Legittimità
Si attribuisce legittimità a un ordinamento politico quando in base ad argomenti giuridici e morali lo si ritiene degno d'essere riconosciuto all'interno (dai consociati) e/o all'esterno (da ordinamenti egualmente sovrani). Etimologicamente legitimus denota qualche cosa come 'conforme alla legge' e 'valido giuridicamente'. Di conseguenza il suo significato varia con il variare delle nozioni di diritto e di legge, in particolare a seconda che si faccia riferimento alla legge naturale e divina, a quella consuetudinaria o a quella positiva. In quest'ultimo caso, che si verifica con la concezione monistica del positivismo giuridico, secondo il quale non vi è altro diritto che il diritto statuito, 'legittimo' diventa sinonimo di 'legale'. Ma il problema della legittimità è nato e si è sviluppato storicamente a partire dall'opposta convinzione che vi sia un ordine normativo superiore a quello del diritto statuito - un ordine da cui questo trae la sua validità. Anche in società nelle quali, per effetto del processo di secolarizzazione, sia venuta meno la credenza in una legge naturale come legge divina, la contingenza del diritto positivo tende a essere riscattata assumendo che le norme statuite possano e debbano essere giustificate sulla base di principî e valori. In questo modo la legittimità viene a designare la giustificazione morale del potere politico in quanto fondato su principî e valori di natura etico-giuridica o etico-sociale.
Nella tradizione occidentale, a partire dalla cultura greca, la questione del fondamento del potere ricorre come un tema centrale della riflessione filosofico-politica. Introducendo la categoria di legittimità, i classici del pensiero giuridico e politico intendono rispondere a una domanda fondamentale: "Qual è la ragione ultima per cui in ogni società stabile e organizzata vi sono governanti e governati, e il rapporto fra gli uni e gli altri si stabilisce non come un rapporto di fatto ma come un rapporto fra il diritto da parte dei primi di comandare e il dovere da parte dei secondi di obbedire?" (v. Bobbio, 1981, p. 226). Le risposte fornite a questa domanda sono state molteplici, variando profondamente di epoca in epoca, ma senza eccessiva forzatura si è sostenuto che esse possono essere ridotte a tre, secondo che il fondamento del potere sia individuato nella natura che "crea alcuni uomini atti a comandare e altri a ubbidire" (il giusnaturalismo greco), nella volontà e nella legge divina (la teologia medievale) o nel consenso dei membri del corpo sovrano (il contrattualismo moderno).
Da un punto di vista sociologico, il problema è quello del fondamento del consenso e della disponibilità all'obbedienza su cui necessariamente poggia ogni potere che voglia durare e in particolare quindi il potere politico. Poiché, secondo la tesi ormai largamente condivisa della teoria elitistica, sono sempre i pochi a governare, non è plausibile ritenere che questi siano in ogni circostanza in grado di imporre con la forza il loro volere, ottenendo obbedienza. Dovunque un gruppo organizzato detiene il potere, sviluppa idee di legittimità per giustificarsi, consolidare il proprio dominio e acquisire autorità; la stabilizzazione poi fa sì che l'effettività del potere contribuisca a sua volta al processo di legittimazione. Sintetizzando una riflessione plurisecolare sul tema, Gaetano Mosca afferma che "la classe politica non giustifica esclusivamente il suo potere col solo possesso di fatto, ma cerca di dare ad esso una base morale e anche legale", facendolo derivare da dottrine e credenze fornite di ampio riconoscimento sociale (v. Mosca, 1896, vol. II, p. 633): questa base giuridica e morale, su cui il potere della classe politica viene a poggiare, è da lui chiamata, con un'innovazione lessicale che per altro non ha avuto fortuna, "formula politica".
Ma è con l'opera di Max Weber che la teoria della legittimità è entrata nelle scienze sociali con uno strumentario concettuale che resta a tutt'oggi, in larga misura, insuperato, così che gran parte della letteratura contemporanea sul tema, quando non scade in genericità e luoghi comuni sul consenso e l'obbligazione politica, non costituisce altro che un insieme di variazioni ed elaborazioni rispetto a quel nucleo teorico. Prima di essere l'attributo di specifiche forme di potere o dominio (Herrschaft), la legittimità è per Weber la qualità di un ordinamento a cui è orientato l'agire sociale come agire di individui riferito all'atteggiamento di altri individui e quindi di senso soggettivo. Posto che molteplici possono essere i motivi dell''orientamento dell'agire in vista di un ordinamento', la sua tesi è che un ordinamento che si mantiene solo in base a motivi razionali rispetto allo scopo o anche a motivi consuetudinari è più labile, cioè meno solido e durevole, di uno che venga percepito dotato del "prestigio di esemplarità e obbligatorietà": e in questo appunto risiede la legittimità (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 29). Ciò sta a significare che la credenza nella legittimità non si limita a esercitare un effetto rafforzativo rispetto a un ordinamento che perdura in virtù di una costellazione di interessi e del calcolo razionale degli attori, ma ne garantisce entro certi limiti la stabilità e la sopravvivenza qualora la situazione degli interessi venga a mutare e si determini un conflitto tra questa e le prescrizioni dell'ordinamento.
Se la validità di un ordinamento o di un potere sussiste nella misura in cui esso viene riconosciuto come 'in sé vincolante' dai subordinati, ne consegue che il processo di legittimazione viene concepito primariamente sull'asse verticale comando-obbedienza, come una relazione sociale che connette la base con il vertice della gerarchia di potere. Ma il problema della formazione di un ordinamento legittimo non può essere ridotto a questa dimensione verticale, perché presuppone comunque un "consenso dei privilegiati sulla validità dell'ordinamento" che conferisce a essi una posizione di privilegio all'interno di quella gerarchia. Questo accordo passa attraverso un processo di reciproco riconoscimento tra portatori di eguali (o simili) pretese e fruitori di eguali (o simili) privilegi, e quindi viene a disporsi su un asse orizzontale di relazioni di scambio - dove di nuovo il riconoscimento rafforza e stabilizza quello che originariamente si è formato in forza di una convergenza di interessi materiali. In virtù di un'intrinseca dialettica, il reciproco riconoscimento pone gli attori dalla parte del diritto e della giustizia e trasforma il loro potere in autorità (v. Popitz, 1968; tr. it., p. 123). Pertanto ogni processo di legittimazione è costitutivamente, nel suo nucleo originario, anche processo di autolegittimazione, per cui il problema non può essere disgiunto da quello dell'identità dei gruppi collettivi (v. Identità personale e collettiva).
