Abstract
Ricostruire in chiave unitaria il concetto di parte del processo costituisce un esercizio complesso, in assenza di una definizione legislativa. Il significato può essere diverso, a seconda delle differenti norme in relazione a cui viene in rilievo; talora con il termine parti possono essere indicati i soggetti (privati) del processo, talaltra i soggetti del rapporto giuridico sostanziale.
Gli artt. 75-81 c.p.c. sono contenuti nel capo I, titolo terzo, libro terzo del codice di procedura cvile, intitolato Delle parti; essi disciplinano quattro istituti che riguardano la parte del processo: la capacità, la rappresentanza, la nomina di un curatore speciale e la sostituzione. Gli artt. 75-81 c.p.c. non forniscono però una definizione di parte. Tali norme, invero, nemmeno menzionano espressamente la parte, quantunque essa costituisca indubitabilmente il presupposto del loro contenuto precettivo: la parte, infatti, può avere o meno capacita processuale, può farsi rappresentare (in modo, necessario, volontario od “organico”), può essere in conflitto di interessi, può essere sostituita, nei casi espressamente previsti dalla legge, da un soggetto che agisce in nome proprio per far valere un diritto altrui.
Nemmeno vi sono altre norme del codice di procedura civile che definiscano la parte; piuttosto, è interessante rilevare come, nel libro I, spesso la parola “parte” venga atecnicamente alternata a quella di “persona” (cfr., oltre agli stessi artt. 75 e 79, gli artt. 10, 11, 33 e 105 c.p.c.); altre volte, nelle norme relative al processo di cognizione ed ai procedimenti speciali, si parla di “controparte” (artt. 186 ter, 420, co. 7, e 436 c.p.c.); assai spesso, poi, per designare una specifica parte sono utilizzati i termini di attore, convenuto, ricorrente e, nel processo esecutivo, creditore e debitore.
È allora inevitabile che, per determinare chi siano le parti del processo, rivesta massimo rilievo l’analisi dell’elaborazione dottrinale. Per altro, è opportuno evidenziare come stabilire chi sia parte e chi invece non lo sia (e debba dunque considerarsi terzo) non costituisca un’operazione teorica fine a se stessa, ma rivesta fondamentale rilievo, dal momento che influenza in modo decisivo la ricostruzione di altri istituti nodali del processo, come, ad esempio, l’interesse e la legittimazione ad agire, la litispendenza, il contradditorio, il litisconsorzio, l’intervento, la successione, l’opposizione di terzo ed i limiti del giudicato. Come è stato autorevolmente rilevato, «il problema della parte è … il problema del processo, poiché nella parte viene indubitabilmente a confluire e risolversi tutta la problematica del processo» (Satta, S., Il concetto di parte, in Riv. dir. civ., 1957, I, 69).
Il codice di procedura civile del 1865 non conteneva una definizione di parte.
È soltanto grazie all’opera di Giuseppe Chiovenda che il concetto di parte inizia ad essere delineato, sulla base dell’insegnamento della dottrina tedesca, che già aveva elaborato il tema dal punto di vista dogmatico (v. Proto Pisani, A., Parte nel processo: a - Diritto processuale, in Enc. dir., XXXI, Milano, 1981, 918 s.).
Chiovenda individua la parte in «colui che domanda in proprio nome (o nel cui nome è domandata) una attuazione di legge, e colui di fronte al quale essa è domandata» (cfr. Chiovenda, G., Istituzioni di diritto processuale civile, II, Napoli, 1934, 199 s.; Id., Principii di diritto processuale civile, Le azioni-Il processo di cognizione, IV ed., Napoli, 1928, 579). Tale definizione è evidentemente legata a doppio filo alla teoria chiovendiana di processo e di rapporto giuridico processuale. Il processo, infatti, è concepito come un complesso di atti coordinati in vista di uno scopo unitario, consistente nell’attuazione di una volontà concreta di legge, da parte degli organi giurisdizionali. Il rapporto giuridico processuale è quel particolare rapporto che si instaura tra l’attore, il convenuto ed il giudice, in modo autonomo rispetto all’esistenza della volontà concreta di legge affermata dalle parti, che ha come contenuto il dovere dell’organo giurisdizionale adito di provvedere sulle domande delle parti.
