MODENA, Leon (Yehudah Aryeh mi-Modena)
– Nacque a Venezia il 23 apr. 1571 da Yiṣḥaq ben Mordekay da Modena e da Diana Raḥel, rifugiatisi a Venezia a causa del terremoto che aveva colpito Ferrara nel novembre 1570. Si trattava di una famiglia di origine francese, illustre per fortune materiali e per cultura. Il nonno, Mordekay, medico rinomato, era stato insignito da Carlo V dell’ordine del Toson d’oro.
Il M. fu un fanciullo precoce: a due anni e mezzo era in grado di leggere un brano profetico nella sinagoga e, all’età di tre anni, di tradurre in italiano passi della Torah. Così egli si presenta all’inizio della sua autobiografia, Ḥayye Yehudah (La vita di Yehudah), che cominciò a stendere verso il 1618, all’età di quarantasette anni, e che continuò ad aggiornare semestralmente fin quasi alla morte.
L’opera costituisce la fonte principale per la ricostruzione della biografia e della percezione che il M. ebbe di se stesso. La stesura della Vita, rivolta esclusivamente alla cerchia familiare e agli allievi più stretti, i figli spirituali, quindi non destinata alla pubblicazione (fu edita solo nel XX secolo in originale: Kiev 1911-12; Tel Aviv 1985; e in traduzione: Princeton, NJ, 1988; Torino 2000), fu intrapresa a seguito del lutto più grave che gli aveva sconvolto la vita, la prematura scomparsa, nel novembre 1617, di Mordekay, il prediletto primogenito che lo aveva seguito nell’esercizio di pericolose pratiche alchemiche. Si tratta di un’opera innovativa, in quanto è la prima autobiografia scritta in ebraico; come ha evidenziato Umberto Fortis, il M. vuole presentare un exemplum vitae che diventa «una sorta di riscontro, di metafora in sedicesimo della condizione stessa dell’ebraismo diasporico, rivissuta, nello spazio privato dell’io, attraverso un diagramma di cadute e di peccati, di tentativi di redenzione e di avvilenti sconfitte, inconfessabili a un mondo esterno, ma rivelati, sia pur con attenta selettività, al contesto riservato della propria discendenza» (Vita, 2000, p. 15).
Nel 1571 i Modena fecero ritorno a Ferrara per passare poi a Cologna e quindi a Montagnana. Nel 1580 all’età di nove anni, il M. venne inviato dal padre prima a Ferrara e poi a Padova dove rimase per un anno, come allievo in casa del rabbino Šemu’el Archivolti, poeta e grammatico. Ritornato a Ferrara, continuò gli studi con il rabbino Mošeh Basola Della Rocca. È di questo periodo la traduzione in ebraico di due canti dell’Orlando Furioso (1583) e la composizione di un poema in onore del maestro Della Rocca (1584), segno della sua curiosità e della sua straordinaria cultura umanistica. Nello stesso anno, scrisse il Sur me-ra‘ (Tienti lontano dal male; pubblicato a Venezia, de Gara, 1595), un dialogo contro il gioco d’azzardo, il vizio che fu la rovina della sua vita. Nel 1589, a causa del deteriorarsi della situazione finanziaria del padre, il M. incominciò a impartire lezioni private ad allievi. Nel giugno 1590 si trasferì a Venezia per unirsi in matrimonio con Ester, una cugina figlia della zia materna Gioia. Ester tuttavia si ammalò e morì il 22 giugno dello stesso anno. Così, il 6 luglio, il M. sposò Raḥel, sorella minore della promessa sposa. Dopo le nozze trascorse un anno a Montagnana dove, il 9 sett. 1591 nacque il primogenito, Mordekay, e qui, il 6 dicembre, morì suo padre. Il 20 nov. 1592 fece ritorno con la famiglia a Venezia e riprese la professione di insegnante e maestro elementare e iniziò a predicare nella Scuola grande tedesca, la più importante sinagoga ashkenazita del Ghetto Nuovo, e nell’accademia talmudica di Kalonimos Belgrado, uno dei maggiorenti della locale Comunità ashkenazita. A Venezia, il 28 ott. 1593, gli nacque il secondo figlio, Yiṣḥaq. Nel settembre 1594 si trovava a Montagnana in qualità di precettore in casa di Elyaqim Cohen Panarotti, dove insegnò a circa ventitré allievi. Qui nel dicembre 1594 perse al gioco circa cento ducati, la prima perdita consistente cui il M. fa cenno, frutto di quella pericolosa inclinazione che fu la causa principale della sua rovina economica. Nello stesso periodo pubblicò a Venezia (1595, di Gara) il Sod yešarim (Segreto dei retti), una raccolta di rimedi, giochi, formule magiche e indovinelli assieme con un curriculum scolastico. Fece quindi ritorno di nuovo a Venezia dove, il 16 marzo 1595, nacque il terzogenito, Avraham, deceduto durante l’epidemia di vaiolo che in ghetto fece morire «più di settanta bambini e bambine» (Vita, p. 58). Il 20 giugno 1597 moriva per un’infezione intestinale sua madre Raḥel Diana, che fu sepolta nell’antico cimitero ebraico del Lido di Venezia. Nel settembre dello stesso anno si trasferì a Cento, in Romagna ma, dopo venti giorni, fece ritorno a Venezia dove, il 10 apr. 1598, nacque la figlia Diana.
