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Il Libano incarna al massimo grado la frammentazione politica, religiosa ed etnica che contraddistingue l’area mediorientale. La vita politica libanese è da lungo tempo influenzata e resa instabile tanto dalle divisioni politiche interne quanto dalle tensioni regionali. Il paese, una volta definito ‘la Svizzera del Medio Oriente’ per l’importanza regionale del suo sistema finanziario, è precipitato, tra il 1975 e il 1990, in una guerra civile che ne ha modificato gli equilibri interni e i rapporti con la regione. Da allora, il paese è stato al centro della competizione geopolitica dei più importanti attori della regione mediorientale – da Israele e Siria, fino ad Arabia Saudita e Iran – divenendo quasi un oggetto, più che un soggetto, delle dinamiche politiche del Medio Oriente.
Elemento centrale delle relazioni internazionali libanesi è la tensione con Israele, con cui non mantiene ufficialmente relazioni diplomatiche, né economiche. Durante la guerra civile, Israele intervenne militarmente in Libano (1982), rifugio di vari gruppi armati palestinesi, tra i quali l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat. Gli israeliani mantennero una presenza militare nel sud del paese fino al 2000, quando l’allora premier Ehud Barak ordinò il ritiro. Terminata la guerra civile, ad alimentare le tensioni tra i due paesi è stata principalmente la presenza del partito sciita Hezbollah nel panorama politico e istituzionale libanesi. Israele ha ingaggiato due conflitti armati con Hezbollah, in territorio libanese: nel 1996, con l’operazione ‘Grappoli d’ira’, e nel 2006, in quella che è nota come la Guerra del Libano. Ancora oggi, Israele giudica la presenza di Hezbollah in Libano una delle maggiori minacce alla sua sicurezza, oltre che potenziale motivo di scontro tra i due paesi. Libano e Israele sono infine divisi da dispute di natura territoriale, frutto delle rivendicazioni di Beirut sull’area delle cosiddette Fattorie di Shebaa, al confine tra Libano, Siria e Israele, ancora sotto occupazione israeliana.
Relazioni conflittuali intercorrono anche tra il Libano e l’altro vicino e storico interlocutore, la Siria. Damasco ha tradizionalmente considerato il Libano come una propaggine naturale del proprio territorio e ha mantenuto truppe di occupazione nel paese fino a tutto il 2005, quando i due vicini hanno normalizzato le loro relazioni diplomatiche. Ancora oggi, però, sia il regime siriano sia l’Iran – altro attore di rilievo per le politiche libanesi in quanto potenza di riferimento di Hezbollah – mantengono un certo grado di influenza sugli equilibri politici interni, tramite i partiti sciiti Hezbollah e Amal.
Anche l’Arabia Saudita esercita un peso rilevante sugli equilibri del Libano poiché sostiene economicamente e politicamente la fazione sunnita che fa capo a Saad Hariri (figlio di Rafiq, premier libanese assassinato nel 2005), soprattutto in funzione anti iraniana. Negli ultimi anni, Turchia e Qatar si sono imposti come credibili mediatori per la stabilizzazione interna. A livello internazionale, il Libano mantiene buoni rapporti con il mondo occidentale, in particolar modo con alcuni paesi europei come Italia e Francia, due tra gli stati più attivi all’interno della missione United Nations Interim Force in Lebanon (Unifil).
L’assetto istituzionale libanese nasce dagli accordi di Ta’if, firmati nel 1989 da tutte le forze politiche nell’omonima città dell’Arabia Saudita, alla fine della guerra civile. Benché oggetto di critiche, il patto costituisce un paradigma di regolamentazione di un sistema politico caratterizzato da una forte frammentazione interna. Il Libano si presenta come una repubblica parlamentare, in cui gli equilibri istituzionali sono regolati dalla ripartizione del potere su base etnica e religiosa. Secondo tale schema, di norma, il presidente della repubblica è un cristiano maronita, il primo ministro un musulmano sunnita e il presidente del parlamento un musulmano sciita. Inoltre, all’interno del Parlamento unicamerale, nel quale siedono 128 membri, i seggi sono assegnati in maniera tale da garantirne sempre 64 alla comunità cristiana e altrettanti a quella musulmana (sciiti e sunniti insieme).