La parte, quindi, è necessariamente intesa in chiave soltanto processuale: «non occorre cercarla fuori della lite e in particolare nel rapporto sostanziale che è oggetto di controversia: poiché da un lato vi possono essere soggetti di un rapporto giuridico litigioso che non sono nella lite … d’altro lato si può dedurre in lite un rapporto sostanziale da una persona o di fronte a una persona che non è il soggetto di quel rapporto» (v. Chiovenda, G., Istituzioni, cit., 51 ss.).
Enrico Redenti, in ragione della distinzione tra azione in senso sostanziale (ossia il diritto o la pretesa) ed azione in senso processuale (ossia la domanda o l’istanza), avverte che non devono essere sovrapposte la “parte dell’azione” con la “parte del processo”. Dunque, può accadere che la domanda sia proposta da un soggetto cui, in realtà, non spetta quell’azione in senso sostanziale che egli pretende di fare valere, oppure che la domanda sia proposta contro un soggetto diverso da quello contro cui andrebbe esercitata l’azione. D’altro canto, è anche possibile che la posizione processuale delle parti sia esattamente inversa rispetto alla loro posizione sostanziale, come nel caso dell’opposizione a decreto ingiuntivo (cfr. Redenti, E., Profili pratici del processo civile, Milano, 1938, 248 s.).
Antonio Segni – nella prima voce di un’enciclopedia o di un digesto dedicata alla parte nel processo (civile e penale) (v. Segni, A., Parte, in Enc. it., XXVI, Roma, 1949, ristampa ed. 1935, 418 ss.) – ritiene errato costruire il concetto di parte con riferimento al rapporto sostanziale oggetto della lite; egli reputa che la qualità di parte spetti a prescindere dalla legittimazione ad agire, e che siano parti tutti coloro ai quali la legge processuale attribuisce diritti ed oneri, in conseguenza della proposizione della domanda giudiziale. Il concetto di parte è considerato unico, non potendosi distinguere tra parte formale e sostanziale, nel senso di riconoscere una categoria di parti sostanziali «costituita dai soggetti del rapporto sostanziale (soggetti della lite), in confronto a una categoria di parti formali costituita dai rappresentanti legali, institori, sostituti processuali, pubblico ministero». Parte è chi agisce nel processo in proprio nome e quindi, nel caso di rappresentanza, è parte il rappresentato e non il rappresentante (cfr. Segni, A., Parte, cit., 418 s.).
Considerazioni pressoché analoghe a quelle di Segni sono svolte da Sergio Costa, (v. Costa, S., L’intervento coatto, Padova, 1935, 4 ss.). Egli infatti nota come si debba prescindere dal rapporto sostanziale controverso, dovendosi ricercare l’essenza del concetto di parte nel processo. Chi non è parte del processo è necessariamente terzo; tali sono il sostituito, che è parte del rapporto sostanziale, ed il rappresentante, che pure è «un terzo presente in giudizio» (v. Costa, S., L’intervento coatto, cit., 6 ss.).
Di avviso radicalmente diverso è Francesco Carnelutti, coerentemente con la propria ricostruzione concettuale del processo che sarebbe «un’operazione mediante la quale si ottiene la composizione della lite» (cfr. Carnelutti, F., Sistema di diritto processuale civile, I, Padova, 1936, 44). Il soggetto della lite è chiamato parte in senso sostanziale, per contrapporlo al soggetto dell’azione, che è la parte in senso formale. Queste nozioni non sono tanto diverse, essendo piuttosto inverse; «soggetto della lite è colui, rispetto al quale si fa il processo e il quale perciò ne subisce gli effetti; soggetto dell’azione è colui che lo fa o, almeno, concorre a farlo e così a determinare quegli effetti; il contrasto si profila nettamente tra una funzione attiva e una funzione passiva».
