COLLOREDO, Leandro
Terzogenito del marchese Fabio e di Claudia di Colloredo, nacque il 9 ott. 1639 nel feudo paterno di Colloredo, in Friuli.
Nel 1649 il padre, condottolo prima con sé in Toscana, ove era morto suo fratello Fabrizio, già governatore di Siena, lo affidò perché ricevesse un'educazione umanistica a mons. G. B. Brescia, vicelegato di Pesaro e Urbino. Con quest'ultimo, a lui stretto da vincoli di parentela, il C. trascorse due anni. Dalle Marche passò a Roma, ove fu affidato alle cure dell'oratoriano Federigo Savorgnan; posto da costui a vivere in casa di un prete, frequentò il Collegio Romano, ove seguì le lezioni di retorica del p. Lorenzo Bovio e di filosofia del p. Silvestro Mauri.
Probabilmente il C., quale cadetto, era destinato alla vita ecclesiastica; c'è da rilevare però che egli manifestò molto presto e spontaneamente una grande religiosità e, dopo qualche perplessità dovuta al fatto che sentiva propensione anche per la Compagnia di Gesù, aspirò a entrare a far parte dell'Oratorio di S. Filippo Neri: veniva accolto in esso, quale fratello laico, il 2 nov. 1653.
Nel 1656 infuriò a Roma un'epidemia, che indusse la madre del C. dal Friuli a pregarlo di rifugiarsi per qualche tempo nella sua terra natale. Il giovane non volle acconsentire e la contingenza del momento gli ispirò la sua prima opera - che ebbe l'onore delle stampe a cura del suo biografo P. M. Puccetti - dal titolo La devozione di Nostra Signora vero antidoto per estinguer la peste, che in cinque capitoli sviluppa e illustra il concetto espresso nel titolo.
Nel 1657 iniziò l'avventiziato del C., accolto il 3 gennaio nella congregazione; venne ordinato sacerdote nel dicembre del 1663 in S. Giovanni in Laterano e celebrò la prima messa nel giorno di Natale. Successivamente la sua vita fu quella di un giovane membro della congregazione, che oltre allo studio della teologia e alle pratiche devozionali assolveva ai vari incarichi, che di volta in volta i superiori decidevano di affidargli. Fu investito di vari compiti, fra cui anche quello di infermiere, di maestro di novizi, di deputato a recare la berretta di s. Filippo agli infermi e, quello che appare interessante per noi, di bibliotecario.
Era lui che deteneva questo incarico, quando nel luglio 1685 J. Mabillon visitò la biblioteca della Vallicella. Ebbe così inizio un'amicizia fra i due uomini che si protrasse fino alla morte del francese; lo scambio di lettere fu, se non fittissimo, certo continuo e il Mabillon non mancò di sottoporre al C. le opere che andava pubblicando - soprattutto gli Annales Ordinis s. Benedicti - dandogli anche notizia delle pubblicazioni storiche e teologiche che uscivano in Francia. Nel 1696gli sottopose la sua Epistola dissertatoria de immodico cultu sanctorum, qui ex coemiteriis Romanis in has partes afferuntur, che non incontrò l'approvazione del C., il quale ne sconsigliò la pubblicazione; ma che, una volta pubblicata (1698), il C. difese.
Intanto la fama di dottrina e di devozione che circondava il C. varcava le mura dell'Oratorio e nel 1682 egli veniva chiamato dal papa a far parte della commissione degli esaminatori dei vescovi. Dopo una malattia, che lo colpì molto gravemente nel 1684, protraendosi per parecchi mesi, pare che il C. nel 1685 fosse stato invitato da Innocenzo XI ad accettare il vescovado di Avignone. Sembra che abbia energicamente rifiutato, non si sa se per modestia o perché non desiderava allontanarsi dall'Oratorio; probabilmente ambedue le ragioni influirono sulla decisione. Quando il 2 sett. 1686 fu eletto cardinale, gli scrupoli del C. si rinnovarono ed egli cercò di opporsi alla volontà del pontefice, che però riuscì a imporgli l'accettazione del cappello. Il 30 settembre gli veniva assegnato il titolo di S. Pietro in Montorio, che avrebbe tenuto fino al 7 nov. 1689, quando passò al titolo dei SS. Nereo e Achilleo, per essere trasferito il 27 apr. 1705 a quello di S. Maria in Trastevere.
