RICCI, Leonardo
RICCI, Leonardo. – Nacque a Roma l’8 giugno 1918, secondo dei quattro figli di Raniero, ingegnere, e di Giuditta de Giorgi. La professione del padre ne indirizzò presumibilmente le future scelte professionali, malgrado sin da ragazzo dimostrasse una vocazione di pittore e un interesse spiccato per le tecniche figurative.
Anni dopo, in un numero della rivista Au-jourd’hui, diretta da André Bloc, dedicato all’arte e all’architettura (1955, n. 5, p. 31), Ricci sarebbe stato descritto come un architetto/artista «sempre preoccupato della sintesi delle arti».
Dalla madre, di origine franco-svizzera e di educazione valdese, Leonardo fu invece influenzato nel senso della ricerca etica e dell’attitudine comunitaria, un aspetto che ne avrebbe orientato a lungo sia l’elaborazione teorica sia l’esperienza architettonica.
Ancora adolescente, seguendo la famiglia, Ricci si trasferì da Roma a Torino e poi da Venezia a Padova, dove si mise in luce come promettente pittore in un gruppo di giovani artisti (Vasic Vatovec, 2005, pp. 17 s.), per approdare infine a Firenze e iscriversi, al termine degli studi classici, alla facoltà di architettura nel 1936.
L’incontro con il grande architetto Giovanni Michelucci, suo relatore di laurea nel 1942 con una tesi sul Teatro chiuso e teatro all’aperto, si rivelò fondamentale e duraturo per il giovane studente: il rapporto da maestro ad allievo consolidò il suo interesse primario per l’architettura, senza peraltro escludere la passione per l’arte figurativa. Ancor prima della laurea, Ricci era entrato nello studio di Michelucci, dove erano accolti i più promettenti giovani architetti della cosiddetta scuola fiorentina, come Leonardo Savioli, Edoardo Detti e Giuseppe Giorgio Gori, amici e futuri compagni di strada. Con loro il giovane Leonardo si impegnò per la prima volta nel progetto degli interni del Centro e museo didattico nazionale di palazzo Gerini a Firenze, diretto dai letterati Nazareno Padellaro e Piero Bargellini e commissionato da Giuseppe Bottai a Michelucci nel 1941.
Erano anni di guerra: sottotenente di complemento del genio dal 1939, Ricci fu chiamato a combattere al fronte in Sicilia. La ritirata dall’isola invasa dagli Alleati, la terribile lotta per raggiungere le ultime zattere verso il continente, tra soldati dello stesso Paese divenuti «ombre estranee», sarebbe stata riferita da Ricci, con semplicità e senza retorica, come l’incontro con un’umanità lacera e dolente.
Avrebbe scritto poi: «E mai ho inteso carnalmente come quella notte l’identità dell’avventura umana» (Anonimo del XX secolo, 1965, p. 157).
Confluire nella resistenza fiorentina con alcuni dei suoi giovani colleghi fu una conseguenza naturale di quella tragica esperienza, come risale a quegli ultimi anni di guerra anche la sua amicizia con Tullio Vinay, pastore valdese a Firenze e teologo antifascista.
Dal 1944 Ricci aprì un proprio studio professionale con Savioli e Giuseppe Giorgio Gori, collaborando occasionalmente con Detti, Enzo Gori, Riccardo Gizdulich ed Emilio Brizzi (Costanzo, 2009, p. 19). Dalla fine dell’occupazione tedesca nel settembre del 1944, con la scia delle terribili distruzioni inferte alla città, e sino al 1948, lo studio Ricci Savioli progettò una serie di opere di natura simbolica, come il cimitero dei partigiani di Settignano, partecipando ai concorsi per la ricostruzione dei ponti fiorentini e soprattutto a quello per la ricostruzione del centro di Firenze, da cui Michelucci si astenne per polemica contro gli amministratori della città.
