Abstract
Il significato di legittimazione processuale è dibattuto. Secondo parte della dottrina, è un sinonimo di capacità processuale; altri la plasmano sulla legittimazione ad agire e svalutano ogni differenza tra di esse; vi è infine chi enuclea un concetto autonomo di legittimazione processuale, ritenendo che essa costituisca il potere di stare in giudizio, ossia la titolarità del potere di proporre (o di ricevere) una domanda e di compiere i successivi atti del processo. La stessa incertezza semantica si rinviene in giurisprudenza, che impiega il concetto di legittimazione processuale con diverse accezioni.
Il codice di rito non definisce la legittimazione processuale, che è un concetto di conio dottrinale, successivamente entrato nel linguaggio giurisprudenziale. Per altro, mancano opere monografiche specificamente dedicate al tema, il quale è per solito trattato nei volumi dedicati allo studio dell’azione, soprattutto sul versante soggettivo, oltre che a livello manualistico; vi sono soltanto due sole voci enciclopediche sull’argomento, per altro connotate da un’impostazione completamente diversa, che conduce ad opposti risultati (Tommaseo, F., Legittimazione processuale: I - Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, 1; Costa, S., Legittimazione processuale, in Nss. D.I., IX, Torino, 1963, 732 ss.).
Dal punto di vista della teoria generale del diritto, è sempre stata piuttosto netta la distinzione tra capacità e legittimazione; mentre la prima dipende dalla sussistenza di qualità generali ed astratte, la seconda è integrata da specifiche posizioni soggettive, che rilevano in funzione di determinate fattispecie, con riferimento all’oggetto, od all’altro soggetto di un rapporto. Una norma può dunque subordinare l’efficacia di un atto non solo alla circostanza che sia compiuto da un soggetto fornito di capacità, ma anche alla condizione che costui si trovi in una determinata posizione rispetto all’oggetto, od all’altra parte del rapporto (v. Falzea, A., Capacità: II - Teoria generale, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, 44).
Quando però si tratta di declinare in cosa effettivamente consista la legittimazione, sovente si esclude che ad essa possa attribuirsi un significato preciso (Di Majo, A., Legittimazione: I - Legittimazione negli atti giuridici, in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, 53) ed addirittura affiorano dubbi sulla convenienza di ogni tentativo di approccio sistematico (v. Rescigno, P., Legittimazione - diritto sostanziale, in Nss. D.I., IX, Torino, 1963, 720). Usualmente, con il termine di legittimazione si indica una situazione che può, o meno, coincidere con la titolarità di un diritto, ma che comunque abilita il soggetto legittimato al compimento di un atto; i criteri di legittimazione permettono dunque di individuare il soggetto che può porre in essere un determinato atto ed il destinatario di tale atto (v. Palermo, G., Legittimazione civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1996, 1 ss.; Carnelutti, F., Teoria generale del diritto, III ed., Roma, 1951, 238 ss.).
Sul terreno processuale, in via di prima approssimazione il problema della legittimazione si risolve nell’individuazione, dal punto di vista attivo, di chi può esercitare validamente l’azione e, dal punto di vista passivo, di colui nei confronti del quale l’azione può essere validamente esercitata.
In particolare, è ormai pacifica la distinzione tra legittimazione ad agire (legitimatio ad causam) e legittimazione processuale (talora chiamata anche legitimatio ad processum), sebbene tale distinzione sia stata svalutata da una parte minoritaria, ancorché autorevole, della dottrina più classica (v. infra, § 2).
La legittimazione ad agire spetta a colui che si afferma come titolare del diritto dedotto in giudizio, mentre la legittimazione a contraddire si configura in capo a chi è affermato nella domanda come titolare dell’obbligo. La legittimazione ad agire, dunque, non dipende dalla titolarità della situazione sostanziale, ma esclusivamente dalla prospettazione, ossia dall’affermazione di essere titolari di un determinato rapporto giuridico; specularmente, la legittimazione a contraddire presuppone che il convenuto sia affermato come titolare dell’obbligo il cui adempimento è oggetto della domanda (v., anche per riferimenti e per l’indicazione delle varie tesi sostenute al proposito, Costantino, G., Legittimazione ad agire, in Enc. giur. Treccani, 1990, 1 ss.; Corsini, F., Delle parti, in Commentario al codice di procedura civile, a cura di S. Chiarloni, artt. 75-81, Bologna, 2016, 305).
