Abstract
Vengono esaminati i requisiti per l’esercizio della legittima difesa nel diritto internazionale, in particolare la nozione di «attacco armato» e la necessità, proporzionalità e immediatezza della reazione, nonché i requisiti specifici per la legittima difesa collettiva. Vengono inoltre discussi aspetti problematici del diritto alla legittima difesa, come l’attacco armato da parte di attori non-statali e la legittima difesa preventiva. Il diritto alla legittima difesa viene infine inquadrato nel sistema delle fonti del diritto internazionale.
Quantunque non sia mai stato messo seriamente in dubbio che gli Stati, al pari degli individui, abbiano un diritto ‘naturale’ a difendersi, la legittima difesa non è assunta a istituto giuridico ben definito nel diritto internazionale fino alla prima metà del secolo scorso con l’affermarsi del divieto dell’uso della forza nelle relazioni tra Stati. Essendo precedentemente tale uso lecito, non vi era infatti necessità di elaborare deroghe ad un divieto che, appunto, non si era ancora formato. L’inserimento nella Carta delle Nazioni Unite (1945) dell’art. 2, par. 4, che impone agli Stati membri di «astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite», ha determinato il parallelo inserimento dell’art. 51, che costituisce, insieme all’uso della forza nel quadro del capitolo VII sul sistema di sicurezza collettivo, una delle due eccezioni all’obbligo contenuto nell’art. 2, par. 4. Se si escludono i Patti di Locarno (1924), l’art. 51 rappresenta la prima codificazione del diritto alla legittima difesa in diritto internazionale, in quanto né il Patto della Società delle Nazioni (1919) né il Patto di Parigi sulla messa al bando della guerra (1928) contenevano disposizioni espresse in proposito, anche se il diritto alla legittima difesa doveva ritenersi implicitamente previsto.
Il testo dell’art. 51 recita: «Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di legittima difesa individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell’esercizio di questo diritto di legittima difesa sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale». La complessità e l’importanza della norma, in particolare la sua prima frase, richiedono un’interpretazione dettagliata che, nei limiti di spazio consentiti, verrà sviluppata nelle successive sezioni.
Il diritto alla legittima difesa sorge esclusivamente quando uno Stato è vittima di un «attacco armato». La nozione di «attacco armato» non è tuttavia definita nell’art. 51 o altrove nella Carta. Nella sentenza di merito sul caso delle attività militari e paramilitari in e contro il Nicaragua (27.6.1986, in ICJ Reports, 1986, par. 195), la Corte internazionale di giustizia (CIG) fa riferimento alla Dichiarazione sulla Definizione di aggressione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite (ris. 3314 (XXIX), 14 dicembre 1974) per qualificare la c.d. “aggressione indiretta” come attacco armato. In realtà, i concetti di aggressione e attacco armato sono distinti ed usati nella Carta in due contesti diversi: il primo nell’ambito del sistema di sicurezza collettivo come situazione che legittima il Consiglio di sicurezza ad utilizzare i poteri previsti dal capitolo VII (art. 39 della Carta), il secondo come circostanza che legittima gli Stati ad invocare il diritto alla legittima difesa. La migliore dottrina inquadra la nozione di aggressione come inclusiva di quella di attacco armato (si veda, per tutti, Dinstein, Y., War, Aggression and Self-Defence, V ed., Cambridge, 2011, 196 s.). Dei casi elencati nella Definizione di Aggressione, in particolare, quelli previsti dall’art. 3, lett. c), e) e f) non costituirebbero anche casi di attacco armato (Sciso, E., L’aggressione indiretta nella definizione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in Riv. dir. int.,1983, 275), in quanto non vi è (ancora) un «uso attuale della forza armata diretta, dall’esterno, contro il territorio dello Stato o le sue forze militari, terrestri, navali o aeree» (ibidem, 272).