All'interno della letteratura sociologica, più in generale, il tema viene a confinare con lo studio dei vari ambiti di manifestazione, elaborazione e istituzionalizzazione del consenso: dall'indagine sul linguaggio e sui simboli che trasmettono idee di legittimità circolanti nel processo politico a quella sui rituali che stabilizzano e intensificano ruoli d'autorità (v. Fedel, 1991). La scienza politica, per parte sua, è impegnata a individuare indicatori empirici volti a misurare il grado di accettazione e di sostegno delle istituzioni e dei loro processi decisionali da parte dei consociati, muovendo da una pluralità di modelli analitici, fra i quali particolare fortuna ha avuto quello elaborato da David Easton, con la sua distinzione tra sostegno diffuso e sostegno specifico e l'analisi dei processi di legittimazione differenziata a livello di comunità politica, regime e governo (v. Easton, 1967). Disponendo tutti i sistemi politici reali su un continuum, che vede variare solo la commistione di elementi consensuali ed elementi coercitivi, si ha un approccio minimalista, empirico e pragmatico, alla questione. "Nella sua accezione minima la legittimità è la convinzione che, nonostante tutti gli inconvenienti e i fallimenti, le istituzioni politiche esistenti sono migliori di quant'altre possano essere instaurate e perciò meritano obbedienza" (v. Linz, 1978; tr. it., p. 37).
Complessivamente, anche a livello di linguaggio non specialistico, si dice legittimo oggi, in occidente, un regime politico quando: a) si fonda sul consenso, rinnovato periodicamente attraverso le elezioni, del popolo come universitas civium; b) il potere è esercitato in conformità a una legge fondamentale, vale a dire una costituzione; c) attraverso il preambolo della costituzione il potere viene limitato dal riconoscimento di valori, principî di giustizia e diritti inalienabili e indisponibili. Nello Stato costituzionale odierno la legittimità del potere politico sembra pertanto risiedere in una sorta di 'bilancia giuridica' le cui componenti sono le leggi, i diritti e i principî di giustizia e il cui equilibrio dovrebbe garantire la mitezza dell'ordinamento e della vita pubblica (v. Zagrebelsky, 1992). Il richiamo tradizionale al principio della legittimità costituzionale sta a significare che il legislatore non può adottare leggi che siano incompatibili con la costituzione, dunque con i valori, i principî e i diritti cui questa attribuisce validità positiva. Proprio in questa istanza pluralistica cova però la minaccia di una crisi profonda di legittimità, connessa al rischio di una radicalizzazione dei conflitti sui diritti di cittadinanza e di una polarizzazione delle controversie sulle forme di vita e i sensi di appartenenza.
Se il nostro lessico in materia di legittimità e legalità è debitore principalmente alla tradizione giuridica romana, i problemi cui esso fa riferimento erano già ben presenti al pensiero storico e filosofico greco. Del resto, vi è piena corrispondenza tra il greco νόμιμόν ἐστι e il latino legitimus est, che equivale a legibus et aequitati consentaneum. L'idea che la legittimità delle leggi positive sia derivata da un ordinamento superiore è attestata da una molteplicità di fonti della cultura ellenica. In Solone νόμοϚ non è diritto positivo o legge statuita da un'autorità umana bensì "norma divina di giustizia, che col suo ϰϱάτοϚ realizza l'εὐνομία: è il fondamento religioso non d'una costituzione politica, ma di un ordine generale di vita"; per Eraclito "tutte le leggi umane sono nutrite da una sola legge divina", il θεῖοϚ νόμοϚ, che è la legge naturale poggiante sul volere divino (v. Gigante, 1993, pp. 49 e 52). E in Platone e in Aristotele sopravvive ancora qualcosa della concezione arcaica del νόμοϚ βασιλεύϚ, sia pure nel quadro di una cultura che ha ormai fatto i conti con l'affermazione sofistica della legge naturale del più forte che sottomette il più debole, con un processo di desacralizzazione che porta al νόμοϚ τῆϚ ϕύσεqϚ, al riconoscimento del diritto della forza (ibid., p. 149).
Ma legittimo per i Greci non è soltanto ciò che si accorda con una legge divina o mitologica, è anche quanto nel tempo si presenta come il risultato di una convenzione o di un accordo sul giusto e sull'utile. Questa dimensione convenzionale, non riducibile al momento della statuizione di norme ad opera di un'autorità superiore, è attestata in modo esemplare dal racconto di Glaucone sulla genealogia della giustizia che apre il II libro di Repubblica (358e-359a): quando gli uomini meno preparati alla lotta, e dunque i più, si resero conto che subire ingiustizia è un male più grande e più frequente del bene che tocca a chi la commette su altri, ritennero conveniente trovare un'intesa per non farla né patirla vicendevolmente; così "cominciarono a stabilire le leggi e gli accordi tra loro, e a chiamare quel che la legge ordina legittimo e giusto (νόμιμόν τε ϰαὶ δίϰαιον)". Tra il diritto sacrale, che pone la sua azione violenta al servizio di una legge divina, e il diritto profano, che non mira a soggiogare la natura ma è nella natura come diritto del più forte, si delinea una terza posizione che afferma l'identità di 'legittimo' e 'giusto' sulla base di una convenzione.
Anche il lessico romano in materia di legittimità è tutt'altro che univoco. Ma se si prescinde dal sincretismo delle assimilazioni ellenistiche, che lo arricchiscono di elaborazioni filosofiche estranee alla sua tradizione giuridica, tre aspetti richiedono d'essere menzionati per la loro specificità e per la loro influenza sul pensiero politico medievale. Il primo riguarda la maggiore accentuazione della conformità al diritto statuito: legitimus sta a designare, nell'accezione più generale, l'accordo con un ordinamento giuridico pubblico - come nell'espressione 'legitima potestas' (Cicerone, Tusculanae, I, 30, 74) o in quella 'imperium legitimum' (Sallustio, Catilinariae, 6, 6) - o, in un senso più determinato, la rispondenza a una lex publica populi Romani. Il secondo concerne invece il nesso con un diritto originario, come si manifesta nel riferimento alla legge delle XII tavole, in particolare a proposito dell'espressione 'heres legitimus', che rimanda alla regolazione sancita dalla tradizione dell'eredità ab intestato (v. Würtenberger, 1973 e 1982). Il terzo aspetto interessa più in generale la natura di quello che è stato chiamato 'costituzionalismo romano', che non può ovviamente essere rintracciato nelle formule volontaristiche e positivistiche delle codificazioni imperiali ("quod principi placuit legis habet vigorem") ma piuttosto nel più antico principio che solo il populus è la fonte ultima del diritto e dell'autorità (v. McIlwain, 1940; tr. it., p. 66).
Tutti questi elementi rivestono un'importanza decisiva per lo sviluppo del pensiero politico medievale. Intanto l'attributo legitimus diventa progressivamente il concetto cardine di una emergente dottrina della costituzione; nel III libro del De regimine principum Tolomeo da Lucca individua tre caratteri del dominium legitimum che assumono il rango di veri e propri principî costituzionali: amor patriae, zelum iustitiae, zelum civilis benevolentiae. In secondo luogo, la dottrina romana dell'eredità sanzionata dal diritto arcaico delle XII tavole diventa il fondamento della legge di successione monarchica in Europa con la promulgazione della Bolla d'oro (1356) ad opera dell'imperatore Carlo IV: nel capitolo "De successione principum" il problema della successione viene regolato introducendo il diritto di primogenitura a tutela della concordia dei 'legittimi' principi elettori. Infine anche la tesi repubblicana del popolo come fonte ultima dell'autorità legale riaffiora nella cultura politica medievale dopo una lunga e laboriosa incubazione, imprimendole una svolta che in età moderna avrebbe portato a esiti rivoluzionari (v. Würtenberger, 1973, pp. 37 ss.). Nel Breviloquium de principatu tyrannico (1342) Guglielmo da Occam sostiene la tesi che, pur discendendo ogni potere da Dio, esso può essere trasmesso per investitura dal popolo al principe; e Marsilio da Padova nel Defensor pacis (1324) riconosce che la pars principans di una comunità politica non esercita la sovranità incondizionatamente, ma in delega del legislatore umano, il quale altro non è che l'universitas civium o la sua pars valentior.