Sono anni di intensa attività e produzione anche sul piano letterario, sia in ebraico sia in «in lingua cristiana», cioè in italiano e in latino. A questo periodo appartengono versi e introduzioni a varie opere, tra cui la Torat ha-adam (Insegnamento concernente l’uomo) di Naḥmanide (Venezia, di Gara, 1595), componimenti poetici apparsi nelle opere di Yiṣḥaq Adarbi, Divré šalom (Parole di pace; Venezia, Daniele Zanetti, 1596), nella Qehillat Ya‘aqov (La Comunità di Giacobbe) di Barukh ibn Barukh (Venezia, Daniele Zanetti, 1598) nel grande Maḥazor ashkenazita (Formulario festivo; Venezia, di Gara 1599-1600) e nello Yiḥus ha-ṣaddiqim (Genealogia dei giusti) di Geršon ben Ašer (Venezia, Daniele Zanetti, 1598), in scritti di Cristiani quali l’Arca Noe. Thesaurus linguae sanctae di Marco Marini da Brescia (Venezia, Giovanni di Gara, 1593).
Lo schiudersi del nuovo secolo segnò l’inizio di una fortunata produzione editoriale all’insegna di uno scambio fecondo fra la cultura ebraica cui apparteneva e l’eredità classico-umanistica di cui si sentiva partecipe. Nel 1600, con l’aiuto di Salomon e di suo figlio Abraham Boncompagno, pubblicò a Venezia presso Daniele Zanetti lo Ṣemaḥ ṣaddiq (Virgulto del giusto; Venezia 1600), un rifacimento in ebraico della versione latina del Fior di virtù, un trattato morale e allegorico anonimo, in trentacinque capitoli, composto tra il 1313 e il 1323, che si rifà a modelli ed esempi tratti dal Romanzo di Alessandro, dalle Vite dei Padri della Chiesa, dalle Gesta Romanorum e dalla Bibbia. Destinato al pubblico ebraico, lo Ṣemaḥ fu rimaneggiato dal M. che vi inserì storie tratte dalla letteratura talmudica e midrashica, e dal Tiqqun middot ha-nefeš (Miglioramento delle qualità morali) di Šelomoh ibn Gabirol.