Sono frequenti i cambiamenti nella composizione dei due blocchi maggiori (filosciita e filosunnita): ciò provoca un continuo cambiamento degli equilibri nazionali, aggravato dalle influenze esterne. Secondo l’accordo di Doha del maggio 2008, il Libano dovrebbe essere guidato da un governo di unità nazionale, in cui 15 ministri sono nominati dalla maggioranza, dieci dalla minoranza e cinque dal presidente della repubblica. Come risultato delle ultime elezioni del 2009, l’Alleanza del 14 marzo, guidata dal Movimento del futuro di Saad Hariri, ha ottenuto la maggioranza e formato il governo. Nel gennaio 2011 i membri nominati dall’Alleanza dell’8 marzo (tra cui quelli di Hezbollah) si sono dimessi, provocando una crisi dell’esecutivo, a seguito della quale è stato nominato primo ministro il miliardario Najib Mikati. L’aggravarsi delle rivolte in Siria, scoppiate nel 2011, e radicalizzate in un conflitto civile, hanno creato instabilità anche in Libano e coinvolto direttamente Hezbollah, che ha mandato centinaia di uomini a combattere al fianco dell’alleato Bashar al-Assad. Dalla fine del 2011 scontri e attentati si susseguono anche sul territorio libanese, soprattutto a Beirut e nella città settentrionale di Tripoli. Il governo Mikati, che per lungo tempo ha tentato di seguire una politica neutrale rispetto al conflitto siriano, si è dovuto dimettere nel marzo 2013, per il ritiro di Hezbollah dalla maggioranza. Il presidente Michel Suleiman ha quindi chiesto all’esponente sunnita Tammam Salam di formare un nuovo governo. Le trattative sono però proseguite senza successo, nonostante gli sforzi del presidente della repubblica e del primo ministro in pectore, per tutto il 2013 a causa dei veti incrociati delle maggiori forze politiche e dei loro patron internazionali. Solo nel febbraio del 2014 Salam ha formato un nuovo governo.
La popolazione del Libano è stimata intorno ai 4,2 milioni di abitanti. Non esistono dati ufficiali aggiornati dal momento che i forti interessi politici, legati a un sistema che spartisce cariche istituzionali e seggi parlamentari su base comunitaria e confessionale, hanno negli anni inibito l’opportunità di aggiornare l’ultimo censimento pubblico, datato 1932. È verosimile, visto il più alto tasso di fecondità della comunità musulmana, che questa sia cresciuta nei decenni molto più di quella cristiana (più interessata anche dal fenomeno dell’emigrazione) e che oggi possa rappresentare almeno il 60% totale della popolazione. Se venisse accertata ufficialmente, questa percentuale potrebbe incrinare il già precario equilibrio nella rappresentanza sancito dagli accordi di Ta-’if del 1989. Questo piano impone la parità nella rappresentanza tra cristiani e musulmani.
Attualmente, la differenza più marcata tra il peso demografico e quello politico si registra per la comunità sciita, che ha diritto solo al 21% dei seggi totali in parlamento, nonostante si calcoli che rappresenti almeno un terzo della popolazione.
Un siffatto sistema politico, costruito secondo uno schema demo-confessionale, alimenta naturalmente clientelismi e rischia di pregiudicare la credibilità di coloro che ricoprono una carica pubblica: non a caso il Libano si è classificato, nel 2011, 127° su 177 paesi secondo l’indice di trasparenza e corruzione percepita.
La libertà d’espressione e quella religiosa sono garantite, così come il pluralismo nei mezzi di informazione: la società civile libanese è particolarmente attiva e registra un intenso fiorire di associazioni e organizzazioni non governative. Sono circa 400.000 i palestinesi che vivono nei 12 campi profughi del Libano gestiti dall’Unrwa, l’Agenzia per i rifugiati palestinesi del Vicino Oriente delle Nazioni Unite. Nonostante siano passati più di sessant’anni e ormai tre generazioni dalla diaspora palestinese del 1948, i palestinesi sono scarsamente integrati nella società libanese, non hanno mai ottenuto la cittadinanza e scontano diverse limitazioni nell’accesso ai servizi pubblici (sanità e istruzione in primis), nei diritti sul lavoro, in quelli civili e di proprietà. Negli ultimi annil’attenzione si è però concentrata sull’arrivo dei profughi siriani, oltre 700.000 alla fine del 2013, il cui flusso non accenna a diminuire dopo lo scoppio della rivolta in Siria nel 2011.