A dominare il pensiero medievale è comunque l'idea che la legittimità di un potere vada ricercata nella sua sottomissione alla legge naturale come legge divina e legittimo possa dirsi solo quel potere che si accorda all'ordine voluto da Dio. Come questa idea abbia poi effettivamente operato nella lotta plurisecolare per la sottomissione del potere temporale a quello spirituale - una lotta nella quale la classe ecclesiastica ha potuto disporre di risorse quali il controllo del sapere, delle procedure normative, degli atti di devozione e della definizione dei nemici (v. Pizzorno 1993, pp. 53 ss.), e dunque ben più che di una semplice dottrina della giustificazione religiosa del potere - è questione troppo complessa per poter essere affrontata in questa sede. Per comprendere l'evoluzione politica occidentale va però tenuto presente che il forte dualismo di potere temporale e potere spirituale è, come ha ben messo in luce Max Weber, un tratto peculiare del cristianesimo rispetto ad altre religioni, come pure lo è il fatto che il suo diritto sacro si sia sviluppato in modo più razionale, in continuità con le tradizioni razionali del diritto romano (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, p. 149). Accanto a ciò non sarà mai sottolineato abbastanza il contributo fornito dalla cultura giuridico-politica medievale al riconoscimento della forza legittimante della consuetudine.
Un topos del pensiero politico medievale è poi la contrapposizione tra regime legittimo e tirannia, dove il criterio distintivo viene individuato nella qualificazione etica del potere. Attraverso la distinzione fra il tiranno ex defectu tituli e il tiranno ex parte exercitii si fa strada la possibilità di distinguere tra legittimità e legalità del potere, tra titolarità riconosciuta ed esercizio limitato della sovranità (v. Bobbio, 1970). Secondo la formulazione classica del De tyrannia di Bartolo da Sassoferrato il tiranno ex defectu tituli è il principe illegittimo che, privo del titolo per governare, viola la lex Julia maiestatis; il tiranno ex parte exercitii è il principe che esercita illegalmente, cioè facendo uso arbitrario della forza, il proprio potere e incorre in questo modo nella sanzione della lex de vi. Su questa base, tutta la trattatistica medievale ritorna con insistenza su due questioni che in qualche modo prefigurano le problematiche moderne della rivoluzione e della effettività, chiedendosi se sia lecito ai sudditi resistere con la forza a un governo tirannico e se un regime nato dall'usurpazione (ex defectu tituli) possa col passare del tempo venir legittimato dalla stabilità e dal buon governo. Così, se per Tommaso d'Aquino l'insurrezione appare comunque sconsigliabile e il tirannicidio contrario all'insegnamento cristiano, Bartolo riconosce la legittimità della resistenza al tiranno quando non sia possibile il ricorso a un'autorità superiore e quando i ribelli siano mossi ad agire dalla giusta causa dell'interesse comune; e se per Occam (Breviloquium, IV, 9) il successivo buon governo non può rendere legittimo un potere usurpato, per Roberto Bellarmino (Controversiae, III, 6) la stabilizzazione nel tempo di un potere originariamente usurpato è prova di legittimità, "quia populi paulatim consentiunt" (v. Würtenberger, 1973, p. 47).
Con la Riforma e le guerre civili di religione ha inizio la vicenda moderna della legittimità. L'unità della Respublica christiana si è infranta e il richiamo alla legge divina o alle scritture per consacrare i governanti legittimi diventa problematico, dal momento che ad appellarsi alla legge naturale come legge divina sono anche i più irriducibili avversari delle dinastie 'legittime', ad esempio i monarcomachi, ora di parte calvinista ora di parte cattolica. La territorializzazione dell'obbligazione politica viene d'altro canto rivoluzionando gli assetti sociali feudali e di ceto attraverso la rivendicazione monarchica di un monopolio del potere coercitivo in aperta opposizione alle leges regni fundamentales consolidate dalla consuetudine 'costituzionale' (e a cui ancora un teorico dell''assolutismo' come Jean Bodin farà riferimento).
Si potrebbe dire in estrema sintesi che la parabola moderna della legittimità si dispone nel segno di un duplice paradosso: 1) alla fine della secolare lotta di espropriazione dei ceti condotta dalla monarchia assolutistica quest'ultima risulterà vincitrice sul versante dell'edificazione di uno Stato centralizzato fondato sul monopolio fiscale e militare, ma sul piano della legittimità essa verrà sconfitta, affermandosi invece quel principio di legittimità popolare che nel Medioevo era stato introdotto proprio a limitazione delle pretese di sovranità dei principi; i ceti, invece, dal punto di vista materiale saranno sconfitti, ma il loro principio di legittimità trionferà; 2) nel corso di questo processo di monopolizzazione lo Stato monarchico riuscirà, sia pure in misura variabile a seconda dei contesti storici, a sottrarre alla Chiesa come autonomo potere ierocratico una parte delle sue risorse spirituali, dal controllo del sapere e delle procedure normative alla definizione dei nemici; così facendo, tuttavia, esso contribuirà a potenziare un processo di secolarizzazione inevitabilmente destinato a compromettere nei ceti politicamente decisivi la fede tradizionale in un'investitura per grazia divina del re (v. Brunner, 1968). Al culmine di questa duplice evoluzione, all'espropriazione dei ceti potrà far seguito l'espropriazione del principe, che a sua volta aprirà la strada all'avvento dello Stato razionale-legale come traguardo (e utopia) della modernità.
La teoria contrattualistica dello Stato costituisce, nelle sue diverse varianti, una significativa illustrazione di questi processi e un'efficace giustificazione dei loro esiti. Per i monarcomachi è legittimo il potere che corrisponde, più che alla legge, alle convenzioni e ai patti, o alla legge costituzionale in quanto prodotto di un patto tra i ceti e il principe: quest'ultimo non è più il solo portatore di legittimità, così che nel De iure magistratum (1576) di T. de Bèze fa la sua comparsa, accanto al legitimus princeps, il legitimus magistratus; nelle Vindiciae contra tyrannos, sive de principis in populum populique in principem legitima potestate (1579) - e il titolo espone già programmaticamente l'indissolubile nesso dei detentori della legittimità - il senso che Junius Brutus attribuisce all'espressione legitime regere è individuato in un governo la cui direttrice fondamentale è il rispetto da parte del re dei patti stipulati con i ceti (v. Würtenberger, 1973, pp. 52-56). Ma l'operazione teorica compiuta dal contrattualismo moderno è ben più audace - anche se, magari, politicamente meno dirompente sul breve periodo - di quanto queste dottrine lascino presagire, perché con esso si compie il passaggio da una concezione dualistica dei titolari della legittimità a un'altra rigidamente monistica, più rispondente alla teoria della sovranità (assoluta e perpetua) messa a fuoco da Jean Bodin in Les six livres de la République (1576): alla legittimità del potere è riconosciuto un fondamento pattizio, ma di patto tra singoli individui si tratta, non di accordo bilaterale tra principe e ceti.