Il 1° maggio 1601 gli nacque il figlio Zevulon, chiamato Marin dai cristiani perché nato durante il dogato di Marino Grimani. In quell’anno, su commissione del rabbino Yosef Pardo, il M. iniziò a comporre un commento alla Torah, non portato a termine, il cui manoscritto si conserva nella Bodleian Library di Oxford (cfr. Cassuto, p. 138). Tra giugno e luglio 1602 compose il Midbar Yehudah (Parola di Yehudah; Venezia 1602), una raccolta di ventuno prediche. L’anno seguente, nell’inverno del 1603, rimasto senza scolari, il M., su suggerimento del medico Avraham di Cammeo di Roma, cominciò ad interessarsi di esperimenti alchemici; il 31 agosto vide la luce la figlia Ester. Ricaduto nel «malanno del gioco» (Vita, p. 63), nel settembre 1604 si trasferì a Ferrara come precettore in casa del rabbino Yosef Zalman, dove rimase per circa tre anni, tormentato dalla nostalgia di Venezia, l’amata città natale cui fece ritorno nel marzo 1607 dopo la morte del Zalman. Durante la sua assenza vennero editi i Pesaqim (Venezia 1605), decisioni halakiche concernenti la musica sinagogale. Nell’autunno del 1607 lo troviamo quale precettore in casa di un parente della moglie, il rabbino Mošeh Copio che il M. definisce «un asino selvatico», indegno di «venir considerato essere umano» (ibid., p. 65). Dopo una breve convivenza, il M. si trasferì in Ghetto Vecchio, in un’abitazione dei Treves. Nel 1608 ebbero inizio le sue disavventure domestiche. Preoccupato per il comportamento del figlio Yiṣḥaq, decise di allontanarlo da Venezia inviandolo in Levante dove il giovane rimase per tredici anni senza trarne alcun beneficio. Lo stesso M., dopo altre consistenti perdite al gioco, decise di trasferirsi con la famiglia a Firenze, ma la nostalgia gli fece accettare l’offerta della Comunità ashkenazita e così, nell’aprile 1610, ritornò nella città della laguna. Nel 1612 diede alle stampe il Galut Yehudah (Esilio di Yehudah).
Novo Dittionario Hebraico et Italiano (Venezia 1612), un’esposizione in italiano, con regole di grammatica, di espressioni ebraiche della Bibbia e il Lev ha-Aryeh (Il cuore del Leone; Venezia 1612), un testo di mnemotecnica. Nel 1613 la figlia Diana si unì in matrimonio con il rabbino Ya‘aqov Levi. Nel 1614 insieme con il sacerdote Giuseppe Grillo il M. iniziò a occuparsi di alchimia. Gli esperimenti furono però fatali a Mordekay, l’amato primogenito che si ammalò a causa delle esalazioni di arsenico e morì nel novembre 1617. A seguito di questo lutto, il M. sprofondò un'altra volta nel gioco d’azzardo dal quale si era astenuto per due anni. Nel 1614 si mise in società con Avraham Ḥaver Ṭov (Boncompagno), e, nel 1617, fu uno dei correttori della Bibbia rabbinica (Venezia 1617-19). Nel 1619 pubblicò il Ṣorì la-nefeš u-marpe la-‘eṣem (Balsamo per l’anima e rimedio per il corpo; Venezia 1619), un prontuario di confessioni e preghiere per i malati gravi e per i moribondi, che rappresenta una novità nella storia dei rapporti tra l’ortoprassi ebraica e l’ideologia della morte.
L’opera costituisce un valido supporto all’azione delle Gemilut ḥasadim, le confraternite della Misericordia, alle quali spettava il delicato compito di assistere i malati fino alla fine. Secondo i moduli di una ars moriendi vengono disciplinate le fasi che precedono il decesso allo scopo di sottrarre i moribondi all’arbitrio delle famiglie e di aiutarli a compiere una buona morte per mezzo di una confessione pubblica delle proprie colpe in presenza di testimoni qualificati e della predisposizione delle volontà testamentarie.
Nello stesso anno, in occasione di Purim, il M. diede alle stampe L’Ester. Tragedia tratta dalla Sacra Scrittura (Venezia 1619), una tragedia in cinque atti preceduta da un prologo, che egli dedicò alla poetessa del ghetto veneziano, Sara Copio Sullam (circa 1592-1641).
Non si tratta di una dedica casuale. Sara aveva intrattenuto una fitta corrispondenza con Ansaldo Cebà (1563-1623), un religioso e letterato genovese autore, a sua volta, di un poema drammatico dedicato all’eroina biblica, La reina Esther (Genova 1615). Cebà, forte della confidenza instauratasi con la poetessa, aveva tentato di convertirla al Cristianesimo, ma non era riuscito nel suo intento per il profondo legame di Sara con la fede ancestrale, una resistenza cui era stato determinante il sostegno del Modena.
