quello che è dell’uomo è degno di considerazione». Ecco quindi la ragione di fondo di quella «politica umana» consistente nella discussione della sostanza viva dei problemi dell’uomo contemporaneo: dalla politica, all’economia, agli scenari internazionali, all’esigenza di incrementare la spinta ecumenica, alla faticosa richiesta di un cristianesimo profano non ostaggio del dogma ma proteso all’ascolto umile e paziente della realtà di un Paese, l’Italia, e di un mondo profondamente cambiati in pochi anni.
Impegnata nella missione di evitare che la Democrazia cristiana diventasse un partito conservatore, «Cronache sociali» voleva essere semplicemente una rivista fatta da cristiani e non una rivista cattolica tout court. Evidente l’importanza di questa distinzione: si voleva dimostrare che era possibile scrivere, dar vita a una stampa senza per questo sfociare in prospettive confessionali, in egoismi corporativi. Non c’era più infatti un sogno restauratore da realizzare ma una nuova esigenza di laicità cristianamente ispirata da esprimere sulla via segnata dall’umanesimo integrale di Jacques Maritain e dal personalismo comunitario di Emmanuel Mounier:
«La via è profana [si dichiara nel settimo numero del 1949] La via è comune a tutti. Noi non conosciamo questa via: ecco tutto. Perciò occorrono delle riviste che non siano riviste cattoliche, ma riviste fatte da cattolici, riviste fatte da cristiani; le quali partano da questo punto di vista, che noi non conosciamo la via e la cerchiamo insieme agli altri, tutti».
In questo senso davvero, come ha osservato Alberto Melloni, «Cronache sociali» pur nella sua breve durata (1947-1951) lavorava a formare una generazione nel cui rigore di linguaggio e di cultura ci fosse la radice di un antifascismo non meramente ideologico e decorativo67.
L’immagine conclusiva che si ricava dall’analisi dei temi e dei soggetti espressi dalla pubblicistica periodica cattolica della prima metà del Novecento, è quella di una Chiesa che vive la dimensione difficile del secolo XX cercando di volta in volta di registrare su diversi rapporti il vincolo con la nazione italiana. Stato e istituzione ecclesiastica svilupparono un dialogo complesso che ebbe nella rivista, invenzione tipicamente moderna, il luogo principale di espressione abbinato alla estensione progressiva del pubblico dei lettori non ristretti come nei secoli precedenti a un’élite culturale ma massificato e insieme diversificato nei suoi interessi e nelle sue articolazioni dai processi di modernizzazione che investirono anche il campo della comunicazione.
La definizione data al Novecento come «secolo d’oro» delle riviste68 trova ampia conferma nella parte avuta dal laicato e clero cattolico nella promozione di periodici capaci di esprimere stagioni di pensiero, zone di incontro di personalità religiose e non, e insieme motori di cambiamento, di riforma, di aggiornamento di una Chiesa chiamata a rispondere alle sfide e agli scenari delle varie epoche interne agli stessi primi cinquant’anni del Novecento.
Dal modernismo all’avvento di un nazionalismo religioso sempre più aggressivo, ai progetti di restaurazione cristiana della società durante il periodo fascista, dal sentimento di crisi di civiltà con l’approssimarsi del Secondo conflitto mondiale allo sforzo di un cattolicesimo democratico di sopravvivere in questo clima di chiusura al dialogo per riemergere negli anni della liberazione, la rivista cattolica fu il sismografo di tutti questi movimenti, intrecci di voci e prospettive che restituiscono il respiro vitale di una cultura drammaticamente attraversata da profonde tensioni, speranze e illusioni che l’hanno resa di fatto componente indispensabile nella comprensione della storia civile italiana.