Portando alle estreme conseguenze una geniale mossa teorica, vale a dire fondendo in un unico pactum unionis i due patti che la precedente tradizione giuridica aveva tenuti distinti (il pactum societatis costitutivo del popolo come soggetto unitario e il pactum subiectionis vincolante il popolo al principe nelle modalità della translatio o della concessio imperii), Thomas Hobbes è il grande artefice di questa svolta, il cui esito si sarebbe rivelato letale proprio per il principio di legittimità delle monarchie tradizionali. Nonostante la sua dichiarata preferenza pragmatica per il governo monarchico e la sua radicale avversione per i fautori del diritto di resistenza contro la degenerazione tirannica del potere, Hobbes non lascia dubbi sulla radicalità della sua posizione: "Il popolo regna in ogni Stato: difatti anche nelle monarchie si può dire che il popolo sia sovrano, in quanto manifesta la sua volontà attraverso quella di un solo uomo [...]; benché sembri un paradosso, i sudditi sono la moltitudine e il popolo è il re" (De cive, XII, 8). Vi è un filo diretto che unisce queste tesi all'incondizionata affermazione della sovranità popolare che troviamo in quello che diventerà il manifesto della dottrina democratica, il Contrat social di Jean-Jacques Rousseau (v. Autorità).
Con il contrattualismo moderno prende dunque corpo il disegno di fondare non solo uno Stato razionale come Stato di leggi, uno Stato legale, ma anche uno Stato legittimo, facendo poggiare la legittimità del potere sul consenso anziché sulla natura 'protettiva' (la generazione) o sulla forza 'punitiva' (il delitto). Delle tre fonti classiche di ogni obbligazione - ex contractu, ex natura, ex delicto - solo la prima si rivela agli occhi dei moderni in grado di legittimare uno Stato civile, un ordinamento razionale della convivenza. Certo, ancora Hobbes vede nel rapporto naturale di generazione e nella pena inflitta a chi è stato sopraffatto in una guerra ingiusta il fondamento del potere patriarcale e del dominio dispotico, ma dimostra (anche a prescindere dal fatto che quei vincoli d'obbligazione non sono più adatti a nazioni civili) come esso sia più apparente che reale, dal momento che tutte le forme di potere sono in definitiva riducibili a un momento pattizio e anche il patriarcalismo e il dispotismo non potrebbero durare nel tempo se non si ipotizzasse una qualche forma di tacito consenso. E per Locke, che apre il secondo dei suoi Two treatises of government col proposito di "mostrare la differenza fra il governante di una società politica, il padre di una famiglia e il capitano di una galera" (II, 2), solo il consenso "ha dato o può aver dato origine a ogni governo legittimo (lawful) di questo mondo" (II, 99). Questo nesso tra consenso e legittimità diventerà un caposaldo dell'ideologia liberale e liberaldemocratica. Anche un critico accanito e lucido di Rousseau, Benjamin Constant, sentenzierà dopo la Restaurazione nei suoi Principes de politique: "Non vi sono al mondo che due poteri, l'uno illegittimo, la forza, l'altro legittimo, la volontà generale" (v. Constant, 1819; tr. it., p. 53).
Ma in questo riconoscimento della volontà generale come fonte di legittimità s'annidano altri problemi. L'apporto della dottrina del diritto naturale, che accompagna come matrice di tutte le ideologie moderne il processo di razionalizzazione del potere e di legalizzazione dello Stato, si rivela più risolutivo nella sua pars destruens, rivolta alle forme tradizionali di dominazione, che nell'elaborazione di una compiuta e coerente alternativa. La critica del diritto naturale al potere tradizionale ha i suoi punti di forza nella laicizzazione del diritto, che mina le basi del riconoscimento della sacralità delle dinastie e affida alla ragione il compito di individuare (nella natura) o di inventare (per artificio) un ordine giuridico obbligante, e nell'affermazione del primato della legge sulla consuetudine, che svuota di ogni valore il diritto dei giudici e alla razionalità materiale della common law sostituisce la razionalità formale di un diritto statuito (v. Bobbio, 1981, pp. 236 ss.). Ma per questa via, come l'itinerario teorico di Hobbes mostra in modo esemplare, la legge naturale si riduce a fornire un fondamento di validità alla legge positiva, vincolando i contraenti del patto all'obbedienza assoluta e mettendo il diritto a disposizione del sovrano. Quest'esito imperativistico, divenuto senza alternative con la crisi post-rivoluzionaria del giusnaturalismo e l'età delle codificazioni, ripropone però con forza la questione della legittimità della legge, del diritto positivo praticato o almeno percepito come ius quia iussum in antitesi allo ius quia iustum (v. Fassò, 1974).
Entro la cornice del positivismo giuridico la soluzione del ricorso al consenso (nella versione blanda del pensiero liberale) o alla volontà generale (nella versione radicale del pensiero democratico) mostra palesemente i suoi limiti. Al culmine di questa evoluzione Max Weber ha colto bene come la validità del diritto statuito possa essere fondata soltanto in due modi, o mediante 'libera stipulazione' o mediante l''imposizione' da parte di un potere comunque bisognoso di legittimazione. La libera stipulazione presuppone l'accordo di tutti e ipotizza pertanto l'esistenza di un'implausibile volontà generale. Ma il rimedio pragmatico di un consenso parziale stabilito attraverso la regola di maggioranza non conduce a quella condizione di autonomia politica in cui Rousseau individua la fonte di legittimità della democrazia. "Imposto [...] è ogni ordinamento che non sia venuto alla luce mediante la personale e libera stipulazione di tutti i partecipanti. Ciò vale quindi anche per la 'decisione di maggioranza', a cui la minoranza si piega" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 49). Il principio di maggioranza vale come tecnica procedurale per giungere a decisioni collettive giuridicamente vincolanti, ma non è di per sé in grado di fornire legittimità a un ordinamento. La contrapposizione polemica di legalità e legittimità che caratterizzerà tutti i periodi di crisi della storia costituzionale europea a partire dalla Rivoluzione francese evidenzierà il problema in maniera impressionante.