Con riferimento alla legittimazione processuale, invece, si registrano – da sempre – posizioni non solo diverse, ma spesso inverse, anche quando si tratta di delinearne i rapporti con la capacità processuale. Posizioni le quali non sono altro che il frutto, in definitiva, di diversi modi di concepire il processo e l’azione, oltre che di ricostruire altri concetti di teoria generale, come la capacità, il potere giuridico ed il diritto soggettivo.
Del resto, già Betti evidenziava come la legitimatio ad processum costituisse un termine improprio ed equivoco (Betti, E., Diritto processuale civile italiano, Roma, 1936, 127), ed anche Allorio notava come essa fosse «ben lungi dall’essere» fissata (cfr. Allorio, E., Processo e apparenza giuridica, in Problemi del diritto, II, Milano, 1957, 210; in tempi più recenti, v. Tommaseo, F., Legittimazione processuale, cit., 1).
In particolare, come si vedrà, secondo la tesi più tradizionale di matrice chiovendiana, la legittimazione processuale coincide con la capacità processuale; altri, invece, la plasmano sulla legittimazione ad agire; vi è infine chi – e questa a noi pare la opinione più convincente – enuclea un concetto autonomo di legittimazione processuale.
Chiovenda ritiene che la legitimatio ad processum sia la capacità di stare in giudizio, ossia la capacità di compiere atti processuali con effetti giuridici in nome proprio, o per conto d’altri. La legittimazione processuale, dunque, è «da non confondersi con la legitimatio ad causam», che egli intende come «la identità della persona dell’attore colla persona a cui la legge concede l’azione (legittimazione attiva), e la identità della persona del convenuto colla persona contro cui l’azione è concessa (legittimazione passiva): mentre col nome di legitimatio ad processum si indica la capacità di stare in giudizio per sé o per altri» (v. Chiovenda, G., Principii di diritto processuale civile, Le azioni - Il processo di cognizione, III ed., Napoli, 1923, rist. 1980, 152 e 589).
L’autorevolezza di Chiovenda ha inevitabilmente influenzato una parte significativa della dottrina successiva. Basti pensare che nel 1963, quando per la prima volta viene pubblicata una voce enciclopedica dedicata autonomamente alla legittimazione processuale, essa esordisce, in modo perentorio, con questa affermazione: «legittimazione processuale … è detta la capacità processuale, cioè la capacità di agire nel processo». Coerentemente, poi, in tale contributo dottrinale si sviluppano (esclusivamente) considerazioni relative all’art. 75 c.p.c., alla capacità, alla rappresentanza ed all’assistenza nel processo degli individui e degli enti e, soltanto in una breve nota a piè pagina, viene dato conto dell’esistenza dei dubbi che già all’epoca affioravano circa il concetto di legittimazione processuale (Costa, S., Legittimazione processuale, cit., 732 ss.; nel senso che legittimazione processuale sia sinonimo di capacità processuale v. anche Calamandrei, P., Istituzioni di diritto processuale civile, II pt., Padova, 1943, 239).
In una prospettiva diametralmente opposta, altri autori, sia pure con diversi toni, inquadrano la legittimazione processuale nell’ambito della legittimazione ad agire (così Carnelutti, F., Sistema del diritto processuale civile, Atti del processo, II, Padova, 1938, 142 ss.; Barbero, D., La legittimazione ad agire in confessoria e negatoria servitutis, II ed., Milano, 1950, 32 ss.). In quest’ottica, Garbagnati afferma che la distinzione tra legitimatio ad causam e legitimatio ad processum può essere mantenuta soltanto su base convenzionale, per esprimere l’antitesi tra la titolarità del potere di azione e la titolarità, sia da parte dell’attore che del convenuto, di altri poteri giuridici processuali. Quindi la legittimazione ad agire si profila come il potere di provocare, tramite la proposizione della domanda giudiziale, l’esercizio del potere giurisdizionale; la legittimazione processuale, invece, si può concettualmente definire (con riferimento ad ogni singolo atto processuale diretto a provocare l’emanazione di un provvedimento istruttorio od ordinatorio, ovvero ad incidere con i suoi effetti sullo svolgimento del processo, o sul contenuto del provvedimento giurisdizionale) come «la titolarità del potere di causare, mediante il compimento dell’atto stesso, la produzione degli effetti giuridici propri di un atto processuale di quel dato tipo» (Garbagnati, E., La sostituzione processuale, Milano, 1942, 157 ss.).