Anche il figlio Zevulon fu per il M. fonte di amarezze e di dolore. Scapestrato e rissoso come il fratello Yiṣḥaq, nel novembre 1621 il padre dovette sborsare trentadue ducati per liberarlo dal carcere a cui lo avevano condannato i Cinque savi alla Mercanzia. Il 28 marzo 1622, poi, Zevulon fu assassinato in ghetto da alcuni giovinastri ebrei che, pur riconosciuti, riuscirono a fuggire e vennero banditi da tutte le terre della Repubblica. Dopo tanta tragedia, tra il 1622 e il 1624, il M. continuò a insegnare a uno sparuto gruppo di allievi, tra i quali anche alcuni cristiani. Tra il 1625 e il 1626, a seguito del trasferimento in Terrasanta del rabbino Yiṣḥaq Geršon, predicò regolarmente, con il genero Ya‘aqov Levi, nella Scuola grande tedesca. Il 28 apr. 1629, tenne un sermone nella sinagoga Talmud Torah, la Scuola spagnola, alla presenza di un folto pubblico, tra cui addirittura il fratello del re di Francia Luigi XIII, come scrive il M. nella sua autobiografia, insieme a diversi nobili e «cinque predicatori cristiani tra i principali» (Vita, p. 90). Nell’autunno dello stesso anno, in occasione della festa di Simḥat Torah, il M. riuscì a introdurre la pratica musicale nella sinagoga spagnola di Venezia.
Nell’autunno del 1631, all’indomani della peste che devastò il ghetto veneziano senza tuttavia colpire la famiglia del M., fece sposare la figlia Diana, rimasta vedova nel 1629, al ḥaver Mošeh da Fano «detto da Saltaro», residente a Padova. Nel biennio tra il 1632-33, continuò a rovinarsi con il gioco.
Nel 1634 iniziò la pubblicazione in proprio del Bet Yehudah (Casa di Yehudah; Venezia 1635), supplemento al repertorio dei brani haggadici dei Talmudim compilato da Ya ‘aqov ibn Ḥaviv con il titolo ‘En Ya’aqov (Occhio di Giacobbe), di cui il M. aveva già pubblicato un indice intitolato Bet leḥem Yehudah (Casa del pane di Yehudah; Venezia 1625). La denuncia agli ufficiali al Cattaver da parte di alcuni ebrei provocò la chiusura della tipografia e l’arresto, il 16 maggio 1635, del nipote Yiṣḥaq Levi, rilasciato solo il 13 luglio dietro il pagamento di 250 ducati, frutto, come scrive il M., del suo lavoro di correttore di bozze e della vendita di copie delle sue opere. Per sopperire alle più urgenti necessità, il M. continuò l’attività di insegnante dando, tra il 1635 e il 1636, lezioni di italiano al nobile francese Ludovico Esselin. Nel 1637 si trovò a fronteggiare una situazione assai delicata a causa della pubblicazione del suo scritto italiano più noto, l’Historia de’ riti hebraici.
Come il M. narra nella Vita, l’opera era stata composta verso il 1616-17 su richiesta dell’ambasciatore inglese a Venezia, sir Henry Wotton (1568-1639), che voleva farne omaggio al re Giacomo I. Nell’intenzione del M., il testo, destinato a rimanere manoscritto, era rivolto a «persone che non sono della setta del papa» (p. 103), residenti in un Paese, l’Inghilterra, dove non esisteva il tribunale dell’Inquisizione. Lungi da intenti apologetici, come evidenzia nel proemio, il M. si prefiggeva di far conoscere al pubblico cristiano i riti e la precettistica ebraica: «nello scriver, in verità, mi sono scordato d’esser hebreo, figurandomi semplice e neutrale relatore […] perché ho inteso di referire e non di persuadere» (Historia de’ riti hebraici, Proemio). Tuttavia, vent’anni più tardi, il M. ammise un certo intendimento polemico seppure non nei riguardi del cattolici, bensì dei protestanti, quale risposta alla Synagoga Judaica di Johannes Buxtorf (1564-1629), edita a Basilea in tedesco nel 1603 e in latino nel 1604, che avallava la posizione negativa di Lutero nei riguardi degli ebrei. L’Historia fu data alle stampe a Parigi, nel 1637, a opera dell’orientalista Jacques Gaffarel (1601-81) venuto nel 1633 in Italia su richiesta del cardinale Richelieu. Non risulta se Gaffarel abbia conosciuto il M., questi comunque gli fece pervenire una copia manoscritta del testo che, il 12 genn. 1637, vide la luce a Parigi senza il nome dell’editore e con una dedica a Claude Mallier, ambasciatore di Francia a Venezia. La pubblicazione allarmò il