In conclusione, secondo Carnelutti, il termine “parte” riveste più di un significato, dato che indica sia il soggetto della lite (parte materiale o sostanziale), che il soggetto dell’azione (parte in senso formale); dunque, ad esempio, l’interveniente per adesione è terzo se per parte si intende il soggetto della lite, mentre è parte se, con questo termine, si indica il soggetto dell’azione (v. Carnelutti, F., Sistema, cit., 393 ss.; Id., Lezioni di diritto processuale civile, Padova, 1920, II, 297 ss.).
Tesi diversa, sia da quella propugnata da Carnelutti che da quella sostenuta dalla dottrina di matrice chiovendiana, è quella elaborata da Ugo Rocco, che rigetta la distinzione tra parte processuale e parte sostanziale, perché, a suo avviso, la determinazione del concetto di parte deve completamente prescindere dalla posizione, sostanziale o processuale, che un determinato soggetto assume in particolare e determinato processo (cfr. Rocco, U., La legittimazione ad agire, Roma, 1929, 137 ss.). Per parte, dunque, deve intendersi qualsiasi soggetto autorizzato dalla legge a chiedere in nome proprio «la realizzazione, mediante provvedimenti giurisdizionali di natura varia, di un rapporto giuridico proprio o altrui». In sostanza «il concetto di parte coincide con quello di soggetto legittimato ad agire od a contraddire, cioè parte altro non è che il soggetto del diritto di azione o di contraddizione» (cfr. Rocco, U., La legittimazione, cit., 139).
Il dibattito dottrinale circa il significato di parte si perpetua anche dopo l’entrata in vigore dell’attuale codice di procedura civile, dal momento che, come dianzi rilevato, esso non contiene una definizione di parte.
Il primo contributo, sostanzialmente coevo al nuovo codice, è quello di Edoardo Garbagnati nell’ambito della propria opera dedicata alla sostituzione processuale. Egli, per la prima volta, ha l’intuizione di muovere dall’esame delle norme positive per elaborare una definizione di parte, di cui sottolinea il significato relativo, più che assoluto (cfr. Garbagnati, E., La sostituzione processuale, Milano, 1942, 243 ss.).
In alcune disposizioni (ad esempio quelle sulla comparizione, o sul rilievo di eccezioni) il termine “parti” indica i soggetti «che agiscono o sono chiamati a contraddire in un processo, nell’esercizio di poteri giuridici processuali»; in tutti questi casi, parti sono i soggetti che compiono o sono chiamati a compiere atti processuali, sia che agiscano in nome proprio od altrui, sia che coincidano o meno con i titolari del rapporto giuridico controverso.
In un secondo gruppo di norme (tra cui quelle sulla condanna alle spese), invece, il termine “parte” individua il soggetto di diritti, obblighi, od oneri processuali. In queste evenienze, il legislatore si riferisce «non ai soggetti del processo, quali soggetti degli atti processuali, bensì ai soggetti del processo, quali soggetti degli effetti giuridici puramente processuali (che non toccano cioè – direttamente od attraverso il provvedimento giurisdizionale in cui il processo sbocca – il rapporto giuridico litigioso)». E ciò, indipendentemente dalla loro coincidenza con i soggetti degli atti processuali, o chiamati ad agire processualmente, e con i titolari del rapporto litigioso.
Vi sono infine altre norme (come gli artt. 2908 e 2909 c.c.) in cui il termine “parti” indica i titolari del rapporto giuridico litigioso, soggetti agli effetti prodotti su tale rapporto dalla sentenza.
Garbagnati afferma comunque che, volendo enucleare una definizione unitaria, le parti sono i soggetti del complesso dei diritti degli obblighi e degli oneri, i quali nascono «in occasione del processo e del processo stesso (o di singoli atti processuali: in particolare, della domanda giudiziale) costituiscono gli effetti giuridici puramente processuali». I soggetti che agiscono, o sono chiamati a contraddire nel processo, vengono invece chiamati soggetti processuali parziali (cfr. Garbagnati, E., La sostituzione, cit., 249 s.).