La fondamentale innovazione apportata da Max Weber al patrimonio concettuale della sociologia politica è costituita dalla sua tipologia delle forme di legittimità del potere. Tale tipologia, incentrata sui concetti di potere tradizionale, carismatico e legale, non si lascia ricondurre alla tripartizione classica delle fonti di obbligazione politica (ex natura, ex delicto, ex contractu), dal momento che il fondamento della legittimità del potere non viene individuato in una relazione esterna legata a forme universali della vita sociale (la famiglia, la guerra, lo scambio), ma in una credenza soggettiva nella validità del potere cui si deve prestare obbedienza (v. Bobbio, 1981). A dire il vero, secondo Weber a un ordinamento può essere attribuito carattere di 'validità legittima' in virtù: a) della tradizione; b) di una credenza affettiva; c) di una credenza razionale rispetto al valore; d) di una credenza razionale rispetto allo scopo (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 34). Dal contesto in cui questa partizione è collocata nel manoscritto non ancora definitivo di Wirtschaft und Gesellschaft si evince che essa è modellata su quattro forme di esperienza giuridica che sono, rispettivamente, il diritto consuetudinario, quello sacrale o rivelato, dettato carismaticamente, il diritto naturale razionale e quello statuito positivamente (v. Schluchter, 1979). Ma il diritto naturale, non essendosi tradotto storicamente in un sistema giuridico-politico, pur svolgendo nel corso della tradizione occidentale, come si è visto, una fondamentale funzione ideologica di legittimazione razionale del potere, cessa di detenere un ruolo autonomo nella sistematica weberiana non appena si passa a considerare il problema della legittimità dal punto di vista di oggettive configurazioni di dominio.
Tre sono allora le giustificazioni intrinseche che conferiscono legittimità a un potere (Herrschaft). "Anzitutto, l'autorità dell''eterno ieri', ossia del costume, la cui stabilità è consacrata da una validità d'antichissima data fondata sulla consuetudine": è questo il potere tradizionale, fondato sull'obbedienza alla persona del signore, alla sua dignità sancita dalla tradizione, e quindi sul principio della reverenza. (Weber parla espressamente di "obbedienza prestata in virtù di doveri di reverenza"). "In secondo luogo, l'autorità del dono di grazia personale di natura straordinaria (carisma), la dedizione assolutamente personale e la fiducia personale nelle rivelazioni, nel carattere eroico o in altre qualità di capo di un individuo": vale a dire il potere carismatico, che trova le sue incarnazioni tipiche nelle figure dei profeti - sul terreno religioso - e in quelle dei condottieri e dei grandi demagoghi - sul terreno politico. Anche in questo caso si tratta di un potere nel quale l'obbedienza è dovuta alla persona del capo, ma non in base a doveri di reverenza di tipo tradizionale bensì in virtù del valore esemplare della sua missione o del riconoscimento di particolari proprietà sovrannaturali e sovraumane. "Infine, la dominazione in forza della 'legalità', in forza della fede nella validità della norma di legge e della 'competenza' obiettiva fondata su regole razionalmente formulate, e cioè in forza dell'obbedienza fondata sull'adempimento di doveri stabiliti da norme": che è invece la forma di dominazione o potere tipicamente moderna, quella del funzionario di una burocrazia razionale, nella quale l'ideale classico di un governo impersonale della legge, statuita da uomini ma orientata alla neutralizzazione dei conflitti e alla composizione degli interessi, si realizza in un complesso sistema istituzionale nel quale anche la produzione di norme è minuziosamente regolata: il potere razionale o legale (v. Weber, 1919; tr. it., pp. 49-50).
Se il potere tradizionale rappresenta la forma più articolata e storicamente variabile dal punto di vista della sua struttura formale (assenza o presenza di apparati amministrativi, loro minore o maggiore subordinazione al detentore del potere), sotto il profilo della legittimità i casi più interessanti della tipologia weberiana sono costituiti dal potere carismatico e da quello legale. Il carisma configura la forma più labile ma al tempo stesso più pura di legittimazione: più labile in quanto preserva la sua autorità solo fornendo di continuo la prova delle sue qualità straordinarie, e dunque sostenendo un onere di conferma riguardante la sua missione; più pura perché in questo caso i motivi dell'obbedienza prescindono largamente da considerazioni materiali, utilitaristiche o legate alle consuetudini. Il carisma è una potenza rivoluzionaria che si oppone alla legge, e lo è non solo nel senso della rottura morale e del ribaltamento dei valori su cui si fondano le vecchie norme ('sta scritto - ma io vi dico') ma anche in quello della rivoluzione politica, giacché i suoi portatori sono 'usurpatori' nel senso tradizionale del termine, eroi, profeti o demagoghi che non vengono eletti né nominati ma acclamati (v. Schluchter, 1979; tr. it., p. 225). Se per la tradizione legalistica occidentale legittimo era il governante insediato in conformità a una legge sulla titolarità del potere (e illegittimo quello ex defectu tituli), in base a questa categoria la quintessenza della legittimità viene ora individuata nella capacità di trovare riconoscimento pur nell'infrazione di ogni norma tradizionale e statuita. Il potere legale, d'altra parte, in quanto potere razionale alberga in sé tutta la molteplicità di significati del termine ragione. Se il razionalismo, di cui con tanta insistenza si tratta nella Religionssoziologie, non designa sicuramente una concezione unitaria del mondo ma un concetto storico che a fatica dissimula 'un mondo di antitesi', la nozione di razionalità che circola in Wirtschaft und Gesellschaft appare altrettanto poco univoca. Con l'espressione 'potere razionale' s'intende alludere alla razionalità rispetto allo scopo o a quella rispetto al valore, alla razionalità formale o a quella materiale? Intorno a questa questione è divampata, come vedremo, una controversia sulla contrapposizione polemica di legalità e legittimità che ancor oggi non può dirsi placata.
Ma prima di spostare l'attenzione sullo scenario postweberiano pare opportuno soffermarsi ancora sulla tipologia presentata, interrogandosi sulla sua origine e sul suo significato. Non vi dovrebbe essere dubbio, intanto, che la tripartizione delle forme di potere legittimo sia maturata nell'ambito dell'ambizioso programma weberiano di una comparazione tra religioni universali e tra mondo antico e mondo moderno. Nelle civiltà dell'epoca 'assiale', per riprendere il termine usato da Karl Jaspers, si moltiplicano comunità collettive di tipo religioso e carismatico, si sviluppano grandi tradizioni che dai centri delle società s'irradiano verso le periferie, si enucleano nuove ideologie della legge sia in ambito morale, dove l'etica della legge viene a rimpiazzare le forme arcaiche di etica magica, sia in ambito politico con l'affermazione dell'ideale nomistico (v. Meier, 1980). Ma quella tripartizione risulta difficilmente comprensibile se si prescinde dal fatto che solo a partire dalla Rivoluzione francese e dall'età delle codificazioni, con la centralizzazione del potere legale e la sua conseguente razionalizzazione, può dispiegarsi compiutamente la contrapposizione tra forme di potere cui si obbedisce in virtù della persona del signore e forme impersonali di obbedienza alla norma; mentre si viene, in parallelo, acquistando la consapevolezza che le rivoluzioni, serbatoio di entusiasmi carismatici, non pongono affatto fine al dominio personale dell'uomo sull'uomo ma ne compromettono soltanto l'elemento tradizionale-dinastico.