Se la CIG non ha chiarito la differenza tra «attacco armato» e «aggressione», ha invece distinto «le forme più gravi di uso della forza (quelle che costituiscono un attacco armato) da altre forme meno gravi» (Nicaragua, cit., par. 191). L’espressione «uso della forza» compare nell’art. 2, par. 4, della Carta, che lo bandisce dalle relazioni internazionali. Secondo la Corte, non ogni violazione di tale norma costituisce un attacco armato, ma soltanto quelle che, per la loro portata ed effetti, sono sufficientemente serie (ibidem, par. 195). Portata («scale») si riferisce alla quantità di forza armata usata, inclusa la sua durata e l’estensione dell’area coinvolta, mentre effetti («effects») equivale al danno e alle vittime causate (Ruys, T., Armed Attack’ and Article 51 of the UN Charter, Cambridge, 2010, 139). La Corte, dunque, esclude che incidenti di frontiera, benché violazioni dell’art. 2, par. 4, siano anche attacchi armati che danno luogo al diritto alla legittima difesa (Nicaragua, cit., par. 195; v. anche Commissione per i Reclami Etiopia-Eritrea, Jus ad bellum (Etiopia c. Eritrea), decisione parziale del 19.12.2005, in Reports of International Arbitral Awards, vol. XXVI, par. 12). Analogamente, la fornitura di armi a e l’addestramento di insorti costituiscono un uso della forza ma non un attacco armato (Nicaragua, cit., par. 228). Il finanziamento di insorti e l’assistenza umanitaria non costituiscono né un uso della forza né, a fortiori, un attacco armato (ibidem).
Ciò detto, nella sentenza sulle piattaforme petrolifere, la CIG non ha escluso che il minamento di una singola nave militare possa costituire un attacco armato (Piattaforme petrolifere, 6.11.2003, in ICJ Reports, 2003, par. 72; se la stessa conclusione si applichi anche ad un attacco contro navi mercantili è invece controverso). È parimenti accettato che un attacco contro forze armate di stanza all’estero sia un attacco armato contro lo Stato a cui le forze appartengono e, eventualmente, anche contro lo Stato in cui esse si trovano. In altre pronunce, la CIG ha invece escluso che un attacco contro diplomatici sia un uso della forza contro il relativo Stato, dovendo piuttosto la situazione qualificarsi come una violazione della Convenzione di Vienna sulle immunità diplomatiche del 1961 (Repubblica Democratica del Congo c. Uganda, 19.12.2005, in ICJ Reports, 2005, par. 337). Più complessa è la questione se un attacco contro i cittadini di uno Stato che si trovano all’estero sia da considerarsi in certe circostanze un attacco armato contro lo Stato della nazionalità: tale argomento fu ad esempio invocato dalla Federazione Russa per giustificare il suo intervento armato contro la Georgia dell’agosto 2008 in supporto della minoranza russa nell’Ossezia del Sud. È stato al riguardo sostenuto che se l’attacco è sufficientemente grave e vi è un numero consistente di nazionali coinvolti, i quali sono attaccati proprio in ragione della loro nazionalità per esercitare coercizione sul loro Stato, questi potrebbe invocare la legittima difesa (Greenwood, C., Self-Defence, in Max Planck Encyclopedia of Public International Law, IX, Oxford, 2012, 108). Altri sostengono che tale uso della forza non sia inquadrabile nella legittima difesa ma sia piuttosto previsto da un’autonoma norma di diritto consuetudinario (Ronzitti, N., Diritto internazionale dei conflitti armati, IV ed., Torino, 2011, 47). Sviluppi tecnologici ancora recenti hanno poi sollevato la questione se un attacco informatico possa essere qualificato come attacco armato che autorizzi lo Stato vittima ad esercitare il diritto alla legittima difesa in kind o con armi tradizionali (Roscini, M., Cyber Operations and the Use of Force in International Law, Oxford, 2014, 70 ss.). Il Manuale di Tallinn sulla guerra informatica suggerisce prudentemente che un attacco informatico possa potenzialmente ammontare a un attacco armato soltanto qualora causi vittime, feriti o danni materiali (Tallinn Manual on the International Law Applicable to Cyber Warfare, Cambridge, 2013, 54 ss.). Occorre tuttavia notare che il Manuale non rappresenta un documento ufficiale, ma è il risultato della ricerca di un gruppo di studiosi.
