COSTA, Lelio
Nacque a Genova verso la metà del sec. XVI; addottoratosi in legge, entrò nell'amministrazione della Repubblica, venendo nominato nel 1584 vicario di Gasparo De Marini, capitano della Spezia. Nel 1589 fu inviato a Praga come agente, affiancando l'opera di Ottavio Spinola, residente nella città, per motivi commerciali.
La corte imperiale, nominalmente in possesso dei piccoli feudi di cui la penisola italiana era cosparsa, costituiva il centro di frenetiche trattative tra le potenze per assicurarsi il controllo diretto o indiretto di questi staterelli. La Repubblica genovese, poi, doveva anche far fronte al pericolo rappresentato dai nobili cittadini che aspiravano a formarsi un dominio personale (come nel caso di Gian Andrea Doria) o che, possessori di piccoli territori posti ai confini montani dello Stato spesso erano indotti ad alienare tali feudi ad altre potenze: la politica della Repubblica, volta ad eliminare queste situazioni attraverso l'acquisto dei feudi o anche attraverso manovre tese a mettere in difficoltà i feudatari stessi, si scontrava con l'ostilità di quanti (in primo luogo la Spagna) intendevano a loro volta impadronirsi di territori strategicamente importanti.
Le questioni fondamentali che il C. fu chiamato a seguire concernevano il marchesato del Finale, i feudi doriani di Santo Stefano d'Aveto e di Sassello e il possesso del feudo di Zuccarello.
Nella prima questione Genova intendeva difendere le prerogative dei fratelli del defunto marchese Alfonso II del Carretto, Alessandro, Fabrizio e Sforza Andrea; quest'ultimo, residente presso la corte cesarea, era impegnato nel difficile tentativo di ottenere la restituzione del marchesato occupato dall'Impero e dalla Spagna, intenzionata a servirsi del Finale come sbocco marittimo per i suoi possessi milanesi; contro l'opposizione spagnola il C. dovette invano lottare. Per Santo Stefano d'Aveto la Repubblica genovese sfruttò il malcontento popolare contro il feudatario Giovan Battista Doria per appoggiare una sollevazione che si concluse con la cacciata dei Doria e la dedizione a Genova, pronta ad accettarla sotto la scusa della necessità di impedire che tale atto fosse compiuto a favore di altre potenze. Delle trattative intavolate per costringere il Doria a vendere il feudo alla Repubblica fu costantemente informato il C. che, dopo la morte di Ottavio Spinola (1592), cercò invano di intaccare la ferma opposizione imperiale ad un atto che sottraeva il feudo al suo controllo. La rivolta dei Sassellesi contro Nicolò Doria offrì a Genova un'altra occasione per eliminare un feudo: questa volta, però, si preferì favorire un accordo tra le due parti, che finì coll'avvantaggiare Gian Andrea Doria, che acquistò Sassello nel 1595; tuttavia la Repubblica intervenne con decisione, anche perché un altro compartecipe del feudo, Stefano Doria, finì col venderle la propria quota. Anche in questo caso l'imperatore, sotto la pressione della Spagna, rifiutò il suo assenso alle iniziative genovesi. L'alienazione del feudo di Zuccarello che era stata compiuta da Scipione del Carretto in favore del duca di Savoia, poi, rappresentava una grave minaccia contro la Repubblica. Il C. trovò, anche in questo caso, notevoli difficoltà per ottenere l'annullamento della vendita, aggravate dalla critica situazione in cui versava l'Impero per le croniche esigenze finanziarie dovute alla guerra contro i Turchi. Infatti, in cambio di ogni concessione, sia pur minima, i consiglieri imperiali insistevano nella richiesta di aiuti economici alla Repubblica, tutt'altro che decisa nella sua azione.