Divenuto cardinale, il C. si trovò nella necessità di avere una sede consona alla nuova dignità. Prese in affitto il palazzo Spada in piazza dell'Orologio, separato soltanto da una strada dall'Oratorio, dove conservò le sue stanze, che raggiungeva per mezzo di un ponte di legno, fatto da lui edificare attraverso la strada.
La stima che nutriva il pontefice per lui si palesò nuovamente quando il 28 febbr. 1688 il C. fu nominato penitenziere maggiore e quando il papa volle soltanto lui accanto al suo letto di morte. Il C. ne approfittò per cercare di indurlo - senza successo - ad abolire la tassa sul macinato. Sulla morte del papa compilò una relazione, conservata nella Biblioteca dell'Archivio del monastero di Montecassino. Nel conclave il C. entrò a far parte di quel gruppo di porporati, eletti dal pontefice defunto, detti zelanti, che si proponevano di procedere all'elezione senza tener conto di influenze politiche.
Nel conclave successivo alla morte di Alessandro VIII, nel 1691, il C. fu alla testa degli zelanti, che, pur avendo sostenuto in un primo momento il card. Marcantonio Barbarigo, aderirono poi all'elezione di Innocenzo XII. Quando quest'ultimo, due anni dopo, decise una visita canonica del clero romano, il C. fu tra coloro incaricati di compierla.
Fra il gennaio e l'ottobre del 1693 fu deputato a visitare S. Maria in Aquiro, il collegio degli orfani, il collegio Salviati, la chiesa e il monastero dei SS. Quattro Coronati, la sacrestia di S. Giovanni in Laterano, la chiesa, l'Oratorio e la Compagnia di S. Caterina da Siena in via Giulia, la chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio, quella di S. Maria in Aracoeli e forse quella di S. Paolo alle Tre Fontane.
Il 10 marzo 1694 il C. fu nominato protettore dei frati minori conventuali e nel 1698 protettore della Congregazione della SS. Trinità, dell'Arciconfraternita della SS. Annunziata e del monastero di S. Cecilia, poi dell'Arciconfraternita di S. Giuseppe, a Bologna, e quindi, nel 1700, della Congregazione di Maria e di S. Filippo Neri, a Piacenza. Possedeva anche quattro benefici su altrettante chiese di Aversa e altri sulla badia della SS. Trinità a Verona, sulla prepositura dei SS. Simone e Giuda a Bergamo, sul priorato di S. Andrea di Carmignano a Padova, e sul vescovato di Lecce.
Il C., il quale fece parte di varie Congregazioni (quelle de Propaganda Fide, del Concilio di Trento, sopra gli Affari dei Vescovi, della Segnatura e della Visita), il 2 genn. 1696 divenne camerario del Sacro Collegio. Alla morte di Innocenzo XII la sua candidatura al pontificato non sembrò inverosimile. Nel 1707 egli compi un viaggio ad Assisi, ove assistette al capitolo generale del convento di S. Francesco; non mancò di fare, tornando a Roma, una visita alla casa di Loreto. Morì a Roma l'11 genn. 1709, colpito da un attacco influenzale, non prima di aver esortato Clemente XI a sottoscrivere - la firma avvenne il giorno dopo la sua morte - il trattato di pace con l'imperatore.
Il 14 gennaio si svolsero in S. Maria in Vallicella, dove il C. fu seppellito, le esequie solenni, contro il suo espresso desiderio, ma che la sua dignità di cardinale impose. Aveva fatto testamento nell'agosto del 1689: aveva destinato alcuni oggetti di culto a varie chiese e oggetti artistici a laici e cardinali, fra cui un quadro al papa. Eredi universali lasciò i padri e la Congregazione dell'Oratorio, fatta eccezione per i beni immobili del Friuli, di Firenze e comunque posti fuori Roma, i cui eredi designati erano i fratelli del C., Pompeo (a lui premorto però) e Fabrizio. Due anni dopo la comunità rinunciò all'eredità del C., in favore del nipote di lui, Fabio, membro della Congregazione, il quale peraltro aveva sostenuto che lo zio non aveva lasciato neanche i denari per il funerale. Il 13 maggio 1710 la Congregazione decretò che si scolpisse in marmo lo stemma gentilizio del C., posto nel presbiterio della chiesa, ove pure, nel 1714, nel pavimento del coro, i nipoti gli posero una lapide.