Quando l’uso della forza non costituisce un attacco armato, lo Stato vittima può soltanto adottare «contromisure proporzionate» non militari (Nicaragua, cit., par. 249). Un’autorevole voce divergente è quella del giudice Simma nella sua Opinione separata nel caso delle Piattaforme petrolifere, secondo cui ciò che conta è la proporzionalità della reazione: se soltanto ad un attacco armato è permesso reagire con una risposta armata su vasta scala in legittima difesa, minori usi della forza consentono reazioni armate purché proporzionate (Piattaforme petrolifere, cit., Opinione separata del giudice B. Simma, par. 12). L’opinione, tuttavia, non può essere condivisa: dato che, come si vedrà, il principio di proporzionalità è comunque un requisito della reazione in legittima difesa, la dottrina in esame non fa altro che annullare la differenza tra «uso della forza» e «attacco armato», in chiara contraddizione con la lettera e lo spirito della Carta, il cui scopo è invece quello di limitare l’uso unilaterale della forza armata alle situazioni più eccezionali. L’opinione di Simma è inoltre in contrasto con l’art. 50, par. 1, lett. a), degli Articoli sulla Responsabilità Internazionale degli Stati adottati dalla Commissione del Diritto Internazionale (CDI) nel 2001, che escludono che le contromisure possano consistere in violazioni dell’art. 2, par. 4, della Carta ONU.
Un problema centrale del diritto alla legittima difesa nello scenario internazionale contemporaneo è se tale diritto può esercitarsi esclusivamente quando l’attacco armato possa essere imputato ad uno Stato. Il problema ha assunto un’importanza centrale per la minaccia attualmente rappresentata da gruppi armati e terroristici transnazionali. Quando tali gruppi agiscono per conto di uno Stato, la CIG, già nel caso Nicaragua, aveva riconosciuto che tale “aggressione indiretta”, prevista dall’art. 3, lett. g), della Definizione di aggressione, può potenzialmente costituire un attacco armato (Nicaragua, cit., par. 195). In successive pronunce, invece, la Corte ha escluso che vi sia un diritto alla legittima difesa contro attacchi esclusivamente da parte di attori non statali (Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei Territori palestinesi occupati, parere consultivo del 9.7.2004, in ICJ Reports, 2004, par. 139; ma si veda, contra, l’Opinione separata del giudice R. Higgins, ibidem, par. 33). Due approcci possono essere adottati per giustificare il diritto alla legittima difesa contro attacchi armati non imputabili a Stati. Il primo fonda tale diritto su una norma primaria, in particolare l’art. 51 e la corrispondente norma consuetudinaria (sulla distinzione tra norme primarie e secondarie, si rinvia a Ago, R., Second Report on State Responsibility - The Origin of International Responsibility, in YBILC,1970, vol. II, 179): in effetti, al contrario dell’art. 2, par. 4, l’art. 51 non contiene specificazioni riguardo all’autore dell’attacco armato e permette dunque un’interpretazione per argumentum a contrario che includa anche attacchi armati di attori non statali. Tale interpretazione è anche supportata dalla ratio della norma, che è quella di permettere agli Stati di difendersi da attacchi qualora il Consiglio di sicurezza sia inattivo. Il secondo approccio fa invece perno sulle norme secondarie sulla responsabilità internazionale ed in particolare interpreta estensivamente le norme sull’attribuzione della condotta a uno Stato: uno Stato sarebbe responsabile di attacchi da parte di attori non statali non soltanto quando tali attori sono «in fact acting on the instructions of, or under the direction or control of, that State in carrying out the conduct» (art. 8 degli Articoli sulla responsabilità internazionale) ma anche quando lo Stato dal cui territorio il gruppo armato opera non possa o non voglia prevenire tali attacchi. Tale conclusione è però in contrasto con le norme sulla responsabilità internazionale come codificate negli Articoli della CDI. Il primo approccio è dunque preferibile: l’incapacità o la mancanza di volontà dello Stato territoriale di prevenire attacchi da parte di attori non statali stanziati sul suo territorio non è tanto un criterio di attribuzione, quanto la misura della necessità della reazione (Greenwood, C., op. cit., 108). Il requisito della proporzionalità determina inoltre che la reazione sia diretta esclusivamente contro gli attori non statali, e non anche contro infrastrutture o popolazione dello Stato che, volente o nolente, li ospita. Le due risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza (ris. n. 1368 del 12.9.2001 e ris. n. 1373 del 28.9.2001), che riaffermano, sia pure nel preambolo, il diritto alla legittima difesa nel contesto degli attacchi terroristici contro gli Stati Uniti dell’11 settembre 2001, così come la prassi recente in relazione ai gruppi armati operanti dal Libano meridionale, dall’Iraq settentrionale e nella zona dei Grandi Laghi africani, sembrano confermare un’interpretazione dell’art. 51 che permette il diritto alla legittima difesa contro attacchi armati di attori non statali. Tale diritto è ora previsto espressamente in alcuni recenti trattati di difesa collettiva stipulati nel continente africano, come l’art. 1, lett. c), del Patto di non-aggressione e difesa comune dell’Unione Africana del 2005 e l’art. 5, par. 4, del Protocollo di non-aggressione e difesa reciproca annesso al Patto sui Grandi Laghi del 2006 (Roscini, M., Neighbourhood Watch? The African Great Lakes Pact and ius ad bellum, in ZaöRV,2009, 941 ss.).