Sempre nell’ambito delle tesi che collocano la legittimazione processuale nell’alveo della legittimazione ad agire, va ricordata la posizione di chi ha cercato di tracciare un’ulteriore distinzione tra legittimazione processuale e legitimatio ad processum. Secondo questa ricostruzione, la prima designa, in modo generico, «qualunque legittimazione ad agire o a ricevere, relativa ad effetti processuali», mentre la seconda indica la legittimazione a compiere le attività processuali idonee per l’emissione di un provvedimento di merito. «Normalmente, il diritto di compiere tali attività spetta al soggetto che ha il diritto ad ottenere il relativo provvedimento, salvo però che costui non sia rappresentato in processo ed altri consimili. Salvi, dunque, questi casi, la legitimatio ad causam comprende e assorbe in sé la legitimatio ad processum» (cfr. Monacciani, L., Azione e legittimazione, Milano, 1951, 384 s.).
La tesi preferibile è quella che attribuisce alla legittimazione processuale un significato autonomo rispetto alla capacità processuale ed alla legittimazione ad agire.
In particolare, l’autore che ha maggiormente approfondito i profili della rappresentanza processuale ha evidenziato come, sebbene l’art. 75 c.p.c. non utilizzi ex professo il termine legittimazione processuale, la norma menzioni comunque una situazione soggettiva ad essa corrispondente, ossia il potere di stare in giudizio, che indica la titolarità del potere di proporre (o di ricevere) una domanda e di compiere i successivi atti del processo. La legittimazione processuale è considerata un «secondo grado di qualificazione soggettiva processuale, al di sopra della qualità di parte», con la differenza che, mentre quest’ultima qualità deriva dalla proposizione della domanda, la legittimazione processuale sussiste indipendentemente da tale proposizione (v. Mandrioli, C., La rappresentanza nel processo civile, Torino, 1959, 86 ss.; Id., Art. 75, in Comm. Allorio, I, 2, Torino, 1973, 886 ss.).
L’art. 75 c.p.c. compie una commistione di concetti e di istituti, perché fa dipendere l’esistenza della capacità processuale non dalla pura e semplice esistenza della capacità di agire (v. Corsini, F., Delle parti, cit., 97 ss.), ma dall’avere la parte il libero esercizio dei diritti, ossia da una posizione che trascende l’ambito della capacità di agire, includendo elementi che già appartengono alla legittimazione. Il libero esercizio dei diritti, infatti, presuppone non solo la capacità di agire, ma anche l’assenza di situazioni impeditive all’esercizio dei diritti di cui un soggetto è titolare (come nel caso della dichiarazione di fallimento, per l’esercizio dei diritti di natura patrimoniale) (cfr. Mandrioli, C., Art. 75, cit., 888, il quale parla di «reciproco offuscamento di nozione eterogenee», riguardo alla sovrapposizione tra capacità e legittimazione operata dall’art 75 c.p.c.).
La distinzione tra capacità e legittimazione processuale assume rilievo in tutte e tre le possibili forme di rappresentanza: legale, organica e volontaria.
Quando un soggetto è privo della capacità, l’esercizio dei suoi diritti processuali è attribuito dalla legge ad un terzo che, per effetto dell’investitura rappresentativa, acquista la legittimazione processuale, compiendo tutti gli atti processuali in nome e per conto della parte che rappresenta. Anche nel caso della rappresentanza organica si assiste ad una scissione tra capacità e legittimazione processuale, la prima spettando all’ente, la seconda all’organo (cfr. Liebman, E.T., Manuale di diritto processuale civile. Principi, VIII ed., a cura di V. Colesanti e E. Merlin, Milano, 2012, 90, oltre a Comoglio, L.P.-Stesuri, A., Art. 75 c.p.c., in Comm. c.p.c. Comoglio-Consolo-Sassani-Vaccarella, Torino, 2012, 75, nt. 53). Nell’ipotesi di rappresentanza volontaria, il soggetto rappresentato è sicuramente capace, come lo è anche il rappresentante, che però, in virtù dei poteri conferitigli, ha anche un quid pluris oltre alla capacità, appunto il potere di stare in giudizio o legittimazione processuale, che gli viene attribuito tramite la procura dal rappresentato; in mancanza della procura, il rappresentato, pur capace processualmente, non è legittimato.