Modena. L’edizione, seppure da lui autorizzata, era avvenuta a sua insaputa ed egli non aveva avuto la possibilità di intervenire su quelle parti «che, una volta stampate, non sarebbero state gradite all’Inquisizione che si trova in Italia» (Vita, p. 103). Ad ogni buon conto, il 28 aprile, per evitare sanzioni da parte dell’Inquisizione, il M. sottopose una copia manoscritta al S. Uffizio per ottenerne l’approvazione in vista di un’eventuale edizione veneziana. Il 14 maggio il domenicano Marco Ferro riferiva al tribunale che andavano soppressi i capitoli decimo e undecimo in quanto contenenti proposizioni contrarie alla religione cristiana (la negazione dell’incarnazione divina e la credenza nella metempsicosi). I giudici, tuttavia, il 18 maggio, vietarono la pubblicazione dell’Historia, ingiungendo al M. di segnalare eventuali altre opere di analogo contenuto edite nella terre della Serenissima. Trascorso un anno, l’opera, cui erano stati espunti i passi incriminati, venne comunque pubblicata per i tipi di Giovanni Calleoni (Venezia 1638) e venduta con successo dai librai cristiani tanto che, scriveva il M., «fino a ora, per circa sei mesi, non se ne sono sentiti se non elogi» (ibid., p. 104). Anche questo volume fu dedicato all’ambasciatore Claude Mallier che ricompensò l’autore con un dono di trentaquattro ducati, con i quali il M. coprì «le spese di stampa» (ibid.).
Ma altri dolori erano incombenti. Il figlio Yiṣḥaq fu costretto, per debiti di gioco, a fuggire da Venezia abbandonando la moglie e a riparare, prima a Livorno, poi ad Amsterdam e infine in Brasile. Era amaro il bilancio dei figli maschi che il M. annotava nella sua Vita: uno morto per malattia, l’altro assassinato e il terzo esule. A sostegno della sua vecchiaia non gli restava che l’amato nipote Yiṣḥaq Levi, figlio di Diana, suo allievo e ospite, ma anche Yiṣḥaq lo avrebbe lasciato trasferendosi, dopo le nozze, nella casa del suocero, Yehudah Montescudolo. Nel 1639 riprese a collaborare con la Comunità sefardita Talmud Torah.
Agli inizi del 1640 terminò l’Arì nohem (Il ruggito del Leone), un’opera, rimasta manoscritta, contro i cabbalisti cristiani che si servivano della qabbalah a supporto delle «verità» del Cristianesimo, (fu stampata a Lipsia, nel 1840, a cura di Julius Fürst). Nel maggio 1640 fu pubblicata la seconda edizione del Galut Yehudah con un’aggiunta che il M. chiamò Pi Aryeh (Bocca di Leone; Venezia 1640). Il 1641 fu per il M. segnato da ulteriori sventure: la moglie iniziò a soffrire per una forma di demenza senile che rese penoso e difficile il ménage familiare tanto che la salute del M. ne fu compromessa. Le sue precarie condizioni fisiche, l’asma che gli impediva di affrontare le scale, lo costrinsero a un cambio di domicilio. Prese in affitto una casa di Mošeh Luzzatto, a piano terra, «luogo oscuro e tenebroso», che egli chiamava «la grotta di Makhpelà» (Vita, p. 111). Per reazione fu di nuovo preda del gioco e giunse a perdere addirittura seicento ducati nel solo 1642 e fu costretto a vendere e a impegnare parecchi dei suoi libri e manoscritti per un valore di oltre centocinquanta ducati. Anche le notizie dal Brasile non erano delle migliori: il figlio Yiṣḥaq si era di nuovo rovinato al gioco. In quegli anni il M. cambiò più volte abitazione riducendosi ad insegnare a «due o tre scolari» (ibid., p. 115). La sorte si risollevò nell’inverno tra il 1644 e il 1645 quando riuscì a guadagnare duecentocinquanta ducati che gli servirono per pagare almeno parte dei debiti e per mantenere la famiglia. Nel marzo 1645 la moglie si ammalò di gotta ed egli fu costretto a ospitare la figlia Diana per farla assistere. Alla fine del novembre 1647 il suo stato di salute venne aggravandosi tanto che i medici gli consigliarono di provvedere alla confessione e di stendere le ultime volontà, come egli fece scrupolosamente convocando dieci persone, tra cui tre dei più importanti rabbini del ghetto. Già nell’agosto 1647 aveva iniziato a stendere il suo secondo e ultimo testamento (il precedente era stato stilato nel 1634) che venne concluso il 25 febbr. 1648.