Alcuni Stati, in particolare Israele e Stati Uniti, hanno sostenuto che molteplici attacchi di scarsa portata ma di intensa frequenza, soprattutto da parte di attori non statali, andrebbero considerati nel loro insieme per verificare se la soglia minima di portata ed effetti dell’attacco armato è stata oltrepassata. La CIG non ha escluso che la dottrina dell’accumulazione degli eventi possa essere invocata in certe circostanze (Nicaragua, cit., par. 231; Piattaforme petrolifere, cit., par. 64; DRC c. Uganda, cit., par. 146).
Occorre infine notare che, nel caso delle piattaforme petrolifere, la CIG sembra richiedere un elemento soggettivo per la sussistenza di un attacco armato, vale a dire una specifica intenzione di colpire un certo Stato (Piattaforme petrolifere, cit., par. 64). Per la sussistenza di un atto di aggressione è generalmente richiesta la presenza di un animus aggressionis (Cassese, A., International Law, Oxford, 2005, 273): se attacco armato e aggressione sono davvero in rapporto di species a genus, tale animus si richiederebbe necessariamente anche per il primo. In ogni caso, se l’attacco fosse accidentale, la reazione da parte dello Stato vittima sarebbe probabilmente non necessaria, in quanto si presume che l’autore dell’attacco lo interromperebbe una volta realizzato l’errore.
L’art. 51 identifica espressamente il momento in cui il diritto alla legittima difesa non può più essere esercitato, vale a dire quando il Consiglio di sicurezza abbia «preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Ciò riafferma la supremazia del Consiglio nella gestione della forza armata nelle relazioni internazionali e il carattere eccezionale della legittima difesa. Non ogni misura adottata dal Consiglio è però sufficiente ad estinguere il diritto alla legittima difesa: ciò dipenderà dall’interpretazione e dagli effetti di ciascuna risoluzione.
La lettera dell’art. 51 suggerisce inoltre che il diritto alla legittima difesa possa essere esercitato quando un attacco armato «abbia luogo». Ciò sembra escludere ogni possibilità di reazione fintantoché l’attacco non sia in corso. Sarebbe ovviamente irragionevole interpretare la norma nel senso di dover attendere che un attacco armato abbia prodotto i suoi effetti prima che la vittima possa rispondere: tale conclusione finirebbe per incentivare attacchi armati sufficientemente distruttivi da privare di fatto la vittima della capacità di reagire e non corrisponde certamente alle intenzioni dei redattori della Carta. Deve dunque ritenersi ammissibile, non soltanto ai sensi del diritto consuetudinario ma anche dell’art. 51, che il diritto alla legittima difesa possa esercitarsi anche contro un attacco armato imminente quando altrimenti l’attesa determinerebbe l’incapacità della vittima di respingere efficacemente l’attacco (Wilmshurst, E., The Chatham House Principles of International Law on the Use of Force in Self-Defence, in ICLQ, 2006, 968). Risulta dall’art. 32 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (1969), infatti, che l’interpretazione letterale di una norma non può condurre a «un risultato che è manifestamente assurdo o irragionevole». L’attacco, tuttavia, dovrà necessariamente essere imminente: più lontano è nel tempo, più incerto diventa e meno necessaria è una reazione armata. Il locus classicus del diritto alla legittima difesa, la corrispondenza tra Stati Uniti e Gran Bretagna nell’affare dell’affondamento della nave Caroline (1837), richiede che la necessità della legittima difesa sia «instant, overwhelming, and leaving no choice of means, and no moment for deliberation» (Lettera di Daniel Webster a Henry S. Fox - 24 aprile 1841, British and Foreign State Papers, vol. 29, 1137 s.). È solo in questi stretti limiti, dunque, che si può ammettere l’esercizio della legittima difesa contro un attacco armato che non ha ancora avuto luogo (A More Secure World: Our Shared Responsibility, Report of the High-level Panel on Threats, Challenges and Change, UN doc. A/59/565, 2.12.2004, par. 188 ss.). Non hanno invece fondamento i tentativi di (re)introdurre una nozione di legittima difesa preventiva, che fa leva sulla latenza o la gravità della minaccia per utilizzare la forza armata contro attacchi non imminenti (si veda, a tale proposito, la cosiddetta “dottrina Bush” sulla guerra preventiva: The National Security Strategy of the United States of America, settembre 2002, 15, in www.globalsecurity.org; per la versione del 2006, si veda in AJIL, 2006, 690 s.). La CIG ha peraltro finora evitato di prendere posizione sulla questione della legittima difesa contro attacchi armati non ancora in atto (Nicaragua, cit., par. 194; DRC c. Uganda, cit., par. 143).