La Rivoluzione francese abbatte la monarchia per aprire la via, insieme al governo della legge, alla dittatura di Robespierre (il demagogo "illuminato carismaticamente dalla ragione") e poi al Consolato e all'Impero di Napoleone (l'eroe militare investito della missione di esportare la Rivoluzione). La crisi della monarchia di luglio e i moti del 1848 spianano la via al Secondo Impero e a un intenso dibattito su bonapartismo e cesarismo, al centro del quale sta ormai la consapevolezza che la semplice affermazione di un trapasso dal principio di legittimità monarchica a quello di legittimità democratica non offre una spiegazione adeguata delle ragioni dell'obbedienza in una società arrivata alle soglie del suffragio universale. È vero che ancora in questo secolo vi sarà chi proporrà un modello d'interpretazione della storia politica tutto giocato su quelle tradizionali categorie e vedrà nel bonapartismo un regime fondato sulla falsificazione dei due principî fondamentali di legittimità, di quello monarchico attraverso l'usurpazione realizzata da un colpo di Stato, di quello democratico attraverso il ricorso al plebiscito per dare sanzione popolare al nuovo stato di fatto instaurato con la forza e con la frode (v. Ferrero, 1942).
Ma non vi è dubbio che lo strumentario concettuale elaborato da Weber riesca a rendere assai meglio conto del nuovo fenomeno e a predisporre anzi gli strumenti d'analisi per le dittature del XX secolo. Per Weber la democrazia plebiscitaria è "una specie di potere carismatico che si cela sotto la forma di una legittimità derivante dalla volontà dei sudditi e sussistente soltanto in virtù di questa" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. I, p. 265). Solo quando il riconoscimento dell'autorità da parte dei consociati viene considerato non più conseguenza ma fondamento della legittimità si può avere il trapasso alla democrazia rappresentativa, nella quale il processo di legittimazione poggia sul rapporto fiduciario tra elettore ed eletto. Ma in ogni caso la differenza è di grado e la genesi della democrazia va ravvisata nella trasformazione del carisma in senso extrautoritario. L'evoluzione del parlamentarismo ottocentesco non ha affatto come conseguenza la perdita di rilevanza del potere carismatico ma semplicemente il suo ripresentarsi in coniugazione (e in tensione) con il potere legale anziché con quello tradizionale. "Al posto del pendolo tra un'obbedienza carismatica e un'obbedienza ai notabili, subentra la lotta dell'impresa burocratica con il capo-partito di tipo carismatico" (ibid., vol. II, p. 442). La legittimità del potere di quest'ultimo viene d'altro canto ad accrescersi proprio in compensazione dell'impotenza del monarca parlamentare, ormai ridotto dalla dottrina costituzionale liberale a pouvoir neutre garante dell'equilibrio sociale.
Va sottolineato che accanto all'evidenziazione dei possibili conflitti tra principî eterogenei di legittimità l'epoca che si apre con la Rivoluzione francese ne produce anche, con lo Stato nazionale, la sintesi, sia pur precaria e contingente. Lo Stato nazionale si consoliderà infatti in Occidente integrando in un sistema unitario tre fondamentali elementi: a) il principio di legalità di uno Stato amministrato burocraticamente; b) il processo di identificazione tra la nazione come comunità emotiva e i suoi capi politici formatisi nella lotta per l'emancipazione democratica; c) la continuità delle tradizioni nazionali quale riserva politica di legittimità intesa, con Friedrich Julius Stahl, come "pietà nei confronti di ciò che si è venuto formando storicamente" (v. Brunner, 1968; tr. it., 1970, p. 193). Anche il monarca parlamentare, al di là dell'ideologia liberale del pouvoir neutre, svolge all'interno dello Stato nazionale una rilevante funzione d'integrazione tra principî di legittimità, garantendo in virtù del suo residuo carisma d'ufficio la validità dell'ordinamento, evidenziando attraverso la continuità dinastica il ruolo della tradizione e contenendo "il desiderio di potenza dei politici con il fatto che la carica suprema nello Stato è stata assegnata una volta per tutte" (v. Weber, 1922; tr. it., vol. II, p. 461).
Se la Riforma rappresenta per il mondo moderno la rottura a partire dalla quale diventa possibile contrapporre moralità e legalità (sulla base appunto della distinzione luterana tra regno dell'interiorità spirituale e regno dell'esteriorità mondana), la Rivoluzione francese è l'evento che trasforma in profondità l'universo logico e simbolico della giustificazione e del riconoscimento del potere e ridefinisce i rapporti tra legalità e legittimità in termini sia di identità che di contrapposizione. In una formulazione polemicamente antimonarchica l'Assemblea del 1789 si definisce légitime, nel senso dell'adeguazione della legge costituzionale alla volontà popolare; al tempo stesso tutta la pubblicistica rivoluzionaria contrappone la loi alla légitimité delle dinastie tradizionali. A partire da questo momento i due concetti diventano in modo sempre più manifesto strumenti di polemica politica. Se ai fautori del progetto rivoluzionario della modernità la legalità appare come la specifica forma moderna della legittimità, per i suoi detrattori, in particolare per i pensatori della Restaurazione, essa acquista la valenza di negazione della legittimità. Come Robert de Lamennais, sulla scia di Joseph de Maistre e Ambroise de Bonald, evidenzia nel suo Progrès de la revolution et de la guerre contre l'église (1829), nella misura in cui la monarchia cessa di essere legittima nel senso della consacrazione divina per ridursi a essere semplicemente legale, si avvia un processo di legittimazione della rivoluzione come atto sovrano di produzione di un altro ordine legale (v. Würtenberger, 1973, p. 138).
Nonostante l'enfatica riaffermazione del principio di legittimità dinastica compiuta dal Congresso di Vienna (v. Ferrero, 1942), la positivizzazione del diritto che si compie nel corso del XIX secolo svuota progressivamente il concetto della sua sostanza etica. All'indomani della prima guerra mondiale non solo apparirà improponibile un ordine internazionale fondato sulla legittimità delle grandi dinastie (essendo con il conflitto crollate quelle degli imperi dell'Europa centrorientale), ma entrerà definitivamente in crisi anche l'ideologia giusnaturalistica di un fondamento razionale della sovranità popolare e la fede nella naturale connessione tra diritto e giustizia. L'interprete più radicale di questa crisi dell'ordine politico della civiltà borghese è Carl Schmitt, in particolare nel suo scritto Legalität und Legitimität, dove l'esito del processo di riduzione di ogni forma di legittimità alla legalità è individuato in un "funzionalismo e formalismo senza motivazione e senza riferimenti concreti"; inoltre vi si denuncia il fatto che tale formalismo non sia altro che "una pretesa di soggezione motivata in modo puramente politico, oltre che negazione, anch'essa motivata solo politicamente, di ogni diritto di resistenza" (v. Schmitt, 1932; tr. it., pp. 218 e 228-229). Nella sua affilata critica alla degenerazione positivistica dello Stato legislativo parlamentare, Carl Schmitt coglie sicuramente nel segno nel mostrare la vulnerabilità di una concezione formale della legge secondo cui il parlamento è fonte esclusiva di diritto, nonché di un funzionalismo maggioritario che azzera ogni differenza tra ratio e voluntas e finisce per porre i valori a disposizione delle procedure, sacrificando tutte le garanzie di giustizia e razionalità al volere di un'occasionale maggioranza; egli s'inganna però quando a tale sistema di legalità, ormai svuotato di ogni riferimento contenutistico a una razionalità materiale, contrappone la legittimità plebiscitaria fondata sulla fittizia omogeneità etica (ed etnica) di un popolo. La distruzione dell'autorità a cui sarebbero andate incontro le dittature legittimate in modo plebiscitario avrebbe dimostrato in maniera tragica la pericolosità dell'alternativa.