La loro presenza ha messo duramente alla prova le istituzioni libanesi e le agenzie internazionali che faticano a far fronte al flusso di rifugiati in un paese di soli 4 milioni di abitanti. Il rischio di un’emergenza demografica è concreto. Significativa è anche la presenza di circa 50.000 iracheni, cui vanno aggiunti altri gruppi di rifugiati provenienti dal Sudan e dalla Siria.
La popolazione libanese è molto giovane: secondo le stime dell’Undp ben il 47% dei libanesi ha meno di 24 anni e l’età mediana è bassa, attorno ai 28 anni. Un’imponente diaspora della popolazione, iniziata più di 130 anni fa, ha caratterizzato tutto il Novecento: è stata causata tanto da motivi economici, legati agli interessi che le fiorenti reti commerciali libanesi hanno costruito in tutto il mondo, quanto da quelli politici, legati non soltanto alle due guerre civili ma anche alle continue tensioni interne. Si stima che i libanesi della diaspora e i loro discendenti siano circa 13 milioni e si siano stabiliti prevalentemente in America, soprattutto in Brasile, Argentina, Stati Uniti, Canada e Messico, in alcuni paesi del Golfo, come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi o il Kuwait, e in alcune nazioni europee, come Francia e Regno Unito.
Il sistema educativo nazionale è uno dei migliori della regione, con tassi di scolarizzazione e alfabetizzazione elevati. Di primo livello anche il sistema d’istruzione secondario e quello universitario, fondamentale visto il gran numero di lavoratori qualificati che l’economia libanese, tanto orientata sul settore terziario, impiega.
Il Libano ha un’economia tradizionalmente orientata verso un mercato aperto ed è dominata dal settore dei servizi. La crescita percentuale del PIL è stata molto elevata nell’ultimo decennio, salvo tra il 2005 e il 2006, quando, a un rallentamento dell’economia, si sono sommati i contraccolpi della guerra contro Israele. Da allora, tuttavia, i principali indicatori registrano un’economia in crescita, anche se moderata (1,5% nel 2013). A frenare performances migliori è soprattutto la crisi in Siria, uno dei maggiori partner commerciali.
Turismo, banche e costruzioni sono i tre pilastri dell’economia libanese. Il settore edilizio sta trainando la crescita in fase di ricostruzione postbellica. Anche il turismo è un settore importante: nel 2009 ha segnato un incremento delle presenze superiore del 60% rispetto all’anno precedente. Per la gran parte si tratta di turisti provenienti dai paesi arabi e dall’Europa. La crescita ha subito poi rallentamento nel biennio 2010-11 per la crisi europea e, subito dopo, per il conflitto in Siria. All’attività turistica è indirettamente legato almeno un quarto della popolazione attiva. Ed è sempre il turismo a trainare buona parte del boom edilizio. Il settore bancario, uno dei tradizionali punti di forza dell’economia libanese, si dimostra solido e beneficia di un progressivo aumento di capitali in entrata. La capacità del sistema bancario di superare indenne tanto la crisi finanziaria internazionale del 2008-09, quanto le croniche tensioni interne ed esterne, riposa in gran parte sulla sua stabilità, garantita da un lato dalle rigorose regole che la Banca centrale libanese impone sulle attività finanziarie e, dall’altro, dall’elevata liquidità di cui i depositi delle banche nazionali dispongono, grazie ai flussi di rimesse in entrata dai libanesi che vivono all’estero. Buoni anche i trend commerciali degli ultimi anni, con lievi aumenti delle esportazioni, che nel 2013 hanno toccato i 5,5 miliardi di dollari. Infine, molte speranze vengono riposte nelle recenti scoperte di giacimenti di greggio e gas al largo delle coste libanesi che potrebbero trasformare il Libano in un produttore di idrocarburi e contrarre le ingenti spese (3 miliardi di dollari annui) per la loro importazione.