L’art. 51 richiede lo Stato membro che agisce in legittima difesa di portare immediatamente a conoscenza del Consiglio di sicurezza le azioni intraprese. Non sembra tuttavia che il fatto che uno Stato non si conformi a tale obbligo, inserito per permettere al Consiglio di sicurezza di accertare se la situazione non costituisca piuttosto un’aggressione, determini l’illegittimità della reazione in presenza degli altri requisiti (Ronzitti, N., op. cit., 42). La CIG si è limitata ad osservare che il non-rispetto dell’obbligo di notifica può essere un’indicazione che lo Stato in questione non sia completamente convinto di agire genuinamente in legittima difesa (Nicaragua, cit., par. 200).
Gli altri requisiti sono previsti dal diritto consuetudinario ma applicabili anche all’art. 51: in particolare, la reazione dovrà essere necessaria e proporzionata (Nicaragua, cit., par. 176; Legalità della minaccia e dell’uso delle armi nucleari, parere consultivo dell’8.7.1996, in ICJ Reports, 1996, par. 41). Necessaria significa che non vi sono alternative all’uso della forza armata per respingere l’attacco armato (Nicaragua, cit., par. 237). Ciò non implica che lo Stato vittima dovrà esaurire mezzi pacifici di soluzione della controversia prima di reagire con le armi, qualora risulti chiaro che tali mezzi sarebbero di scarsa praticabilità ed efficacia. La proporzionalità della reazione va valutata non tanto in relazione alle armi utilizzate dall’aggressore o agli effetti dell’attacco armato, quanto al fine di neutralizzare l’attacco armato: si pensi al caso di scuola dello Stato che occupa militarmente una località indifesa non incontrando resistenza, quindi senza grande dispiego di mezzi, e successivamente consolida il proprio controllo sul territorio, di modo che lo Stato aggredito dovrà usare la forza armata in modo significativo per espellerlo (Greenwood, C., op. cit., 109). La proporzionalità, dunque, non esclude di per sé l’impiego di nessuna arma, neppure quelle nucleari (Legalità delle armi nucleari, cit., par. 42).
Un ulteriore requisito, quello dell’immediatezza della reazione rispetto all’attacco armato, non gode di consenso unanime (a favore, Dinstein, Y., op. cit., 230 s.). In ogni caso, è chiaro che va interpretato in maniera flessibile: è possibile, ad esempio, che una reazione immediata non sia possibile, perché la vittima si trova a riorganizzare le proprie forze dopo un attacco a sorpresa o l’occupazione del suo territorio (Ronzitti, N., op. cit., 41). Nel caso dell’ “Operazione tempesta nel deserto” in supporto del Kuwait attaccato e annesso dall’Iraq (1991), ad esempio, l’attacco armato si verificò il 2 agosto 1990 e la reazione in legittima difesa collettiva iniziò il 16 gennaio dell’anno successivo. Dal momento che l’Iraq aveva completamente annesso il territorio del Kuwait, il cui governo era riparato all’estero, si potrebbe tuttavia in quel caso anche configurare l’attacco armato come un illecito a carattere continuativo a causa dell’occupazione e conseguente annessione del territorio.