Il M., come risulta dalla registrazione dei Provveditori alla sanità, morì a Venezia il 21 marzo 1648 nella sua casa del Ghetto Vecchio in cui, da circa quattro mesi, giaceva malato «di febre e catarro» (The Autobiography of a Seventeenth-Century Venetian Rabbi, p. 35, n. 124) e venne sepolto nell’antico cimitero del Lido, dove la sua pietra tombale è ancor oggi visibile.
Il testamento – riportato nella Vita insieme con quello del 1634 – non contiene disposizioni patrimoniali in quanto il M. dichiara di non possedere beni materiali, ma dispone minuziosamente la destinazione dei suoi scritti e delle sue opere. Stando all’inventario dei beni, fatto redigere dalla figlia Diana dieci giorni dopo il decesso, forse per prevenire eventuali azioni da parte di creditori, la sua eredità non superava il valore complessivo di «158 ducati e lire 2, di cui circa 96 fra mobilia, capi di vestiario, biancheria, utensili, 49 di libri ebraici e 13 di non ebraici» (Ancona, p. 257), un patrimonio in sostanza più che modesto. La vera eredità del M., come scrive nel testamento, era la mole dei suoi scritti «ché se fossero espliciti e spiegati, costituirebbero la soma di un cammello» (Vita, p. 124).
Il M. fu, senza dubbio, la personalità più poliedrica dell’Italia ebraica tra il Cinque e il Settecento, non solo per la vastità e la varietà della sua produzione ma anche per l’unicità di parte di essa, si pensi, a titolo di esempio, a opere quali la farmacopea Sod yešarim (Il segreto dei giusti), al manuale di mnemotecnica Lev ha-Aryeh (Il cuore del Leone) e alla stessa Ḥayye Yehudah (La vita di Yehudah), l’autobiografia, opera che non trova riscontro nella produzione letteraria degli ebrei italiani dell’età moderna. Tale poliedricità si rispecchia anche nella varietà di professioni – ventisei in totale – che egli narra di aver esercitato nel corso della vita. Alcune sono sostanzialmente connesse con il magistero rabbinico (insegnamento delle Scritture, decisioni rituali, giudicatura, Yešivah, predicazione nelle sinagoghe, composizioni per nozze e per lapidi tombali) mentre altre, sensale di «compra e vendita» e «sensale di matrimoni», il commercio di «sortilegi e amuleti», rientrano nei mestieri del ghetto. La pratica della musica e della letteratura, le mansioni connesse con l’arte della stampa e in particolare le traduzioni dall’ebraico anche per conto della Serenissima, sono invece spia delle sue doti di mediatore fra la cultura avita e quella della società di maggioranza.
Talento precocissimo, il M. fu anche un poeta fecondo e versatile. Il suo diwan, che si conserva in un manoscritto autografo nella Biblioteca Bodleiana di Oxford, edito da Simon Bernstein nel 1932, annovera circa trecentosettanta poesie, per lo più di natura occasionale. Accanto agli epitalami, alle elegie e alle poesie dedicatorie, vanno ricordati componimenti in onore di distinti personaggi cristiani (come la composizione poetica in ebraico e italiano per i solenni festeggiamenti indetti, nel settembre del 1601, dalla Serenissima in occasione della nascita del Delfino di Francia, il figlio di Maria de’ Medici e di Enrico IV), e i numerosi epitaffi – oltre centocinquanta – la maggior parte dei quali furono trascritti sulle pietre tombali dell’antico cimitero ebraico di S. Nicolò al Lido di Venezia.