Dai pochi dati biografici esposti non risulta sufficientemente tratteggiata la figura spirituale del C., che invece è messa straordinariamente in evidenza dai primi biografi. Nella Biblioteca Vallicelliana di Roma, oltre a varie altre testimonianze su di lui, si trovano due biografie manoscritte, una di Pietro Tomato (O. 651), scritta probabilmente poco dopo la sua morte, e un'altra di Gian Francesco Tenderini (O. 58, n. 6). In esse, come in quella di P. M. Puccetti, pubblicata a Roma nel 1738 (Vita del card. L. C. ...), dopo le notizie Uografiche, intersecate di aneddoti che vogliono illustrare le doti religiose del C., si elencano i miracoli attribuitigli e quindi, dedicando un capitolo a ognuna di esse, si illustrano le sue virtù: fede, speranza in Dio, amor di Dio, devozione alla Vergine e ai santi, castità, obbedienza, fiducia nell'orazione (ne aveva anche composte alcune), carità, povertà, ecc.; tutte avvalorate da testimonianze e da dovizia di particolari. Sembra proprio che si tendesse alla canonizzazione del C., e certo le basi per tentare un processo c'erano, perché la sua vita era stata pervasa di misticismo. C'era però qualcuno che lo aveva visto con qualità e difetti tipicamente umani, più che come un santo: esiste infatti manoscritta una biografia di Orazio d'Elci (dell'ultimo decennio del sec. XVII), che lo dipinge sì come umile, dotto, prudente e discreto, ma anche come accorto, sagace e attentissimo. Inoltre, secondo l'autore, il C. non mancava di nemici, i quali, definendolo "quasi ignorante e non totalmente savio", sostenevano che egli fece credere a Innocenzo XI di stare continuando gli Annali del Baronio e del Rinaldi, cosa invece assolutamente "superiore alla sua sfera" (in effetti il C. si occupò degli Annali del Rinaldi, ma per esprimere un giudizio sostanzialmente negativo, conservato autografo alle cc. 321r-335v del cod. 0. 64 della Bibl. Vallicelliana). Sempre secondo il d'Elci, dal punto di vista politico egli era un imperiale (anche per evidenti ragioni di origine), sostenitore degli Asburgo anche contro la S. Sede. Nemici gli sarebbero stati il re di Francia il viceré di Napoli, il granduca di Toscana e i gesuiti, che lo consideravano favorito dai giansenisti in Francia. Anche se il d'Elci lo ritiene "un uomo da bene, grande elemosiniere, totalmente propenso alla carità", in questa sede gli esercizi spirituali che il C. compiva ogni anno vengono giudicati come maneggi diplomatici. Il d'Elci sostiene poi che forse si sarebbe potuto fare il nome del C. come papa, ma egli non avrebbe potuto che "servire di zimbello per essere ballottato, sintanto che i Zelanti non concludino l'essaltazione di qualch'altro soggetto di loro sodisfazzione. In caso però che il Colloredo fosse papa a giubilei et indulgenze straccarebbe tutta la Cristianità".
Anche se in modo ironico l'ultimo accento è per la religiosità del C., che doveva apparire un santo, a certuni, un maniaco ad altri. Sembra comunque che egli fondesse il suo interesse per la vita contemplativa con quello della carità verso il prossimo. Non pare che abbia avuto relazioni con la corrente giansenista di Roma, ma dimostrò un favorevole interesse per i quietisti: il suo amore per la preghiera lo portò infatti a comporre una Scrittura concernente l'orazione di quiete (conservata autografa nella Bibl. Vallicelliana, cod, P. 176, cc. 67r-69v) in cui sostiene che la preghiera è un atto che in sé non è che positivo, citando S. Gregorio, che afferma che la contemplazione è un atto confuso di Dio presente. Non si deve quindi proibire "un esercizio che ben guidato puol apportare un'eccellente perfezione, ma più premere appresso i rettori dell'anime che invigilino alla buona condotta, che volere per estirpare qualche ramo infetto troncare una sana radice".