Le tesi di Garbagnati sono successivamente riprese e sviluppate su basi differenti da Crisanto Mandrioli (v. Mandrioli, C., La rappresentanza nel processo civile, Torino, 1959, 120 ss.; Id., Premesse generali allo studio della rappresentanza nel processo civile, Milano, 1957, passim). In primis – a testimonianza di come il concetto di parte sia intimamente legato alle basi dogmatiche su cui ciascun autore fonda la propria concezione di processo – Mandrioli, in linea con le teorie più moderne, abbandona la tradizionale figura del rapporto giuridico processuale. Indi suddivide le norme processuali in tre insiemi, che in pratica coincidono con quelli elaborati da Garbagnati dei quali abbiamo testé dato conto, ed afferma che dal testo di ciascuna disposizione – la quale attribuisce un certo ruolo alla parte – si deve risalire alla situazione di diritto, che consente al soggetto qualificato come parte di svolgere quel determinato ruolo.
Come esempio del primo gruppo, Mandrioli ricorda l’art. 157 c.p.c., per cui non può pronunciarsi la nullità di un atto senza istanza di parte. In questo insieme di norme, la parola “parte” indica il soggetto che, avendo con la propria attività esercitato il potere (oppure avendo subito, in qualità di destinatario, l’esercizio del potere) di provocare una pronuncia del giudice, è divenuto titolare di uno o più poteri processuali (o ha acquistato un ruolo soggettivo di destinatario rispetto all’esercizio di poteri processuali altrui) e, in tale veste, sta in giudizio con l’attività effettiva o almeno potenziale. Norma campione del secondo insieme è costituita dall’art. 299 c.p.c. (oltre che dall’art. 91 c.p.c.), per cui la morte o la perdita di capacità dei soggetti designati come parti dà luogo all’interruzione del processo. In tal caso, parte è colui che sta in giudizio col nome comportandosi, o potendosi comportare, come possibile titolare di una eventuale azione. Il terzo gruppo di norme è identico a quello enucleato da Garbagnati e comprende tutte quelle disposizioni, come gli artt. 2908 e 2909 c.c., in cui il termine “parti” indica i soggetti del rapporto litigioso che, pur non stando in giudizio con il nome, sono, da un lato, sottoposti al giudicato, e, dall’altro lato, legittimati ad intervenire (v. Mandrioli, C., La rappresentanza, cit., 130 ss.).
Mandrioli giunge a costruire una nozione unitaria di parte, elaborandola sulla base di ciascuno dei tre significati di parte enucleati con riferimento ad ognuno dei tre gruppi di norme. In particolare, egli rileva che tutti e tre i significati di parte presentano una caratteristica comune e schiettamente giuridica, costituita dalla titolarità di una o più situazioni giuridiche processuali, sia che si tratti di semplice titolarità di uno o più poteri processuali, della titolarità di un’azione, o dello stare in giudizio col nome per l’esercizio di un’azione, ovvero della legittimazione ad un’azione non proposta, ma proponibile, o da proporsi in un processo pendente.
La parte del processo può così essere unitariamente definita come «quel soggetto che, a seguito della proposizione di una domanda o comunque di un atto idoneo a provocare una pronuncia del giudice, diviene titolare o è considerato dalla legge come titolare di una o più situazioni giuridiche soggettive processuali con le quali sta nel processo con l’attività o col nome o che gli consentono di entrare nel processo del quale subisce gli effetti sostanziali».
Applicando questa concezione all’oggetto specifico del proprio studio, Mandrioli ritiene che siano parti tanto il rappresentato, il quale è titolare dell’azione essendo titolare del potere di stare in giudizio con il nome, che il rappresentante, il quale sta in giudizio con l’attività, essendo titolare dei corrispondenti poteri processuali. Il significato del termine parte, però, è diverso nei due casi; sicché non si può stabilire a priori se parte sia sempre il rappresentante od il rappresentato, dovendosi invece ciò determinare volta per volta, esaminando il contenuto della disposizione che fa riferimento al termine “parte” e risalendo alle caratteristiche tipiche dell’effetto giuridico che essa determina e, quindi, alle caratteristiche della situazione giuridica, sul cui titolare codesti effetti possono tipicamente determinarsi. Se dunque la legge intende per parte il soggetto che sta in giudizio con il nome, questo sarà il rappresentato; se invece vuole designare il titolare dei poteri processuali, esso sarà il rappresentante (v. Mandrioli, C., La rappresentanza, cit., 120 ss. e 143 ss.).