Il dibattito in quel giro di anni era tra chi, come Bernard Berenson, pensava di ricostruire la città ferita com’era e dov’era, e chi, come Michelucci, prendeva atto di tali distruzioni per rivitalizzarla, disegnando con schizzi febbrili le nuove occasioni di percorsi e di vita procurate dai vuoti dei bombardamenti. La rivista La nuova città, fondata da Michelucci al termine del conflitto, si accreditò come laboratorio per la ricostruzione e per la rifondazione degli statuti dell’architettura e dell’urbanistica in rapporto alla società del secondo dopoguerra. Scriveva Michelucci nella Premessa (1945-1946, n. 1): «l’impegno che incombe oggi è di ricostruire qualcosa di cui le case e le città saranno una coerente espressione, richiesto non solo dal desiderio e dal disagio di molti, ma dal fallimento sempre più palese e sempre più clamoroso dell’antico»; parole e intenti sulla funzione dell’architettura e sul ruolo sociale dell’architetto, cui Ricci aderiva pienamente.
Sposatosi con Angela Scarafia, su incoraggiamento del pastore Vinay nel 1947 Leonardo traslocò con la giovane moglie e la figlioletta Elena dalle colline fiesolane a Prali, nelle severe valli del Piemonte, per realizzarvi un centro ecumenico internazionale. Denominato Agàpe, quello di Prali fu un progetto comunitario di grande impatto spirituale e simbolico, cui aderì anche l’architetto Giovanni Klaus Koenig, che ne portò a termine la costruzione.
Memore di quell’eccezionale esperienza, Elena, figlia di Leonardo, avrebbe raccontato: «Gli operai erano studenti, professionisti, cattolici, ebrei, protestanti, italiani, americani, una comunità straordinaria» (Greco - Ghia, 2012, p. 115). Tutti partecipavano materialmente alla costruzione del villaggio, impastando il cemento, trascinando pietre, segando tronchi di larice.
L’integrazione con la natura e l’uso dei materiali del territorio caratterizzano l’architettura di Prali, che si compone di un centro collettivo assembleare aperto alla comunità e di un gruppo di case disposte a ventaglio lungo il fianco della montagna. In un articolo del 1948, Ricci affermò che Agàpe non era un manifesto o un programma politico o un movimento, perché egli non credeva nei rigidi schemi: «Il seme è gettato. Nascerà? Non domandarlo. Ara e semina e cura la terra che l’ha ricoperto anche se i frutti non sarai tu a coglierli» (cit. in Costanzo, 2009, p. 51).
Ma la pittura voleva la sua rivincita. Tra il 1948 e il 1950 l’irrequietezza e l’amore per l’arte figurativa spinsero Ricci più volte a Parigi, dove frequentò Albert Camus, Jean-Paul Sartre e Le Corbusier. L’inizio del nuovo decennio regalò all’architetto italiano l’affermazione internazionale: presente nell’edizione del Salon de mai con Pablo Picasso, Henri Matisse e Alberto Giacometti, Ricci inaugurava in contemporanea una sua personale alla Galerie Pierre con un’ampia risonanza critica, in Francia e in Italia.
L’esperienza artistica all’estero si alternava con la ricerca architettonica: la costruzione del mercato dei Fiori a Pescia, di inedita e ardita struttura, con Savioli, Giuseppe Giorgio Gori, Enzo Gori e Brizzi (1948-51), contribuì a farlo conoscere in Italia. Ma, com’era ormai consueto nella storia personale di Ricci, la ricerca era costantemente collegata alla sua esperienza di vita. Alla fine degli anni Quaranta intraprendeva infatti un ulteriore percorso. Insieme alla famiglia, che intanto si era arricchita dei figli Andrea e Milena, si trasferì sulla collina di Monterinaldi, con il progetto di installarvi una colonia di artisti (1949-68).
Avrebbe scritto nel suo libro Anonimo del XX secolo, uscito in Italia nel 1965 dopo una prima edizione americana: «Qui c’era una collina. E su questa collina delle vecchie case in disuso. Non alberi, non case, non strada. Solo pietre colme qua e là di rovi […]. La casa fu costruita. Vidi che ci stavo bene con mia moglie e i figli» (p. 150).
