RANKE, Leopold von
Storico, nato il 21 dicembre 1795 a Wiehe in Turingia, morto a Berlino il 23 maggio 1886. Di vecchia famiglia di pastori protestanti e di avvocati di provincia, a 18 anni entrò all'università di Lipsia per studiarvi teologia e filologia. Insofferente verso il razionalismo della teologia di allora, si interessò alle questioni di ermeneutica biblica e soprattutto alla filologia. Laureatosi nel 1817, dedicatosi all'insegnamento medio, cominciò a occuparsi anche di storia. Era il tempo in cui il Böckh e Otofredo Müller rinnovavano la filologia assegnandole compiti storici, e il giovane R. sentì fortemente il loro influsso.
Aveva letto, da studente, Tucidide e Niebuhr. Ora lesse varî storici antichi e medievali salendo fino agl'inizî dell'età moderna, al Giovio e al Guicciardini. Nacquero così le Geschichten der romanischen und germanischen Völker von 1494 bis 1535, delle quali uscì, nel 1824, una prima parte. L'opera gli valse la cattedra di storia all'università di Berlino. Qui, per proseguire il suo lavoro, pose mano ai documenti italiani, specialmente alle Relazioni degli ambasciatori veneti, già scoperte da Giovanni Müller. Il ricchissimo materiale raccolto lo indusse a cambiare idea, a scrivere cioè la storia dei Fürsten und Völker von Südeuropa, di cui pubblicò nel 1827 un primo volume: Die Osmanen und die spanische Monarchie im 16. und 17. Jahrhundert, serie di saggi basati su le "Relazioni". Gli nacque allora il desiderio di esplorare gli archivî italiani, e prima si recò a Vienna, poi a Venezia, Firenze, Roma, dal 1827 al 1831. In Italia raccolse un materiale enorme, che alimentò fino ai più tardi anni la sua attività di scrittore.
Tornato a Berlino, dopo avere pubblicato un saggio, Die Verschvörung gegen Venedig im Jahre 1618, assunse la direzione di una Historisch-politische Zeitschrift, organo del Ministero degli esteri, che uscì dal 1832 al 1836, compilato quasi tutto da lui. Vi pubblicò varî saggi politici che gli dànno una posizione a sé nella storia del pensiero politico tedesco.
Fin dagli anni giovanili, aveva tenuto, politicamente, un atteggiamento prudente, di scarsa simpatia per i moti liberali e di disapprovazione per le misure reazionarie. Ora credeva nella possibilità d'una politica obiettiva, che tenesse conto dei dati di fatto storicamente determinati. Esaminava la restaurazione e la rivoluzione di luglio; insisteva sul carattere francese del costituzionalismo; manifestava, nella politica interna tedesca, una tendenza conservatrice che fa di lui il mediatore tra i romantici e il Bismarck. Dai romantici, specialmente da Adam Müller, aveva appreso a considerare lo stato come un'individualità, a sentire il valore della grande politica e la necessità e fecondità delle lotte tra gli stati. Pure dai romantici trasse l'idea della nazione. Si rifiutava però di chiudere in concetti e formule il genio della nazione tedesca. Meno che mai, nel suo realismo, era propenso ad assegnare alla nazione tedesca una missione universale, come avevano fatto il Fichte e il Novalis. E neppure si irrigidiva in un angusto rigido nazionalismo: la nazione non era che una particolare realizzazione dell'universale esistenza umana. Combatteva poi la tendenza feudale-agraria dei reazionarî. Negava che lo stato patrimoniale fosse l'espressione genuina dello spirito tedesco. E nel tempo stesso, respingeva l'idea della sovranità popolare e il parlamentarismo. Lo stato doveva, per lui, fondarsi su forze morali, non sulla forza; esso emanava dalle oscure profondità della nazione, ma la sua energia morale a sua volta formava la nazione. Rinunciava a una rigida unità politica della Germania, perché riteneva impossibile un ordinamento identico per tutti gli stati tedeschi. Propendeva quindi per una federazione con a capo la Prussia.
La sua tendenza verso il "giusto mezzo" provocò naturalmente le ire di destra e di sinistra, le accuse di mancanza di carattere. Egli medesimo si accorse che non era quella la sua strada e prese congedo dall'agone politico.
Aveva ripreso intanto la sua storia dei Fürsten und Völker von Südeuropa: dal 1834 al 1836, apparvero i tre volumi di Die römischen Päpste, ihre Kirche und ihr Staat im 16. und 17. Jahrhundert, frutto delle sue ricerche romane e suo capolavoro. Poi decise di rievocare, sulla scorta degli Atti della dieta dell'impero, da lui trovati a Francoforte, l'età di Carlo V e di Lutero; pubblicò così, dal 1839 al 1843, la Deutsche Geschichte im Zeitalter der Reformation in cinque volumi.
Con l'avvicinarsi del '48, anche l'attività del R. si fa più aderente alle passioni di quegli anni. Recatosi a Parigi col proposito di mostrare il carattere francese della rivoluzione e rintracciatavi invece una relazione diplomatica sui primi anni di regno di Federico II, si pose a studiare la storia prussiana. Ottenuta la facoltà di consultare l'archivio di stato berlinese, compose i Neun Bücher preussischer Geschichte che uscirono dal 1847 al 189.8.