Il Libano è storicamente aperto agli investimenti esteri e al commercio internazionale. Benché la lunga guerra civile ne abbia ridimensionato importanza e centralità, ancora oggi rappresenta uno degli hub finanziari e un polo di servizi di riferimento nella regione mediorientale. I più rilevanti partner per esportazioni sono la Siria, gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita e la Svizzera, con i quali il Libano commercia principalmente prodotti di gioielleria e oreficeria, apparecchi meccanici, alimentari, tabacco, composti chimici, plastica e gomma. Dal punto di vista delle importazioni, invece, il primo partner libanese è laFrancia, seguita da Siria, Stati Uniti, Italia e Cina: petrolio raffinato, mezzi di trasporto, prodotti chimici e metallurgici rappresentano i beni più commerciati. Nonostante i significativi segnali di crescita, l’economia libanese continua a essere molto vulnerabile, soprattutto in considerazione dell’elevato debito pubblico, ereditato dai disordini del passato e arrivato, a fine del 2009, a rappresentare il 148% del pil. Il rapporto è poi sceso lentamente e in modo altalenante fino al 143% nel 2013. A questi livelli il debito libanese rimane ancora il più alto di tutta la regione e uno dei più alti al mondo, tanto che nel 2009, il governo ha dovuto destinare circa i due terzi delle sue entrate per soddisfarne le scadenze. Ecco perché, nonostante la drastica riduzione delle spese correnti e di investimento che Beirut sta attuando da anni, il deficit di bilancio si attesta ancora, nel 2013, intorno al 20%.
Il paese è considerato ad alto rischio dalle principali società di ranking internazionale, soprattutto in considerazione della situazione politica interna e delle tensioni con Israele, sempre a rischio di degenerare in guerra aperta. Dal 2007 tanto il Fondo monetario internazionale quanto la Banca mondiale hanno concordato con il Libano importanti progetti di aiuto finanziario, nell’ambito dei piani di assistenza post-conflitto.
A caratterizzare il settore della difesa e della sicurezza interna libanese è, anzitutto, la presenza sul territorio della missione UNIFIL, contingente internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. La missione conta circa 12.000 soldati, di cui un terzo da Francia, Italia, Indonesia e Spagna. La missione, inaugurata nel 1978 a seguito degli scontri tra l’esercito israeliano e le organizzazioni palestinesi, ha attualmente lo scopo di evitare scontri sulla frontiera libano-israeliana, il confine storicamente più sensibile e instabile del Libano. Il conflitto dell’estate 2006 ha avuto origine proprio da alcuni scontri tra Hezbollah e Israele, nel sud del paese. Nonostante l’obiettivo ultimo delle operazioni israeliane fosse quello di sradicare il ‘Partito di Dio’ dal Libano, il conflitto, durato un mese, ha causato circa 1500 vittime e ingenti danni infrastrutturali e ha finito per rafforzare e mettere in luce le capacità operative di Hezbollah. Dal punto di vista regionale il movimento alimenta il conflitto latente con Israele. Non va meglio sul fronte interno: Hezbollah e il suo braccio armato costituiscono una minaccia permanente per i possibili scontri intestini contro le fazioni sunnite. L’esercito nazionale ha evitato di prendere apertamente posizione durante gli scontri del maggio 2008, in cui la comunità sciita e quella sunnita si affrontarono a Beirut. Lo scontro provocò quasi 100 morti in una settimana. In quell’occasione gli affiliati di Hezbollah dimostrarono la loro superiorità organizzativa e strategica. La rivolta in Siria, ha poi provocato dal 2011 scontri tra Hezbollah, sostenitore del regime di Bashar al-Assad, e i partiti sunniti legati ai ribelli siriani. Per mesi si è temuto un conflitto su vasta scala anche in Libano: l’esercito nazionale non sarebbe stato in grado di frenare la violenza.
Un altro fattore di instabilità è costituito dai campi profughi palestinesi, entità di fatto separate dal resto del paese e di sovente utilizzate dagli attori esterni come strumento di ingerenza sul Libano. È ciò che è accaduto nel corso della ‘Guerra dei campi’, durante la seconda fase della guerra civile libanese: si trattò di un conflitto nel conflitto, combattuto dalle milizie sciite di Amal che, con il sostegno di Damasco, puntavano a sconfiggere le roccaforti libanesi dell’Olp. Più di recente, nel 2007, alcuni membri di Fatah al-Islam, un gruppo armato legato al fondamentalismo islamico di ispirazione qaidista, hanno trovato rifugio in uno dei maggiori campi palestinesi, Nahr el-Bared. Qui si sono scontrati con l’esercito libanese, provocando la morte di circa 450 persone. In più, nel maggio del 2011 la comunità palestinese in Libano si è trovata al centro di nuovi episodi di violenza, legati agli scontri con le truppe israeliane nelle zone di confine. Sul terreno sono rimasti 11 rifugiati palestinesi.