Occorre da ultimo menzionare che ulteriori limiti all’esercizio della legittima difesa derivano da altri rami del diritto internazionale. In particolare, la reazione dovrà conformarsi alle norme del diritto internazionale umanitario: lo Stato vittima di un attacco armato non può usare mezzi e metodi di guerra vietati per neutralizzare tale attacco (si veda il Preambolo del primo Protocollo addizionale alle convenzioni di Ginevra del 1949 (1977) secondo cui le norme ivi contenute si applicano «senza alcuna distinzione sfavorevole fondata sulla natura o l’origine del conflitto armato, o sulle cause invocate dalle Parti in conflitto, o ad esse attribuite»).
L’art. 51 prevede due tipi di legittima difesa: individuale e collettiva. Se la prima è esercitata dallo Stato vittima dell’attacco armato, l’altra è prerogativa di Stati terzi in supporto dello Stato vittima. Non è necessario che siano anch’essi vittima di un attacco armato, purché vi sia almeno uno Stato che sia stato attaccato. Il riferimento alla legittima difesa collettiva fu inserito nell’art. 51 a richiesta degli Stati latinoamericani, che volevano garantire la compatibilità con la Carta ONU dei patti di difesa regionali, in particolare l’Atto di Chapultepec (1945). Nella sentenza Nicaragua, la CIG ha avuto modo di specificare i requisiti della reazione in legittima difesa collettiva. In aggiunta a quelli previsti per la legittima difesa individuale, la legittima difesa collettiva prescrive che uno Stato dichiari di essere vittima di un attacco armato e che richieda l’assistenza di altri Stati per reagire e neutralizzare tale attacco (Nicaragua, cit., par. 199).
Si noti che il governo dello Stato vittima dell’attacco armato che richiede l’intervento di altri Stati per respingere l’attacco non dovrà necessariamente dimostrare di essere in controllo di una quantità sufficientemente rappresentativa del territorio nazionale, come avviene per l’intervento “su invito”. Nel caso della legittima difesa, infatti, la legittimità del governo si presume, in quanto l’eventuale perdita totale o parziale del controllo del territorio sarebbe imputabile non a vicende interne, ma ad un attacco armato esterno.
La legittima difesa collettiva è a volte oggetto di trattati con cui gli Stati parti si impegnano ad assistersi a vicenda in caso di attacco armato contro uno di essi: l’esempio più noto è l’art. 5 del Trattato dell’Atlantico del Nord (1949). Tali trattati vanno interpretati conformemente all’art. 51, a cui spesso rinviano espressamente. Un problema di compatibilità si è posto in relazione ai patti di difesa collettiva africani sopra menzionati, che sembrano prevedere un diritto alla legittima difesa più ampio di quello codificato nella Carta ONU (Roscini, M., Neighbourhood Watch, cit., 944 ss.).
Come si è visto, il diritto alla legittima difesa non è soltanto previsto in una norma di carattere pattizio (l’art. 51 della Carta ONU) ma è anche una norma di diritto internazionale generale. Nella sentenza Nicaragua, la CIG ha affermato che il contenuto delle due norme è identico, con un’eccezione: l’obbligo di portare le misure intraprese in legittima difesa a conoscenza del Consiglio di sicurezza esiste per gli Stati membri dell’Organizzazione ma non si è trasformato in diritto consuetudinario (Nicaragua, cit., par. 200). Non pare che, a quasi trent’anni di distanza dalla pronuncia della Corte, vi siano indicazioni che la situazione sia cambiata. La Corte ha inoltre affermato che anche il diritto alla legittima difesa collettiva si è ormai consolidato in una norma consuetudinaria (ibidem, par. 193).
La CIG ha infine cura di precisare che, quantunque il contenuto della legittima difesa nell’art. 51 e nel diritto consuetudinario sia lo stesso, ciascuna norma mantiene la sua separata esistenza, di modo che uno Stato sarebbe vincolato dalla norma consuetudinaria anche in caso di mancata ratifica o di denuncia della Carta ONU, o di modifica della stessa (Nicaragua, cit., par. 176 ss.).
Art. 51 della Carta delle Nazioni Unite (San Francisco, 1945).
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