Da «Il Rinnovamento» a «Cronache sociali», il tragitto compiuto dal cattolicesimo italiano in tutte le sue frastagliate componenti è stato molto lungo e complicato. In mezzo si ritrovano l’esperienza dell’antimodernismo, la Grande guerra, il ventennio fascista che significarono per il cattolicesimo una scelta consapevole di una identità, di una partecipazione a momenti e dinamiche di potere ben caratterizzati della vita nazionale, in un quadro generale di rapporti con il profano e la modernità laica e democratica discontinuo, fatto di aperture e pericolosi ripiegamenti conservatori, in cui, specie in epoca fascista, la secolarizzazione era vista come il nemico da abbattere nelle sue manifestazioni politiche, a partire dal liberalismo, e allo stesso tempo come la dimensione entro cui ricostruire un nuovo regno sociale di Cristo. Di qui l’‘incontro’ con l’ala culturale intransigente e reazionaria del regime (quella posta in essere da Curzio Malaparte, Emilio Settimelli, Mario Carli e dalle loro riviste «Conquista dello Stato» e «L’Impero») secondo la quale il fascismo rappresentava una risposta definitiva alla crisi della civiltà moderna, responsabile di quel capovolgimento di valori per cui ciò che la latinità aveva condannato (individualismo borghese e modello di sviluppo capitalistico in una società secolarizzata) come «barbaro» era diventato «motivo di orgoglio»69.
Proprio perché rivelatrici dei sentieri culturali e politici della storia nazionale, quindi, le riviste rimangono uno strumento indispensabile per interpretare il volto inquieto e difforme del Novecento italiano.
1 Cfr. P. Scoppola, Crisi modernista e rinnovamento cattolico, Bologna 19755; G. Martina, Storia della Chiesa. Da Lutero ai nostri giorni, IV, L’età contemporanea, Brescia 1995; L. Demofonti, La Riforma nell’Italia del primo Novecento. Gruppi e riviste di ispirazione evangelica, Roma 2003; A. Zambarbieri, Rinnovamento spirituale e cultura nell’Italia del primo Novecento, «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 16, 2009, pp. 15-39. Per uno sguardo generale sulla cultura italiana cfr. A. Asor Rosa, La cultura, in St.It.Annali, IV, 2, a cura di C. Vivanti, R. Romano, Torino 1975 e S. Cassese, Giolittismo e burocrazia nella «cultura delle riviste», in St.It.Annali, IV, Intellettuali e potere, a cura di C. Vivanti, Torino 1981, pp. 475-549. Per una visione complessiva della stampa cattolica quotidiana e periodica cfr. A. Majo, La stampa cattolica in Italia. Storia e documentazione, Casale Monferrato 1992; cfr. anche F. Malgeri, La stampa quotidiana e periodica e l’editoria, in DSMC, I, 1, I fatti e le idee, Casale Monferrato 1982, pp. 273-295.
2 Articolo di Murri del 1899 dal titolo Il nostro programma religioso citato in D. Saresella, La questione religiosa in “Cultura sociale” e nella “Rivista di cultura”, in La riforma della Chiesa nelle riviste religiose di inizio Novecento, a cura di M. Benedetti, D. Saresella, Milano 2010, p. 126. Sulle iniziative editoriali murriane cfr. D. Saresella, Le iniziative editoriali di Romolo Murri (1896-1906), «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 16, 2009, pp. 297-309. Nell’universo pubblicistico cattolico sono da segnalare anche le seguenti testate: «Studi religiosi» (1901-1907) di S. Minocchi; la «Rivista storico-critica delle scienze teologiche» (1905-1910) e «Nova et Vetera» entrambe di E. Buonaiuti; la «Rivista delle riviste del clero» (1903-1908) di G. Speranzini, la «Rivista rosminiana» (1906-1914): per tutti questi periodici e per la loro complessa storia editoriale cfr. La riforma della Chiesa nelle riviste religiose, a cura di M. Benedetti, D. Saresella, cit. Sul movimento cattolico femminile si distinsero invece i seguenti fogli: «In cammino» (1900-1904) Di Antonietta Giacomelli, «Azione muliebre» (1901-1949) di Elena da Persico e «Pensiero e azione» (1904-1908) di Adele Coari. Cfr. P. Gaiotti de Biase, Le origini del movimento cattolico femminile, Brescia 1963; S. Zampa, Obbedienza e esperienza di fede. Il carteggio Coari-Radini Tedeschi nella crisi del primo Novecento, «Cristianesimo nella storia», 2, 1985, pp. 299-380; E. Butturini, Elena da Persico (1869-1948) e «Azione muliebre», «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 16, 2009, pp. 281-296; F. De Giorgi, La ricerca intellettuale e spirituale di ‘‘In cammino’’, in La riforma della Chiesa nelle riviste, cit., pp. 197-219.