La legittimazione processuale non si identifica dunque con la capacità processuale, ma ne costituisce una proiezione dinamica, consistendo nel potere di stare in giudizio e di compiere gli atti del processo. Ed ovviamente risulta evidente l’ulteriore, ed ancora più marcata, differenza tra la legittimazione processuale e la legittimazione ad agire (v. supra, § 1).
Tale ricostruzione appare anche coerente con la già accennata distinzione, a livello di teoria generale, tra capacità e legittimazione (v. supra, § 1). La capacità processuale dipende dall’esistenza in capo ad un soggetto di una certa qualità, che è generale; la legittimazione processuale, e quindi il potere di proporre la domanda, dipende dalla specifica posizione di un soggetto in relazione ad un determinato atto (v. questa antitesi già in Carnelutti, F., Sistema, cit., 142). Ad esempio, il fallito, l’inabilitato e l’emancipato, pur essendo capaci (perché maggiorenni e non interdetti), sono privi di legittimazione processuale, perché non hanno il potere di stare in giudizio in relazione a determinate controversie (v. Tommaseo, F., Legittimazione processuale, cit., 1).
Esula dalla funzione e dagli scopi della presente voce lo svolgimento di un’approfondita analisi della giurisprudenza che, ormai da decenni, ha mutuato dalla dottrina il concetto di legittimazione processuale. Ciononostante, per completezza di indagine pare comunque utile soffermarsi su alcune recenti pronunce, che testimoniano come, nella pratica, tale concetto continui – a nostro avviso non sempre consapevolmente – ad essere utilizzato con diverse accezioni, le quali a grandi linee corrispondono alle tre tesi dottrinali dianzi illustrate.
Ad esempio, Cass., 25.9.2017, n. 22279, nel caso di fallimento di una società di persone e dei soci illimitatamente responsabili ex art. 147 l.fall., ha ritenuto che «il curatore del fallimento sociale non ha legittimazione processuale nelle controversie coinvolgenti la massa attiva personale del fallimento del socio che abbia ad oggetto diritti che già spettavano al fallito; tale legittimazione deve, viceversa, essere riconosciuta nel caso di azione revocatoria contro atti di disposizione del socio». Esaminando la motivazione, appare abbastanza chiaramente che, in tal caso, la legittimazione processuale sia considerata un omologo della legittimazione ad agire (in questo senso v. anche Cass., 25.5.2017, n. 13183, per cui la cancellazione della società di persone dal registro delle imprese determina l’estinzione della società stessa; di conseguenza, quando ciò intervenga nella pendenza di un giudizio, «la legittimazione sostanziale e processuale, attiva e passiva, si trasferisce automaticamente, ai sensi dell'art. 110 c.p.c., ai soci quali successori a titolo universale divenuti partecipi della comunione in ordine ai beni residuati dalla liquidazione o sopravvenuti alla cancellazione»; equipara legittimazione ad agire e legittimazione processuale anche Cass., 12.5.2016, n. 9776, per cui «non è necessario che l’eccezione di difetto di legittimazione attiva venga riproposta in grado di appello ai sensi dell’art. 346 c.p.c.; tale norma, infatti, si riferisce alle sole eccezioni in senso stretto, mentre quella di difetto di legittimazione processuale è eccezione rilevabile anche d’ufficio, con il solo limite del giudicato»).
Diversamente, Cass., 6.6.2017, n. 13991 pone sullo stesso piano capacità e legittimazione processuale, stabilendo che «la perdita della capacità processuale del fallito, conseguente alla dichiarazione di fallimento relativamente ai rapporti di pertinenza fallimentare, essendo posta a tutela della massa dei creditori, ha carattere relativo e può essere eccepita dal solo curatore, salvo che la curatela abbia dimostrato il suo interesse per il rapporto dedotto in lite, nel qual caso il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto ed è perciò opponibile da chiunque e rilevabile anche d'ufficio» (analogamente v. Cass., 6.7.2016, n. 13814).