Così, se nel dibattito politico e costituzionale del secondo dopoguerra la critica schmittiana allo Stato legislativo sarà di fatto accolta relativamente alla tesi che non si può al tempo stesso affermare che solo la procedura maggioritaria produce legittimità e che esistono valori sostanziali che non sono a disposizione del volere della maggioranza, l'esperienza degli stravolgimenti dittatoriali della legittimità plebiscitaria indurrà a porre al centro della teoria della democrazia la convinzione che accanto a norme la cui validità scaturisce dal consenso della maggioranza parlamentare ve ne sono altre, come quella della formazione democratica del consenso o quella della inviolabilità dei diritti, che fondano la legittimità dell'ordinamento in quanto possono contare su una qualche forma di validità sottratta alla contingenza storica (v. Hösle, 1990, p. 83). È significativo che questo dibattito prenda le mosse, in larga misura, proprio dalla teoria weberiana che Schmitt aveva forzato con la sua contrapposizione tra legalità formalistica e legittimità sostanziale. Johannes Winckelmann è il primo a reagire a quella deformazione, sostenendo che in Weber il potere legale è potere normativo che ha i suoi principî regolatori in postulati razionali rispetto al valore e che pertanto è scorretto isolare l'elemento formale da quello materiale della legge, individuando nella neutra razionalità formale un fondamento di legittimazione sufficiente del potere legale (v. Winckelmann, 1952, pp. 72 ss.). Contro un'interpretazione di questo genere si è da più parti obiettato (v. Habermas, 1973, tr. it., p. 110; v. Schluchter, 1979, tr. it., p. 200; v. Lübbe, 1991, p. 12) che essa reintroduce nella sociologia del potere un elemento giusnaturalistico che le è estraneo, soprattutto in considerazione della concezione weberiana del politeismo dei valori. Ma se si prescinde da questioni di ermeneutica dei testi, è un fatto che la teoria contemporanea della democrazia vede nel preambolo delle costituzioni un surrogato dei sistemi di diritto naturale volti a limitare la discrezionalità imperativistica del diritto positivo.
Un tentativo d'ampio respiro di salvare la legittimità del sistema di legalità di una società complessa senza ricadere nelle assunzioni metafisiche del giusnaturalismo classico o in qualche etica materiale dei valori difficilmente difendibile, ma ancorando la validità delle norme giuridiche a una razionalità procedurale di tipo pratico-morale, è stato compiuto da Habermas, da Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus (1973) a Faktizität und Geltung (1992). Ritenendo inadeguate, sulla base di una diversa teoria dell'azione, le dicotomie weberiane di razionalità formale/materiale e razionalità rispetto allo scopo/rispetto al valore, Habermas cerca di riportare la legittimità del potere legale alla relazione che intercorre tra diritto e morale: una morale che non si colloca però al di sopra del diritto come un sistema sovrapositivo di norme, ma che vi si introduce "sublimandosi in un procedimento di giustificazione valido per possibili contenuti normativi" (v. Habermas, 1992). L'approdo è dunque una versione proceduralizzata e sofisticata della teoria liberale della legittimità, che si riconnette al tema lockiano della 'legge dell'opinione e del costume', in cui un elemento razionale s'intrecciava a quello tradizionale proprio come ora razionalità procedurale e riserva di eticità dei mondi vitali (Lebenswelten) si coniugano nell'aspirazione a ricostituire una ragione integra. Nella precarietà di tale coniugazione si cela tuttavia anche la vulnerabilità di questa forma di legittimazione discorsiva della legalità: è sufficiente che le procedure di un potere comunicativamente prodotto vengano deformate dalla logica strategica dell'irrompere di interessi e identità non negoziabili perché si abbia una crisi di legittimità.
Ma la risoluzione in termini proceduralistici del dilemma weberiano della legittimità della legalità può avere anche un altro esito, diametralmente opposto: quello fornito da Niklas Luhmann nei suoi studi di sociologia del diritto e in particolare in Legitimation durch Verfahren (1969). Risolvendo funzionalisticamente l'universo normativo in un sistema autopoietico, che risponde a imperativi di autoconservazione nella misura in cui stabilizza aspettative generalizzate di comportamento, Luhmann riduce la legittimità alla disponibilità ad adattarsi a procedure in modo tale da far supporre al potere politico l'accettazione da parte dei consociati delle decisioni prese. Ma per questo non è necessario che si dia una diffusa convinzione della validità del diritto statuito, è sufficiente che funzioni il meccanismo di autoillusione stabilizzatrice del sistema. In questa prospettiva le aspettative di tipo normativo vengono presentate come varianti di aspettative di natura cognitiva al servizio di una strategia di riduzione della complessità: in gioco non è la fondazione morale delle procedure, ma semplicemente l'assicurazione delle condizioni favorevoli al loro apprendimento. Quel funzionalismo senza connessione ai valori che Schmitt denunciava nel sistema di legalità dello Stato legislativo parlamentare viene ora assunto in positivo, a prezzo però di ridurre la legittimazione a una procedura che istituzionalizza il riconoscimento di decisioni vincolanti come ovvietà e che quindi può valere solo in condizioni di normalità: in situazioni di crisi, invece, il meccanismo di istituzionalizzazione fondato sull'iterazione cessa di funzionare, perché s'interrompe il processo di ridimensionamento delle aspettative sociali e di neutralizzazione dei dissenzienti che passa attraverso le elezioni, il sistema legislativo e quello giudiziario (v. Luhmann, 1969 e 1993). In questo modo si può vedere nella teoria luhmanniana nulla più che una sofisticata variante della riduzione positivistica della legittimità al principio di effettività.
Alle categorie weberiane è costretto a fare ricorso anche chi intraprenda lo studio di quei regimi autoritari e totalitari che tanta parte hanno avuto (e in alcune aree del mondo ancora hanno) nella storia del XX secolo, mentre molti indizi inducono a pensare che essi continueranno a ricoprire un ruolo di primo piano anche nel secolo che si sta per aprire. Se nei paesi in cui si sono affermate istituzioni democratiche di tipo occidentale la crisi di legittimità è sempre in agguato, vuoi per i limiti di una stabilizzazione meramente procedurale del consenso vuoi (e soprattutto) per i rischi cui va incontro un potere politico che deve la sua accettazione primariamente alla sua capacità di garantire crescita e benessere e di soddisfare aspettative eudemonistiche ormai consolidate in una società dei diritti e delle spettanze (v. Sartori, 1993), in gran parte del mondo prevalgono regimi che nella forma rivendicano legittimità in forza della legalità ma che di fatto si legittimano in modo tradizionale e carismatico (magari in aperto conflitto 'culturale' con il principio di legalità) o sono manifestamente illegittimi.