Tradizione toscana nei muri a scarpata di pietra, materiali del luogo e cemento, ferro e vetro, interni fluidi senza ostruzioni, barriere o parapetti; completamente immersa nel sontuoso panorama fiorentino, la casa studio a Monterinaldi, con le altre che negli anni furono costruite intorno, ha l’autorevolezza di un manifesto dell’architettura organica. Ricci la completò con vetrate colorate, pitture, mosaici e il tetto di vetro colorato del garage.
«Pittore e architetto», così si definiva nel 1955 presentando una bella mostra all’aperto, denominata «La Cava», con una serie di opere d’arte, fra gli altri, di André Bloc, Mirko, Arnaldo Pomodoro ed Emilio Greco, sistemate sulle terrazze e tutt’intorno nello splendido spazio esterno della casa (Aujourd’hui, 1955, n. 5, pp. 32 s.).
Fu in questo periodo, e più precisamente nel 1952, che intraprese un primo viaggio negli Stati Uniti, invitato come pittore dall’Università di Brooklyn per una conferenza introdotta da Lionello Venturi, cui seguirono altre mostre americane (Vasic Vatovec, 2005, p. 28). L’apertura del paesaggio nordamericano e la conoscenza diretta delle opere di Frank Lloyd Wright, incontrato di persona l’anno prima nella mostra fiorentina dedicata all’architetto statunitense e promossa da Carlo Ludovico Ragghianti e Bruno Zevi, ponevano le basi per quell’insieme di riflessioni sulla vita, sull’arte e sull’architettura che sarebbero confluite in Anonymous ( 20tcentury ), pubblicato a New York nel 1962.
Negli stessi anni Cinquanta Ricci rinsaldava il rapporto con l’Università di Firenze, dove avrebbe ricoperto nel tempo tutti i ruoli della carriera accademica: da assistente (1955) a libero docente (1956), a professore ordinario (1964) e, infine, a preside della facoltà nel pieno della contestazione sessantottina.
Carismatico e seduttivo, fu un eccezionale ed eccentrico didatta. Le sue lezioni, di qualsiasi insegnamento, seguite con enorme interesse da moltissimi studenti, continuavano spesso nelle ore notturne con grandi dibattiti nella casa di Monterinaldi, come ricordava Vittorio Giorgini, architetto e assistente di Savioli (Greco - Ghia, 2012, p. 110).
Verso la fine del decennio (1957-59) Ricci si impegnò nella costruzione di due edifici singolari, per due particolarissimi committenti, che contribuirono a consolidarne la fama crescente: la villa per il sarto Pierre Balmain a Marciana (isola d’Elba), e quella per Elizabeth, figlia di Thomas Mann e moglie dello scrittore Giuseppe Antonio Borgese, a Forte dei Marmi.
Se la prima ha la forma avveniristica di un ellittico disco volante radicato a terra da un unico nastro cementizio, simile alla proboscide di un mostruoso insetto, la seconda suggerisce invece l’immagine di una sfinge di cui la coppia di volumi al pianterreno rappresenti le enormi zampe.
Quasi in parallelo, nel 1957 i ‘due Leonardi’, com’erano definiti Ricci e Savioli a Firenze, furono coinvolti da Michelucci nella drammatica vicenda del piano urbanistico per il nuovo quartiere di Sorgane, contestato immediatamente per varie e opposte ragioni da critici illustri come Zevi e Ragghianti, Giovanni Astengo e Giuseppe Samonà. Drasticamente ridimensionato nel piano, il quartiere fu costruito nei successivi anni Sessanta, a testimonianza del nuovo linguaggio brutalista di Ricci che ne connota gli esempi architettonici, come la macrostruttura multifunzionale chiamata La Nave.