Uno degli elementi caratterizzanti del panorama politico libanese – composto da partiti spesso legati a una determinata comunità religiosa – è la presenza del movimento sciita di Hezbollah, in arabo ‘Partito di Dio’. La presenza dell’organizzazione in Libano è comunemente vista come l’espressione più evidente dell’influenza dell’Iran, e in parte della Siria, sulla vita politica nazionale. Hezbollah è nato negli anni Ottanta, durante la guerra civile libanese, grazie anche al sostegno degli iraniani Guardiani della rivoluzione islamica e, anche dal punto di vista ideologico, ha punti in comune con il pensiero di Khomeini. Iran e Siria si servirebbero di Hezbollah, in questa prospettiva, per modificare a proprio vantaggio e in funzione anti-israeliana gli equilibri libanesi e regionali.
Negli ultimi anni il Partito di Dio si è trasformato da mero movimento di resistenza armato a vero partito politico. D’altra parte, la ‘vittoriosa’ resistenza nei confronti di Israele durante la guerra del 2006, l’impegno nella ricostruzione post-bellica e le numerose attività svolte in campo sociale hanno contribuito ad accrescere la popolarità di Hezbollah tra la popolazione. Il movimento costituisce oggi una delle maggiori forze politiche del paese. La circostanza che Hezbollah mantenga un proprio arsenale militare rimane una delle questioni più dibattute all’interno del Libano. Sebbene la dotazione militare dell’organizzazione sia ufficialmente legata alla difesa contro eventuali attacchi israeliani, nei fatti costituisce anche un deterrente contro le forze politiche sunnite libanesi ed è attualmente utilizzata massicciamente in Siria in supporto al presidente Assad. Il controllo del territorio, in maniera peculiare nel sud del Libano, e le funzioni di sicurezza e welfare che ricopre, hanno fatto spesso parlare della presenza di Hezbollah in Libano come di uno ‘stato nello stato’.
A partire dal 2013 è cresciuta la possibilità che il Libano – assieme a Cipro e Israele – diventi un produttore e perfino un esportatore di idrocarburi. La compagnia norvegese Spectrum ha annunciato nell’aprile 2013 di aver scoperto ingenti riserve di gas e petrolio (700 miliardi di metri cubi di gas e circa 500 milioni di barili di greggio) off-shore al largo delle coste libanesi. Le autorità hanno accolto con entusiasmo la notizia che potenzialmente porterebbe a un drastico miglioramento degli assetti economici del Libano, da sempre un importatore di risorse energetiche, i cui prezzi crescenti pesano notevolmente sulle partite correnti del paese. Il risparmio viene stimato in circa 3 miliardi di dollari annui (su un PIL complessivo di 40 miliardi). In più ci sarebbero i guadagni derivanti da eventuali esportazioni. A beneficiarne sarebbe inoltre l’industria nazionale, che da tempo soffre di scarsa competitività proprio per i prezzi dell’energia. Questa situazione ha progressivamente concentrato l’economia nel settore finanziario. Di conseguenza è cresciuta la disoccupazione. Il progetto, che potrebbe coinvolgere giganti come Exxon e Total, deve superare però ancora notevoli
ostacoli a cominciare dalla mancanza di un governo stabile che sia in grado di prendere decisioni e del pericolo rappresentato dal possibile allargamento del conflitto siriano al Libano. Inoltre, le grandi compagnie internazionali potrebbero essere scoraggiate a investire massicciamente in quello che è uno dei business envrironment più inefficienti e corrotti del mondo, secondo gli indici internazionali.
I contesti siriano e libanese sono da secoli profondamente collegati fra loro, tanto che per lunghi tratti il confine internazionale appare inesistente sia sul terreno sia nel pensiero e nell’azione dei numerosi protagonisti di questa complessa rete di interconnessioni geografiche, economiche, politiche, confessionali e culturali. A tre anni dall’avvio nella primavera 2011 della sanguinosa repressione militare delle forze del presidente siriano Bashar al-Assad contro gli allora inediti raduni popolari antiregime, in Siria si consuma ormai una guerra combattuta da un numero sempre crescente di attori regionali e internazionali giunti a sostegno di Assad o della rivolta armata.
Il vicino Libano, da decenni caratterizzato da una forte instabilità interna e da tensioni politico-militari a sfondo confessionale, risente inevitabilmente degli effetti del conflitto siriano. Ma è riuscito finora a non farsi risucchiare nel vortice di violenze interne su larga scala. Questo perché tutti i principali attori che esercitano controllo e influenza sulle rispettive comunità politiche e confessionali non hanno interesse a far sì che lo scontro armato, già in corso oltre confine, si traduca in un inasprimento prolungato e generalizzato delle violenze nei propri territori. Scorrendo la cronologia delle violenze registratesi in Libano dalla metà del 2011 alla fine del 2013, è evidente l’alternarsi di elementi di continuità e di rottura con le vicende locali precedenti all’inizio della rivolta siriana.
