li
Termine cinese tradotto solitamente come «principio», ma a volte anche come «ragione» o «modello». Il termine non ebbe in epoca antica quella stessa importanza concettuale poi raggiunta nella tradizione confuciana delle dinastie Song-Ming (secc. 10°-17°). A questa epoca, infatti, rinvia anche l’invalsa espressione Song-Ming lixue, ossia «studio del li durante le dinastie Song e Ming». I filosofi cinesi del 4° sec. a.C. usarono spesso il termine e quasi sempre nel contesto dell’agire umano. Zhuangzi, invece, taoista anch’egli del 4° sec. a.C., riferì del li del cielo e della Terra, ossia della moltitudine delle cose, elevandolo quasi a una sorta di principio trascendente. Altri lo assunsero per indicare la specificità o la peculiare singolarità delle cose. A partire dalla dinastia Song (960-1279), i filosofi confuciani, reagendo sistematicamente alla diffusa influenza taoista e buddista, svilupparono una dottrina in cui il li è proprio il «principio» ontologico della perenne creazione: infatti, agisce incessantemente nell’Universo. Allora, ogni atto, anche quello umano, è reale e non illusorio, e ciò perché il li è ovunque e appare in ciò che è visibile: è il principio di natura (xingli). È pertanto il principio per cui una cosa è ciò che è, e a cui deve conformarsi. In tal senso, li diventa un efficiente principio di organizzazione, di ordine, da cui l’accezione di mettere o disporre in ordine. Di conseguenza il principio è uno solo, mentre molteplici sono le sue manifestazioni (liyi fenshu): sebbene siano molte le vie, come dissero i fratelli Cheng (➔), che conducono alla capitale, è sufficiente trovarne una! Nella stessa epoca, sempre i confuciani elaborarono un’idea del qi («energia vitale» o «energia materiale») mai separata da quella del li. Se si discorresse, come ribadì Cheng Yi, sulla natura (xing) dell’uomo e delle cose escludendo il qi si cadrebbe nell’incompletezza; come, d’altra parte, il qi sarebbe inintellegibile escludendo la natura dell’uomo e delle cose. Inoltre, la natura dell’uomo, sebbene considerata buona, fu intesa come distinta in natura morale, sempre buona per l’esclusiva azione del li, e in natura fisica, sia buona che cattiva per l’essere dominio del qi. Zhu Xi (➔) concepì più di tutti una metafisica dualistica del li e del qi: il li è immobile, eterno, trascendente e universale; mentre il qi è attivo, transeunte, immanente e particolare. Non sono, in verità, due entità o mondi contapposti, ma l’uno è nell’altro, vale a dire inseparabili. Li deve inerire a qi, affinché possa manifestarsi nel mondo, essere visibile e percepibile; la mente o il cuore (xin) dell’uomo è fatto invece del più sottile qi, quello più spirituale, proprio perché ogni azione deve pienamente essere conforme ai principi (li) presenti nella mente o nel cuore. Di differente tenore risultò l’orientamento speculativo di Lu Xiangshan (1139-1193) e di Wang Yangming (➔), sebbene anch’essi reputassero il li come l’assoluto principio metafisico. Ciononostante, il li è per essi immanente, è nel qi, la cui origine non è altra da quella del li; è un principio ontologicamente creativo e sempre attivo nell’Universo. Non stupisce pertanto che alcuni pensatori, e fra questi soprattutto Wang Fuzhi (➔), esortassero a ricercare il li nei fatti, negli eventi o negli affari (shi), persuasi che solo così si avesse la possibilità di percepirne e investigarne l’azione.