La dottrina assolutamente prevalente, anche sotto il vigore del nuovo codice, continua a seguire l’impostazione tracciata da Chiovenda: la parte è dunque ricostruita in chiave strettamente processuale, ed è individuata in colui che propone la domanda, o nel cui nome la domanda è proposta, ed in colui nei cui confronti la domanda è proposta (v. ad esempio Zanzucchi, M.T., Diritto processuale civile, I, Milano, 1955, 304 s.; Calamandrei, P., Istituzioni di diritto processuale civile, II pt., Padova, 1943, 185 ss.).
In una posizione del tutto peculiare si pone Satta, il quale concepisce la parte in modo coerente con la propria concezione di azione e processo (cfr. Satta, S., Il concetto di parte, cit., 68 ss.). La parte è indissolubilmente legata all’azione; «la parte non è se non l’azione considerata nel soggetto che la svolge … nell’idea di parte c’è la profonda intuizione della dialettica dell’azione, dell’azione che non è compiuta, cioè non esiste come tale, se non attraverso l’azione di un altro, del risolversi dell’azione così compiuta nel divenire».
La parte si immedesima perciò nell’azione e non deve esservi spazio per contrapposizioni tra parte processuale e sostanziale, tra parte giusta ed ingiusta. Coerentemente con la propria negazione dell’autonomia dell’azione rispetto al diritto sostanziale, Satta ritiene che in tali classificazioni di parte si annidi un equivoco, visto che esse rompono l’unità dell’ordinamento, isolando il processo dal diritto e quindi il diritto dall’azione; attraverso il processo e l’azione si esprime invece sempre la relazione del soggetto con l’ordinamento.
Non è quindi concepibile una scissione della parte dall’azione ed in particolare dall’interesse di cui si postula il riconoscimento; «la parte è niente altro che la soggettivizzazione dell’interesse: ed è attraverso l’interesse che si stabilisce la relazione tra la parte e l’ordinamento … perciò la parte si individua dalla domanda, sì, ma non dalla domanda priva di contenuto e di oggetto, come si ritiene dalla dottrina, bensì dalla domanda proprio in quanto è affermazione dell’interesse» (cfr. Satta, S., Commentario al codice di procedura civile, I, Milano, 1959, 256).
Per acquisire la qualità di parte, è necessario ricoprire una certa posizione giuridica rispetto al giudizio ed al suo oggetto, e l’interesse è appunto determinato da questa posizione giuridica, che di regola è la titolarità del diritto che si fa valere, come nel caso del proprietario che agisce in rivendica; in altri casi, però, l’interesse che legittima la qualità di parte risiede in altre posizioni giuridiche, diverse da quelle del titolare del diritto, come nel caso dell’art. 117 c.c. circa la legittimazione degli ascendenti all’impugnazione del matrimonio, o dell’art. 263 c.c. in cui la qualità di parte è attribuita a chiunque abbia interesse ad impugnare il riconoscimento del figlio naturale (v. Satta, S., Diritto processuale civile, II ed., Padova, 1951, 59).
Un dato che può oggi dirsi sostanzialmente acquisito è quello della relatività del concetto di parte (su cui v. Proto Pisani, A., Parte, cit., 920 ss.; Mandrioli, C., La rappresentanza, cit., 130). Del resto, anche lo stesso Chiovenda aveva cura di avvertire che dalla nozione di parte non deriva sempre la soluzione a tutti i problemi empirici che si possono in concreto porre. Conviene quindi «di volta in volta aver riguardo non tanto alla lettera della norma che usa la parola parte o la parola terzo, quanto alla ragione della norma»; la parte, perciò, può essere intesa in modo più o meno ampio (v. Chiovenda, G., Principii, cit., 578 s.).