Di nuovo in America nel 1960, Ricci fu invitato a Harvard come visiting professor, assieme a nomi prestigiosi quali Lewis Mumford e Kenzo Tange, il primo celeberrimo urbanista e sociologo, il secondo l’architetto giapponese, allievo di Le Corbusier, più noto nel mondo occidentale. Lasciava in Italia, non ancora compiuto, l’edificio multifunzionale (fabbrica e abitazioni) della Manifattura Goti a Campi Bisenzio (1959-62) e, propiziato dalla fortuna critica di Monterinaldi, anche il progetto per un secondo villaggio residenziale a Montepiano, vicino a Firenze, che tuttavia non riuscì a ultimare interamente.
«Ricci deve ridimensionare il suo programma, completo nell’elaborazione progettuale, ma concretamente tradotto in sole cinque case [...]. Allo stesso tempo Montepiano è un’ennesima importante testimonianza dello sperimentalismo come condizione endemica del modus operandi di Ricci» (Greco - Ghia, 2012, p. 108).
Sollecitato ancora da Tullio Vinay, all’inizio del nuovo decennio raccolse la sfida per un nuovo villaggio comunitario da costruirsi a Riesi, in Sicilia, in un ambiente difficile e ostile, condizionato dalla mafia. Il piano del Monte degli Ulivi prevedeva la realizzazione di una casa comunitaria, di un asilo e di una scuola, di un’officina scuola, di una biblioteca e delle case per le famiglie: un’occasione per integrare residenza e lavoro e per mettere in pratica le idee di una «riconformazione dello spazio del vivere», impostata sui bisogni reali della vita, dalla casa al quartiere, alla città (Costanzo, 2009, p. 35). Anche questa fu un’esperienza incompiuta: le abitazioni e la chiesa del villaggio non furono infatti portate a termine, e rimasero sulla carta le complesse elaborazioni formali degli edifici non costruiti.
Eccentrico nel panorama architettonico italiano, Ricci fu tuttavia accolto nel 1962 nella fiorentina Accademia del disegno, l’anno successivo in quella romana di S. Luca e ancora nell’Accademia dei Lincei; egualmente fu invitato nel 1967 da Zevi, Giulio Carlo Argan e da un giovane Umberto Eco a progettare una sezione del padiglione italiano all’Expo di Montréal, con Carlo Scarpa, autore del giardino, e Bruno Munari.
Poco dopo si prodigò con gli studenti nelle università degli Stati Uniti, al Massachusetts Institute of technology di Chicago, in Florida, in Pennsylvania e nel Kentucky, nella progettazione congiunta di nuovi modelli urbani a scala territoriale.
Non era solo una ricerca teorica: a Ricci interessava la fattibilità di un nuovo modello di insediamento territoriale a sistemi lineari, concepiti come «infrastrutture pubbliche su più livelli», quelle che aveva già realizzato a Sorgane con La Nave (Bartolozzi, 2013, p. 19).
Tornato in Italia ed eletto preside, nel pieno dell’agitazione studentesca, della facoltà di Firenze, Ricci si dimise dall’incarico nel 1973, preparandosi sei anni dopo a lasciare l’università e la città per l’esilio veneziano.
Docente negli Stati Uniti fino al 1983, si impegnò nuovamente con gli studenti nel controprogetto del quartiere Les Halles a Parigi. Ultime e contrastate opere dell’estrema maturità furono il palazzo di Giustizia di Savona (1987) e il sorprendente cimitero di Jesi, concepito come un brano di città definito dalla grande struttura piramidale. Opera postuma e molto discussa, notevolmente snaturata dal progetto iniziale, è anche il palazzo di Giustizia di Firenze (2012).
Morì a Venezia il 29 settembre 1994.
Fonti e Bibl.: L. Ricci, Anonimo del XX secolo, Milano 1965; G. Bartolozzi, L. R. Lo spazio inseguito, Torino 2004; C. Vasic Vatovec, L. R. architetto esistenzialista, Firenze 2005; M. Costanzo, L. R. e l’idea di spazio comunitario, Macerata 2009; A. Greco - M. Ghia, L. R., Monterinaldi, Balmain, Mann Borgese, Roma 2012; G. Bartolozzi, L. R.: nuovi modelli urbani, Macerata 2013.