Infine, Cass., 15.6.2017, n. 14894 sposa una concezione autonoma di legittimazione processuale, ritenendo che il procuratore generale ad negotia, al quale siano attribuiti poteri di rappresentanza processuale, «diviene titolare di una legittimazione processuale non esclusiva rispetto a quella originaria del rappresentato, il quale può subentrargli e sostituirlo in qualunque momento del processo» (cfr. anche Cass., 28.3.2017, n. 7889, secondo la quale il curatore speciale, nominato ex art. 320 c.c., «ha poteri di rappresentanza del minore identici a quelli del genitore, sicché ha legittimazione processuale quanto ai giudizi che sorgono in relazione all’atto – nella specie, una donazione – per cui sia stata disposta la nomina»).
Il problema rappresentato dall’individuazione del significato da attribuire alla legittimazione processuale non rileva soltanto dal punto di vista teorico, ma riveste notevole importanza per risolvere i casi (patologici) in cui manchi.
Se si considera la legittimazione processuale un sinonimo di capacità processuale, la sua mancanza determina il difetto di un presupposto processuale ed il procedimento si deve chiudere con una sentenza di rito, che dia atto di tale difetto; il vizio incide sulla regolarità del contraddittorio ed è ovviamente rilevabile di ufficio in ogni stato e grado (v. Corsini, F., Delle parti, cit., 99 ss.). Analoga rilevabilità consegue alla mancanza della legittimazione processuale, qualora la si parifichi alla legittimazione ad agire; diversamente dalla prima ipotesi, però, nel caso di sua carenza manca una condizione dell’azione e non un presupposto processuale.
Ragionamento radicalmente diverso è quello che deve essere svolto se si intende la legittimazione processuale come concetto autonomo, che designa il potere di stare in giudizio. Laddove erroneamente l’attore proponga la domanda nei confronti di un soggetto che ne è privo, non si verifica sempre una nullità, come invece accade se la domanda è proposta nei confronti di un soggetto incapace. Così se, nell’atto di citazione notificato ad una persona giuridica, è erroneamente indicato il rappresentante organico, ma l’ente è correttamente identificato e la notifica è avvenuta ai sensi dell’art. 145 c.p.c., la domanda è valida e, se il convenuto non si costituisce, dovrà essere dichiarato contumace (v. Tommaseo, F., Legittimazione processuale, cit., 2).
Addirittura, in una fattispecie in cui una società in accomandita semplice è stata convenuta in persona del socio accomandatario, anziché dei liquidatori nominati con atto iscritto nel registro delle imprese prima della notificazione dell’atto introduttivo, la Cassazione ha stabilito che ciò determina la nullità dell’atto stesso solo quando si traduca in incertezza assoluta sull’identificazione dell’ente, risolvendosi, altrimenti, in una mera irregolarità, sanabile ex tunc con la costituzione in giudizio della società, in persona dei suoi effettivi legali rappresentanti (v. Cass., 2.10.2015, n. 19709).
Un profilo di invalidità potrebbe verificarsi unicamente in relazione alla costituzione in giudizio della persona giuridica convenuta, qualora avvenga tramite un soggetto privo della legittimazione processuale. Viceversa, qualora l’atto di citazione sia proposto da una persona giuridica rappresentata da un soggetto che non è il suo rappresentante organico, si verificherà una nullità, rilevabile di ufficio, per difetto di legittimazione processuale. Per altro non sempre il difetto di legittimazione processuale è rilevabile di ufficio, soffrendo tale regola qualche eccezione laddove concorrano altri e prevalenti principi, come nel caso di perdita della legittimazione processuale del fallito, che ha carattere relativo e può essere eccepita dal solo curatore, salvo che la curatela abbia dimostrato il suo interesse per il rapporto dedotto in lite (v. le sentenze citate supra, § 5, oltre a Tommaseo, F., Legittimazione processuale, cit., 2).
Fonti normative
Art. 75 c.p.c.
Bibliografia essenziale
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