Accanto a norme, senza dubbio maggioritarie, che presuppongono una nozione di parte in senso processuale (ad esempio l’art. 157 c.p.c.) ve ne sono altre che, con il termine “parte”, designano i soggetti del rapporto sostanziale controverso e non i soggetti del processo. Anche senza voler richiamare l’art. 2909 c.c. sull’estensione degli effetti dell’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, basti rammentare l’art. 102 c.p.c. in tema di litisconsorzio necessario. In questo caso, per verificare quando la sentenza «non può pronunciarsi che in confronto di più parti», e se quindi tutte queste debbono agire od essere convenute nello stesso processo, si deve avere riguardo alle parti del rapporto sostanziale controverso e non certo alle parti del processo, poiché prima che «queste agiscano o siano convenute nello stesso processo» non si è ancora verificato alcun fatto costitutivo della qualità di parte in senso processuale (per tutti v. Costantino, G., Contributo allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli, 1979, 30). Anzi, è proprio l’art. 102 c.p.c. che impone una coincidenza perfetta tra parti processuali e sostanziali, ogniqualvolta vi sia un rapporto sostanziale unico ed inscindibile, con una pluralità di soggetti.
Da quanto osservato discende altresì che sia scarsamente utile chiedersi – in astratto – se parte del processo sia sempre il rappresentante od il rappresentato, ovvero se lo sia il sostituto od il sostituito. Si tratta invece di analizzare, volta per volta, ciascuna singola norma processuale che fa riferimento alla parte, per vedere se, alla luce della sua ratio, sia estensibile ad uno od all’altro soggetto, o, al limite, ad entrambi (cfr. Mandrioli, C., La rappresentanza, cit., 143 s.).
La relatività del concetto di parte viene in rilievo anche da un differente angolo di analisi.
Non sempre l’acquisto della qualità di parte (processuale) è conseguenza della proposizione della domanda, come postula la tradizionale impostazione chiovendiana.
Nei processi iniziati con ricorso, gli effetti processuali della domanda (e quindi, necessariamente, l’acquisto della qualità di parte) si determinano, anche per il convenuto, prima della formale notificazione della domanda nei suoi confronti, al momento del deposito del ricorso, come dispone l’art. 39, ult. co., c.p.c. (in proposito v. quanto giustamente rilevato da Tommaseo, F., Parti: I - Diritto processuale civile, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1990, 3).
Neppure va dimenticato che la qualità di parte si può acquistare anche successivamente alla pendenza del processo, per effetto della proposizione di una domanda diversa da quella introduttiva, come avviene nel caso di intervento (si veda, con speciale riferimento al delicato tema costituito dal verificare se l’interventore adesivo dipendente sia o meno una parte, Chizzini, A., L’intervento adesivo. Struttura e funzione, II, Padova, 1992, 902 ss.; Fabbrini, G., Contributo alla dottrina dell’intervento adesivo, Milano, 1964, 269 ss.).
Analogamente al terzo destinatario di una chiamata in causa, sia ad istanza di parte, sia iussu iudicis, è pacificamente riconosciuta la qualità di parte (v. Cavallini, C., I poteri dell’interventore principale nel processo di cognizione, Padova, 1998, 255 ss.; Trocker, N., L’intervento per ordine del giudice, Milano, 1984, 483; Proto Pisani, A., Parte, cit., 929), quantunque non sia sempre proposta una vera e propria domanda nei confronti dell’interveniente, se non in modo implicito (v. Tommaseo, F., L’estromissione di una parte dal giudizio, Milano, 1975, 218 ss.; Id., Parti, cit., 3).
Una domanda giudiziale non sembra invece configurabile – neanche implicitamente – nel caso di successione a titolo universale per venir meno di uno dei contendenti, ma questo non impedisce che (pacificamente) si reputi che il successore acquisti la qualità di parte (per Picardi, N., La successione processuale, Milano, 1964, 192, oggetto della successione è lo “status” di parte).
L’elaborazione teorica del concetto di parte ha avuto come angolo di analisi privilegiato il processo di cognizione; assai meno arato è stato il tema nell’ambito del processo esecutivo, dei procedimenti in camera di consiglio o di quelli collettivi (v. Tommaseo, F., Parti, cit., 5 ss.; Proto Pisani, A., Parte, cit., 930 ss.).
