LEONE (Leone Arciprete)
Fu al servizio del duca di Napoli Giovanni (III) e di suo figlio Marino (II) intorno alla metà del X secolo; per essi L. si recò a Costantinopoli presso gli imperatori Costantino VII Porfirogenito e Romano II, per una missione diplomatica di cui non conosciamo i particolari. Durante il viaggio effettuò ricerche di libri e trovò fra l'altro un esemplare greco delle storie di Alessandro Magno, dal quale trasse una copia che riportò a Napoli e consegnò ai suoi signori; destinataria particolare del libro era, a quanto sembra, la nobildonna romana Teodora, moglie del duca Giovanni, che aveva interessi letterari. Dopo la morte di Teodora il duca incrementò la sua biblioteca attraverso copiature e acquisizioni di libri, e in relazione a questo programma di rinnovamento incaricò L. di tradurre in latino il volume portato dall'Oriente. Queste notizie, le uniche esplicite che parlino di lui, si ricavano dal prologo della traduzione, scritto in terza persona certo da L. medesimo che riporta anche la sua qualifica di archipresbyter.
Il viaggio di L. è databile fra il 949, anno dell'intronizzazione di Romano II, e il 959, anno della morte di Costantino VII Porfirogenito; la traduzione fu effettuata fra il 951, anno dell'ultima menzione in vita della duchessa Teodora, e il 968-969, periodo in cui si situa la morte del duca Giovanni.
L'opera di L. è l'ultima che si possa collegare alla cerchia dei traduttori napoletani attivi fra l'ultimo quarto del IX secolo e la metà del X, della quale fecero parte i diaconi Paolo e Giovanni, i suddiaconi Pietro e Bonito, un dotto di nome Guarimpoto, probabilmente laico, e altri. In comune con questi suoi predecessori, che effettuarono versioni di argomento agiografico, L. ha l'interesse per i temi romanzeschi e la libertà nei confronti del modello, che viene spesso modificato, soprattutto con l'eliminazione di particolari giudicati inutili; ma il livello letterario della sua realizzazione appare più modesto. La lingua della traduzione è alquanto rozza, ricca di volgarismi e non sempre rispettosa dell'uso corretto del latino, a somiglianza di quella di altri testi scritti in Campania nel X secolo, in particolare del Chronicon Salernitanum; l'intento dell'autore è di presentare il contenuto narrativo dell'opera, senza indulgere a finezze retoriche. Con questa tendenza contrasta in parte il tenore stilistico del prologo, nel quale L. si dimostra dotato di una formazione scolastica non disprezzabile e capace di scrivere in una lingua sufficientemente elegante. Del resto, gli strumenti culturali disponibili a Napoli in quell'epoca erano di ottimo livello e venivano effettivamente utilizzati, come dimostra la presenza, fra i libri acquisiti o "rinnovati" per iniziativa del duca Giovanni, di opere come le Storie di Tito Livio, le Antichità giudaiche di Giuseppe Flavio, la Hierarchia coelestis dello Pseudo Dionigi l'Areopagita e numerosi testi ecclesiastici.
La traduzione delle storie di Alessandro effettuata da L. si basa su un manoscritto della recensione δ del romanzo greco dello Pseudo Callistene, il più completo e diffuso fra i resoconti fantastici delle vicende del sovrano macedone, scritto verosimilmente nel II o nel III secolo d.C. L'opera di L. è divisa in tre libri: il primo tratta della nascita e dell'infanzia di Alessandro, nonché delle sue prime visite nelle città della Grecia; il secondo del soggiorno del sovrano ad Atene e della sua spedizione persiana; il terzo del viaggio in India e della morte, cui fa seguito un breve elenco delle città da lui fondate. Pfister, che nel 1913 curò l'edizione tuttora canonica dell'opera di L. (Der Alexanderroman des Archipresbyters Leo, Heidelberg), stabilì che il titolo originario doveva essere probabilmente Nativitas et victoria Alexandri Magni, che si legge nel manoscritto più antico (il codice Historicus, 3 della Staatsbibliothek di Bamberga) e compare sporadicamente anche in altri passaggi della tradizione; ma il testo è più noto come Historia de preliis Alexandri Magni, un titolo che figura per la prima volta in un incunabolo che riporta uno dei molti rifacimenti del testo (Strasburgo 1486: cfr. L. Hain, I, p. 86). La redazione originaria è in verità conservata soltanto in tre manoscritti (il citato codice di Bamberga; Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Clm, 23489; Londra, Lambeth Palace Library, Mss., 342); essa fu il modello di numerose riscritture latine posteriori, che andarono progressivamente integrando le notizie riportate dalla versione di L. con brani tratti da fonti diverse, in particolare dall'altra versione latina delle storie di Alessandro di cui i medievali disponevano, quella eseguita in epoca tardoantica da Giulio Valerio. Queste redazioni ampliate (le "versioni interpolate" convenzionalmente note con le sigle J1, J2 e J3, cui deve aggiungersi quella del manoscritto Parigi, Bibliothèque nationale, Nouv. acq. lat., 310) furono a loro volta la base per volgarizzamenti e riprese in lingue vernacolari, e per loro tramite le storie che avevano per protagonista Alessandro andarono a costituire uno dei filoni più importanti della narrativa europea del Basso Medioevo.