Le vicende del '48 lo riaccostarono alla politica militante. Redasse memoriali, in cui, per il tramite del Manteuffel, aiutante di campo di Federico Guglielmo IV, suggeriva al re una politica forte, ma non reazionaria, e l'accettazione della corona imperiale. Sembra che il suo consiglio sia stato decisivo nella concessione della costituzione del 5 dicembre 1848. La linea di condotta da lui suggerita non fu mantenuta. Approvò tuttavia la reazione, perché riteneva comunque indispensabile la repressione dei partiti rivoluzionarî, e si mantenne in ottimi rapporti con la corte e col re.
Come tutti i grandi storici della prima metà dell'Ottocento, i Guizot, i Thiers, i Macaulay, alla cui schiera appartiene, il R. era assillato dal problema del tempo, dal conflitto tra i principî liberali e conservatori. Convinto che i popoli latini e germanici formassero un'unità storica, egli si propose di studiare le origini dello spirito rivoluzionario in Europa. Dopo lunghe ricerche negli archivî di Parigi, Londra, Bruxelles, compose dal 1852 al 1856 i quattro volumi della sua Französische Geschichte vornehmlich im 16. und 17. Jahrhundert e dal 1859 al 1868 i sette volumi della sua Englische Geschichte vornehmlich im 17. Jahrhundert.
Nel 1858 fondò una Commissione storica presso l'Accademia delle scienze di Monaco, che curò, tra altro, la pubblicazione degli Atti della dieta dell'impero. Nel 1867 aveva preso a pubblicare le sue opere complete, pur continuando a dedicarsi a lavori originali. Notevole, tra questi, una biografia del Wallenstein. Le vittorie prussiane del 1870, nelle quali salutò il trionfo definitivo dell'Europa conservatrice sulla rivoluzionaria, lo riportarono alla storia prussiana: compose nel 1871 uno studio sull'origine della guerra dei Sette anni, nel 1873 un saggio sulla genesi dello stato prussiano, rielaborò nel 1874 la sua storia prussiana, curò l'edizione del carteggio di Federico Guglielmo IV con Bunsen e delle Memorie di Hardenberg.
Ritiratosi dalla cattedra si dedicò all'opera conclusiva di tutta la sua vita di studioso, alla sua storia universale. Con ardore giovanile si mise all'opera nel 1879, ma non poté condurre a termine l'impresa. Nel 1885 apparve il sesto volume, che giungeva alla morte di Ottone I; ma i volumi dal settimo al nono, cioè fino alla caduta di Costantinopoli (1453), furono pubblicati postumi dai discepoli, su suoi appunti, insieme con un'appendice che conteneva, oltre le celebri conferenze tenute nel 1854 a Berchtesgaden, alla presenza di Massimiliano II di Baviera (Epochen der neueren Geschichte), alcune note autobiografiche.
Il R. si formò nell'atmosfera del Goethe, del Humboldt, del Niebuhr, dello Schleiermacher, del Böckh. Se preferiva narrare più che dissertare sui metodi, sarebbe però errato credere che fosse un semplice narratore, privo d'un saldo sistema d'idee. La sua storiografia non s'intende, se non si tien conto delle molteplici correnti che sono confluite nel suo pensiero. Dal romanticismo apprese a considerare la storia come qualcosa di ben superiore alle semplici vicende degli uomini; ed egli riconobbe fin dalla giovinezza, che in essa vive, si rivela Dio.
A questo senso religioso della storia si univa la gioia d'immedesimarsi nell'infinita varietà della vita umana, di capire il passato nella sua molteplicità. Il suo rispetto dell'originalità incomparabile del singolo evento e del singolo personaggio gl'impediva d'accettare ogni schema astratto, ogni filosofia o teologia della storia. Non si proponeva di dominare la storia, come Hegel, ma di capirla. E capire era per lui lasciar parlare le cose stesse senza comprimerle in un piano aprioristico. Aveva per ciò il genio particolare dello storico, la facoltà cioè di trasferirsi nei pensieri, sentimenti, propositi d'individui, popoli, epoche. Assegnare un piano alla storia significava fissare in anticipo tutto il suo corso e imporle un termine. Per il R., ogni epoca ha il suo valore, rappresentato dalla sua esistenza stessa, e sta immediatamente al cospetto di Dio. È insomma, applicato alla storia, il pensiero del Goethe e dello Schleiermacher, per i quali la natura umana si manifesta in forme infinite e si realizza appieno soltanto nella loro totalità.