Prototipo del potere illegittimo è per Weber l'ordinamento del popolo nei Comuni medievali, là dove esso si costituisce come comunità politica distinta che rivendica un proprio monopolio fiscale e militare: e questa è la situazione in cui si sono poste tutte le organizzazioni consapevolmente rivoluzionarie formatesi all'interno di uno Stato al fine di sovvertirne la costituzione. Ma se sono illegittimi dal punto di vista dell'ordinamento preesistente, i gruppi rivoluzionari fondano la loro coesione sulla fede nella loro missione storica e di conseguenza nelle qualità straordinarie di quei capi che esercitano il controllo sul sapere, sulle norme, sull'entusiasmo, sulla mobilitazione dei seguaci e sull'identificazione dei nemici. Il carisma è l'autentica potenza rivoluzionaria della storia, in contrasto con le esigenze di stabilizzazione del potere tradizionale e della legalità, ed è quindi normale che la legittimità dei capi rivoluzionari sia di tipo puramente carismatico. Anche se i primi teorici del totalitarismo hanno sostenuto una tesi contraria (v. Friedrich e Brzezinsky, 1965²; v. Arendt, 1951), sembra difficile negare questa connotazione a demiurghi politici quali Lenin, Hitler, Stalin, Mao Zedong. Piuttosto va osservato come, data la sua labilità nei confronti delle costellazioni di interessi materiali e la sua 'estraneità all'economia', il carisma non sia una potenza durevole e l'esperienza dei movimenti e dei regimi rivoluzionari di questo secolo lo ha mostrato con grande ricchezza di particolari: ovunque esso è dovuto scendere a patti con i poteri tradizionali (ad esempio le clientele di tipo etnico o locale) e con la burocrazia razionale, che è l'unica forma disponibile di amministrazione dei dominati in una società di massa, e ha subito quella che Weber definiva "trasformazione in pratica quotidiana" (Veralltäglichung).
Dal punto di vista della legittimità, il dato saliente delle dittature totalitarie di questo secolo (in particolare di quella nazionalsocialista) è stato individuato nella coniugazione senza precedenti storici di potere carismatico e potere legale, entusiasmo comunitario centrato sulla persona di un capo e macchina burocratica di tipo impersonale (v. Belohradsky, 1976). La commistione tra i due elementi varia naturalmente in relazione alle circostanze geostoriche e alle modalità di appropriazione del potere. Ma già all'interno dei gruppi rivoluzionari che si legittimano in modo carismatico è possibile individuare differenze, in primo luogo a partire dalla distinzione tra movimento e regime. Fintanto che un gruppo rivoluzionario ha la forma del movimento che lotta per la presa del potere, il carisma del capo è oggetto di fede da parte del nucleo più ristretto dei seguaci che opera nella condizione esaltante di una comunità dell'entusiasmo, mentre nel resto del seguito predominano motivazioni psicologiche dettate dalla necessità e dalla speranza o semplicemente un atteggiamento di attesa; con il consolidarsi del regime, invece, il rapporto carismatico tra il capo e i diretti seguaci - diventati ormai apparato amministrativo - si raffredda (e può dar luogo a frizioni e conflitti), così che il detentore del potere deve compensare la parziale perdita di legittimità con la ritualizzazione dell'autorità e il rafforzamento dell'attrazione carismatica esercitata sul popolo (in forme ormai plebiscitarie).
Regimi dittatoriali a più lunga durata, come quello sovietico e quello cinese, hanno mostrato poi una ancor più variegata fenomenologia della legittimità, passando dall'originario carisma dei capi rivoluzionari consacrati dal successo strategico della loro azione al carisma d'ufficio, ormai ritualizzato nelle formule del credo ideologico, del partito rivoluzionario, fino al consolidamento di forme neotradizionali di legittimazione, in cui la stabilità del potere poggia più sulla situazione degli interessi affidati alla mediazione di poteri locali di tipo patrimoniale, tendenti cioè all'appropriazione privata degli apparati amministrativi e delle risorse pubbliche affidate alla loro gestione: il tutto in conflitto costante, e in definitiva fatale per la stabilità e tenuta dell'insieme, con le esigenze di un sistema di legalità razionalmente calcolabile (v. Roth, 1987). Proprio sul filo di questo precario equilibrio tra forme di personalismo che inclinano verso l'universalità delle norme condivise, e mirano a conseguire almeno l'apparenza di un sistema di legalità democratico, e poteri personali costruiti sul particolarismo degli interessi e delle tradizioni sembrano correre oggi i processi di legittimazione in gran parte dei paesi del globo; ma il rischio dell'involuzione verso forme neopatrimoniali di potere e di corruzione delle istituzioni democratiche ad opera della colonizzazione di interessi privati appare molto forte anche nei paesi occidentali - e con esso il rischio che la trasformazione del carisma in senso antiautoritario, da cui hanno avuto origine le nostre democrazie, possa per reazione invertirsi trovando sbocco in regimi apertamente illegittimi.
Ma il quadro delle patologie contemporanee della legittimità non si esaurisce qui né può essere compiutamente ricostruito con il solo ricorso alle categorie della weberiana 'sociologia del potere'. In effetti, a considerare il problema in una prospettiva storico-universale e planetaria, la forza legittimante di fattori quali la legalità o la tradizione appare scossa dall'urto di eventi traumatici come guerre internazionali e civili, crolli economici e catastrofi ecologiche, genocidi ed epurazioni. In un mondo caratterizzato da crescente instabilità e dal rafforzarsi delle spinte centrifughe, sempre più spesso la legittimità di un ordinamento viene a dipendere non già dalle qualità del detentore del potere, ma dalla semplice circostanza d'essersi insediato subentrando a un regime corrotto, illegale, arbitrario, che si reggeva sulla forza e sulla frode. È il fenomeno che si potrebbe definire della legittimità parassitaria, in quanto il consenso di cui un regime gode viene a poggiare non sui meriti propri ma sui demeriti e sulle colpe altrui. In società nelle quali, a causa del fallimento della modernizzazione e per le conseguenze di dittature, il processo di formazione della società civile e dello stato di diritto è rimasto a livelli embrionali o comunque soffre di cronica debolezza, anche movimenti autoritari e oligarchie criminali possono trovare legittimazione in nome delle colpe di regimi passati. Il tracollo economico di governi collettivistici, ad esempio, in più parti del mondo ha innescato processi di destabilizzazione politica che rischiano di conferire immeritato sostegno a minoranze che usano strategicamente le risorse della mobilitazione nazionalistica o quelle dell'accumulazione originaria, oltre i confini della legalità. Proprio come nel corso della storia la legittimità del dominio dispotico sugli schiavi è stata sostenuta a partire dalla colpa di questi ultimi (riconducibile a reati comuni o politici), così ora, secondo una simile modalità di legittimazione ex delicto, il peso di grandi tragedie collettive, imputabili a una molteplicità di fattori e di soggetti, viene addossato a capri espiatori di facile identificazione, secondo un modello iniquo, ma sancito plebiscitariamente, di ripartizione delle responsabilità. Su questa sola base nuove o sedicenti nuove oligarchie ottengono il riconoscimento delle loro aspettative di potere. (V. anche Autorità; Legalità, principio di; Potere).
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