Nel complesso la vastissima ed eterogenea produzione manoscritta e a stampa del M. non si presta a organiche classificazioni. Un tentativo di classificarla in base alla tipologia dei contenuti ci è stato offerto da Giuliano Tamani, secondo il quale gli scritti del M. possono ripartirsi in rabbinici, apologetici e polemici, autobiografici e divulgativi, per ognuno dei quali il M. offrì contributi significativi. In quello delle discipline legate al suo magistero rabbinico, va evidenziata l’omiletica, in cui il M. si distinse particolarmente, come dimostrano il Midbar Yehudah (Deserto di Yehudah; titolo altresì leggibile come Mi-devar Yehudah ovvero Dalla parola di Yehudah), una raccolta di ventuno prediche edite a Venezia nel 1602; la raccolta di centotrentuno responsi pronunciati tra il 1597 e il 1643, Ziqne Yehudah (Anziani di Yehudah), rimasta manoscritta durante la sua vita ed edita a Gerusalemme nel 1957.
Significativi i rapporti che il M. intrattenne con esponenti diversi della società cristiana del suo tempo. Accanto a illustri maestri, quali l’anatomico e botanico Johann Wesling (1598-1649), studente e poi docente di chirurgia e di anatomia nello Studio di Padova e, dal 1638, anche prefetto dell’Orto e professore alle cattedre di ostensione e di lettura dei semplici, al quale il M. dedicò la seconda edizione del Galut Yehudah il Novo Dittionario Hebraico (Padova 1640), troviamo religiosi quali Vincenzo Noghera, teologo del cardinal legato di Bologna Giulio Sacchetti, incontrato a Venezia verso il 1639; il canonico regolare e censore di libri ebraici Marco Marini da Brescia (1541-1594); Jean Plantavit de la Pause, vescovo di Lodève, conosciuto dal M. a Firenze nel 1610, che gli offrì di ricoprire la cattedra di lingue orientali nell’Università di Parigi. Frequentò altresì letterati quali Giovanni Argoli (1609-1660?), figlio del celebre matematico Andrea, dal 1637 lettore di umane lettere nell’Università di Bologna, che entrò in rapporto con il M. nel 1640 sottoponendogli quesiti su etimologie ebraiche. Infine ricordiamo anche il neofito Giulio Morosini alias Šemuel Naḥmias, il quale nella sua monumentale Via della Fede (Roma 1683, pp. 104 s.) parla con stima del M., suo antico maestro, particolare inconsueto in questo genere di trattatistica.
L’apertura nei confronti del mondo cristiano, per il quale aveva pubblicato l’Historia de’ riti hebraici, non fece scordare al M. la difesa del giudaismo che egli intraprese con forza in un’opera della vecchiaia, il Magen we-ḥerev (Scudo e spada), uno scritto composto nel 1643 in difesa della tradizione rabbinica e contro la cabbala cristiana, in cui il M. focalizza con nuovi argomenti la polemica del giudaismo nei confronti del cristianesimo. Significativa della temperie religiosa dell’Italia di quegli anni la scelta di non darlo alle stampe (sarà edito da Shlomo Simonsohn a Gerusalemme nel 1960) evidentemente per non incorrere nella censura da parte dell’Inquisizione che sarebbe stata, di certo, più severa di quanto aveva fatto a proposito dell’Historia.
Quanto alle opere di carattere divulgativo, a titolo di esempio, si ricordano il Sod yešarim (Il segreto dei giusti; Venezia 1595), una farmacopea contenente cento farmaci, i già menzionati Lev ha-Aryeh (Il cuore del Leone) e il Ṣemaḥ ṣaddiq (Virgulto del giusto), ricomposizione in ebraico del Fior di virtù. Ma la sua vocazione alla divulgazione è ben esemplificata da un classico della ritualistica tradizionale, l’Haggadah di Pesaḥ, di cui il M. preparò una versione in giudeo-italiano che conobbe una straordinaria fortuna tanto da venir più volte ristampata (1629, 1663-64, 1695, 1716, 1740, 1758).