Egli escludeva perciò un progresso generale e continuo, pur ammettendo un effettivo avanzamento nelle scienze fisiche e nella tecnica; tuttavia non escludeva, a rigore, uno sviluppo. Credeva in un ordine morale del mondo: e davanti allo spettacolo della storia avvertiva oscuramente una Potenza reggitrice delle cose. Al disopra degl'individui, c'era l'unità dello svolgimento. E qui si rivelava la sua fede ottimistica: "Ogni vita porta in sé il suo ideale; il più intimo impulso della vita spirituale è il moto verso l'idea, verso una maggiore eccellenza". Tutti quest'impulsi, lottando fra loro, collaborano al divenire universale. Per questo suo dinamismo, il R. finiva col consentire con il Hegel: legge della vita è che i conflitti preparino un superiore sviluppo, e la storia è un complesso di "forze spirituali, produttrici di vita, forze creatrici, vita esse medesime, energie morali", qualcosa cioè di vivo che si muove per propria virtù verso la formazione e diffusione delle civiltà. Dal Hegel lo distingueva però sempre il fatto che egli non descriveva questo ordine del divenire, ma soltanto lo intuiva e cercava.
Ma era possibile scrivere una storia senza un'idea animatrice, senza un ordine unitario. L'unità, rispondeva il R., deve risultare dalla vita stessa delle nazioni, nessuna delle quali è rimasta senza contatti con le altre, sicché ogni storia nazionale è già in certo modo universale. Il piano generale deve risultare dai conflitti e dalle reciproche influenze dei popoli. Queste influenze erano per lui così decisive, che egli si rifiutava di riconoscere leggi interne di sviluppo negli organismi politici e faceva dipendere gran parte delle vicende interne degli stati dai rapporti esterni.
In questo lavorio scorgeva però l'opera di determinate "idee" e "tendenze" che oltrepassavano i confini delle nazioni, ma non erano entità trascendenti, bensì forze spirituali, concrete esigenze degli uomini. Da ciò l'elevatezza di tono della sua storiografia, che non vedeva interessi, ma ideali, e anche nella lotta degli stati non scorgeva il giuoco di forze brute, ma di energie morali.
In pratica però il nerbo della storia restava per lui l'uomo. Anche se delle "idee" non faceva campioni esclusivi i governanti, sono pur sempre gli eroi e i principi che stanno in primo piano nelle sue opere, veri soggetti della storia. Le masse stanno sempre nello sfondo. In questo egli si staccava dalla "scuola storica" del Savigny e Jacob Grimm, indagatori dello svolgimento quasi anonimo del diritto e del linguaggio. In molti casi, la sua storia si riduce a una vicenda esclusivamente diplomatica, alle lotte dei gabinetti. Una storia sociale ed economica non entrava nella visione di questo classico. Le sue fonti erano costituite da atti e relazioni diplomatiche, e poiché era convinto che si potesse conoscere con chiarezza solo ciò che risulta da documenti diretti, come non amò avventurarsi nella storia incerta del Medioevo, così diffidò sempre delle interpretazioni e ipotesi d'una storia delle istituzioni. Rimase, sotto questo riguardo, un filologo e un archivista.
Come per gli storici classici la storia era per lui, oltre che scienza, anche arte. All'intuito dello storico voleva affidata la scelta tra essenziale e accessorio, la disposizione dei particolari. In effetti il suo stile sobrio e chiaro, ma sempre elevato, la sua abilità nel tratteggiare sfumature psicologiche, la sua maestria nel ritratto fanno di lui un artista e un classico.
Tra i suoi discepoli vanno ricordati Sybel, Waitz, Giesebrecht. Anche Dilthey si considerò suo scolaro, come del resto quasi tutti gli storiografi tedeschi dell'Ottocento.
Ediz.: I Gesammelte Werke, in voll. 54, furono pubblicati a Berlino dal 1867 al 1890. È in corso dal 1925 una nuova edizione a cura della Deutsche Akademie der Wissenschaften. Sono stati spesso ristampati: la Weltgeschichte (5ª ed., Amburgo 1928; trad. it., vol. I, Firenze 1932), le Epochen der neueren Geschichte (9ª ed., Berlino 1928), il Wallenstein (Breslavia 1932), i Zwölf Bucher preusshcher Geschichte (Berlino 1929). Numerose le antologie: ottima specialmente quella pubblicata a cura di P. Joachimsen (Monaco 1925).
Bibl.: La letteratura su di lui è vastissima: v. fino al 1910 la R. Bibliographie di H. F. Helmolt. Per la biografia utili le lettere e le note autobiografiche pubblicate nei voll. 53 e 54 delle opere complete; v. pure H. F. Helmolt, L. R.s Leben und Wirken (Lipsia 1921). Per la sua posizione politica: F. Meinecke, Weltbürgertum und Nationalstaat (7ª ed., Monaco 1928) e le prefazioni del Meinecke stesso e di E. Rothaker a recenti ristampe del Politisches Gespräch (Monaco 1924, Halle 1925). Sulla sua formazione spirituale: H. Oncken, Aus Rs. Frühzeit, Stoccarda 1922; G. Masur, R.s Begriff der Weltegschichte, Monaco 1926; E. Simon, R. und Hegel, Monaco 1928. Sulla sua posizione nella storia della storiografia, oltre le opere generali del Wegele, del Lorenz, del Fueter, del Croce, del Ritter, v. pure J. Wach, Das Verstehen, III, Tubinga 1933.