Nel primo caso, a volte è messa in dubbio la stessa possibilità di considerare il processo esecutivo come vero e proprio processo; altre volte, invece, semplicemente si individuano le parti del processo esecutivo nei soggetti indicati del titolo esecutivo come creditore e debitore, oltre che nei soggetti intervenuti (v. anche per riferimenti e per indicazioni di altre ricostruzioni, Bonsignori, A., L’esecuzione forzata, III ed., Torino, 1996, 37 ss.).
A nostro avviso, le parti del processo esecutivo devono essere individuate non tanto sulla base del titolo esecutivo, che rappresenta la situazione giuridica sostanziale da attuare coattivamente, bensì in colui che propone la domanda esecutiva ed in colui contro il quale l’esecuzione è svolta. Essi per solito, ma non sempre, coincidono con il creditore ed il debitore risultanti dal titolo esecutivo (in argomento v. Luiso, F.P., L’esecuzione ultra partes, Milano, 1984, 323 ss.; Lorenzetto Peserico, A., La successione nel processo esecutivo, Padova, 1983, 358 ss.; Punzi, C., La tutela del terzo nel processo esecutivo, Milano, 1971, 132 ss.).
Vi è però una significativa differenza rispetto alle parti del processo di cognizione: mentre queste ultime, partecipando formalmente al giudizio, divengono titolari di un nucleo di poteri e si pongono in una posizione di eguaglianza tra loro, nel processo esecutivo ciò non avviene, proprio per la sua particolare struttura, dato che viene domandata dal creditore nei confronti del debitore l’attuazione pratica, in via coattiva, del diritto consacrato nel titolo esecutivo.
Nemmeno va dimenticato che partecipa al processo esecutivo (od a singole fasi di esso) una vasta schiera di soggetti i quali, più che vere e proprie parti (come invero talora sono reputati; v. Proto Pisani, A., Parte, cit., 931 ss.), possono meglio essere considerati come soggetti interessati, quali, ad esempio, il terzo debitor debitoris nel pignoramento presso terzi (v. Colesanti, V., Il terzo debitore nel pignoramento di crediti, II, Milano, 1967, 233).
Nei procedimenti in camera di consiglio le particolarità sono ancora più accentuate, dal momento che potrebbe esservi anche solo una parte. Secondo la celebre classificazione coniata da Virgilio Andrioli (cfr. Andrioli, V., Il processo civile non contenzioso, in Ann. dir. comp., 1966, 227 ss.), si deve distinguere tra procedimenti unilaterali e plurilaterali. I primi sono quelli nei quali il provvedimento è destinato ad avere effetto nei confronti di una sola persona, per solito il richiedente; i secondi sono quelli nei quali la situazione sostanziale dedotta coinvolge più soggetti ed in cui possono esservi più interessi in conflitto, attuale o potenziale, in relazione al provvedimento finale (sull’argomento v. anche Civinini, M.G., I procedimenti in camera di consiglio, I, Torino, 1994, 81 ss.; Arieta, G., Procedimenti in camera di consiglio, in Dig. civ., XIV, Torino, 1996, 454).
Il concetto di parte, infine, deve essere inevitabilmente inteso in senso peculiare nei procedimenti giurisdizionali a tutela degli interessi legittimi e diffusi, nei quali si attua la tutela di situazioni di vantaggio non riferibili ad un soggetto come individuo, ma ad un soggetto come membro di una collettività o di una determinata categoria. Anche all’interno di tali procedimenti la tecnica legislativa per tutelare giudizialmente situazioni superindividuali è assai diversa caso per caso, con la conseguenza che il significato di parte assume connotazioni diverse a seconda dei singoli procedimenti; ad esempio, in talune evenienze ad alcuni enti viene conferita la legittimazione ad agire per far valere situazioni soggettive spersonalizzate riconducibili ad interessi diffusi, mentre in altre l’interesse, pur collettivo, fa capo all’ente che pertanto agisce per la tutela di un proprio diritto (v. Corsini, F., Delle parti, in Commentario al codice di procedura civile, a cura di S. Chiarloni, art. 75-81, Bologna, 2016, 33 e 348 ss.).
Fonti normative
Artt. 75-81 c.p.c.
Bibliografia essenziale
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