3 Id., Alba d’un secolo, ivi, 73, 1901, 4, p. 2.
4 Cfr. Tre cattolici liberali: Alessandro Casati, Tommaso Gallarati Scotti, Stefano Jacini, a cura di A. Pellegrini, Milano 1975.
5 A.A. Alfieri, A. Casati, T. Gallarati Scotti, Parole di introduzione, «Il Rinnovamento», 1, fasc. 1, gennaio 1907, p. 2.
6 Ibidem, p. 4.
7 T. Gallarati Scotti, La riforma cattolica di Vincenzo Gioberti, «Il Rinnovamento», 1, fasc. 2, febbraio 1907, p. 174.
8 G. Tyrrell, In difesa dei modernisti, «Il Rinnovamento», 3, 1909, pp. 172-173. Dello stesso autore cfr. anche Il papa e il modernismo, ivi, fasc. 9-10, settembre-ottobre 1907, pp. 367-385.
9 A. Casati, L’esperienza religiosa e il misticismo, «Il Rinnovamento», 2, fasc. 1, 1908, p. 256.
10 A. Crespi, La vita religiosa e il divenire della democrazia, «Il Rinnovamento», 1, fasc. 5, maggio 1907, p. 577.
11 Cfr. Per una storia sociale e religiosa del Mezzogiorno d’Italia, 2 voll., a cura di G. Galasso, C. Russo, Napoli 1982.
12 Cfr. Chiesa e Società nel Mezzogiorno. Studi in onore di Maria Mariotti, tomo II, a cura di P. Borzomati, G. Caridi, A. Denisi et al., Soveria Mannelli 1998.
13 Cfr. L. Sturzo, «La Croce di Costantino». Primi scritti politici e pagine inedite sull’azione cattolica e sulle autonomie comunali, a cura di G. De Rosa, Roma 1958.
14 G. Avolio, Siamo anticlericali perché siamo cristiani, «Battaglie d’oggi», 6, 3, marzo 1910, pp. 83-84.
15 Per uno sguardo storico sull’età giolittiana cfr. A. Aquarone, L’Italia giolittiana, prefazione di R. De Felice, Bologna 1988.
16 Cfr. U. Parente, Riformismo religioso e sociale a Napoli tra Otto e Novecento. La figura e l’opera di Gennaro Avolio, Urbino 1996, pp. 97 segg.
17 Cfr. E. Rosa, «Il Rinnovamento» di silenziosi riformatori, «La Civiltà cattolica», 58, 1907, p. 718. Sulla attività della rivista romana nei primi anni del Novecento cfr. G. Sale, «La Civiltà Cattolica» nella crisi modernista (1900-1907), prefazione di Pietro Scoppola, Roma 2001.
18 Si intende qui per laicità «un atteggiamento di fondo, volto a rivendicare la piena responsabilità dell’uomo nella storia», cfr. G. Miccoli, In difesa della fede. La Chiesa di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, Milano 2007, p. 327.
19 Cfr. F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale. Dal Risorgimento al secondo dopoguerra, Bologna 2007, pp. 17-18. Cfr. anche L. Ganapini, Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la politica estera in Italia dal 1871 al 1914, Bari 1970; G. Formigoni, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubblica, Bologna 1998; Id., Alla prova della democrazia. Chiesa, cattolici e modernità nell’Italia del ’900, Trento 2008. Sul concetto di guerra in ambito cattolico cfr. D. Menozzi, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione dei conflitti, Bologna 2008.