Non è chiaro che rapporto abbiano con la traduzione di L. i rifacimenti dei brevi opuscoli che seguono immediatamente la Nativitas nel manoscritto di Bamberga e riguardano episodi fantastici del viaggio di Alessandro in terra indiana (il cosiddetto Commonitorium Palladii, un trattatello sulle usanze dei popoli dell'India e in particolare dei brahmani; la Collatio Alexandri et Dindimi, resoconto di una presunta disputa morale e dottrinale fra il sovrano macedone e il capo dei brahmani; un'Epistola fittizia in cui Alessandro racconta al suo maestro Aristotele le meraviglie dell'India). Di questi opuscoli esistevano in epoca precedente alcune versioni latine, eseguite forse nella tarda antichità; ma il fatto che essi siano tramandati nel codice in una forma linguistica assai distante da quella presente negli altri testimoni fece per lungo tempo pensare che si trattasse di una diversa traduzione, da ascrivere ancora alla Napoli del X secolo e forse alla mano stessa di Leone.
In seguito a più approfondite analisi prevale oggi l'opinione che la versione di tali opuscoli che si trova nel manoscritto di Bamberga sia in realtà soltanto una rielaborazione del testo latino preesistente, sistematicamente semplificato per venire incontro alle esigenze di un pubblico meno acculturato, e che non si tratti di una traduzione autonoma; il che non esclude che a questa riduzione, nonché all'accorpamento degli opuscoli con la Nativitas, abbia potuto partecipare lo stesso Leone.
Il manoscritto di Bamberga non è soltanto il più antico testimone della traduzione di L., ma potrebbe conservare traccia dell'attività svolta da lui e da altri nella sistemazione della biblioteca del duca Giovanni. Questo enigmatico codice, considerato a lungo italiano, di recente si è ritenuto fosse stato scritto in Sassonia nei primi decenni dell'XI secolo (Hoffmann), ma il suo modello era certo un esemplare proveniente dall'Italia meridionale, portato forse a Nord delle Alpi per iniziativa o a vantaggio dell'imperatore Enrico II. Esso contiene una singolare raccolta di opere diverse, volte a costituire una sorta di storia universale, comprendente - oltre alla traduzione di L. e agli opuscoli su Alessandro che le fanno da appendice - l'Epitome de Caesaribus falsamente attribuita ad Aurelio Vittore, i cosiddetti Exordia Scythica tratti in buona parte da Giustino, la Historia Romana e la Historia Langobardorum di Paolo Diacono, i Romana e i Getica di Iordanes, un'epitome dei Gesta Francorum di Gregorio di Tours, la Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda e varie notizie di carattere cronografico, alcune delle quali relative a fatti di modesta entità, occorsi nell'Italia meridionale. Il contenuto del manoscritto si attaglia dunque perfettamente agli interessi storiografici della corte napoletana, cui è stata ricollegata anche la composizione, in epoca di poco successiva, della Historia Romana di Landolfo Sagace. Caratteristica principale della raccolta è che la maggior parte dei testi in essa presenti sono stati oggetto di una sistematica semplificazione linguistica, di segno analogo a quella di cui si è parlato per gli opuscoli allegati alla Nativitas; il che farebbe pensare che l'intera miscellanea - o una gran parte di essa - sia il frutto di una renovatio volta a rendere accessibili testi di un certo interesse narrativo a un pubblico in grado di leggere in latino soltanto opere scritte in una forma elementare, quale era probabilmente il pubblico di corte. Si potrebbe perciò forse pensare che il contrasto che si è rilevato fra il modesto livello stilistico della traduzione di L. e le migliori competenze retoriche che traspaiono dal prologo dipenda dal consapevole intendimento da parte di un letterato di discreta formazione di far pervenire il suo prodotto a destinatari meno preparati.
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