Nel settore delle opere autobiografiche, oltre alla più volte ricordata Hayye Yehudah (La vita di Yehudah), restano le Iggerot (L’Epistolario; Budapest 1906-07).
Il M. fu oggetto di giudizi discordanti fin dai suoi contemporanei. La scoperta di opere rimaste manoscritte e la loro edizione a partire dall’Ottocento riaprì la discussione sul valore della sua opera, contribuendo a renderne tuttora ardua una valutazione complessiva. Particolarmente problematica la collocazione del suo pensiero in seno all’ebraismo. Secondo un critico severo quale Umberto Cassuto, la sua notorietà è legata «soprattutto alle sue relazioni culturali e letterarie col mondo non ebraico, alla stima che in esso egli seppe acquistarsi con le sue opere, e alla simpatia che sentirono per lui, credendolo a ragione o a torto un loro precursore, le cerchie dei riformatori del secolo XIX» (Cassuto, p. 134). Forse il suo merito più grande è di aver tentato di far conoscere «con obiettività, con imparzialità» (ibid.) il giudaismo alla società cristiana, piuttosto che di interpretarne la normativa, un merito che, in qualche modo, travalica il milieu ebraico a cui appartenne. Ma, come scrive Howard E. Adelman, il rabbino veneziano aspetta ancora la considerazione che merita dalla moderna storiografia ebraica.
Pier Cesare Ioly Zorattini
Fra le discipline coltivate dal M., la musica assume una posizione di indubbio rilievo; di particolare importanza sono i suoi due scritti teorici fatti stampare in prefazione al volume Hashirim ‘asher lishlomo (Cantico di Salomone) stampato a Venezia nel 1622-23 presso P. e L. Bragadino. Questa singolare opera contiene una raccolta di 33 salmi, inni e canti della sinagoga da 4 a 8 voci su testi ebraici messi in musica dal noto compositore Salomone Rossi, del quale il M. fu probabilmente allievo. Benché all’epoca non manchi qualche esempio di composizioni polifoniche su testi ebraici, l’opera di Rossi, voluta, concepita ed edita dal M., fu la prima del genere a essere data alle stampe, probabilmente allo scopo di divulgare un repertorio polifonico di cui avrebbero potuto beneficiare le numerose comunità israelitiche, soprattutto dell’Italia settentrionale. Il M., che curò personalmente la stampa del volume, affrontò e risolse i numerosi e complessi problemi grafici che si presentavano (come quello di conciliare i testi ebraici scritti da destra a sinistra con la musica scritta al contrario) e accompagnò il volume con due testi di natura apologetica, in cui difendeva con grande vigore e dottrina l’uso di impiegare composizioni polifoniche nei riti delle comunità israelitiche in luogo dei tradizionali canti monodici. Il secondo dei due scritti è un giudizio rabbinico che il M. emise nel 1605 a seguito di una controversia sorta all’interno della comunità di Ferrara sull’uso della musica polifonica nella sinagoga. Il M. confuta punto per punto le rigide posizioni di coloro che erano assolutamente contrari alla musica polifonica nei riti ebraici, rileggendo in una diversa luce tutti i passi scritturali mediante cui venivano sostenute queste proibizioni. A suo giudizio, le vicissitudini patite dagli ebrei in seguito alla diaspora avevano posto in oblio la loro antica sapienza musicale dell’epoca biblica; la musica che si ascoltava nelle sinagoghe dei suoi tempi era piuttosto grezza e semplice, indegna della grande tradizione della musica coltivata all’epoca biblica; la tradizione fino ad allora seguita dalle comunità della diaspora non era tuttavia un motivo sufficiente a impedire l’introduzione di musiche di alto livello artistico, così come si usava nelle chiese cristiane. Di qui l’esigenza di approntare un repertorio polifonico di qualità, a iniziare dal Cantico di Salomone di S. Rossi, opera che si segnala come «an almost revolutionary change of course within the Jewish tradition» (Harrán, p. 60). Nel 1628 il M. fondò a Venezia l’Accademia degli Impediti, che diresse fino al 1639. Fu anche autore di componimenti poetici, in gran parte scritti in occasione di feste o matrimoni, e non è da escludere che almeno in qualche caso egli stesso li abbia cantati e, forse, perfino messi in musica.
Arnaldo Morelli
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