20 G. Spadolini, Giolitti e i cattolici (1901-1914): con documenti inediti, Firenze 1960, pp. 353-388.
21 Cfr. R. Moro, La religione e la «nuova epoca». Cattolicesimo e modernità tra le due guerre mondiali, in Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione, Atti del Convegno internazionale di Urbino 1997, a cura di A. Botti, R. Cerrato, Urbino 2000, pp. 513 e segg. Cfr. anche E. Gentile, L’apocalisse della modernità. La Grande guerra per l’uomo nuovo, Milano 2008.
22 A. Gemelli, Medioevalismo, «Vita e pensiero», 1° dicembre 1914, 1, fasc. 1, pp. 1-24. Cfr. anche L. Degli Occhi, Integralismo, «Vita e pensiero», 1, fasc. 3, 10 gennaio 1915, pp. 190-194 e A. Gemelli, Il nostro programma e la nostra vita, 3, fasc. 1, 20 gennaio 1916, pp. 1-15. Sulla figura di Gemelli cfr. G. Cosmacini, Gemelli, Milano 1985; M. Franzinelli, Padre Gemelli per la guerra, Ragusa 1989; M. Bocci, Agostino Gemelli rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, prefazione di S. Zaninelli, Brescia 2003. Sul controverso rapporto fra cristianità e secolarizzazione cfr. G. Miccoli, Fra cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Casale Monferrato 1985.
23 Cfr. L. Necchi, La guerra, «Vita e pensiero», 1, fasc. 1, 1° dicembre 1914, pp. 46-50.
24 A. Gemelli, Tribuna libera. In tema di neutralismo ed intervenzionismo, «Vita e pensiero», 1, fasc. 7, 30 marzo 1915, pp. 413-414.
25 G. Tredici, Il nostro patriottismo, «Vita e pensiero», 1, fasc. 8, 20 aprile 1915, pp. 478-483.
26 A. Gemelli, Contrasti e paradossi della guerra, «Vita e pensiero», 1, fasc. 8, 10 maggio 1915, pp. 525-533.
27 Cfr. R. Morozzo della Rocca, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti soldati (1915-1919), Roma 1980.
28 La Redazione, Per la patria, «Vita e pensiero»,1, fasc. 10, 30 maggio 1915, p. 557.
29 A. Gemelli, La filosofia del cannone, «Vita e pensiero», 1, fasc. 3, 20 ottobre 1915, pp. 208-218.
30 Cfr. Stampa e regime fascista, «Storia e problemi contemporanei», 33, nr. monografico, maggio-agosto 2003.
31 Su don Giacomo Margotti cfr. A. Majo, La stampa cattolica italiana, cit., pp. 29 segg.
32 Cfr. G. Vannoni, Integralismo cattolico e fascismo: «Fede e Ragione», in La Chiesa del Concordato. Anatomia di una diocesi. Firenze 1919-1943, vol. I, a cura di F. Margiotta Broglio, Bologna 1977, pp. 441-478.
33 Politica cristiana o sia la politica di un partito di cattolici, «Fede e ragione», 1, fasc. 2, dicembre 1919, pp. 37-45.
34 La Direzione, Una allocuzione pontificia ed una pastorale del Cardinale Arcivescovo di Genova, «Fede e ragione», 1, fasc. III-IV, gennaio 1920, pp. 69-90.
35 La Direzione, “Fede e Ragione” nel 1921, «Fede e ragione», 2, 1, 2-9 gennaio 1921, pp. 1-2.
36 I perché, «Fede e ragione», 2, 7, 13 febbraio 1921, p. 5.
37 Spectator, Fascismo. Avviso ai cattolici italiani, «Fede e ragione», 2, 16, 17 aprile 1921, p. 3.
38 Il dovere dei cattolici nella babele dei partiti politici, «Fede e ragione», 3, 36, 3 settembre 1922, p. 3.
39 P. De Töth, Divagazioni sopra il pronome “Io”, «Fede e ragione», 3, 50, 10 dicembre 1922, p. 2.
40 Id., Politica e religione, «Fede e ragione», 3, 52, 24 dicembre 1922, p. 2-4.
41 I cattolici di Fede e Ragione, I “Desiderata” dei cattolici italiani. Lettera aperta all’on. Mussolini, «Fede e ragione», 4, 16, 20 aprile 1924, pp. 126-130.