Per quanto riguarda i primi, la loro gravità è senza dubbio amplificata dai combattimenti in corso al di là dell’Antilibano. Ma in nessuno di questi episodi si è finora mai registrata un’escalation su scala geografica o temporale. Esemplari a tal proposito sono i ripetuti scontri armati che avvengono alla periferia di Tripoli, nel nord del Libano, tra miliziani sunniti e loro rivali alauiti. La tensione confessionale e politica (pro e contro il regime di Damasco), risalente agli anni dell’occupazione militare siriana nel porto libanese durante la guerra civile (1975-90), nell’ultimo ventennio si è riaccesa ogni qualvolta è salita la tensione su scala nazionale o regionale.
Accanto all’evidente elemento di continuità, emergono due costanti: gli scontri non durano in modo continuo per più di qualche giorno e non investono territori urbani esterni al perimetro già toccato dalle violenze. Analogamente, il susseguirsi di attentati dinamitardi di varia entità contro personalità o simboli politico-confessionali locali o regionali non è un tratto distintivo della cronologia libanese post-2011, bensì è un dato che caratterizza le cronache di Beirut e di altre regioni del paese dei Cedri sin dalla fine formale della guerra civile: basti pensare alla recrudescenza di violenza registratasi negli anni della crisi politica siro-libanese (2004-08).
In questo quadro si inseriscono però alcuni elementi di novità che finiscono per costituire fattori di ulteriore tensione sociale, economica, confessionale e politica. Tra questi si ricordano il crescente numero di profughi siriani (a dicembre 2013 l’ONU recensiva 836.000 rifugiati, ma secondo le autorità libanesi sono più di un milione) che col tempo hanno raggiunto quasi ogni angolo del Libano; il graduale massiccio coinvolgimento dei miliziani di Hezbollah nel conflitto siriano a fianco delle truppe fedeli al regime di Damasco; l’emergere di gruppuscoli che dicono di ispirarsi al jihadismo e al qaidismo internazionale e che periodicamente cercano di accreditarsi su scala libanese o regionale rivendicando attentati e altre azioni violente.
L’afflusso di civili, per lo più musulmani sunniti, in fuga dalle martoriate regioni siriane non ha coinvolto soltanto regioni libanesi a maggioranza sunnita, ma anche territori dominati da comunità cristiane e sciite, queste ultime fedeli al movimento filo-iraniano impegnato a fianco dei soldati siriani di Assad. Ciononostante non si sono finora registrati particolari episodi di tensione tra le comunità ospiti e quelle ospitanti. Parallelamente, pur essendo note le vie di passaggio e collegamento di miliziani sciiti libanesi verso il fronte siriano, nessuna milizia sunnita libanese si è organizzata a tal punto da minacciare seriamente il dominio paramilitare di Hezbollah nella valle orientale della Biqa‘ o nel sud del Libano. E in tal senso, i sanguinosi scontri verificatisi nel giugno 2013 nel porto meridionale di Sidone tra uomini armati salafiti agli ordini dello shaykh Ahmad Asir e soldati libanesi assistiti da miliziani filo-iraniani hanno sì costituito un precedente allarmante ma – come avviene per le violenze tripoline – sono rimasti circoscritti nel tempo e nello spazio. Altri due pericolosi precedenti – finora episodici – si sono registrati nell’autunno 2013: il duplice attentato all’ambasciata iraniana di Beirut (novembre) e l’uccisione di un alto esponente di Hezbollah alla periferia della capitale (dicembre). In entrambi i casi, l’Iran e il movimento sciita hanno accusato esplicitamente Israele, puntando dunque il dito lontano sia dal contesto interno libanese sia da quello siriano, ma non hanno escluso il coinvolgimento operativo di cellule locali di terroristi vicini ad al-Qaida. Queste ultime non sembrano però finora in grado di ricevere un ampio e condiviso consenso da parte della comunità sunnita libanese, dimostratasi sempre riluttante a cedere a derive estremiste, così funzionali invece a chi in Libano e nella regione soffia sul fuoco dello scontro aperto a sfondo confessionale.