La mancanza di una politica coerente è rivelata dalla lentezza e dalla incertezza nelle direttive assegnate al C.: nonostante i suoi avvisi che, nella causa di Zuccarello, ci si dovesse limitare a chiedere la restituzione del feudo a Scipione, senza ulteriori pretese, si continuò a rivendicare i diritti sulla proprietà del feudo; né più fortunato fu il tentativo di occupare Santo Stefano che, dopo vari tentennamenti, dovette essere restituito al Doria. La concessione del titolo di "Serenissima" alla Repubblica fu subordinata anch'essa alla richiesta di un aiuto finanziario per la guerra contro il Turco, avanzata dall'ambasciatore Antonio d'Arco. Tale somma fu, alla fine, concessa e il sospirato titolo arrivò (1594), ma nessun altro vantaggio la Repubblica poté ottenere, anche perché le richieste finanziarie ripresero. Il C. si trovò di fronte alle abili manovre dell'ambasciatore spagnolo e di quello sabaudo, senza potervisi opporre con rapidità; lo stesso Sforza Andrea del Carretto, da anni invano sfiancatosi nel tentativo di vedere riconosciuti i suoi diritti, manifestava segni di stanchezza, nonostante gli incoraggiamenti dei Costa. L'arrivo a Genova dell'ambasciatore imperiale Steneh Popel (maggio 1595) fu la dimostrazione evidente del grado di tensione cui erano arrivati i rapporti tra Genova e Impero; al Popel fu negato il passaggio in Spagna, provocando come reazione il rifiuto di riconoscere a Genova i diritti derivati dal titolo concesso. La venuta di Nicolò Doria alla corte cesarea (dicembre 1595) significò una nuova fonte di preoccupazione per il C., affiancato dall'ambasciatore Aurelio Tagliacarne (febbraio 1596) che, dopo alcuni mesi di colloqui e di udienze, fu costretto a partire senza aver ottenuto nulla. I contrasti tra Sforza Andrea e suo fratello maggiore resero ancor più difficile la soluzione del problema finalese: la morte di Alessandro e la rinuncia di Fabrizio ai diritti sul marchesato lasciarono mano libera a Sforza Andrea che, ormai stanco, finì col vendere il suo feudo alla Spagna (1598). Questi risultati negativi, non dovuti ad una incapacità personale del C., ma alla difficile battaglia contro la potenza spagnola, vera ispiratrice di tutte le decisioni imperiali, aggravarono la delicata situazione del C., già costretto a sobbarcarsi sia le spese del lungo soggiorno, non compensate dallo stipendio pagatogli dalla Repubblica, sia le fatiche dovute agli spostamenti della corte per le interminabili diete imperiali.
In questi anni il C. seguì con attenzione le vicende dell'Impero e, in particolar modo, gli esiti della guerra ungherese. Nei suoi dispacci risultano chiare le incertezze dell'atteggiamento imperiale di fronte alla pressione turca. Alla vittoria di Zarech (1593) seguì la caduta di Györ (1594) e, dopo la vittoria di Giurgiu (1595), la disastrosa resa della fortezza di Eger (1596). Solo nel 1598 con la riconquista di Györ le sorti della guerra sembrarono risollevarsi. Le divisioni in seno alla famiglia imperiale, le gravi difficoltà finanziarie acuite dalle lotte religiose, la cronica disorganizzazione militare e l'incapacità dimostrata dai comandanti sono indicate dal C. come cause della debolezza rivelata dall'Impero.
Due mesi dopo l'acquisto del marchesato del Finale da parte della Spagna, a Praga veniva inviato come successore del C. Antonio Paravagna, col quale egli collaborò sino all'ottobre 1598, quando fu licenziato dal servizio pubblico. Questa fu anche l'unica missione diplomatica del C., che nel 1612 fu chiamato a rivestire la carica di console della Ragione; a questa magistratura fu eletto anche nel 1616, 1618, 1620, 1621 (quando, nel giugno, fu chiamato a sostituire Giovan Battista Castiglione, ammalato), 1622(per un breve periodo) e 1623, venendo sostituito nell'aprile dello stesso anno.
Nel 1607 egli aveva ottenuto dal Senato il privilegio, riservato ai cittadini nobili genovesi, di poter comparire col capo coperto davanti ai tribunali, ai magistrati e agli ufficiali della Repubblica; benché non risulti che egli sia stato iscritto nel Liber nobilitatis, gli fu attribuito il titolo di "magnifico", spettante ai soli nobili. Non si conosce la data della sua morte.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Genova, Archivio segreto, Istruzioni a ministri, 8/2715; Litter. registri, n. 87/1863, pp. 83-109; 91/1867, pp. 2-228 passim; Lett. ministri Vienna, 16/2533, 17/2534, 18/2535, 1912536; Manuali del Senato, n. 830 (1584), c. 72v; 855 (1607), c. 12v; 860 (1612), c. 35r; 864 (1616), c. 71v; 865 (1617), c.143v; 866 (1618), c. 36v; 868 (1620), c. 20r; 869 (1621), c. 112v; 870 (1622), c. 42r; 871 (1623), cc.16v, 39v, 88v; Ibid., Sala A. Gallo, Sindicatori della Riviera di Levante, n. 906 (1585); A. Roccatagliata, Annali genovesi dal 1581 al 1607, Genova 1873, p. 190; V. Vitale, Diplomat. e consoli della Repubblica di Genova, in Atti della Soc. ligure di storia patria, LXIII (1934), p. 112; M. Gasparini, La Spagna e il Finale dal 1567 al 1619, Bordighera 1958, pp. 41 s.; M. Garino, Storia di Sassello, Genova 1965, pp. 262, 273, 275, 277, 279, 283, 287.