42 Sui rapporti fra Stato italiano e Chiesa cattolica cfr. A.C. Jemolo, Stato e Chiesa dalla unificazione ai giorni nostri, Torino 1977; R. Pertici, Chiesa e Stato in Italia. Dalla Grande guerra al nuovo Concordato (1914-1984), Bologna 2009.
43 Cfr. A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti. Gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna 2009.
44 Cfr. P. Bondioli, La ferita non chiusa, «Vita e pensiero», 8, fasc. 3, ottobre 1922, pp. 577-583 e Id., La società filistea nel decennio 1914-1924, «Vita e pensiero», 10, fasc. 12, dicembre 1924, pp. 721-730.
45 Cfr. J. Herf, Il modernismo reazionario. Tecnologia, cultura e politica nella Germania di Weimar e del Terzo Reich, Bologna 1988; N. Zapponi, I miti e le ideologie. Storia della cultura italiana 1870-1960, Napoli 1981; Id., La modernità deviante, Bologna 1993. Cfr. anche per un ampio quadro storico-culturale G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Bologna 1975 e Id., La cultura dell’Europa occidentale nell’Ottocento e nel Novecento, Milano 1986.
46 M. Alberti, Le Sanzioni: l’Europa contro se stessa, «Vita e pensiero», dicembre 1935, p. 744. Per le precedenti citazioni cfr. A. Gemelli, Il Protestantesimo e l’Italia, agosto 1934, p. 470; Id., Il compito di una Università Cattolica ed Italiana nella lotta del Comunismo contro il Cattolicesimo e Fascismo, «Vita e pensiero», gennaio 1937, p. 75 . Cfr. P. Ranfagni, I clerico fascisti. Le riviste dell’Università Cattolica negli anni del Regime, Firenze 1975, pp. 140 e segg. Sul ruolo culturale svolto durante il regime fascista dall’ateneo gemelliano cfr. L. Mangoni, L’Università Cattolica del Sacro Cuore. Una risposta della cultura cattolica alla laicizzazione dell’insegnamento superiore, in St.It.Annali, IX, La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’età contemporanea, a cura di G. Chittolini, G. Miccoli, Torino 1986, pp. 977-1014. Sulla pubblicistica cattolica dinanzi alla guerra di Etiopia, cfr. D. Saresella, Le riviste cattoliche italiane di fronte alla guerra d’Etiopia, «Rivista di storia contemporanea», 19, 1990, 3, pp. 447-464. Sul contesto storico cfr. R. De Felice, Mussolini, il duce, I, Gli anni del consenso 1929-1936, Torino 1974; G. Rumi, Padre Gemelli e l’Università Cattolica, in Modernismo, fascismo, comunismo. Aspetti e figure della cultura e della politica dei cattolici del ’900, a cura di G. Rossini, Bologna 1972, pp. 205-233.
47 Cfr. D. Sorrentino, La Conciliazione e il «fascismo cattolico». I tempi e la figura di Egilberto Martire, Brescia 1980, pp. 113 segg.
48 I. Speranza [G. De Luca], Giro d’orizzonte, «Il Frontespizio», 3, marzo 1931, pp. 7-8. Cfr. anche A. Miotto, Sociologia e religione, ivi, 4, aprile 1935, p. 14. Sulla rivista fiorentina cfr. le osservazioni contenute nel saggio di L. Bedeschi, Il tempo de ‘‘Il Frontespizio’’. Carteggio Bargellini-Bo (1930-1943), Milano 1989, pp. 5-93. Cfr. anche l’antologia curata da L. Fallacara, ‘‘Il Frontespizio’’ 1929-1938, Roma 1961.
49 I. Speranza [G. De Luca], Le fontane della pietà, «Il Frontespizio», 8, agosto 1934, pp. 3-5. Su De Luca esponente di spicco dell’esperienza pubblicistica frontespiziana cfr. L. Mangoni, Aspetti della cultura cattolica sotto il fascismo: la rivista «Il Frontespizio», in Modernismo, fascismo comunismo, cit., pp. 363-417; Id., In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino 1989. Sulla pubblicistica periodica durante il regime fascista cfr. Id., L’interventismo della cultura. Intellettuali e riviste del fascismo, Roma-Bari 1974.