Altre opere del C. sono rimaste manoscritte, tutte conservate nella Bibl. Vallicelliana. Successive al 1700 sono due osservazioni sulle visite canoniche: Della visita da farsi alle chiese e vescovadi e come questa ebbe principio fino dal tempo degli Apostoli e Sulla visita de' vescovadi d'Italia, rispettivamente alle cc. 103-110 e 111-113 del cod. I, 59. Alle cc. 1-3 del cod. I. 60, intitolato Acta consistorialia summ. Pontificum ab Alexandro V ad Innocentium XI, in cui di suo pugno sono annotati gli Acta dagli inizi del 1500 frammentariamente fino al 1684, c'è un suo - autografo - Discursus in quo loquitur de libris, qui continent acta consistorialia, quae describi solebant a vice cancellario pro tempore et in eius absentia a decano S. Collegii. Agitur etiam de propositionibus faciendis in consistorio a S. P. vel cardinalibus. Un'opera che lo impegnò maggiormente, come dimostrano anche le numerose aggiunte e correzioni del manoscritto, per la maggior parte autografo (K. 13, cc. 334r-368r), fu il Discorso sopra gli scismi della Chiesa. Ilmedesimo codice contiene anche un'altra opera del C.: il brevissimo Discursus seu adnotatio historica infeudationum, alienationum et donationumS. R. E. factarum a tempore Ioannis XII usque ad Eugenium III, seguito dagli Acta nonnullorum pontificum. Infeudationes, alienationes et donationes E. R. facte. Altra attività letteraria del C. fu la narrazione di vite di santi, che in genere rivela l'interesse per santi, vicini a lui come epoca, che condussero una vita contemplativa, e caritativa insieme, spesso facenti parte di Ordini religiosi. Sotto lo pseudonimo di Odoardo Cellerno scrisse la Vita di S. Luigi Bertrando..., pubblicata a Roma nel 1671. Il santo però di cui era più devoto, cui cercava di rassomigliare persino fisicamente, fu s. Francesco di Sales: la sua vita, incompleta, scritta dal C. è conservata, quasi del tutto autografa, nel manoscritto H. 29 (cc. 59-111) della Biblioteca Vallicelliana. Nel medesimo codice (cc. 426-439), anch'essa frammentaria, e in un certo senso obbediente a una ispirazione diversa, è la vita di S. Luigi IX. Direttamente connessi all'interesse del C. per s. Francesco di Sales sono i suoi Frammenti della vita della serva di Dio Giov. Francesca Fremiotta [Frémyot] detta comunemente madama di Chantal, prima pianta dell'Ordine della Visitazione istituito da s. Francesco di Sales, contenuta, autografa, nelle cc. 171-234 del cod. H. 76; del primo monastero di quest'ordine a Roma il C. fu valido protettore. Scrisse i Fragmenti della vita di p. Antonio Grassi della Congregazione dell'Oratorio della città di Fermo (O. 114, cc. 192-258), del quale fu chiesta al papa la beatificazione nel 1683, e una Vita del ven, p. Mariano Sozzini, incompleta (O. 118), in cui sono elencate con estrema prolissità tutte le doti morali, che poi gli sarebbero state attribuite dopo la sua morte. Dette "tacita mano" alla raccolta delle notizie sulla vita di Giuseppe Bonfigli, pubblicata nel 1690 da B. Pierotti, che gliela dedicò. Pare che abbia collaborato anche con G. Ricci, al suo Compendio della vita di s. Filippo Neri, Roma 1674. Il C. fu apprezzato anche da B. de Montfaucon, che lo incontrò e ne ricevette cortesie a Roma nel 1698; E. Martène gli dedicò il III volume del suo De antiquis Ecclesiae ritibus.
Fonti e Bibl.: Roma, Bibl. Vallicelliana, O.64; O.117; I.59, cc. 119 ss.; P. 199; Bibl. Apost. Vaticana, Vat. lat. 13659: O. d'Elci, Biografia..., cc. 82v-86r; J. Mabillon, Museum Italicum..., I, Luteciae Paris, 1687, p. 67; B. de Montfaucon, Diarium Italicum, Parisiis 1702, p. 253; V. Forcella, Iscriz. delle chiese... di Roma..., IV, Roma 1874, p. 169; A. Goldmann, Dom Jean Mabilbillons Briefe an Card. L. C., in Studien und Mittheilungen aus dem Benedictiner- und dem Cistercienser-Orden, X (1889), pp. 65-81, 244-54, 454-74; G. G. Liruti, Notizie delle vite e opere scritte da letterati del Friuli, IV, Venezia 1830, pp. 216-22; [G. Braida], Il card. L. di C. [Udine 1907]; C. Gasbarri, L'Oratorio romano..., Roma, 1962, pp. 90-93, 182, 244, 272, 288; L. v. Pastor, Storia dei Papi, XIV, 2, Roma 1962, pp. 307, 379, 387 s., 395, 414, 424, 439, 470, 473, 481; XV, ibid. 1962, pp. 5 s., 49, 242, 379; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia cathol., V, Patavii 1952, p. 35.