50 G. Papini, Pio XI, papa romano, «Il Frontespizio», 3, marzo 1939, pp. 131-140. Sulla poliedrica figura dello scrittore toscano cfr. C. De Biase, Giovanni Papini. L’anima intera, Napoli 1999. Indicativo della sua personalità è anche il ricco rapporto epistolare avuto con don Giuseppe De Luca. Si veda quindi anche Don Giuseppe de Luca-Giovanni Papini. Carteggio, I, 1922-1929, a cura di M. Picchi, Roma 1985.
51 Sulla funzione del mito in ambito fascista cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Roma-Bari 1975; Id., Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma 2001; R. Moro, Il mito dell’Impero in Italia fra universalismo cristiano e totalitarismo, in Cattolicesimo e totalitarismo. Chiese e culture religiose tra le due guerre mondiali (Italia, Spagna, Francia), a cura di D. Menozzi, R. Moro, Brescia 2004, pp. 311-371.
52 B. Occhini, Congedo e sintesi, «Il Frontespizio», 12, dicembre 1940, pp. 663-671.
53 Premessa, «Principi», 1, gennaio 1939, p. 1. Cfr. P.D. Giovannoni, La Pira e la civiltà cristiana tra fascismo e democrazia (1922-1944), Brescia 2008.
54 G. La Pira, Il valore della persona umana, «Principi», 1, gennaio 1939, p. 10.
55 Cfr. Id., Socialità della persona umana, «Principi», 2, febbraio 1939, pp. 28-35 e Id., Eguaglianza, disuguaglianza e gerarchia fra gli uomini, «Principi», 3, marzo 1939, pp. 52-57.
56 Premessa, «Principi», 6-7, giugno-luglio 1939, pp. 121-125.
57 Ibidem, p. 124.
58 Letture dei Padri e dei pensatori, «Principi», 11-12, novembre-dicembre 1939, p. 231.
59 Sull’ultima fase del regime mussoliniano e soprattutto sul suo frangente mistico cfr. E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Roma 20012.
60 Premessa, «Principi», 1-2, gennaio-febbraio 1940, p. 2.
61 G. Vecchio, Politica e democrazia nelle riviste popolari (1919-1926), Milano 1990, p. 45.
62 Ibidem, pp. 131 segg.
63 Cfr. R. Moro, La formazione della classe dirigente cattolica (1929-1937), Bologna 1979, pp. 525 segg.
64 Cfr. N. Torcellan, La Resistenza, in La stampa italiana dalla Resistenza agli anni Sessanta, a cura di V. Castronovo, N. Tranfaglia, Roma-Bari 1980, pp. 133 segg. Sul fascismo cattolico al tempo della Repubblica sociale italiana dal punto di vista pubblicistico cfr. A. Dordoni, “Crociata italica”. Fascismo e religione nella repubblica di Salò (gennaio 1944-aprile 1945), Milano 1976.
65 Cfr. N. Torcellan, La Resistenza, cit., pp. 154 segg.
66 N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino 1986, p. 166.
67 A. Melloni, «Cronache sociali». La produzione di cultura politica come filo della «utopia» di Giuseppe Dossetti, in «Cronache sociali» (1947-1951), edizione anastatica a cura di A. Melloni, Bologna 2007, p. XLIV. Sulla personalità dossettiana cfr. E. Galavotti, Il giovane Dossetti. Gli anni della formazione 1913-1939, Bologna 2006; Giuseppe Dossetti: la fede e la storia. Studi nel decennale della morte, a cura di A. Melloni, Bologna 2007.
68 Cfr. G. Langella, Introduzione a Il secolo dei manifesti. Programmi delle riviste del Novecento, a cura di G. Lupo, Milano 2006, pp. XI segg.
69 Cfr. C. Suckert [Malaparte], L’Europa vivente. Teoria storica del sindacalismo nazionale, Firenze 1923, p. 19.